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36 Denis Kambouchner<br />

Noi non abbiamo l’abitudine di essere così colpiti da cose che la fede c’insegna,<br />

e dove la nostra ragione non può arrivare, che di quelle di cui siamo con ciò persuasi<br />

da ragioni naturali evidentissime.<br />

Non si può essere sensibili che all’armonia della ragione naturale (nel<br />

suo uso metafisico) con la rivelazione, e al rafforzamento che la ragione<br />

può apportare alla fede – tema che interviene, per esempio, nell’Epistola<br />

dedicatoria delle Meditazioni. Ma si può anche essere sensibili all’elemento<br />

negativo del proponimento; vale a dire: di solito, salvo eccezione essa<br />

stessa gratuita, ciò che c’insegna la sola religione ci tocca meno, cioè ci<br />

persuade meno (nel momento in cui ne avremmo bisogno), di quanto la<br />

ragione naturale ci fa credere, oppure ciò a cui ogni sorta di ragione ricavata<br />

dall’uso della ragione naturale ci porta a dare il nostro assenso.<br />

Ora, come precisava alcuni mesi prima un’altra lettera (a Mersenne,<br />

marzo 1642, AT III,544),<br />

bisogna notare che ciò che si conosce per ragione naturale, come che è interamente buono, potente, vero, ecc., può ben servire a preparare<br />

gli infedeli a ricevere la fede, ma non essere sufficiente per far loro guadagnare il<br />

cielo; poiché, per questo, bisogna credere in Gesù Cristo e alle altre cose rivelate,<br />

cosa che dipende dalla grazia.<br />

Eccoci almeno avvertiti: succede abitualmente che a scapito di una<br />

certa grazia, le verità della fede, a cui in un certo senso noi crediamo, non<br />

ci toccano realmente. Non potremmo noi <strong>qui</strong> fare un passo in più, con il<br />

riconoscimento di una specie di esteriorità reciproca fra le verità della sola<br />

fede e quelle di cui si occupa la filosofia?<br />

Un testo può particolarmente dare adito a questo sospetto: si tratta di<br />

un’altra lettera a Mersenne, dell’epoca del Discorso sul Metodo (maggio<br />

1637, AT I, 366-7; Bompiani 376-8), e che riguarda precisamente la formula<br />

della «morale provvisoria», secondo la quale «basta giudicare bene per<br />

fare bene», formula che Padre Mersenne sembra volere respingere, in quanto<br />

non attribuisce alla grazia il posto che meriterebbe. Descartes scrive:<br />

E il fare bene di cui parlo non può essere inteso in termini di teologia, dove si parla<br />

della grazia, ma soltanto di filosofia morale e naturale, in cui questa grazia non è<br />

affatto considerata; in modo tale che non mi si possa accusare per questo dell’errore<br />

dei pelagiani; nemmeno se io dicessi che bisogna avere solo del buon senso per

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