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qui - maria vita romeo

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Descartes e il problema della fede 31<br />

Tuttavia, si può essere colpiti dal carattere indiretto di queste formule,<br />

il quale lascia sussistere la questione seguente: credere che qualcosa ci<br />

sia stata rivelata, oppure (ciò che è lo stesso) credere che noi dobbiamo<br />

crederlo, è esattamente la stessa cosa di credere questa cosa, semplicemente<br />

e interamente?<br />

Bisogna innanzi tutto notare che il riferimento ad un pensiero, diciamo,<br />

di secondo grado (un pensiero che poggia su un altro pensiero) non<br />

è in sé una obiezione alla realtà o al carattere assoluto del credere. In effetti,<br />

da un punto di vista cartesiano, quando diamo il nostro assenso ad<br />

una rappresentazione evidente, noi diamo questo assenso a partire dalla<br />

constatazione che si tratta di una evidenza, e questa constatazione, nella<br />

quale si attualizza la “ragione formale” del nostro assentire, è essa stessa in<br />

un certo modo una rappresentazione della necessità di credere.<br />

Vi è tuttavia una differenza con l’evidenza, la mente comincia col<br />

riempirsi del suo oggetto; è sul fondamento di una certa esperienza intellettuale<br />

di questo oggetto stesso, o della sua rappresentazione (utilizzo <strong>qui</strong><br />

per comodità un termine di cui bisogna sottolineare che non è propriamente<br />

cartesiano), che la volontà concede a questa rappresentazione il<br />

suo pieno assenso. Nel credere per fede, al contrario, l’oggetto è puramente<br />

designato come da credere, da una istanza che si fa conoscere da<br />

noi in maniera specifica. Ciò significa che, per Descartes, l’oggetto della<br />

fede non dà materia allo stesso consumo intellettuale dell’oggetto dell’evidenza<br />

della scienza, e dunque che esso conserva rispetto al nostro pensiero<br />

un certo coefficiente di esteriorità.<br />

Questo carattere di esteriorità riceverà parecchi generi di conferme.<br />

1) La prima sarà tratta dal difetto di ogni riferimento cartesiano ad<br />

una intelligenza della fede. Si sa che l’intelligenza, in materia di fede, è<br />

quel dono o quella grazia che permette di penetrare più avanti nei misteri<br />

della religione. L’intelligenza come dono, scrive Tommaso D’A<strong>qui</strong>no,<br />

«coglie intellettualmente le tesi della fede» (S. Théol, II-II, 8, 6, resp.),<br />

dato che intelligere significa intus legere, leggere dentro (q. 8 art. 1 resp.).<br />

Mi è impossibile accedere alla complessità dello statuto tomista di questa<br />

intelligenza, che certo, finché permane lo stato di fede, non è piena comprensione<br />

delle cose proposte da credere, e dunque chi sceglie «che è questo,<br />

quel che si deve credere», al di là di quello che Descartes riconosce. A

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