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IL PROBLEMA DELLA LIBERTA' TRA ETICA E POLITICA - Filosofia

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F<strong>IL</strong>OSOFIA MORALE III<br />

Prof. Amedeo Vigorelli<br />

A.A.2004-2005<br />

<strong>IL</strong> <strong>PROBLEMA</strong> <strong>DELLA</strong> LIBERTA’ <strong>TRA</strong> <strong>ETICA</strong> E <strong>POLITICA</strong><br />

Modulo A: La libertà tra indeterminismo e determinismo (3 CFU)<br />

Commento di: P. Martinetti, La libertà, Nino Aragno Editore, Torino, 2004,<br />

pp. 285-429<br />

1


INTRODUZIONE<br />

1. Una impostazione classica del problema della libertà è quella che la pone a confronto<br />

con il problema del DETERMINISMO. Con determinismo – spiega Martinetti – si intende<br />

genericamente “la concezione secondo cui l’atto della volontà umana è rigorosamente<br />

predeterminato dai suoi antecedenti causali, in modo che può esplicarsi in una direzione<br />

sola; la volontà non è mai indifferente, l’atto suo non è mai contingente” (L 101). Il termine<br />

– osserva Martinetti – risale alla fine del XVIII secolo, quando gli studi di fisiologia medica<br />

sul funzionamento del sistema nervoso consentirono di estendere all’uomo la universale<br />

spiegazione causale-meccanica della natura, elaborata in ambito fisico da Newton.<br />

L’espressione in certo senso canonica del determinismo è quella fornita dal grande<br />

scienziato francese Pierre Simon de Laplace (1749-1827). In una celebre pagina<br />

dell’Essai philosophique sur les probabilités (Paris, 1814) leggiamo questa formulazione:<br />

dobbiamo considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e come la causa<br />

del suo stato futuro. Un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la<br />

natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se per di più fosse abbastanza profonda da<br />

sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi<br />

dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe<br />

presente ai suoi occhi.<br />

Laplace si limita qui ad affermare il concetto del determinismo naturale, senza il quale non<br />

si dà spiegazione possibile dei fenomeni, ossia la loro prevedibilità in base a leggi,<br />

espresse in formule matematiche. Un concetto cui la scienza moderna non può rinunciare,<br />

senza rinnegare se stessa. Tuttavia il suo modo di formularlo, che introduce l’ipotesi di una<br />

Intelligenza perfetta e onnisciente, troppo simile al Dio della teologia cristiana per non<br />

suscitare un sospetto di metafisica, conferisce a tale concetto una sfumatura di FATALISMO,<br />

che non mancò si sollevare le obiezioni dei filosofi morali. In un universo in cui tutto è<br />

predeterminato, in cui il futuro non è che la proiezione inevitabile e necessaria del passato<br />

e del presente, dov’è lo spazio per la libertà dell’uomo, che implica imprevedibilità e<br />

autonoma iniziativa? L’obiezione sarà formulata nel modo più esplicito da William James,<br />

nella celebre conferenza del 1884 The Dilemma of Determinism, in pieno clima di<br />

scientismo positivistico:<br />

Che cosa afferma il determinismo? Esso afferma che quelle parti dell’universo già realizzate stabiliscono<br />

perfettamente che cosa saranno le altre parti. Il futuro non ha alcuna possibilità ambigua nascosta nel suo<br />

grembo: quella parte che noi chiamiamo presente è compatibile con una sola totalità. Ogni altro<br />

complemento futuro diverso da quello fissato dall’eternità è impossibile. Il tutto è in ognuna delle parti e le<br />

salda al resto in un’unità assoluta, in un blocco di ferro nel quale non può esservi equivoco od ombra di<br />

deviazione.<br />

Non tutti gli scienziati, in realtà, erano disposti a condurre il determinismo verso<br />

questo esito fatalistico. Ad esempio, il grande anatomista e fisiologo Claude Bernard,<br />

autore di un testo fondamentale per la storia della medicina, come l’Introduction à l’étude<br />

de la médecine expérimentale (Paris 1865), aveva nettamente distinto il determinismo,<br />

come metodo di spiegazione scientifica, dal fatalismo, in quanto ipotesi metafisica:<br />

Ciò che chiamiamo il determinismo di un fenomeno è soltanto la causa determinante o la causa prossima,<br />

cioè la circostanza che determina la manifestazione di un fenomeno e costituisce la sua condizione, o una<br />

delle sue condizioni d’esistenza. La parola determinismo ha un significato del tutto differente da quello della<br />

parola fatalismo. Il fatalismo suppone la manifestazione necessaria di un fenomeno indipendentemente dalle<br />

sue condizioni, mentre il determinismo è soltanto la condizione necessaria di un fenomeno, la cui<br />

manifestazione non è obbligata. Il fatalismo è dunque antiscientifico […].<br />

2


In altri termini, il determinista (nell’accezione scientifica) si limita ad affermare che ogni<br />

fenomeno naturale deve essere indagato nelle sue cause prossime, o nelle condizioni<br />

razionali e prevedibili che ne spiegano l’accadere, astenendosi dall’affermare che si tratti<br />

di una manifestazione necessaria di una supposta essenza metafisica. Al contrario di<br />

quanto fa il fatalista, il quale ignora le vere cause del fenomeno, ma ne suppone<br />

dogmaticamente il necessario accadere, per una supposta fede metafisica. Il fatalismo è<br />

un atteggiamento religioso, caratterizzato da un assoluto fideismo, che contrasta con la<br />

fede morale nel libero arbitrio dell’uomo. Esso non è e non può essere l’atteggiamento<br />

della scienza positiva. Nonostante queste precisazioni di Bernard, la forza di suggestione<br />

del determinismo, inteso nella più ampia accezione filosofica o metafisica (quella<br />

richiamata nella definizione di Martinetti), sembrava andare nella direzione opposta: quella<br />

dell’affermazione della NECESSITA’ dell’accadere, anziché della sua contingenza e libertà. E<br />

che questa fosse la convinzione profonda degli scienziati come Laplace – ai quali<br />

suggeriva l’idea di un possibile riduzionismo scientifico: del piano psichico della<br />

volontarietà degli atti a quello fisico e meccanico della fisiologia del cervello – lo si può<br />

leggere in trasparenza in quest’altra citazione del celebre scienziato newtoniano, il primo<br />

ad avere fornito una spiegazione matematica della formazione dell’universo, condivisa<br />

anche da Kant:<br />

Ai limiti della fisiologia visibile comincia un’altra fisiologia i cui fenomeni, molto più vari che nella prima, sono<br />

anch’essi soggetti a leggi che è molto importante conoscere […]. I nervi, i cui filamenti si perdono nella<br />

sostanza midollare del cervello, vi propagano le impressioni che ricevono dagli oggetti esterni e vi lasciano<br />

impressioni permanenti che modificano in modo sconosciuto il sensorium, sede del pensiero.<br />

L’apparente imprevedibilità degli atti volontari, cui si lega la concezione ingenua della<br />

libertà come assoluta indeterminazione, potrebbe forse essere eliminata, qualora una<br />

conoscenza più penetrante, capace di sottoporre all’analisi i dati stessi del meccanismo<br />

fisiologico del cervello, riuscisse a raffinare l’indagine scientifica, fino al punto di<br />

riconoscere un determinismo naturale, là dove regnano l’apparenza del caso e l’illusione<br />

della libertà.<br />

Sarà proprio questa la convinzione dei teorici del positivismo, particolarmente<br />

diffusa nella cultura giuridica del nostro ottocento. La scuola positiva del diritto (i cui<br />

principali esponenti furono, in Italia, Cesare Lombroso, Enrico Ferri, Raffaele Garofalo)<br />

sosterrà che ogni sistema di punizione presuppone il determinismo, perché senza di esso<br />

non avrebbe alcun fondamento il valore educativo della pena. I giuspositivisti non negano<br />

l’esistenza di una libertà MORALE, intesa tradizionalmente come LIBERTA’ DEL VOLERE, ma<br />

reputano che di questa non debba tener conto il legislatore, il quale deve limitarsi a<br />

regolare la sfera esterna dei comportamenti, la LIBERTA’ DELL’AGIRE, che si identifica con<br />

quella FISICA (ossia la libertà come assenza di coercizione). Il diritto (in ciò nettamente<br />

distinto dalla morale) nasce infatti dalla necessità di limitare la libertà fisica di ciascuno,<br />

perché non interferisca o collida con quella degli altri. Le osservazioni della storia e della<br />

statistica, da un lato, quelle della psicologia e della fisiologia, dall’altro, paiono confermare<br />

il punto di vista del determinismo, in rapporto sia all’agire collettivo degli uomini e delle<br />

società, sia a quello individuale. E proprio sulla esistenza di leggi deterministiche del<br />

comportamento si fondano l’efficacia della educazione in generale e, nello specifico, dei<br />

mezzi correttivi del diritto penale. La forza del diritto non sarebbe rafforzata, ma indebolita,<br />

dalla fede in una universale indeterminazione dell’agire. Libero arbitrio assume qui<br />

l’accezione negativa di un agire imprevedibile, perché non determinato da nulla, come<br />

quello dei pazzi o dei bambini, mentre la autentica RESPONSAB<strong>IL</strong>ITA’ degli atti implica la fede<br />

nella loro razionalità e prevedibilità.<br />

L’autore che ha espresso probabilmente con maggior forza di suggestione tali tesi è<br />

Alexander Herzen, il rivoluzionario russo, che visse per lungo tempo a Firenze, dove<br />

3


pubblicò una Analisi fisiologica del libro arbitrio umano (1869), che ebbe larga fama.<br />

Basandosi sulle indagini della psichiatria contemporanea, egli affermò che la pazzia non<br />

consiste che in questo: nel prodursi dall’interno di certi stati del cervello, di certe<br />

disposizioni, sentimenti, affetti, giudizi, che non hanno una sufficiente determinazione nelle<br />

cause esterne, con cui paiono collegati. Essi sono il prodotto dello stato anormale del<br />

cervello, l’organo, come suol dirsi, dell’anima. Nello stato di normalità, invece, questi vari<br />

atti cerebrali non sono determinati che da cause esterne sufficienti, e si trovano quindi in<br />

armonia col mondo esterno. Gli esperimenti fisiologici dimostrano che il cervello è formato<br />

da una massa considerevole di sostanza bianca (fibre conduttrici) e di sostanza grigia<br />

(cellule riflettenti), tra loro intrecciate. Così come un “reostato” o un “rocchetto d’induzione”<br />

posto sul percorso di una corrente elettrica, la massa cerebrale si colloca (in una funzione<br />

di regolazione) tra i nervi sensitivi e i nervi motori. Su di essa agiscono le impressioni<br />

ricevute dall’esterno: rafforzandosi, indebolendosi, combinandosi con i segni lasciati dalle<br />

impressioni passate. La massa cerebrale agisce come una sorta di bilancia, che si muove<br />

o sta in equilibrio, a seconda delle impressioni che la colpiscono e delle rappresentazioni<br />

da esse generate. L’azione risultante non è altro che l’effetto MECCANICO delle diverse forze,<br />

prodotte dalle varie sensazioni: è la sensazione più vivace a prevalere sulle altre,<br />

determinando l’azione:<br />

La massa encefalica pesa le diverse sensazioni ricevute, le varie rappresentazioni destate, e secondo la<br />

maggiore o minore intensità piuttosto dell’una che dell’altra, tramanda l’eccitamento verso le radici dei nervi<br />

motori, e determina così le azioni tutte dalla più semplice alla più complicata. E questo pesare noi<br />

perfettamente avvertiamo, e lo chiamiamo pensare, giudicare, riflettere, deliberare, secondo l’indole del<br />

pensiero e la natura della cosa pensata.<br />

L’illusione del libero arbitrio, inteso come indeterminazione assoluta dell’agire, che<br />

avrebbe potuto risolversi in modo contrario a quello effettivamente verificatosi, nasce dal<br />

fatto che non siamo in grado di determinare in anticipo quale motivo sarà quello dominante<br />

e decisivo; ma possiamo essere certi che esso soltanto (una volta prodottosi, per effetto<br />

meccanico delle reazioni cerebrali) e nessun altro, sarà la causa determinante dell’azione<br />

da noi compiuta. L’illusione del libero arbitrio coincide cioè con l’ignoranza delle cause,<br />

che determinano necessariamente l’agire. Siamo qui di fronte a un evidente RIDUZIONISMO<br />

scientifico, alla pretesa cioè di spacciare la spiegazione fisiologica dell’agire come l’unica<br />

razionalmente possibile. Ma è innegabile la forza di suggestione (la semplicità di<br />

spiegazione) di un tale determinismo, che nel momento in cui pare dissolvere l’illusione<br />

della libertà, ne fonda con certezza la necessità, mediante un concetto assai trasparente<br />

(anche se un po’ rozzo) di RESPONSAB<strong>IL</strong>ITA’ dell’agire. Siamo responsabili dei nostri atti, in<br />

quanto ne siamo con certezza l’unica causa efficiente (se non ci troviamo in uno stato di<br />

costrizione fisica o di modificazione patologica del cervello), e dunque ne portiamo tutta<br />

intera la responsabilità. Ciò deve bastare alla sanzione giuridica e alla regolazione<br />

dell’agire sociale, lasciando fuori dalla considerazione scientifica (che potrà interessare al<br />

moralista o al religioso), il giudizio sulla disposizione dell’abito morale della volontà<br />

singola, che si rifletterà in ogni caso nelle azioni compiute.<br />

2. Una conferma della forte suggestione che il determinismo esercita sulle menti<br />

filosofiche più disposte a dialogare con la razionalità positiva degli scienziati si ha in Kant.<br />

E’ stato lui il primo a prendere in seria considerazione la tesi del DETERMINISMO laplaceano, a<br />

conferirgli dignità di tesi filosofica generale, di possibile asserzione metafisica, che egli<br />

confronta con l’opposta asserzione dell’INDETERMINISMO, nella terza antinomia della<br />

“Dialettica trascendentale” della Critica della ragione pura. Le antinomie si riferiscono<br />

all’idea di mondo, a fondamento della cosmologia razionale della tradizione (una delle tre<br />

parti in cui, secondo Wolff, si suddivideva la metafisica speciale – psicologia razionale,<br />

4


cosmologia razionale, teologia razionale – che, insieme con la metafisica generale o<br />

ontologia, componeva l’ambito della filosofia teoretica). Kant dimostra che le idee<br />

metafisiche, se sviluppate secondo un formalismo logico astratto, contengono delle<br />

contraddizioni che possono annullarne il concetto stesso. Così è per le idee metafisiche di<br />

anima razionale, di mondo e di Dio. Per salvare tali idee bisogna rinunciare al loro uso<br />

trascendente, che ci farebbe penetrare nel mondo noumenico del pensiero puro (un<br />

ambito che Kant riserva all’intelletto intuitivo della divinità, o intellectus archetypus,<br />

rigorosamente separato da quello dialettico della mente umana finita, o intellectus<br />

ectypus), e limitarsi al loro uso regolativo immanente, come luogo di unificazione ideale<br />

delle apparenze fenomeniche, nei limiti di una esperienza possibile. Indeterminismo e<br />

determinismo sono gli opposti punti di vista, che si possono assumere nella spiegazione di<br />

quell’ambito di esperienza che si riferisce alle azioni. La tesi indeterminista afferma: “La<br />

causalità secondo leggi di natura non è l’unica causalità, onde possano venir derivate tutte<br />

quante le apparenze del mondo. Per spiegare le apparenze, è altresì necessario<br />

ammettere una causalità mediante libertà” (Colli 502). Ad essa il determinismo oppone<br />

l’antitesi: “Non vi è alcuna libertà, e piuttosto, nel mondo tutto accade unicamente secondo<br />

le leggi della natura”. Entrambe le affermazioni ammettono una dimostrazione dialettica,<br />

ottenuta cioè mediante la confutazione della tesi ad essa contraria. L’indeterminismo<br />

confuta la pretesa universalità della nozione di causalità affermata nel determismo,<br />

mediante il classico argomento (risalente ad Aristotele) della impossibilità di un rimando<br />

all’infinito (regressus in infinitum) nella spiegazione razionale del mutamento. Se tutto ciò<br />

che muta o diviene è mosso da altro (la causa, aristotelicamente concepita, è nel movente<br />

e non nel mosso), deve esistere un principio assoluto del moto, posto al di fuori della serie<br />

naturale del divenire fenomenico, un motore immobile che spiega l’origine del movimento<br />

senza rimandare ad altro, una spontaneità assoluta delle cause, che corrisponde a ciò che<br />

definiamo appunto “causalità mediante libertà”. Se lo ammettiamo con riferimento<br />

all’origine prima dell’universo da Dio, nulla osta che lo estendiamo alla molteplicità delle<br />

serie causali concepibili in natura, ammettendo una pluralità di sostanze intelligenti e<br />

autonome (anime razionali o spiriti), in grado di dare un inizio assoluto al movimento<br />

volontario, sospendendo – per così dire – il condizionamento temporale della serie<br />

fenomenica degli eventi:<br />

Se, per esempio, io mi alzo adesso dalla mia sedia in modo perfettamente libero, e senza l’influsso<br />

necessariamente determinante delle cause naturali, comincia in modo assoluto da questo evento – preso<br />

assieme alle sue conseguenze naturali fino all’infinito – una nuova serie, sebbene questo evento, quanto al<br />

tempo, non sia altro che la continuazione di una serie precedente. La suddetta decisione e la suddetta<br />

azione, in realtà, non si ritrovano affatto nella successione dei semplici effetti naturali, e non sono una<br />

semplice continuazione di questi; è vero piuttosto, che le cause naturali determinanti cessano<br />

completamente, per quanto riguarda questo evento, prima di tale decisione: l’evento segue (folgt) certo a<br />

quelle cause, ma non consegue (erfolgt) da esse, e deve perciò essere chiamato – non quanto al tempo,<br />

bensì rispetto alla causalità – un inizio assolutamente primo di una serie di apparenze.<br />

Un tale resoconto della volontarietà degli atti (che segue da vicino la celebre<br />

confutazione humeana circa una presunta dimostrabilità empirica del concetto metafisico o<br />

razionale di causalità) suscita una reazione altrettanto vivace da parte dell’opposto punto<br />

di vista del determinismo. Questo ottiene la dimostrazione della tesi contraria (secondo cui<br />

“non vi è alcuna libertà, e piuttosto, nel mondo tutto accade unicamente secondo le leggi<br />

della natura”) ricorrendo all’argomento della maggiore semplicità della propria spiegazione<br />

del divenire fisico (in base all’adagio scolastico, rimesso in auge da Spinoza, che<br />

affermava “simplex sigillum veri”: la soluzione più semplice e autoevidente, quella che<br />

ricorre al minor numero di principi esplicativi per un’unica serie di fenomeni, è senz’altro<br />

quella vera, che fornisce il criterio sia della propria verità, sia dell’errore o falsità della<br />

opposta spiegazione). Così, l’indeterminismo ammette la possibilità di un rimando<br />

5


all’infinito nella successione temporale o nella serie matematica degli eventi naturali, ma<br />

non la ammette nella spiegazione causale, ovvero dinamica degli stessi. A ciò si può<br />

obiettare:<br />

Se voi non ammettete nel mondo nulla di matematicamente primo quanto al tempo, non avete allora neppur<br />

bisogno di cercare un qualcosa di dinamicamente primo quanto alla causalità. Chi vi ha detto di escogitare<br />

uno stato assolutamente primo nel mondo, e quindi un inizio assoluto della serie man mano svolgentesi delle<br />

apparenze? Chi vi ha detto di porre dei limiti alla sconfinata natura, per procurare un punto di appoggio alla<br />

vostra immaginazione? Poiché le sostanze sono sempre esistite nel mondo – l’unità dell’esperienza, per lo<br />

meno, rende necessario un tale presupposto – così non vi è alcuna difficoltà ad ammettere inoltre, che vi sia<br />

sempre stata una variazione dei loro stati, cioè una serie dei loro mutamenti, e che quindi non occorra<br />

cercare un inizio primo, né matematico né dinamico.<br />

Il concetto dell’UNITÀ DELL’ESPERIENZA è qui invocato a sostegno del punto di vista del<br />

determinismo. Se noi ammettessimo due diverse nozioni di causalità nella spiegazione del<br />

mutamento fenomenico del mondo, al solo scopo di far posto al concetto antropomorfico<br />

della libertà (quello ben esemplificato dall’atto volontario di alzarsi dalla sedia, cui non si è<br />

stati legati, e che non sia impedito da una paralisi degli arti), finiremmo col rendere<br />

anarchico, e dunque inesplicabile, il divenire stesso del mondo. La nozione di “causalità<br />

secondo leggi di natura” implica che “tutto ciò che accade presuppone uno stato<br />

precedente, cui esso segue inevitabilmente secondo una regola”. Essa suppone cioè un<br />

determinismo naturale. L’opposta nozione di “causalità mediante libertà”, ossia di una<br />

“spontaneità assoluta delle cause” introduce viceversa nel continuum ininterrotto delle<br />

condizioni, temporalmente successive, qualcosa di irrazionale, simile al miracolo del<br />

prodursi di qualcosa dal nulla:<br />

Ogni inizio di un’azione presuppone uno stato in cui la causa non agisce ancora, ed un inizio dinamicamente<br />

primo dell’azione presuppone uno stato, che non ha alcun collegamento di causalità con lo stato precedente<br />

della medesima causa, ossia che non segue in alcun modo da tale stato precedente.<br />

Il che, dal punto di vista della esplicazione naturale e necessaria degli eventi, è assurdo<br />

(corrisponde se mai al concetto religioso del miracolo, inteso come annullamento<br />

dell’ordine normale delle leggi di natura: un concetto “antropomorfico”, ampiamente<br />

discusso in teologia). Tra questo dualismo di principi esplicativi causali dobbiamo<br />

scegliere: o ammettere una libertà trascendentale che viola l’ordine necessario delle leggi<br />

di natura, per far posto a un concetto antropomorfico di libertà come assoluta spontaneità<br />

e indeterminazione, oppure ammettere solo la forma di causalità valida per il mondo<br />

fenomenico (in cui non si dà esperienza, se non nella forma di una conoscenza “mediante<br />

percezioni connesse” – come scrive Kant in un altro punto della Critica della ragione pura).<br />

Ora, dobbiamo riconoscere che la scelta del determinismo risulta più convincente, in<br />

quanto più semplice:<br />

Noi non abbiamo dunque null’altro se non la natura, in cui dobbiamo cercare il collegamento e l’ordine degli<br />

eventi del mondo. La libertà (indipendenza) dalle leggi di natura è una liberazione, è vero, dalla costrizione,<br />

ma altresì dalla guida di tutte le regole. Non si può dire certo, che in luogo delle leggi della natura<br />

intervengono, nella causalità del corso del mondo, leggi della libertà: in effetti, se tale causalità fosse<br />

determinata secondo leggi, non sarebbe libertà, ma sarebbe essa stessa null’altro che natura. Natura e<br />

libertà trascendentale si distinguono perciò allo stesso modo di legalità e anarchia: la natura, a dire il vero,<br />

impone all’intelletto la difficoltà di cercare sempre più in alto, nella serie delle cause, l’origine degli eventi<br />

(poiché in essi la causalità è sempre condizionata), ma in compenso promette l’unità – completa e conforme<br />

a leggi – dell’esperienza; l’illusione della libertà, al contrario, promette all’indagine dell’intelletto un riposo,<br />

nella catena delle cause, conducendo l’intelletto ad una causalità incondizionata, che comincia<br />

spontaneamente ad agire, ma che, in quanto è essa stessa cieca, spezza il filo conduttore delle regole,<br />

mentre è solo rispetto a questo che risulta possibile un’esperienza completamente coerente.<br />

6


Rinunciamo per il momento a seguire ulteriormente in dettaglio il discorso kantiano,<br />

che condurrà ad una conciliazione possibile di determinismo e libertà. Mi limito ad<br />

accennare a questa posizione conciliativa (o, come suol dirsi oggi, COMPATIB<strong>IL</strong>ISTA). La<br />

soluzione delle antinomie dinamiche della Critica della ragione pura (la terza, che abbiamo<br />

visto, e la quarta, che si riferisce all’esistenza o meno di un “ente assolutamente<br />

necessario” come causa del mondo), a differenza di quella delle antinomie matematiche<br />

(le prime due, che si riferiscono rispettivamente alla possibilità di un “inizio assoluto” del<br />

mondo nel tempo o della sua “eternità” e alla possibilità di concepire l’estensione della<br />

materia come “infinitamente divisibile” oppure composta di “parti semplici” indivisibili),<br />

conduce alla ammissione di due piani – fenomenico e noumenico – di esplicabilità<br />

metafisica del reale. Le antinomie matematiche trovano infatti una soluzione logica nella<br />

ammissione che la tesi e l’antitesi sono entrambe false (dunque, a falso, omnia<br />

sequuntur). Invece le antinomie dinamiche propongono due tesi entrambe vere, ma che si<br />

riferiscono l’una (quella che ammette il concetto di libertà trascendentale) al mondo<br />

noumenico delle cose in sé; l’altra (quella che esclude tale concetto) al mondo fenomenico<br />

delle apparenze. Kant lascia cioè uno spiraglio aperto al concetto di libertà trascendentale,<br />

che ha qui soltanto un carattere negativo, per riempirlo in seguito di contenuto positivo<br />

(con i concetti di “legge morale incondizionata” e di “carattere intelligibile” della<br />

Fondazione della metafisica dei costumi e della Critica della ragione pratica). Egli ritiene<br />

cioè fin d’ora compatibile l’affermazione della libertà morale con quella del determinismo<br />

fisico naturale, senza ricorrere alla tesi insostenibile dell’INDETERMINISMO fisico o della<br />

contingenza delle leggi di natura.<br />

3. Questa stessa è fondamentalmente l’opinione di Martinetti, nell’opera La libertà che ci<br />

accingiamo a studiare. Va però subito segnalata una differenza tra la posizione di<br />

Martinetti e quella classica di Kant (ammesso che si possa individuare una tale lettura<br />

“classica”, che è poi quella della vulgata neokantiana del secolo scorso). L’idea oggi più<br />

accreditata di ciò che “ha veramente detto” Kant risale infatti al neokantismo (a chi volesse<br />

farsi un’idea di tale centralità del paradigma neokantiano, per l’emergere delle alternative<br />

teoriche fondamentali del novecento, in seguito divaricatesi nella contrapposizione tra<br />

neopositivismo ed esistenzialismo o, come anche si dice, tra analitici e continentali,<br />

segnalo il recentissimo volume di Michael Friedman, La filosofia al bivio. Carnap,<br />

Cassirer, Heidegger, Cortina, Milano, 2004). Secondo tale idea, Kant non sarebbe affatto<br />

un pensatore della metafisica, ma della scienza, e il criticismo sarebbe nato in buona<br />

sostanza dal ripensamento filosofico del newtonianesimo e del paradigma logico della<br />

fisica matematica moderna (dal “fatto della scienza”: come esprime Hermann Cohen<br />

questa idea, del criticismo come IDEALISMO <strong>DELLA</strong> SCIENZA, ripresa e meglio divulgata<br />

nell’opera di Ernst Cassirer). Questa lettura sembra suggerire una discussione dei rapporti<br />

tra determinismo, indeterminismo, libertà, che faccia riferimento esclusivamente all’ambito<br />

della epistemologia. E’ ciò che in effetti è avvenuto negli ultimi decenni, specialmente in<br />

ambito culturale anglosassone: cfr. la ricostruzione di tale dibattito nel recente volume di<br />

Paola Dessì, Le metamorfosi del determinismo, Franco Angeli, Milano, 1997. E’<br />

significativo che l’autrice, pur riconoscendo l’importanza della tradizione storica del<br />

determinismo filosofico o metafisico, accanto a quella più strettamente epistemologica, e<br />

pur provenendo da una tradizione di studi torinese, in cui non è affatto oscuro il nome di<br />

Martinetti, non avverta mai l’opportunità di citare un testo classico per la discussione del<br />

problema del determinismo come La libertà. La ragione vera di una tale omissione (se non<br />

vogliamo restringerci al topos storiografico del “filosofo dimenticato”, ossia della casuale<br />

ignoranza), va ricercata nella singolarità della lettura di Kant condotta da Martinetti. Lo si<br />

può constatare dalla semplice lettura del capitolo a lui dedicato nella parte storica del<br />

volume in oggetto, ma lo si potrebbe meglio apprezzare, mediante lo studio delle sue<br />

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lezioni universitarie, pubblicate come volume separato (Kant, nuova edizione a cura di<br />

Mario Dal Pra, Feltrinelli, Milano, 1968). Martinetti vi esprime la convinzione – del tutto<br />

controcorrente nel panorama filosofico novecentesco, sebbene non del tutto isolata, se si<br />

pensa a Heidegger, dal quale lo separa tuttavia l’implacabile razionalismo filosofico – che<br />

la grandezza di Kant non vada ricercata soltanto o prevalentemente nella soluzione offerta<br />

ai problemi della scienza moderna, mediante il proprio idealismo critico (sinonimo, per<br />

Cassirer, di idealismo della scienza), bensì nella direzione di una rinnovata metafisica<br />

critica. L’idea di un Kant come “grande metafisico” non era affatto isolata nel panorama del<br />

kantismo di fine ottocento. Friedrich Paulsen l’aveva ad esempio sostenuta con forza e<br />

convinzione, in rinnovata polemica con i teorici più ortodossi del”ritorno a Kant”, nel suo<br />

Kant (la cui quarta edizione, del 1898, fu tradotta in Italia nel 1904, per i tipi della casa<br />

editrice Sandron di Palermo). Dietro l’apparente agnosticismo della soluzione offerta nella<br />

prima Critica ai problemi della metafisica, il vero spirito del criticismo è quello che appare<br />

dalla seconda e soprattutto dalla terza Critica, in cui essi aprono la via a un rinnovato<br />

idealismo filosofico. Più che un idealismo della scienza, esso può essere meglio inteso<br />

come un IDEALISMO <strong>DELLA</strong> MORALE, come un rinnovato platonismo, che affida al volontarismo<br />

degli atti della libertà morale e a quelli della libera creazione dell’arte, il compito di rendere<br />

parzialmente accessibile quel “mondo delle idee”, che la prima Critica aveva escluso<br />

dall’ambito della conoscibilità fenomenica, eliminandone al tempo stesso la fissità<br />

noumenica, che si legava alla concezione tradizionale, neoplatonica, della trascendenza. Il<br />

punto di vista di Paulsen è in larga misura condiviso da Martinetti, ed è quello che gli<br />

suggerisce, nell’opera del 1928 La libertà, un duplice registro di lettura del problema del<br />

determinismo. Accanto al registro epistemologico, che confronta il problema della libertà<br />

morale con quello del determinismo delle leggi naturali, va tenuto presente il diverso<br />

registro teologico, che confronta il problema della libertà dell’uomo con quello della<br />

superiore volontà o provvidenza divina. Esso pare sovrapporre un più potente e<br />

infrangibile determinismo a quello naturale (già ferreo, secondo la felice descrizione<br />

datane da James). Con ciò, l’enigma della libertà, già arduo a risolversi sul piano empirico<br />

della scienza, si approfondisce fino a toccare la soglia del mistero (come diceva<br />

Malebranche della libertà). Nello studio – cui ci accingiamo – del libro di Martinetti saremo<br />

dunque posti di fronte a una doppia sfida intellettuale: la scienza, da un lato, la metafisica<br />

(o la religione) dall’altro, misurano secondo il proprio metro specifico la pretesa della<br />

morale di affermare l’AUTONOMIA del volere umano, ossia la sua LIBERTÀ. La difficile<br />

domanda: “si sarebbe potuto agire altrimenti?”, con cui il senso comune affronta lo scoglio<br />

del determinismo (l’unica spiegazione razionale dell’agire, come di ogni altro evento<br />

naturale, è quella che ne indica la ragione sufficiente, rendendolo con ciò stesso<br />

necessario), deve confrontarsi con le esigenze della razionalità scientifica, ma anche con<br />

quelle della moralità e della fede religiosa. Si tratta di una duplice e grandiosa sfida, che<br />

sarebbe ingenuo da parte nostra illuderci di poter dominare e risolvere nei limiti di un corso<br />

di lezioni, ma che ci proponiamo almeno di impostare, in termini chiari, che possano<br />

avviare la vostra personale riflessione, negli anni a venire.<br />

8


1. NECESSARIO O CONTINGENTE?<br />

Martinetti inizia la propria disamina della libertà dal problema del carattere contingente<br />

oppure necessario degli atti volontari (L II, 8). Chiariamo anzitutto il concetto di libertà che<br />

egli intende escludere o contestare: si tratta del concetto comune (fatto proprio dagli<br />

scolastici) della libertà come liberum arbitrium indifferentiae. Esso è chiarito bene da<br />

Schopenhauer (un avversario, come Martinetti, della libertà d’indifferenza) nei termini<br />

seguenti:<br />

Dall’assunzione di un simile liberum arbitrium indifferentiae deriva immediatamente la seguente affermazione<br />

[…]: cioè che un individuo umano, in circostanze esteriori del tutto individuali e completamente determinate,<br />

possa, in virtù di questa libertà d’indifferenza, agire in due modi diametralmente opposti (A. Schopenhauer,<br />

La libertà del volere umano, trad. it. Bruno Mondadori, Milano, 1998, p. 39).<br />

Schopenhauer fa notare come questa nozione forte di libertà derivi generalmente al senso<br />

comune da una confusione tra libertà di fare (libertas agendi) e libertà di volere (libertas<br />

volendi). Il sentimento, che giace al fondo della coscienza individuale, di “poter fare ciò<br />

che si vuole”, prevale su quello di una più recondita condizionatezza del nostro volere:<br />

Se interrogaste un uomo del tutto spregiudicato, ecco come si esprimerebbe riguardo a questa coscienza<br />

immediata, che si scambia così spesso per una presunta libertà della volontà: “Io posso fare ciò che voglio.<br />

Se voglio andare a sinistra, vado a sinistra; se voglio andare a destra, vado a destra. Questo dipende<br />

unicamente dalla mia volontà e dunque sono libero”. Una tale testimonianza è perfettamente vera e giusta:<br />

solo che presuppone la volontà e ammette implicitamente che la decisione sia già stata presa: la libertà della<br />

decisione stessa non può essere in alcun modo stabilita attraverso questa affermazione (ivi,p. 64).<br />

Per capire bene il problema, ci possiamo rifare all’analogia, cara ai deterministi, tra<br />

l’atto di scelta compiuto dalla volontà e la B<strong>IL</strong>ANCIA. Abbiamo visto come Herzen, ad<br />

esempio, sostenesse che il cervello pesa le impressioni ricevute dal mondo esterno e,<br />

sulla base di una previsione esatta e deterministica dei benefici o dei danni fisiologici<br />

conseguenti (piacere e dolore), reagisce imprimendo alla volontà una direzione<br />

determinata, cui segue immediatamente l’azione. Il processo mentale della deliberazione,<br />

che precede la scelta, e che viene solitamente caratterizzato come un “pensare”, è in<br />

realtà un “pesare” i pro e i contro dell’azione da compiere, che non concede alla volontà<br />

spazio alcuno di indecisione. Possiamo allora caratterizzare nei termini seguenti le due<br />

situazioni previste rispettivamente da chi afferma la necessità dell’atto volontario o la sua<br />

contingenza (nel significato forte di indifferenza):<br />

a) la volontà è sempre determinata dalla FORZA DEI MOTIVI, che sono i fattori causali dell’agire.<br />

Tra due motivi possibili ve ne è sempre uno più forte, che fa propendere la bilancia<br />

decisamente da un lato. La scelta si compie “a piatti fermi”: quando cioè si è concluso il<br />

processo deliberativo, e “si vede” da che parte stanno i motivi più forti e quelli più deboli.<br />

b) La volontà è sì condizionata dai motivi, ma è essa stessa a determinarne la forza, e ad<br />

imprimere alla scelta il suo carattere finale. Questa si compie – per così dire – “a piatti<br />

oscillanti”: è la volontà a risolversi in un senso o nell’altro, facendo propendere<br />

decisamente la bilancia da un lato (ma avrebbe potuto, con altrettanta decisione, farla<br />

propendere dall’altro lato).<br />

Potremmo chiamare riflessivo il primo tipo di comportamento e decisionista il secondo:<br />

osservando però come, dal punto di vista PSICOLOGICO, entrambe le descrizioni siano vere, e<br />

debbano perciò lasciare il posto ad una analisi puramente LOGICA. Osserva infatti<br />

Schopenhauer:<br />

9


L’uomo, in quanto essere innanzi tutto ed essenzialmente pratico, non teoretico, si rende conto del lato attivo<br />

dei suoi atti di volontà, cioè della loro efficacia, assai più chiaramente che del lato passivo, cioè della loro<br />

dipendenza […]. Certo, è fuori di dubbio che il suo fare dipende unicamente dal suo volere. Ma ciò che si<br />

cerca di sapere […] è da che cosa dipende il suo volere, se da qualcosa o da nulla. E’ vero che egli può fare<br />

una cosa quando la vuole e che ne farebbe anche un’altra allo stesso modo, se la volesse a sua volta: ma<br />

ora deve riflettere se è anche capace di volere l’una come l’altra. Poniamogli […] la domanda in questi<br />

termini: “Puoi realmente di due desideri opposti che sorgono in te dar seguito all’uno come all’altro? Per<br />

esempio, se ti si dà la possibilità di scegliere di possedere due oggetti che si escludono vicendevolmente,<br />

puoi preferire indifferentemente il primo o il secondo?”, ecc.( ivi,p. 65).<br />

Ora, è esattamente questo che si chiede al difensore della libertà d’indifferenza: nel<br />

momento in cui la volontà sceglie l’azione A, anziché l’azione B (che ne è la negazione),<br />

potrebbe ugualmente risolversi per B?<br />

Martinetti individua in Suarez (l’esponente maggiore della neoscolastica tomista)<br />

una concezione analoga: per definire libera una azione, dobbiamo concepirla come non<br />

necessaria. Infatti necessario “è l’atto che non può non essere: esso si contrappone<br />

naturalmente a ciò che non può essere (l’impossibile) ed a ciò che può non essere (il<br />

contingente): esclude quindi assolutamente la libertà (come libertà d’indifferenza) che è<br />

contingenza” (L 20). Possiamo schematizzare così:<br />

impossibile necessario contingente<br />

non reale non libero libero<br />

L’azione libera è “l’azione che procede spontaneamente da un agente cosciente in modo<br />

contingente: in quanto non è determinata in un unico senso ma può indifferentemente<br />

rivolgersi, secondo la volontà dell’agente, in questo o quel senso” (L 20). Martinetti riporta<br />

la definizione di Suarez della libertà, che è la stessa a cui si era rifatto polemicamente<br />

Schopenhauer: “facoltà attiva, che da sé e dalla propria intrinseca e particolare natura non<br />

è determinata solo ad una cosa, ma ad agire e a non agire, una volta posti tutti i requisiti<br />

dell’azione”. Suarez si riferisce dunque alla libertas agendi, ma poiché, tra i requisiti<br />

indispensabili dell’agire è compresa anzitutto la volontà, estende tale concetto<br />

indifferentistico alla stessa libertas volendi. Tale nozione è intesa in senso forte:<br />

estendendosi (dal punto di vista logico) sia al rapporto tra contraddittori, sia quello tra<br />

contrari. Vi è contraddizione ad esempio tra amare e non amare (contraddittori), ma vi è<br />

opposizione assoluta tra amare e odiare (contrari). Ora, alla libertà del volere compete non<br />

solo la scelta tra compiere un’atto di carità o astenersene, ma quella tra compierlo oppure<br />

compiere l’azione contraria. Vi è ad esempio una differenza tra amare gli amici e amare i<br />

nemici: nel secondo caso, ci si limita spesso a non odiarli. Ma la nozione forte di LIBERTÀ DI<br />

INDIFFERENZA mi dice che potrei con uguale libertà amare gli amici o odiarli, come pure<br />

amare i nemici (ossia odiarli o non odiarli). Si tratta, come è evidente, di una pretesa molto<br />

esigente (qualcuno – potrebbe sospettare – persino illusoria), che induce Martinetti –<br />

accingendosi alla trattazione sintetica del problema, nella seconda parte del volume – a<br />

rimandare ad uno degli ultimi capitoli (il 16°) la soluzione del problema del libero arbitrio, e<br />

a tentare – nel capitolo che inizia la trattazione (l’8°) – una diversa linea di risoluzione, che<br />

aggredisce la questione non tanto dal lato impervio della contingenza, ma da quello<br />

(razionalmente più agevole) della necessità. E’ proprio vero – come pretendono i<br />

sostenitori della bontà del liberum arbitrium indifferentiae – che libertà e necessità si<br />

escludono per principio? Non può esserci una diversa nozione della libertà, che non la<br />

oppone, bensì la concilia, con la necessità? Non sarà che il nostro agire (considerato da<br />

due diversi punti di vista) è insieme necessario e libero? Che (come dicono – ad esempio<br />

– gli odierni COMPATIB<strong>IL</strong>ISTI) la libertà del volere può benissimo coesistere con qualche<br />

10


necessità (ad esempio, con quella affermata dal determinismo fisico)? Possiamo dunque<br />

caratterizzare, fin d’ora, la posizione di Martinetti come compatibilista, anche se l’esplicita<br />

affermazione in tal senso comparirà molto più avanti (nel cap. 17°): “il determinismo – si<br />

può infatti leggere a pag. 409 del testo – è conciliabile col senso della libertà e della<br />

responsabilità morale”.<br />

Martinetti accantona, in quanto meramente verbale, la definizione del necessario<br />

come “ciò che non può non essere”, e si accinge ad una descrizione del contenuto<br />

concreto della espressione “necessario” (L 285). Egli distingue anzitutto le forme della<br />

necessità IDEALE da quelle della necessità REALE. Le prime comprendono la cosiddetta<br />

necessità finale (per causam finalem) e la necessità morale. Per necessità finale, si<br />

intende il legame necessario tra mezzo e fine di una azione: se vuoi A (il fine), e x è il<br />

mezzo che ti consente di conseguire A, devi volere anzitutto x (il mezzo), e non puoi<br />

prescinderne in alcun modo nella scelta finale di A. Si tratta di una necessità ipotetica<br />

(Kant parla di imperativi ipotetici, distinti dall’imperativo categorico della moralità) e non<br />

assoluta. E’ invece assoluta la necessità morale, ossia il rapporto della volontà con la<br />

scelta del bene, come suo oggetto naturale. Ad esempio, l’imperativo categorico del<br />

dovere, in Kant, si riferisce alla scelta incondizionata del bene morale, come oggetto unico<br />

della volontà buona. Queste forme ideali di necessità si riferiscono propriamente al piano<br />

del DOVER ESSERE, ossia del valore, anziché a quello dell’ESSERE. Per questo Martinetti le<br />

accantona per il momento, concentrando l’analisi sulle tre forme della necessità reale, che<br />

dovranno confermare l’ipotesi del compatibilismo tra libertà e determinismo, ossia<br />

necessità. La necessità reale si suddivide in: MATEMATICA, LOGICA, CAUSALE, e ricade sotto la<br />

forma generale del principio di ragione sufficiente, introdotto nella logica moderna da<br />

Leibniz. Esso è il principio che afferma: “nulla è, senza che vi sia una ragione sufficiente<br />

del suo essere”, e si distingue dal tradizionale principio di identità o non contraddizione: “A<br />

= A, A ≠ non A”. Possiamo schematizzare così le forme di necessità:<br />

ideale reale<br />

finale morale matematica logica causale<br />

Nel distinguere la necessità matematica da quella logica e da quella causale, Martinetti si<br />

rifà alla distinzione kantiana tra le forme a priori della sensibilità (spazio e tempo) e<br />

dell’intelletto (identità e causalità). Tralasciamo l’analisi della necessità matematica (L 286-<br />

287), per soffermarci sul rapporto tra necessità logica e necessità causale, che riguarda<br />

più direttamente il nostro tema.<br />

Entrambe rientrano nella trattazione kantiana delle CATEGORIE dell’intelletto: forme di<br />

unificazione del reale fenomenico, che si aggiungono alle forme della sensibilità,<br />

conferendo agli oggetti della conoscenza scientifica un grado maggiore di stabilità e di<br />

certezza: “quando si parla dell’unificazione logica, si pensa ai concetti generali ed alle<br />

leggi della scienza, che senza dubbio costituiscono la parte più elevata di questa<br />

unificazione” (L 288). Va precisato che, quando Martinetti parla di necessità logica, non<br />

pensa tanto alla logica formale della tradizione classica (la sillogistica), quanto piuttosto<br />

alla logica trascendentale di Kant e della tradizione moderna che a lui si rifà (da Kant a<br />

Lotze, per indicare solo due estremi cronologici). Non si tratta cioè soltanto delle forme<br />

tautologiche dell’argomentazione scientifica, ma dell’applicabilità delle forme razionaliintellettive<br />

al campo fenomenico obbiettivo: di una necessità logica, dunque, non<br />

semplicemente formale, ma formale e reale insieme. Un significato realistico è dunque<br />

riconosciuto da Martinetti (sulla scorta delle indagini gnoseologiche ed epistemologiche<br />

contemporanee), a entrambi i concetti razionali-intellettivi della logica trascendentale:<br />

11


quello di IDENTITÀ e quello di CAUSALITÀ. Propriamente parlando (si veda, in Kant, lo<br />

schematismo dei concetti puri dell’intelletto) la categoria di identità si riferisce allo schema<br />

temporale della permanenza della sostanza, laddove la categoria di causalità si riferisce<br />

allo schema temporale della successione costante di eventi (di cui il primo è identificato<br />

come causa, il secondo come effetto). Martinetti tende tuttavia a relativizzare questa<br />

differenza, in sintonia con il carattere probabilistico che tendono a rivestire le spiegazioni<br />

scientifiche nella fisica contemporanea (che ha superato gli schematismi kantiani,<br />

modellati sul vecchio modello della fisica di Newton). Più che alla fissazione di un nesso<br />

causale necessario e univoco tra due singoli eventi (A e B), la spiegazione scientifica<br />

tende ora alla individuazione di una interazione più fine e complessa tra l’evento e<br />

l’insieme delle condizioni che ne circoscrivono l’ambito di possibile produzione causale. In<br />

tal modo, la distinzione tra identità e causalità tende a sfumare: “il concetto della<br />

connessione causale corrisponde al concetto dell’identità fra due stati successivi d’un<br />

gruppo di condizioni: l’effetto non è che la causa diversamente disposta, non è che il<br />

gruppo stesso delle condizioni causali raccolto in un nuovo equilibrio, in una nuova sintesi”<br />

(L 290). Chiamiamo ad esempio A l’insieme delle condizioni (a, b, c…. x) che<br />

corrispondono a un dato stato fisico e B lo stato fisico modificato prodotto da una<br />

modificazione di A (ad esempio il liquido contenuto in un recipiente, sottoposto a<br />

riscaldamento, e la modificazione del suo volume, fino alla modificazione di stato: da<br />

liquido ad aeriforme). Noi possiamo scrivere, applicando la categoria della necessità<br />

causale: A→ B, ma si tratterà piuttosto di una diversa disposizione delle condizioni, che in<br />

A (a, b, c…. x) identificavano lo stato antecedente, mentre in B identificano lo stato<br />

conseguente. Dovremmo dunque scrivere (a, b, c…. x) = A → (a… x, b, c) = B,<br />

evidenziando come si tratti di un diverso risultato sintetico di fattori che, dal punto di vista<br />

analitico, si possono ricondurre a una sostanziale identità.<br />

Ora, se il principio logico di spiegazione legale-causale proprio delle scienze ci dice<br />

che l’effetto non è che la causa diversamente disposta, si apre una via agevole per<br />

conciliare necessità (ossia determinismo) e libertà. Che cos’è infatti – si interroga<br />

Martinetti – la necessità causale in se stessa?<br />

E’ l’esigenza di un’identità attraverso più momenti successivi. Ciò che collega necessariamente l’effetto alla<br />

causa è l’unità del processo che nell’effetto rivela più perfettamente se stessa come identità ed unità: il<br />

gruppo delle condizioni costituenti l’effetto non è che il gruppo medesimo delle condizioni causali, ma<br />

rivelante nella nuova sintesi la propria unità: come potrebbe l’effetto non seguire alla causa dal momento che<br />

esso rappresenta non solo la persistenza, ma un più perfetto equilibrio, una più perfetta unificazione delle<br />

energie agenti nella causa? (L 291).<br />

L’ambizione della spiegazione scientifica sarebbe di pervenire ad una unificazione di tutti<br />

gli aspetti successivi del divenire naturale: il monismo della scienza corrisponde qui<br />

all’antico sogno della metafisica di pervenire alla causa prima dell’universo. Naturalmente<br />

– precisa tuttavia Martinetti – si tratta solo di un sogno:<br />

questo concetto della causa prima che sta a fondamento di tutto il divenire è soltanto, come il concetto della<br />

sostanza assoluta, un termine ideale del pensiero, non un concetto concreto: la esigenza sua si esprime in<br />

una pura legge formale, nel principio dell’indistruttibilità della energia (L 291).<br />

Ora, in un reale fenomenico retto dal principio “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si<br />

trasforma” c’è spazio o meno per la libertà? Martinetti ritiene di sì. Dal momento che tutte<br />

le forme di necessità reale che si possono distinguere (matematica, logica, causale) hanno<br />

in comune l’idea che “la necessità è l’espressione di un’unità, di un’identità” (L 291), in<br />

essa si può fare rientrare anche la libertà, quando venga intesa come “l’esplicazione<br />

autonoma di un soggetto cosciente”:<br />

12


Se noi pensiamo che lo svolgimento normale di un soggetto coincida con lo sviluppo d’una complessa serie<br />

causale (si immagini per esempio un periodo di vita normale, durante il quale l’essere nostro si svolge<br />

naturalmente e felicemente ricevendo dall’ambiente ciò che la vita esige senza alcuna sensibile<br />

opposizione), noi avremo un processo causalmente concatenato e perciò costituente un processo<br />

necessario retto da leggi determinate, e tuttavia esso sarà vissuto dal soggetto come un’esplicazione libera<br />

della propria attività (L 292).<br />

Naturalmente, potremmo aggiungere, a commento del brano di Martinetti, questa<br />

idea di NORMALITA’ è essa stessa soltanto un ideale. Quasi mai la nostra vita (se non forse in<br />

certe fasi dell’infanzia, che forse proprio per questo tendono a svanire dal nostro ricordo<br />

dell’età adulta) scorre lungo binari “naturali” così liberi e sciolti da interferenze esterne.<br />

Tuttavia è in linea di principio concepibile una idea di libertà che, come questa, non si<br />

discosti dalla necessità. L’opposto della libertà, da questo punto di vista, non è la<br />

necessità, bensì il caso. Come la necessità è costituita “dalla identità di un complesso che<br />

è la legge dei fattori apparentemente eterogenei che lo costituiscono”, allo stesso modo<br />

diventa possibile definire il CASO come “assenza di collegamento”, come “varietà o<br />

variabilità senza identità, senza continuità, senza ragione”; come una “unità puntuale<br />

isolata per cui non può valere necessità alcuna, perché questa dovrebbe fondarsi su d’un<br />

collegamento qualsiasi, che in principio è negato” (L 293). Se, uscendo di casa,<br />

incontriamo un amico, l’evento in sé non si sottrae al determinismo universale della natura,<br />

in quanto è spiegato da almeno due serie di eventi causali connessi (ognuno di noi due<br />

potrebbe spiegarci la “necessità” del suo essere uscito di casa, ecc.). Senonché, le due<br />

necessità non sono direttamente unificabili, non rientrano in un’unica serie causale, ma<br />

rimangono distinte: “sono due necessità irriducibili, ciascuna delle quali è per l’altra un<br />

caso” (L 293). Allo stesso modo, quando esce il numero 60 all’estrazione del Lotto (evento<br />

che mi fa vincere o perdere), vi è tutto un insieme di fattori che determinano causalmente<br />

l’evento, ma esso rimane del tutto casuale e fortuito, rispetto alla mia personale serie di<br />

eventi e di comportamenti, che cercano vanamente di renderlo “prevedibile”. L’esempio<br />

del Lotto è particolarmente forte, nella generale reductio ad absurdum dell’indeterminismo<br />

assoluto (libertà d’indifferenza), operata in queste pagine da Martinetti (nelle tracce – non<br />

dimentichiamolo – di Schopenhauer). Chi intende difendere una idea di libero arbitrio che<br />

esclude la necessità e si affida alla contingenza, si mette allo stesso livello della fede<br />

credula e superstiziosa di chi affida il proprio futuro alle lotterie (che sono – ricordiamolo –<br />

la “tassa degli stupidi”).<br />

Nella parte finale del capitolo, dopo aver trattato della necessità, Martinetti tratta<br />

della contingenza. Anche qui si distinguono due forme: il contingente causale e il<br />

contingente logico. La differenza è chiarita bene da Spinoza, che li distingue come il<br />

POSSIB<strong>IL</strong>E e il CONTINGENTE vero e proprio. E’ possibile un evento che si verifica sulla base di<br />

una serie causale, di cui ignoro un elemento. Esso è in se stesso necessario, ma per me<br />

(quoad me) contingente (potrebbe cioè non essere). E’ assolutamente contingente,<br />

invece, ciò che dal punto di vista logico non ha una causa (potrebbe essere, come non<br />

essere). Un essere immaginario (come l’ippogrifo, cavalcando il quale Rinaldo vola sulla<br />

luna, alla ricerca del senno d’Orlando) ha uguali possibilità logiche di essere vero o falso,<br />

del suo contrario. Il verificarsi di un evento che lo riguardi è del tutto contingente. Ora, il<br />

difetto della logica scolastica (che si atteneva alla definizione forte del contingente come<br />

non necessario) era di attenersi a una definizione verbalistica di “necessario” (ciò che non<br />

può non essere), anziché tener conto di questa importante graduazione tra il possibile<br />

reale e il possibile meramente logico (ciò che può essere come non essere), ossia il<br />

contingente. Il senso di questa discussione (che potete studiare nei particolari alle pp. 295-<br />

296 del testo) è chiaro: si vuole evitare che l’invocazione della libertà di contingenza simuli<br />

13


un difetto della volontà, che si rifugia nella ignoranza delle cause profonde che motivano<br />

l’agire. Il contrario della libertà è la coazione, ma una forma più sottile della coazione<br />

violenta (per lo più rara) è quella che esercita su di noi la volontaria ignoranza, il fatalistico<br />

affidarsi al caso e al destino. Vanno ben meditate le frasi con cui Martinetti chiude il<br />

capitolo:<br />

Se la libertà è […] il privilegio degli esseri intelligenti, se l’atto libero è essenzialmente l’opera della ragione,<br />

la libertà non può aver nulla di comune con la contingenza. Se l’attività che riferiamo alla ragione deve<br />

essere intelligibile, essa deve consistere in una concatenazione perfettamente trasparente e<br />

necessariamente determinata in tutti i suoi momenti. Affermare che l’atto libero sia essenzialmente<br />

contingente è come affermare che la ragione debba costantemente introdurre nell’operazione sua un<br />

elemento inintelligibile e che una concatenazione di atti sia tanto più razionale (e perciò libera) quanto meno<br />

è comprensibile. Vi è certamente in tutti gli atti umani, anche negli atti liberi, una parte di contingenza, come<br />

in tutto il resto, ma per questa parte appunto non sono liberi. […] La libertà non solo non esclude, ma implica<br />

la necessità, perché esclude la contingenza (L 296).<br />

Il riferimento al residuo di contingenza presente nella concatenazione degli atti verrà<br />

meglio chiarito in seguito, quando Martinetti affronterà direttamente il problema del<br />

determinismo scientifico e ne rifiuterà una forma troppo rigida, incompatibile con la libertà<br />

(la necessità come “blocco di ferro”, di cui parlava James). Ma, fin d’ora, è chiaro che per<br />

lui la libertà non deve cercare un alleato nell’elemento della contingenza, nel residuo<br />

indeterministico che conserva la spiegazione naturale (sempre incompleta), nel gioco<br />

(come si è detto di recente) tra “il caso e la necessità” (Monod). Indeterministica potrà<br />

anche essere la spiegazione scientifica delle cose, ma la ragion pratica, la volontà morale,<br />

è per lui sempre “dogmatica”. Egli assume da Kant la definizione della libertà come una<br />

autonomia di esercizio, che si attua però sempre nella obbedienza a leggi universali e<br />

necessarie. Autonomia (sinonimo per Martinetti come per Kant di libertà) significa cioè<br />

SPONTANEITÀ (libertà di seguire la propria natura) e al tempo stesso NECESSITÀ o coazione<br />

(non – beninteso – una coazione violenta, che si indirizza contro la mia natura, ma una<br />

coazione morale, un imperativo categorico, per il quale mi risolvo liberamente). La libertà è<br />

dunque un “privilegio”, ma dobbiamo saperci rendere degni di un tale privilegio (che<br />

sembra innalzarci al di sopra degli altri esseri viventi: anche se Martinetti non ne era del<br />

tutto convinto, dal momento che riconosceva una forma di intelligenza e di libertà morale<br />

anche negli animali non umani). Dobbiamo saperlo intendere come un obbligo e una<br />

necessità, alla quale sarebbe vile sottrarsi (come recita il noto sofisma della ignava ratio,<br />

richiamato a più riprese nel libro, e anche qui, a pag. 292 ***).<br />

14


ignava ratio ***<br />

Nelle pagine della Libertà si trova sovente ripetuta l’espressione latina ignava ratio<br />

(letteralmente: ragione pigra). Si tratta di un argomento sofistico, invocato nella polemica<br />

contro il fato stoico. A Crisippo, il quale afferma la necessità delle azioni e dice che la vera<br />

libertà consiste nell’accettazione volontaria del fato (fata volentem iuvant, nolentem<br />

trahunt), Carneade (accademico) fa questa obiezione. Tu dici che l’uomo deve dare<br />

liberamente il proprio assenso alla proposizione affermante la necessaria concatenazione<br />

causale delle azioni. Così facendo, ti contraddici: in quanto anche il tuo atto di assenso (in<br />

cui fai consistere la libertà) deve essere causato da antecedenti necessari, e quindi non è<br />

libero. Il sofisma doveva essere già noto ad Aristotele (come riferisce Cicerone, al quale si<br />

deve la formulazione dell’espressione ignava ratio): se tutto è necessario, è inutile agire e<br />

tuttavia anche questo atteggiamento è un deliberare ed un agire. In altre parole, la ragione<br />

è condannata a risolversi: se decide di non scegliere (per ignavia o per pigrizia), in realtà<br />

sta operando una scelta. Il fatalismo è dunque un atteggiamento di malafede. Altre<br />

formulazioni del sofisma sono riportate da Martinetti: ad esempio quella ripresa da<br />

Baumann (p. 413). Delle due l’una: la casa deve necessariamente ardere o non ardere.<br />

Nel primo caso, è inutile che io cerchi di spegnere l’incendio, perché brucerà<br />

necessariamente, e i miei sforzi saranno vani. Nel secondo caso, è ugualmente inutile che<br />

io cerchi di spegnerlo, perché le fiamme cesseranno da sole, e la mia azione si rivelerà<br />

superflua. La soluzione di questo argomento sofistico è offerta da Martinetti alla pag. 420<br />

del libro, distinguendo due tipi di necessità: una meccanica, o naturalistica, che esclude la<br />

libertà del volere, una ideale, o razionalistica, che la prevede come il fattore stesso della<br />

necessitazione dell’agire. La ragione pigra è figlia di un determinismo meccanicistico, che<br />

considera le azioni come causazioni necessarie di un’entità oscura (sia essa chiamata Dio<br />

o Materia), nei cui confronti l’io figura come un fattore trascurabile (al massimo, una<br />

“coscienza spettatrice”, che non può mai dirsi realmente padrona dei propri atti). Ma se si<br />

concepiscono le azioni come espressioni della personalità dell’io, ossia come esprimenti<br />

una necessità ideale (quella della ragione), con cui l’io si identifica (o meglio, si sforza di<br />

coincidere), non c’è più fatalismo che tenga, con cui la ragione possa giustificare la propria<br />

indolenza (la “paura della libertà”, come è stata chiamata da qualcuno). E’ vero che la<br />

casa deve necessariamente non ardere: ma questa affermazione contiene come elemento<br />

necessitante proprio la mia volontà di impegnarmi con tutte le mie forze a spegnere<br />

l’incendio. Quando cesso di lottare e mi arrendo all’evento (constato allora l’opposta<br />

necessità della casa di ardere e di andare distrutta), mi abbandono al determinismo<br />

meccanico delle cose: sottraggo il mio io alla necessitazione universale, che ne risulta in<br />

qualche modo impoverita (come quando fingo nell’immaginazione un mondo da cui<br />

l’azione degli uomini sia del tutto assente, in cui l’umanità sia estinta, e chiamo questa<br />

necessità naturale). Il punto di vista del materialismo è certo razionalmente concepibile,<br />

ma non è coerente, in quanto sopprime il fattore ideale (la coscienza, l’io, lo spirito, o<br />

come si voglia chiamarlo) che ci consente di affermarne la necessità, il dover essere<br />

logico.<br />

15


2. LIBERTA’ DA O LIBERTA’ DI?<br />

Nella precedente lezione abbiamo introdotto il concetto martinettiano di libertà attraverso<br />

la tipica contrapposizione di necessario e contingente. La discussione era approdata al<br />

risultato che la libertà “non solo non esclude, ma implica la necessità, perché esclude la<br />

contingenza”. Nella lezione odierna prendiamo in esame un’altra tipica aporia: quella che<br />

vede contrapposti un concetto negativo di libertà, come mera LIBERTA’ DA, e un suo concetto<br />

positivo, come LIBERTA’ DI o LIBERTA’ PER, che sembrano alternativi, e che invece Martinetti<br />

considera correlativi. Da molti si è sostenuto che quello di libertà sia un concetto<br />

essenzialmente negativo: non ha senso affermare che siamo liberi, se non si specifica “da<br />

che cosa” non siamo costretti o condizionati. Il bambino, che si sente sempre sottoposto<br />

alla vigilanza dell’adulto, e che avverte questa forma di controllo come una costrizione, si<br />

sentirà libero quando tale vigilanza verrà meno, e potrà magari compiere una marachella<br />

senza essere rimproverato o punito. Così – scrive Martinetti – “l’animale che vive<br />

liberamente è quello che vive fuori dalla soggezione dell’uomo; il cittadino libero, la libera<br />

repubblica s’intendono liberi da un governo tirannico”, ecc. (L 297). Più che di libertà –<br />

afferma ad esempio Schopenhauer – si dovrebbe parlare in effetti di liberazione: non<br />

siamo mai (rigorosamente parlando) liberi, ma ci liberiamo via via dalle limitazioni che in<br />

precedenza ci vincolavano, e avvertiamo tale cambiamento come illusoria “libertà”. In<br />

realtà passiamo da una limitazione ad un’altra, da un condizionamento precedente ad uno<br />

successivo, senza mai poter affermare un senso positivo di libertà. Questa visione di<br />

Schopenhauer si lega, come noto, al suo pessimismo: ciò che si afferma nei nostri atti (al<br />

di sotto o al di là della coscienza) è un cieco ed anonimo impulso metafisico, il Wille zum<br />

Leben, rispetto al quale la nostra libertà consiste solo in un atto negativo di repressione o<br />

di rinuncia. Non vi sarebbe dunque “né un contenuto, né un sentimento positivo della<br />

libertà” (L 297). Rispetto allo stato di dipendenza e di bisogno, avvertito dalla coscienza<br />

come dolore, e al quale reagisco con l’azione (la quale che mi procura una sensazione<br />

momentanea di alleggerimento, di liberazione, che la coscienza registra come piacere),<br />

sarei tentato di indicare appunto in questa sensazione piacevole il sentimento positivo di<br />

libertà, cui si accennava. Ma si tratta di un sentimento fuggevole e illusorio: la coscienza<br />

del bisogno, una volta appagata, procura sazietà e noia (la vita, ripete Schopenhauer con<br />

la gran parte dei moralisti, è un pendolo incessante che oscilla tra il dolore e la noia), e<br />

solo il dolore successivo e conseguente è ciò che mi indurrà ad una nuova azione, ad una<br />

ulteriore “liberazione”, e così all’infinito.<br />

Al di là delle implicazioni pessimistiche, tipiche della metafisica schopenhaueriana, questo<br />

concetto negativo di LIBERAZIONE non è del tutto privo di interesse. Esso si ripresenta, ad<br />

esempio, ogniqualvolta ci si proponga di criticare o respingere un concetto troppo astratto<br />

o consolatorio di libertà. Di fronte alla retorica politica dei sostenitori di un liberismo<br />

economico sfrenato, il quale afferma che l’unico compito dello stato è di assicurare ai<br />

proprietari la massima libertà di intrapresa economica e di arricchimento, si eleva sovente<br />

la voce di chi afferma che “libertà” è una parola vuota, se la si applica allo stesso titolo a<br />

chi possiede i mezzi economici per farla valere e a chi al contrario non possiede nulla. Non<br />

vi può essere libertà in astratto, ma libertà dal bisogno, libertà dall’analfabetismo, libertà<br />

dalle malattie, ossia una libertà graduale e determinata, sempre concreta, entro una<br />

cornice di “liberazione” incompiuta e progressiva. Martinetti concorda con questa<br />

osservazione, e riconosce al concetto negativo di libertà, come libertà da, un momento di<br />

verità, che risiede nel fatto che “la libertà è sempre relativa” (L 297). Ma relativo non<br />

significa negativo, e occorre dunque saper individuare, dentro il concetto di liberazione, il<br />

momento positivo che lo completa: la libertà di, o libertà per, in cui si esprime la<br />

SPONTANEITA’ dell’agire di ogni essere vivente e cosciente:<br />

16


preso nel suo senso più semplice e generale, questo concetto ha un contenuto intuitivo non altrimenti<br />

definibile perché è quello d’uno stato empirico immediato, come il dolore o il suono; ma che tutti conosciamo<br />

od esperimentiamo quando il corso della nostra vita interiore si svolge senza urti, senza ostacoli, in<br />

conformità del desiderio e delle esigenze nostre. Noi conosciamo tanto bene questo stato di volontà non<br />

ostacolato che lo riferiamo figuratamente alle cose e parliamo d’una libera caduta dei corpi, della libera<br />

vegetazione di una pianta ecc.; noi dotiamo allora il corpo che cade, la pianta che vegeta di quel senso<br />

particolare che proviamo quando l’attività nostra si svolge senza essere impedita, per una specie di<br />

espansione naturale conforme alla volontà nostra. La libertà non si riferisce quindi in senso proprio che ad<br />

esseri coscienti; ed in questo senso a tutti gli esseri coscienti. Niente ci vieta di supporre qualche cosa di<br />

analogo anche nella pianta che espande liberamente le sue fronde o che apre i suoi fiori al sole.<br />

Noi possiamo quindi chiamare libertà quello stato in cui un essere non è impedito di realizzare le<br />

disposizioni e le inclinazioni che ne costituiscono la natura (L 298).<br />

Soffermiamoci brevemente su questo passo. Possiamo così schematizzarne i<br />

concetti essenziali: 1) quello di libertà non è un concetto di cui si possa dare una<br />

definizione astratta, ma che ha carattere intuitivo; 2) essa ha una caratterizzazione<br />

psicologica semplice ed elementare, come certe qualità sensibili: il dolore, il suono; 3)<br />

essa non è tuttavia una proprietà che si riferisca ad uno stato, ma una qualità dinamica,<br />

che si può cogliere cioè insieme al ritmo stesso della vita; 4) è quel sentimento intimo di<br />

espansione, di espressione libera e spontanea di sé, che coincide con la consapevolezza<br />

del vivere (ciò che i tedeschi dicono erleben, distinguendolo dal semplice leben); 5) la<br />

caratteristica fondamentale della vita (rispetto alle cose inanimate) è quella di esprimersi,<br />

di mostrare all’esterno il proprio stato interno di benessere o di malattia; 6) perciò è<br />

possibile una descrizione figurativa o simbolica del vivente: non si tratta di semplici<br />

“metafore”, che traspongono il significato proprio di un termine, sulla base di un confronto<br />

analogico, che rimane estrinseco (come quando dico “sei un fulmine”, sottintendendo “sei<br />

veloce come sarebbe veloce il fulmine”), ma di un rapporto necessario e diretto tra<br />

l’espressione simbolica e il suo significato (come quando dico dell’abito bianco della<br />

cresimanda o della sposa che è “simbolo di purezza e di verginità”); 7) di una vita<br />

cosciente (di qualsiasi vita cosciente: umana, animale e qui persino vegetale) Martinetti<br />

afferma che si può riconoscere direttamente il grado maggiore o minore di libertà nel<br />

rispettivo grado di spontaneità del suo movimento; 8) di qui la definizione (che non è una<br />

vera definizione, ma più che altro la indicazione di un ambito di circostanze) della libertà<br />

come lo “stato in cui un essere non è impedito di realizzare le disposizioni e le inclinazioni<br />

che ne costituiscono la natura”. Può sembrare una definizione negativa (e ciò perché non<br />

si dà mai libertà in astratto, ma libertà in concreto, non una libertà assoluta, ma una libertà<br />

relativa, una libertà da), tuttavia l’autore sottolinea come la si debba intendere piuttosto in<br />

un senso positivo: “la libera attività ‹è› accompagnata da un senso di gioia […] non v’è per<br />

l’uomo altra sorgente di felicità che il pieno svolgimento normale dell’essere suo e questo<br />

ha il suo indice nel sentimento della libertà” (L 298). Non è dunque il piacere, in un<br />

significato edonistico, il sentimento positivo in cui si esprime la libertà, ma la gioia (che ha<br />

un significato più spirituale, più calmo, rispetto a quello che intendiamo comunemente per<br />

piacere). Martinetti non esita a usare il termine classico di felicità: intendendolo proprio nel<br />

significato di Aristotele: come sinonimo e contrassegno della vita virtuosa ed eccellente,<br />

come libera e compiuta espansione delle disposizioni proprie della natura umana, come<br />

misura di grandezza etica dell’uomo, che non si concentra sui singoli atti e momenti, ma<br />

che si regola sull’intero arco di una vita. Gli inglesi hanno, accanto al termine riduttivo di<br />

happiness, con cui si traduce normalmente il termine greco di felicità (eudaimonia), e che<br />

ha un significato psicologico empirico, che la identifica con il piacere, un termine più<br />

appropriato: quello di flourishing (florido, fiorente, in fioritura), riferito per lo più a life (una<br />

vita fiorente, una salute fiorente, ma anche una persona fiorente), che non a caso attinge<br />

alle stesse immagini figurali scelte da Martinetti.<br />

17


La libertà da si fa avvertire dal soggetto non come tale, ma nella forma vissuta di<br />

una positiva libertà di o libertà per, nel dinamismo della vita, nello sforzo realizzativo<br />

dell’azione, nella energia (e nella gioia connessa) del tendere verso una meta. Martinetti<br />

articola il discorso intorno ad alcune distinzioni classiche. Anzitutto quella tra libertas<br />

volendi e libertas agendi: LIBERTÀ DI VOLERE e LIBERTÀ DI FARE O DI AGIRE. Nella lezione<br />

precedente, discutendo di necessità e contingenza, la libertà dell’agire era quella<br />

rivendicata anzitutto dai sostenitori del libero arbitrio. Ci si aspetterebbe quindi da<br />

Martinetti (il quale ha escluso che la libertà vada cercata nella direzione del contingente)<br />

una netta presa di posizione a favore della più essenziale libertas volendi (la libertà morale<br />

in senso proprio). E invece troviamo qui sviluppata una diversa linea di discorso, che<br />

afferma la inseparabilità delle due libertà, e in particolare la insopprimibilità della seconda,<br />

accanto alla prima (e più essenziale). Ciò è in parte dovuto al fatto che Martinetti ha<br />

appena sostenuto che la vera e primitiva esperienza del libero volere è libertà di: non si<br />

può cioè volere in astratto (volere la volontà o voler volere), ma ogni atto di volontà è<br />

sempre una volizione particolare (volere questo o quello, essere libero di volere questo o<br />

quello). Una volontà che si arresti al semplice atto del deliberare, senza tradursi in azione,<br />

non si può dire del tutto libera. E’ particolarmente interessante l’andamento che assume in<br />

queste pagine l’argomentare di Martinetti (e che ha fatto parlare di una neanche troppo<br />

nascosta intenzione polemica, che si indirizzerebbe al regime politico dell’Italia<br />

contemporanea: ossia al fascismo). Come esempio della inseparabilità della libertà del<br />

volere dalla libertà dell’agire (che invece Schopenhauer, nella celebre memoria sulla<br />

Libertà del volere, che Martinetti ha costantemente presente nel suo libro, separava<br />

nettamente) egli fa l’esempio del dispotismo politico, del tiranno che priva l’uomo giusto e<br />

morale della libertà, rinchiudendolo nel carcere. Ora, è un luogo comune di intonazione<br />

stoica quello secondo cui, nemmeno in questo caso, si può togliere all’uomo libero (in<br />

quanto personalità morale) la sua libertà. Finché pensa – ripete ad esempio Hegel nella<br />

celebre Fenomenologia dello spirito – l’uomo è libero, anche lo schiavo in catene! E anche<br />

Benedetto Croce (come Martinetti, e a differenza di Giovanni Gentile, un liberale e un<br />

antifascista) nella sua <strong>Filosofia</strong> della pratica, ripete questo concetto. Martinetti prende<br />

invece posizione in queste pagine contro ogni accento stoicizzante, affermando la<br />

insostenibilità della separazione tra le due libertà:<br />

allorché tutto l’essere nostro è dominato dalla volontà morale, noi ci sentiamo liberi anche quando resistiamo<br />

ad un tiranno e per questa resistenza siamo privati della libertà fisica: e se il nostro essere sensibile si duole<br />

delle dolcezze perdute, noi ripudiamo con Epitteto questo desiderio e questo rimpianto come rimpianto di<br />

cose non nostre. Tuttavia è inevitabile che anche lo stoico più indurito soggiaccia qualche istante a questo<br />

rimpianto e senta la sua volontà migliore come assalita e, se non infranta, indebolita da questo tumulto<br />

interiore: la sua libertà di volere, per quanto in ultimo trionfi, non può dirsi che non sia in qualche modo<br />

affetta dalla violenza esteriore. […] Non vi è quindi vera libertà se questa non è libertà di tutta la personalità;<br />

e quindi anche della libertà fisica. La libertà dell’agire è parte della libertà del volere: parte subordinata, che<br />

noi possiamo in date circostanze considerare come non essenziale alla nostra libertà vera, perché facciamo<br />

consistere questa nelle nostre volontà superiori e crediamo di poter ad esse subordinare le nostre tendenze<br />

fisiche; ma pure inseparabile e in molti casi esercitante una non lieve influenza sulla libertà complessiva. La<br />

libertà è la spontaneità nell’attività: e poiché l’essere nostro è un sistema di attività, di tendenze, di volontà, la<br />

libertà nostra non è la libertà di un’attività o d’una facoltà sola, ma è nella spontaneità di tutto il sistema. Non<br />

ogni coazione è della medesima importanza; ma anche la coazione dell’attività più subordinata detrae alla<br />

libertà totale e non è senza azione sulla libertà delle stesse attività superiori, nelle quali è fatta spesso<br />

consistere la vera e propria libertà” (L 300-301).<br />

Ci sono evidentemente gradi diversi di coazione: un conto – dice Martinetti – è avere le<br />

braccia legate da una corda intorno al corpo, che mi impedisce ogni movimento; altra cosa<br />

è il fatto che non è possibile, col mio braccio, toccare la luna con un dito: la prima è una<br />

effettiva limitazione della libertà, la seconda no. Ma chi dicesse che solo la libertà interiore,<br />

18


solo la “libertà di spirito” è vera libertà, mentre la libertà esteriore e fisica è solo una<br />

aggiunta superflua, falserebbe in modo grave i risultati dell’esperienza: “che la libertà dello<br />

spirito non possa venir costretta da una forza fisica, è ben vero; ma solo fino ad un certo<br />

punto”; la coazione fisica condiziona la stessa libertà di spirito, la quale “non è affatto<br />

soppressa, ma subisce una specie di deformazione violenta che la piega e la forza in un<br />

senso che non sarebbe stato, senza di essa, liberamente adottato” (L 299). Si pensi –<br />

ammonisce Martinetti – al modo indiretto con cui il potere dispotico riesce ad ammorbidire,<br />

con le lusinghe e la corruzione, gli animi dei sottoposti, ben al di là della semplice<br />

coercizione fisica: “la semplice possibilità di questa costringe le volontà riluttanti e crea<br />

poco per volta una disposizione paurosa degli animi che a lungo andare si traduce in un<br />

abito servile e cancella anche le ultime tracce di resistenza interiore. Potremmo dire in<br />

questo caso che la violenza esteriore non possa nulla sulla libertà interiore?” (L 299).<br />

La polemica di Martinetti contro una forma falsa di spiritualismo, lo conduce ad<br />

affermare una versione forte e assai concreta di PERSONALISMO: la libertà – scrive – “non è<br />

una proprietà dell’anima, anzi d’una facoltà dell’anima – la volontà – ma è una<br />

disposizione, uno stato di tutta la personalità” (L 299). La polemica si indirizza qui verso la<br />

descrizione psicologica comune dell’atto volontario, soprattutto quando essa si basa sui<br />

presupposti dogmatici di una psicologia associazionista. L’io appare qui come un fascio di<br />

rappresentazioni (l’io “variopinto” di cui parla Kant nella Critica della ragione pura,<br />

alludendo al modo passivo con cui l’io empirico è affetto dalle rappresentazioni esterne e<br />

da quelle interne, attraverso le forme dello spazio e del tempo), che solo la memoria<br />

temporale consente di proiettare dal passato verso l’avvenire, consentendo la previsione<br />

degli stati futuri e quindi la scelta conseguente operata dal soggetto, in presenza di stimoli<br />

e motivi alternativi. Si tratta – precisa Martinetti – di una ricostruzione astratta della<br />

concreta vita di coscienza, che non è mai una somma aritmetica di stati, ma il prodotto<br />

complesso di una sintesi formale superiore, di carattere olistico: “l’essere nostro non è un<br />

punto semplice di coscienza, ma un sistema, un’unificazione che si svolge e si trasforma<br />

nel tempo” (L 301). Si può quasi paragonare la coscienza (microcosmo) al sistema<br />

planetario (macrocosmo):<br />

Questo sistema, è costituito da attività che vengono successivamente attratte nell’orbita del sistema,<br />

assimilate, unificate; dalle energie degli alimenti, che l’uomo ingerisce, alle idee che un’accidentale lettura<br />

insinua nel mio spirito, si tratta sempre di elementi che il mio essere attrae nell’orbita della sua attività,<br />

assimila e subordina; essi diventano il mio corpo, il mio modo di sentire, di pensare e di agire. Quando<br />

questa unificazione avviene in modo normale, cosicché le attività inferiori (conscie e subconscie) si<br />

subordinano armonicamente, la vita si svolge come una specie di consenso interiore di tutto l’essere: ogni<br />

parte dell’essere nostro si svolge, nel posto che le è assegnato, spontaneamente, “liberamente”. Nel caso<br />

contrario si ha una resistenza, un urto della o delle nostre volontà dominanti contro le energie inferiori, contro<br />

“necessità” sgradevoli e dolorose, dalle quali ci sentiamo contrariati o dominati. […] La libertà non è dunque<br />

uno stato unico, ma la resultante di molte “libertà”: ogni attività nostra, in quanto non coatta, ha il senso della<br />

sua spontaneità, della sua libertà. […] Questo è il concetto dal quale dobbiamo partire per determinare<br />

anche le forme più alte della libertà umana: come la coscienza e l’intelligenza anche nelle loro esplicazioni<br />

superiori non sono che un potenziamento di quell’attività sintetica medesima che già si esplica nelle più umili<br />

manifestazioni della vita del senso, così anche la libertà morale dell’uomo non è un’apparizione ex novo, una<br />

facoltà senza antecedenti: essa non è diversa che per grado dalla spontaneità che si manifesta nelle attività<br />

più semplici degli esseri coscienti (L 301-304).<br />

Soffermiamoci brevemente su questo passo. La vita della coscienza è qui paragonata al<br />

cosmo fisico, ad un sistema complesso ma regolato di rapporti. L’unità dell’io (o meglio di<br />

ciò che Martinetti chiama “spirito”) non è un’unità sostanziale (come nella tradizionale<br />

nozione di anima), ma funzionale: un’unità che si afferma attraverso la capacità del<br />

“sistema” psichico di funzionare e di interagire in modo unitario rispetto al proprio<br />

ambiente. Tra le varie tendenze e attività che costituiscono la coscienza non vi è una<br />

19


gerarchia fissa, ma mobile, a seconda di quale sia la tendenza (affettiva, volitiva o<br />

rappresentativa) di volta in volta dominante. Martinetti parla qui (come altrove) di attività<br />

“inferiori” e “superiori”, ma non si deve pensare a una gerarchizzazione di tipo dualistico<br />

(come nella tradizione cartesiana, che separa nell’uomo e gerarchizza res cogitans e res<br />

extensa, anima e corpo). Infatti Martinetti paragona il processo dell’assimilazione degli<br />

alimenti a quello della assimilazione mentale delle idee, proprio per sottolineare che, da un<br />

punto di vista funzionale, non è possibile separare in modo netto e assoluto ciò che<br />

compete al “corpo” e ciò che compete all’“anima”. Naturalmente, anch’egli parla di attività<br />

“inferiori” e “superiori”, ma non intende riferire tale distinzione al rapporto tra lo strato<br />

somatico e quello psichico e spirituale, che vanno presi nella loro unità funzionale<br />

d’insieme. Il contrasto tra le particolari tendenze (ad esempio ho fame, ma devo aspettare<br />

di mettermi a tavola, finché non ho finito un lavoro) è avvertito dalla coscienza come una<br />

limitazione della propria spontaneità, ma tale contrasto si risolve sempre, nel momento in<br />

cui la tendenza dominante diventa quella volontaria, e ciò è avvertito dall’io come un atto<br />

di affermazione, come un atto di libertà: “l’io del momento – scrive Martinetti – appare<br />

sempre come supremamente e indiscutibilmente libero e nel giudizio complessivo,<br />

neglette le piccole variazioni involontarie, noi consideriamo come interiormente libero ogni<br />

essere la cui vita si svolge secondo una spontaneità uguale e coerente a se stessa”<br />

(L 303). La cosa essenziale è concepire la libertà non come uno stato, ma come un<br />

risultato, a cui concorrono molti fattori. Così si conciliano libertà da e libertà di: per attuarsi,<br />

lo spirito ha bisogno di emergere o di elevarsi al di sopra dei propri condizionamenti fisici,<br />

biologici, economici, ecc., che ne costituiscono la “base” necessaria o la “preparazione”<br />

(termine prediletto da Martinetti) necessaria. Ciò corrisponde al momento della “libertà da”.<br />

Ma tale liberazione (che rende sempre qualcosa di relativo, in fieri, la libertà) è anche<br />

affermazione positiva dello spirito: atto, forma, sintesi (una terminologia equivalente in<br />

Martinetti) che si estrinseca in un “potenziamento” o in una “espansione” dell’io. Ciò<br />

corrisponde al momento della “libertà di”. Non si tratta in realtà di momenti distinti, ma di<br />

un’unità dinamica, che si può esprimere con una analogia musicale: quella del ritmo della<br />

vita spirituale, concepita come una continua ripresa del proprio tendere in avanti (Bergson<br />

parlerebbe qui volentieri di élan vital), che non assume tanto un andamento spaziale, ma<br />

temporale; non è una somma aritmetica di posizioni successive, ma una durata continua,<br />

fatta di pulsazioni, di intensificazione e di rallentamento, di alti e bassi, dominata tuttavia<br />

da un’armonia di fondo.<br />

Nel finale del capitolo nono Martinetti collega questa discussione a quella svolta nel<br />

capitolo ottavo, ribadendo il concetto di libertà come spontaneità o libera necessitas.<br />

Come scrive Spinoza in un celebre passo: libertas agendi necessitatem non tollit, sed<br />

ponit (la libertà d’agire non sopprime la necessità, ma la suppone). Il farsi concreto della<br />

persona è appunto la conciliazione di causalità e spontaneità, determinismo e libertà: “ogni<br />

concatenazione necessaria costituita dallo svolgimento spontaneo d’un essere cosciente<br />

apprende se stessa come spontaneità, come libertà” (L 307). Spinoza parlava della pietra<br />

scagliata dalla mano che, se fosse dotata di coscienza, percepirebbe il proprio moto<br />

(violento, e dunque necessario) come libero e spontaneo. Anche Martinetti ricorre alla<br />

metafora della “caduta libera dei corpi”, ma trova espressioni figurali e simboliche della<br />

libertà a mio parere più felici quando si indirizza piuttosto alla vita vegetale e animale. E’<br />

proprio il movimento aggraziato degli animali non umani, oppure lo sbocciare (talvolta<br />

inatteso) dei fiori a suggerire una immagine intuitiva della libertà: di qualcosa cioè che è<br />

possibile cogliere e giudicare da due punti di vista, uno esterno, che ce la fa apparire<br />

come causalità necessaria, e uno interno, che ce la fa cogliere immediatamente come<br />

spontaneità libera. La vita non è un vuoto, ma un plenum di essere e di agire: un sistema<br />

complesso, di cui occorre saper cogliere la risultante d’insieme. Così “la legge di un’attività<br />

20


spontanea, che è libertà per essa, è per un’altra attività spontanea necessità coattiva,<br />

assenza di libertà” (L 307). E’, se si vuole, la dura legge dell’adattamento all’ambiente o (in<br />

linguaggio darwiniano) della lotta per la sopravvivenza. Ogni specie vivente contende alle<br />

altre uno spazio limitato, sopprimendone la possibilità di autonoma espansione, dunque la<br />

libertà. E tuttavia ogni subordinazione della spontaneità altrui alla propria (che è la legge<br />

dell’organismo vivente) fa rivivere ed esprime in forma potenziata la libertà inferiore (ora<br />

riconosciuta come necessità) in quella superiore. La vita (diceva Schopenhauer) tende<br />

sempre in avanti: è distruzione, ma distruzione creatrice. Voler arrestare la coscienza a<br />

uno stadio (per quanto bello e perfetto) del suo divenire, sarebbe come voler trattenere e<br />

conservare gli escrementi, dopo che ce ne siamo nutriti. In termini analoghi, Martinetti<br />

scrive: “la libertà non è una facoltà, un ambito, una potenza, ma è la manifestazione<br />

stessa della vita spirituale in ciò che ha di originario e di essenziale: la sola e vera libertà è<br />

la libertà attuale, per cui lo spirito in ogni momento crea, dagli elementi in cui si è fissata e<br />

determinata la sua vita, un’unità superiore e vivente, in cui si esprime più adeguatamente<br />

la sua verità” (L 307). La persona è il centro intorno a cui questo infinito e molteplice<br />

tendere istintivo trova non tanto una meta teleologicamente prefissata (sarebbe ingenuo<br />

antropomorfismo ritenerlo), ma un punto di possibile illuminazione, di direzione, in quanto<br />

essa si incardina non tanto nella vita istintiva, ma in quella razionale. La RAGIONE è come un<br />

faro che illumina e squarcia le tenebre del divenire cosmico-naturale, lasciando<br />

intravedere uno strato di senso, uno spazio di libertà, per la libera attuazione dell’umano,<br />

con la sfera connessa dei valori. Quella della vita umana è “una libera costruzione”; ogni<br />

“progresso”, in essa, può essere affermato solo come attraversamento e superamento<br />

delle “necessità” inferiori e condizionanti. Martinetti preferisce parlare, anziché di<br />

progresso (un termine caro all’evoluzionismo positivista) di ascensione umana, il che è in<br />

fondo equivalente:<br />

Di mano in mano che la vita interiore si complica e si eleva, la volontà che la dirige subordina a sé un<br />

numero maggiore di volontà inferiori, di spontaneità le quali appariscono rispetto ad essa come necessità<br />

d’una natura inferiore. Vi è soprattutto un momento, in questa ascensione, che segna un passo decisivo:<br />

quello in cui la spontaneità diventa spontaneità razionale, libertà nel senso vero e proprio della parola. Di<br />

fronte ad essa ogni altra spontaneità appare come una necessità di natura: il senso di libertà, di dominio di<br />

sé, che anche in queste spontaneità inferiori si manifesta, è respinto come un’illusione. Anche queste<br />

tuttavia sono una vera e propria libertà; che conserva la sua beatitudine anche quando l’uomo ha<br />

conquistato la libertà della ragione. Ma il progresso della vita interiore è anche una continua negazione: ogni<br />

grado superiore della vita tende a subordinare a sé i gradi inferiori e infine a negarli. Perciò non dobbiamo<br />

meravigliarci se la libertà morale, una volta sorta, tende a rigettare come necessità inferiori l’insieme delle<br />

umili spontaneità del senso e così misconoscendo la necessità propria, introduce un’apparente opposizione<br />

assoluta fra libertà e necessità, che è invece soltanto un’opposizione di grado fra libertà e libertà, o, ciò che<br />

è lo stesso, fra necessità e necessità (L 308).<br />

Questo concetto di ragione, con cui viene fatto coincidere grosso modo quello di persona,<br />

verrà meglio chiarito dall’autore nel seguito dell’opera, che finirà per avvalorare l’idea che<br />

il fondamento ultimo della libertà sia in una forma di determinismo: non naturalistico, bensì<br />

razionale (o, per meglio dire, spirituale).<br />

21


3. CHE COS’E’ LA VOLONTA’?<br />

Nella precedente lezione si è affacciato il concetto di fondo che sottende la trattazione<br />

martinettiana del problema della libertà: non si può parlare isolatamente della libertà, come<br />

della proprietà specifica ed esclusiva dei singoli atti (quelli che si definiscono, appunto,<br />

“volontari”), ma solo riferendola in modo olistico a quell’insieme totale di azioni,<br />

disposizioni, sentimenti, tendenze, che costituiscono la personalità individuale. Il capitolo X<br />

è interamente dedicato all’approfondimento dell’aspetto psicologico del fenomeno della<br />

VOLONTÀ. La trattazione è sommaria, e non priva di difficoltà. Ciò dipende in larga misura<br />

dal fatto che del problema si è già ampiamente trattato nella parte storica del libro, in<br />

riferimento alle trattazioni classiche dell’argomento, e dalla volontà dell’autore di non<br />

cadere in “ripetizioni” che rischierebbero di distrarre l’attenzione del lettore dalla<br />

progressione sintetica del suo argomentare. Ciò non toglie che la lettura di queste pagine<br />

sia particolarmente impegnativa e lasci una certa insoddisfazione (il dubbio di non aver<br />

compreso bene o di non aver compreso tutto) nel lettore. A ciò dobbiamo in parte<br />

rassegnarci, cercando di rilevare almeno il filo generale del discorso. Chi volesse<br />

approfondire la trattazione psicologica del problema della volontà, potrebbe riferirsi a due<br />

successivi articoli di Martinetti, apparsi sulla “Rivista di filosofia” negli anni 1942-1944: La<br />

volontà (RF, XXXIII, 1942, pp. 77-95) e L’educazione della volontà (RF, XXXIV, 1943, pp.<br />

9-54; XXXV, 1944, pp. 1-46). Si tratta dei frammenti di un’opera lasciata incompiuta<br />

dall’autore e che opportunamente verranno riproposti da Pareyson in versione unitaria,<br />

nel volume postumo: Saggi filosofici e religiosi, La Bottega di Erasmo, Torino, 1972.<br />

La ricerca di Martinetti va – come sappiamo – nella direzione di una conciliazione<br />

dell’antitesi astratta di determinismo e indeterminismo, nella costruzione (in questa<br />

prospettiva) di una teoria sintetica della volontà, che l’autore ha per altro lasciata solo in<br />

abbozzo. Il primo passo in questa direzione è stata la confutazione del determinismo<br />

naturalistico (cap. III). Importante è anche la critica che in questo ulteriore capitolo<br />

Martinetti rivolge alla teoria di Alexander Bain (1818-1903), della derivazione dei<br />

movimenti volontari da quelli spontanei e irriflessi dell’organismo, sulla base della<br />

funzione selettiva dei sentimenti di piacere e dolore. Seguace del positivismo spenceriano,<br />

del quale non condivideva per altro la tendenza materialistica, e dell’associazionismo<br />

psicologico di Mill, Bain intese rinnovare la psicologia della tradizione empiristica inglese<br />

col metodo sperimentale, ponendola in stretta dipendenza dalla fisiologia. Sostenne la<br />

teoria del PARALLELISMO PSICO-FISICO, che considera la serie dei fenomeni psichici e quella dei<br />

fenomeni fisici come manifestazioni, su due piani diversi, di una stessa realtà, a base<br />

organica. Tuttavia (e a questo riguardo si appunta la critica di Martinetti) il principio<br />

esplicativo di fondo rimane quello meccanico, secondo il quale “il movimento precede la<br />

sensazione”: da questa attività spontanea primitiva deriverebbe “la volontà riflessa col<br />

sussidio di due altri fattori: la legge della conservazione e la legge di associazione”<br />

(L 311). L’evoluzione degli organismi ha fissato cioè nel sistema nervoso quelle<br />

connessioni che si sono rivelate più favorevoli all’espansione dell’attività fisica, il cui<br />

corrispettivo psicologico è rappresentato dalla sensazione di piacere, inibendo nel<br />

contempo le reazioni opposte, cui si collega una sensazione di dolore. Bain fa l’esempio<br />

classico della scottatura casuale e della conseguente sensazione di dolore, provocata<br />

dalla bruciatura di un membro corporeo (ad esempio la mano, avvicinatasi troppo al fuoco,<br />

o che abbia inavvertitamente afferrato un oggetto arroventato). Il movimento (dapprima<br />

irriflesso e casuale) che allontana la mano dalla sorgente di calore produce una<br />

sensazione di alleviamento del dolore, che l’organismo recepisce come piacevole, e che<br />

tenderà a iterare, in circostanze analoghe. In virtù del meccanismo associativo, che<br />

paragona la visione della fiamma alla sensazione dolorosa provata in passato, l’animale<br />

22


(come il bambino) apprende naturalmente ad adottare quelle condotte utili alla<br />

sopravvivenza, senza dover necessariamente ripetere l’esperienza dolorosa. Lo stesso si<br />

dica per le opposte esperienze piacevoli e gratificanti (associate ad esempio alla<br />

ingestione del cibo).<br />

A questo tipo di spiegazione meccanica, Martinetti non si limita ad opporre la<br />

generale accusa di “naturalismo”, in base ad argomenti di tipo generalmente metafisico: la<br />

irriducibilità dello spirito alla materia, della finalità alla causalità meccanica, ecc. (come<br />

avveniva in modo prevalente nei capitoli storico-filosofici). Egli adotta piuttosto una linea di<br />

confronto che muove dall’interno della tradizione scientifica contemporanea, e che ha in<br />

Wilhelm Wundt (1832-1920) l’esponente di spicco di una PSICOLOGIA SPERIMENTALE, che ha<br />

saputo tuttavia staccarsi dai presupposti impliciti di una metafisica empirica ingenua, come<br />

quella dell’associazionismo e del positivismo evoluzionistico. L’empirismo non si avvede di<br />

presupporre, senza volerlo, le funzioni stesse della coscienza, che pretenderebbe di<br />

ricavare in base al puro meccanismo associazionistico. Secondo il resoconto empirista di<br />

Bain, la coscienza scoprirebbe “che alcuni movimenti riflessi ed automatici sono utili a certi<br />

fini: e così poco per volta “ sarebbe indotta a “produrli volontariamente”, imparando con ciò<br />

a volere (L 313). Ma il concetto di “utilità” ha una evidente origine metafisica: come<br />

potrebbe, la volontà, giudicare come utili certi movimenti, certe reazioni organiche, se non<br />

fosse in grado di influenzarli e dirigerli fin dall’inizio? O si riconosce una teleologia alla<br />

base del movimento organico (non necessariamente una “volontà” nel senso di una<br />

capacità sviluppata e distinta da altre facoltà, ma un nisus, uno sforzo o un conato<br />

originario dell’organico e del vivente, in ciò diverso dall’inorganico), oppure non si potrà<br />

mai derivarlo come risultato casuale ed imprevisto del semplice movimento meccanico. Al<br />

contrario, gli stessi movimenti spontanei e riflessi dell’organismo sono spiegabili, come<br />

risultato di tendenze, volontà inferiori, consolidatesi nel tempo in altrettante “abitudini<br />

organiche scese sotto il livello della coscienza” (ibid.). Va dunque respinta ogni teoria<br />

“eterogenetica” della volontà, che non la riconosca, cioè “come un’attività originaria della<br />

coscienza” (teoria autogenetica). Tuttavia, anche la teoria “autogenetica”, che considera la<br />

volontà come forma evoluta di una attività elementare della stessa natura e qualità, non è<br />

esente da difetti, se cade nell’errore di ipostatizzare l’insieme degli atti volontari in una<br />

facoltà inesistente.<br />

La psicologia di Wundt ha spiegato l’origine dell’equivoco in cui cade la psicologia<br />

positivista, in conseguenza del privilegiamento della RAPPRESENTAZIONE come modello<br />

esclusivo del “fatto di coscienza”:<br />

La nostra concezione dei fatti interiori è falsata dalla interposizione di concetti e di analogie derivati dal<br />

mondo della rappresentazione esteriore. Noi costruiamo il mondo degli oggetti con le nostre<br />

rappresentazioni, facendo astrazione dai sentimenti e dal volere: e crediamo poi di poter fare la stessa cosa<br />

quando consideriamo le rappresentazioni come rappresentazioni. Così si trasformano le astrazioni dei<br />

diversi aspetti del fatto interno in diverse categorie di fatti: e si considerano le rappresentazioni come distinte<br />

dai sentimenti e dalle volizioni per quanto con essi in rapporto di azione reciproca. Tutte queste finzioni<br />

scompariscono quando ci accingiamo a rappresentarci il mondo interiore così com’è: allora rappresentazioni,<br />

sentimenti e volizioni ci appariscono come componenti o momenti omogenei di un unico divenire interiore; i<br />

quali non sono mai manifestazioni di una facoltà o di una forza, ma sono sempre soltanto rappresentazioni,<br />

sentimenti, volizioni singole, anzi fatti singoli, nei quali abbiamo ad un tempo un contenuto ossia un aspetto<br />

rappresentativo ed un’attività, ossia un aspetto sentimentale-volitivo (L 315).<br />

Gli atti volontari non sono isolabili dal complesso dell’attività della coscienza, la quale è<br />

inseparabilmente conoscenza, volontà e sentimento. Volontà e sentimento sono i due<br />

momenti (il secondo costituisce la semplice consapevolezza del primo) dell’aspetto attivo<br />

dei nostri atti psichici; l’altro aspetto è quello conoscitivo. La volontà “è una formazione<br />

23


estremamente complessa di elementi sentimentali”, essa non è “un elemento semplice<br />

della coscienza” (L 316). Uno schema può aiutare a intendere questi rapporti primitivi:<br />

coscienza (insieme degli atti o dei vissuti)<br />

noesis pathos/pragma<br />

sensazioni, percezioni, giudizi sentimenti volizioni<br />

Commentiamo lo schema: 1) la psicologia sperimentale ha consentito di superare la<br />

tradizionale teoria delle “facoltà” dell’anima, avvicinandosi a una comprensione<br />

immanente, di tipo “descrittivo” anziché “metafisico”, degli ATTI PSICHICI (la cui caratteristica<br />

distintiva è quella della consapevolezza, ossia della coscienza, in contrapposizione al<br />

carattere inconscio dei processi che riferiamo al sostrato somatico che fa da sostegno alla<br />

psiche). Sono venute così cadendo – relativamente al prevalente aspetto conoscitivo o<br />

“noetico” della coscienza – le ipostatizzazioni di una facoltà sensibile, distinta dalle singole<br />

sensazioni (studiate con una rigorosa strumentazione sperimentale e dunque tradotte in<br />

termini operativi): “le astrazioni di una “sensibilità” distinta dalle sensazioni, d’un senso<br />

della vista distinto dalle sensazioni visive e simili sono state facilmente eliminate: così<br />

quella di una facoltà di sentire altra dai singoli sentimenti” (L 314). Più persistente è<br />

risultata invece la finzione di una facoltà distinta della volontà: “perché in essa si è<br />

concentrato l’aspetto attivo dei fenomeni di coscienza facendo astrazione dal loro<br />

contenuto e così creando fin dal primo momento un’astrazione, una specie di potenza<br />

generica i cui atti sarebbero le cosiddette volizioni” (ibid.). Contro questa ipostatizzazione<br />

metafisica (quasi fosse possibile volere in astratto, senza volere questo o quello) vale<br />

l’avvertimento nominalistico di Spinoza: “l’intelletto e la volontà stanno a questa o a quella<br />

idea, o a questa o quella volizione, come la “petrosità” sta a questa o a quella pietra, o<br />

come l’uomo sta a Pietro e a Paolo” (Eth. II, 48 schol.).<br />

2) La tripartizione kantiana di una facoltà rappresentativa, in cui far rientrare tutti i<br />

fenomeni psichici che hanno un significato teoretico, e di una facoltà desiderativa, in cui<br />

far rientrare tutti i fenomeni psichici che hanno un significato pratico, raccordate dalla<br />

facoltà mediatrice del sentimento di piacere o dispiacere, ossia del giudizio, è superata<br />

dalla psicologia contemporanea, di cui Martinetti individua in Wundt e in Franz Brentano<br />

(1838-1917) i due esponenti maggiori, mediante il recupero di una posizione che<br />

potremmo definire “neoaristotelica”: basata sul riconoscimento del primato fenomenologico<br />

dell’atto (energheia) sulla potenza (dynamis) e sulla distinzione (ormai solo funzionale) di<br />

“forma” e “contenuto”. “Non vi è, psicologicamente parlando, – sottolinea Martinetti – una<br />

coscienza dell’attività che sia come un terzo aspetto psichico dei nostri atti, specificamente<br />

distinto dalla conoscenza e dal sentimento: volontà e sentimento non sono che due<br />

momenti diversi dell’aspetto attivo della coscienza. Su questo punto Franz Brentano e<br />

Wilhelm Wundt mi sembrano avere felicemente, contro l’opinione dominante, restaurato<br />

l’opinione tradizionale da Aristotele a Wolff” (L 315). La psiche umana non va concepita<br />

come un insieme di “fatti” elementari, modellati sul paradigma oggettuale della<br />

rappresentazione. Tale modello atomistico è derivato da un privilegiamento illegittimo<br />

(come ha notato Wundt) della sensazione, come fatto semplice e originario (in base al<br />

pregiudizio empiristico) della coscienza. Ogni atto psichico, ogni vissuto psicologico<br />

concreto (Erlebnis) è viceversa un fenomeno irriducibile e complesso, in cui si fondono<br />

l’aspetto noetico (conoscitivo), quello patico (sentimentale), quello pragmatico (volitivo).<br />

Concetti come quello di “rappresentazione” o di “volizione” non individuano fatti semplici e<br />

24


originari, ma sono il frutto di un atteggiamento metodico, il risultato di una astrazione<br />

scientifica: “nella considerazione psicologica – scrive Martinetti – noi facciamo astrazione<br />

dall’aspetto che non ci interessa; così studiamo il mondo delle conoscenze facendo<br />

astrazione dal lato sentimentale-attivo e studiamo i sentimenti e i desideri facendo<br />

astrazione dal lato conoscitivo che li condiziona” (L 314).<br />

3) Facciamo un esempio: la visione del quadro di Van Gogh “I girasoli”, il famoso<br />

“giallo” prediletto dal pittore olandese. Possiamo analizzare le proprietà ottiche di quel<br />

colore così unico (mediante la visione diretta, l’uso di buone riproduzioni, il confronto con<br />

tonalità cromatiche usate da Van Gogh in altri quadri o con quelle di quadri altrettanto<br />

famosi di altri pittori: come la “Ronda di notte” di Rembrandt, ecc.). Possiamo anche<br />

utilizzare strumentazioni scientifiche più sofisticate (come fanno i restauratori),<br />

analizzando la composizione chimica di quel colore, le sue proprietà fisiche, ecc. Alla fine<br />

potremo dire di sapere che cos’è il giallo Van Gogh, da un punto di vista esclusivamente<br />

conoscitivo-teoretico. Ma è evidente che il vissuto psicologico di quell’atto di visione non è<br />

esaurito da una simile conoscenza. Già dal punto di vista della considerazione estetica (un<br />

aspetto rilevante della conoscenza, ma distinto da quello specificamente teoretico), la<br />

sensazione del “giallo” non è la semplice visione in astratto di un colore, ma la percezione<br />

di un insieme complesso di rapporti (tonalità, contrasti di luce, forme, ecc.) che hanno più<br />

un rimando qualitativo che non meramente quantitativo. In ogni caso, per limitarsi a<br />

“conoscere” il contenuto rappresentativo offerto da quell’atto di visione, dobbiamo per così<br />

dire “neutralizzarlo”: fare cioè completa astrazione da tutto ciò che lo integra nella<br />

concretezza del vissuto psicologico: “sto contemplando “I girasoli” di Van Gogh”. Anzitutto<br />

il sentimento vivo che quel “giallo” suscita in me: un sentimento inconfondibile, che implica<br />

“partecipazione” emotiva, suscita “immedesimazione” oppure “repulsione” (persone<br />

rilassate possono esserne attratte, persone eccitate o psicolabili possono esserne turbate,<br />

fino al punto di dover distoglierne lo sguardo). Anche ponendoci nell’atteggiamento della<br />

contemplazione puramente estetica (kantianamente: un piacere disinteressato), e dunque<br />

astraendo dalla dimensione pragmatica (utilitaria o edonistica) della visione (lo sguardo del<br />

critico d’arte o dell’amante della pittura di Van Gogh è evidentemente diverso da quello del<br />

turista che passa distrattamente o si sofferma su aspetti solo contenutistici del quadro),<br />

dobbiamo qui riferirci al valore sentimentale di quel giallo, più che alle sue caratteristiche<br />

ottiche o sensibili (dirò ad esempio: “mi piace di più il giallo dei quadri di Van Gogh, che<br />

non il blu”). Ma se non vogliamo limitarci a guardare il quadro, ma cerchiamo di intenderlo<br />

veramente per quello che è, ossia un’opera d’arte, dobbiamo andare oltre: sforzarci di<br />

guardarlo, per così dire, con gli occhi stessi di Van Gogh, ricrearlo con la nostra mente,<br />

riviverlo esteticamente, ma anche “moralmente” (non nel significato di una considerazione<br />

moralistica dell’opera, ma in quello, crociano, di arrivare a concepire l’opera d’arte interna,<br />

il modello archetipico dell’artista-creatore, anziché limitarci all’opera d’arte esterna, alla<br />

mera delibazione contemplativo-edonistica della tecnica artistica, del materiale, ecc.).<br />

Dobbiamo, per così dire, “entrare nella tela”, muoverci in essa, come seguendo i<br />

movimenti tracciati dal pennello di Van Gogh (una cosa che il grande regista giapponese<br />

Kurosawa è riuscito persino a rappresentare, in uno dei suoi film più straordinari: Sogni).<br />

Solo a quel punto potremo dire di “vedere” il giallo, come lo vedeva Van Gogh: ma allora il<br />

sentimento acquisterà una violenza, il colore toccherà una incandescenza, che solo<br />

l’azione di dipingere quel quadro ha motivato. Quello che per noi è “un colore fantastico”,<br />

per Van Gogh è stato un’azione singolare, di valore morale prima che estetico (non solo<br />

un atto “terapeutico”, per sopportare la malattia psichica, allontanando di qualche mese il<br />

suicidio, ma un gesto creatore, individuale e universale insieme, che ci consente di dire,<br />

ad esempio: “amo il giallo dei Girasoli”, “solo dopo che ho visto “i Girasoli” di Van Gogh,<br />

amo quei fiori, quando li vedo in un campo, o in un vaso”, ecc.).<br />

25


Traiamo una conclusione da questo esempio. Per tematizzare il lato NOETICO degli<br />

atti psichici o dei vissuti (Erlebnisse) di coscienza debbo astrarre dalla componente paticopragmatica<br />

che vi è strettamente intrecciata. Analogamente, per tematizzare questo<br />

diverso aspetto, e dunque per approdare a una teoria della VOLONTA’, che non discenda da<br />

una visione metafisica presupposta, ma rimanga fedele alle risultanze fenomenologicodescrittive<br />

dalla vita di coscienza, dovrò astrarre dal lato teoretico-conoscitivo (il che risulta<br />

ovviamente più difficile, trattandosi in ogni caso di pervenire a una conoscenza scientifica<br />

dell’oggetto indagato). La novità maggiore, che emerge da questa più aderente visione dei<br />

vissuti psicologici patici-pragmatici, è l’intima compenetrazione (sino alla identificazione) di<br />

sentimento propriamente detto (l’aspetto tendenzialmente passivo) e volontà (l’aspetto<br />

tendenzialmente attivo):<br />

La distinzione fra sentimento e volontà riflette solo le circostanze estrinseche, non la natura di questa<br />

attività: l’origine sua va cercata nel fatto che la personalità nostra è un sistema organico di attività, nel quale<br />

la vita e l’attività cosciente sono sovrapposte ad un’organizzazione di tendenze e di attività inferiori<br />

meccanizzate che noi apprendiamo dall’esterno, coi sensi, come il nostro corpo (L 316).<br />

Martinetti fa l’esempio della collera (un esempio che fa da contraltare a quello, altrettanto<br />

paradigmatico in una opposta visione meccanicista, della “scottatura”): l’improvviso<br />

“arrossire” del mio volto, oppure il gesto iroso con cui “scaglio l’oggetto al suolo”, se sono<br />

in preda alla collera, non sono due distinti vissuti psicologici (il primo che corrisponderebbe<br />

al “sentimento” della collera, il secondo all’“atto volontario” in cui essa si traduce), bensì un<br />

unico e identico vissuto, percepito a due stadi di “profondità”. Sempre l’emozione o il<br />

sentimento contiene in sé un elemento attivo. Come Spinoza (che definiva gli affetti le idee<br />

stesse della mente, nel loro lato attivo, ossia nella loro tendenza a realizzarsi) aveva colto<br />

con acume, il volere è veramente tale solo quando, come risultante complessa di<br />

molteplici elementi sentimentali, sedimentatisi nell’individuo, si traduce in azione. In ogni<br />

sentimento è già implicita una tendenza volitiva: “i sentimenti sono soltanto atti di volere<br />

arrestati nel loro sviluppo: gli atti di volere sono sentimenti che possono seguire<br />

liberamente il loro corso e mettere in moto le attività meccaniche e fisiologiche<br />

dell’organismo” (L 318-319). Quando l’azione è meno pronunciata e si contiene nei limiti di<br />

una modificazione organica, parliamo di sentimento o di emozione (arrossisco, oppure<br />

fremo). Quando essa penetra, per così dire, più in profondità negli strati della psiche,<br />

determinando un sommovimento corporeo più radicale (agendo cioè sulle più antiche<br />

sedimentazioni del sentimento, meccanizzate nell’organismo), parliamo di atto volontario o<br />

impulsivo (scaglio a terra l’oggetto, per esprimere la mia collera).<br />

Va dunque abbandonata la finzione di una facoltà separata, sempre uguale a se<br />

stessa (la volontà), la quale necessiti, per determinarsi ad agire, di una causa impulsiva<br />

(sia essa esterna = percezione, oppure interna = sentimento). Lo stesso concepire i<br />

moventi sentimentali dell’agire come sue cause, è il riflesso di quella attitudine<br />

oggettivante già in precedenza criticata: “quando diciamo un sentimento causa di un atto<br />

del volere, consideriamo soltanto lo stesso atto sotto due punti di vista diversi” (L<br />

319). Là dove la vecchia psicologia (dietro cui si celava una teoria metafisica delle facoltà)<br />

poneva una differenza assoluta ed un nesso di causa ed effetto, la nuova psicologia coglie<br />

una semplice graduazione fenomenologica di stati interconnessi. Partiamo anzitutto dal<br />

DESIDERIO, in quanto distinto dall’atto di volontà: il primo non è un antecedente causale del<br />

secondo, ma lo stadio iniziale, incoativo, di un unico processo, che tende di per sé alla<br />

propria attuazione. Ciò che chiamiamo desiderio (una volontà non ancora realizzata, una<br />

mera velleità) è “il tendere singolo ancora isolato”, il “movimento interiore del sentimento<br />

che sarebbe per sé attivo, ma non può passare all’azione perché è contrariato da altre<br />

26


tendenze” (L 317). La VOLONTA’ è invece “un tendere formatosi in dipendenza da tutti gli<br />

elementi attivi della nostra personalità, una risultante complessa e definitiva” (ibid.).<br />

Martinetti fa l’esempio della volizione del futuro: posso desiderare di compiere domani una<br />

certa azione, ma posso volerlo solo quando essa si integra completamente in un piano di<br />

azione, che la rende razionalmente prevedibile. Non è il fatto di realizzarsi o meno della<br />

possibilità futura, che fa la differenza tra volizione autentica e mera velleità o desiderio, ma<br />

il fatto di collocarsi o meno in una descrizione dell’insieme dei miei atti (presenti e passati)<br />

coerente. Così, se affermo: “domani voglio continuare quel tale lavoro”, questo è un buon<br />

esempio di perfetta volizione (se sono uno studente dotato di un minimo di autodisciplina).<br />

Può darsi che domani le circostanze esterne siano sfavorevoli all’attuarsi di tale possibilità,<br />

e che io debba rinviarla di un altro giorno (o più), per fattori indipendenti dalla mia volontà<br />

(un incidente, una malattia, ecc.). Ma con ciò la mia volontà attuale non cessa di essere<br />

“perfetta” (L 318). Essa non diventa un mero desiderio. Lo sarebbe invece se affermassi:<br />

“domani voglio superare il record nazionale di salto in alto”, senza essere un atleta<br />

allenato, ma un semplice dilettante, che esprime una velleità esagerata o si limita a<br />

sognare ad occhi aperti. Conclude sul punto Martinetti:<br />

In un senso effettivamente si può dire il sentimento causa del volere, in quanto i nostri atti di volontà<br />

propriamente detti sono sempre la risultante di innumerevoli tendenze elementari, alle quali non diamo il<br />

nome di volontà perché non si connettono immediatamente con un mutamento della nostra azione esteriore:<br />

queste tendenze sono volontà rimaste allo stato di sentimenti. Di qui si comprende come “un volere<br />

assolutamente privo di sentimento e di passione sia impossibile: anche il volere razionale è un sentimento<br />

calmo, energico, costante” (L 319).<br />

Atto impulsivo (sentimentale o irrazionale) e volizione propriamente detta<br />

(razionale) non sono dunque realtà nettamente separate, ma momenti distinti nel “ritmo”<br />

totale della vita psichica. Più che a una “corrente” (a una successione lineare di atti), la<br />

vita interiore assomiglia ad una “armonia” musicale: “La coscienza ripete nella sua<br />

costituzione il pulsare dell’attenzione; essa ha dei punti salienti, separati da intervalli, in cui<br />

il tono della coscienza è più basso” (L 320). Nella parte finale del capitolo, Martinetti arriva<br />

a proporre uno schema che corrisponde al lato attivo (astraendo dunque da quello noetico<br />

o conoscitivo) della coscienza: non una teoria compiuta della volontà, dunque, ma un<br />

semplice modello, in cui poter inserire il discorso circa il grado maggiore o minore di<br />

libertà riconoscibile negli atti umani. Possiamo tentarne una illustrazione grafica:<br />

a’ a’’ a’’’<br />

∙∙∙∙∙────── ∙ ∙ ∙ ∙ ──────∙∙∙∙∙ <br />

s’ s’’ s’’’<br />

La freccia indica la direzione del tempo (oppure la coscienza). La linea continua<br />

rappresenta la serie infinita degli atti (a’, a’’, a’’’….) volitivi e/o sentimentali. In<br />

corrispondenza di ciascun atto si dispone la serie degli stimoli (esterni e/o interni) che<br />

sono come le “cause occasionali” del divenire spontaneo-attivo della coscienza. Martinetti<br />

osserva che siamo di fronte a una forte semplificazione: la vita cosciente non è mai una<br />

serie lineare, ma la risultante di una complessità di atti (“mentre medito, cammino o scrivo,<br />

compio altri piccoli movimenti e nello stesso tempo sono penetrato da leggere ondate<br />

sentimentali piacevoli o dolorose, che sono anch’esse altrettanti atti”). Il fenomeno che<br />

consente di isolare una linea principale, la nota dominante (per usare un’analogia<br />

musicale) della volontà, è quello dell’ATTENZIONE, in cui si concentra la vita dell’io<br />

autocosciente. L’io non è necessariamente una sostanza (o perlomeno Martinetti lascia<br />

incerta questa possibilità), ma una forma, un principio di unità:<br />

27


La coscienza ha in ogni momento una certa estensione, contiene più atti simultanei, sebbene con diverso<br />

grado di chiarezza e sebbene tutti siano in ogni istante accentrati intorno ad un atto unico nel quale cade il<br />

foco della coscienza: è quell’atto che in quell’istante dice: “io”. Perché da più atti simultanei si abbia<br />

l’aggruppamento in una coscienza e perché la successione degli atti non interrompa l’unità della coscienza,<br />

è questione che può qui essere passata sotto silenzio. Nessun dubbio ad ogni modo che questa unità non<br />

sia indipendente dagli atti stessi in quanto molteplici: voler derivare l’unità della coscienza è un presupporla.<br />

Sia o non sia il riflesso di un’unità sostanziale, essa si rivela nella molteplicità degli atti come l’unità di una<br />

forma: tutto essa abbraccia e in nessuna parte risiede. L’unità sua trasvola di atto in atto e non si spezza:<br />

come la vita essa assimila continuamente a sé l’eterogeneo, respinge ciò che ad essa rilutta e si perpetua in<br />

una sintesi profondamente complessa che continuamente si riforma (L 320).<br />

Torniamo al nostro schema. Il ritmo dell’attività vitale/cosciente può essere descritto<br />

come “l’accessione di uno stimolo alla unità preesistente” (L 321). Ciò è consentito, ancora<br />

una volta, dal fenomeno dell’attenzione: nell’atto complesso in cui si autodetermina la<br />

volontà, “lo stimolo immediato agisce sempre nella chiara luce della coscienza: ma le<br />

tendenze che con esso si combinano, e spesso con la massima energia o come<br />

cooperanti o come contrastanti, sono invece in generale tendenze fissate ab antico nello<br />

spirito e perciò diventate quasi automatiche e dotate d’un minimo di coscienza” (L 317). La<br />

spiegazione meccanica dell’agire, che lo concepisce come un riflesso condizionato<br />

(s → a) – come nell’esempio proposto da Bain della scottatura – non tiene conto del fatto<br />

che l’attribuzione allo stimolo di una efficienza causale propria e diretta sulla volontà è il<br />

risultato di una astrazione semplificatrice. Ogni nostra volizione è la risultante di una<br />

interazione complessa (che si svolge in prevalenza a livello inconscio) tra più stimoli e tra<br />

questi e le tendenze consolidate del nostro automatismo psichico. Martinetti in realtà non<br />

crede nell’inconscio (in termini freudiani), ma se mai in un pre-conscio, sempre riattivabile<br />

dalla nostra attenzione cosciente: “i sentimenti, le volontà e le attività di ogni genere non<br />

scompaiono tanto presto dalla coscienza: anzi, anche se non più coscienti, non<br />

scompariscono mai” (L 321). Le stesse attività fisiologiche, che sembrerebbero rientrare<br />

completamente nella sfera dell’inconscio, possono in certa misura venire influenzate dalla<br />

coscienza, e come tali (come predisposizioni o tendenze caratteriali) contribuiscono alla<br />

sua attività: “la nostra personalità operante risulta da un complesso di inclinazioni, di<br />

tendenze, di abitudini, in cui si compendia la sua vita anteriore […]. Riassumiamo questo<br />

complesso in un unico fattore costante che sia come l’unità risultante di tutta la nostra<br />

personalità attiva ad un dato momento: ogni atto ulteriore risulta dalla sintesi di questo<br />

fatto costante con un nuovo stimolo” (ibid.). Indicando con la lettera c (costante<br />

caratteriale) tale fattore personale, la formula dell’agire non sarà dunque: (s → a), bensì<br />

(s + c → a).<br />

Come, allora, lo stimolo può avere accesso alla unità complessiva della vita di<br />

coscienza? In quanto modificazione del sentimento, esso è anzitutto forma (è sempre<br />

stimolo interno, anziché esterno): può dunque integrarsi senza difficoltà alla unità formale<br />

preesistente, cui conferisce soltanto una diversa (più attuale, o puntuale) tonalità: “noi<br />

chiamiamo stimolo l’energia sentimentale d’un contenuto qualsiasi, considerata per<br />

astrazione come esteriore alla mia coscienza” (L 321). Il dolore della puntura non è<br />

localizzabile “né nell’ago né negli organi, ma nella mia coscienza: l’azione dolorosa<br />

connessa col suo contenuto rappresentativo e non con la mia coscienza, è il fattore<br />

variabile che costituisce lo stimolo” (L 321-322). Come abbiamo detto, l’atto di coscienza è<br />

l’intreccio di conoscenza, sentimento, volontà. Il contenuto cui si connette l’energia<br />

sentimentale è oggetto di un atto di conoscenza corrispondente: che può essere sia di<br />

natura sensibile (sensazione o percezione), sia di natura concettuale (rappresentazione,<br />

idea, giudizio). A seconda che la nostra risposta conoscitiva allo stimolo (si tratta in realtà<br />

di una “interpretazione”, di una “integrazione”), si avrà una risposta sentimentale/attiva più<br />

o meno forte, più o meno profonda. L’identico stimolo (il dolore della puntura) avrà<br />

ripercussioni diverse nel bambino e nell’adulto, nel pauroso e nello stoico, nell’inesperto e<br />

28


nell’esercitato (si pensi alla forza di volontà, che si manifesta in una particolarissima<br />

vivacità del sentimento dell’onore, nel gesto di Muzio Scevola di lasciarsi bruciare la mano<br />

senza proferire un lamento). Ciò spiega la complessità delle nostre reazioni: talvolta<br />

sopportiamo stoicamente le prove più dure (perché giudichiamo che ciò che ci opprime in<br />

realtà sia nulla), talvolta reagiamo con imprevista irruenza a una debole stimolazione (“il<br />

semplice ricordo di un’offesa può provocare un vivo senso di vergogna o di collera ed<br />

anche una reazione attiva”). In tal caso, si osserva come l’azione (a) non sia mai la<br />

semplice addizione del quantum dello stimolo al quantum del carattere (s + c), ma ne sia il<br />

prodotto (s . c), che dà un risultato tanto più imprevedibile, quanto più in profondità penetra<br />

lo stimolo, muovendo uno strato di sedimenti affettivi più ampio.<br />

Che cosa a che fare questo schema con il problema della libertà? E’ quanto<br />

affrontano i capitoli seguenti, che ne illustrano le diverse forme, integrando via via gli<br />

aspetti contenutistici dell’attività volontaria, con quello formale generale, che si può<br />

denominare come la “spontaneità” o la “impulsività” della coscienza: “ciò che caratterizza<br />

l’atto impulsivo è l’immediatezza dell’azione dello stimolo: l’oggetto presente (come<br />

rappresentazione o come immagine) agisce direttamente e provoca una reazione ben<br />

determinata” (L 322). E, in forma più compiuta:<br />

La nostra vita può essere dominata da fini razionali, ideali o pratici che la orientano in questo o quel senso<br />

ed imprimono a tutte le nostre azioni un particolare indirizzo: ma nei particolari e nelle contingenze<br />

momentanee della piccola vita quotidiana noi ci abbandoniamo spesso all’azione degli impulsi; l’intervento<br />

della riflessione, della ragione, della volontà meditata può essere maggiore o minore secondo il carattere<br />

personale, ma non si estende mai che ad una piccola parte della vita. Noi ci sentiamo nondimeno liberi<br />

anche in questa parte irriflessa della nostra attività: su di essa si fondano anzi nel maggior numero dei casi<br />

quelle piccole gioie quotidiane della vita che pure in essa hanno tanta parte e che aiutano a sopportare il<br />

resto. Questa libertà non è ancora la libertà morale, la libertà umana: è la libertà che ci è comune con tutti gli<br />

esseri coscienti: è quel primo grado universale e semplice della libertà che abbiamo detto libertà di<br />

spontaneità (L 323-324).<br />

Anche a livello di puro sentimento ha senso infatti parlare di libertà. Richiamandosi ancora<br />

una volta a Brentano, Martinetti osserva (L 319) come certi sentimenti – pentimento,<br />

piacere maligno, gioia, tristezza, amore – pur appartenendo al lato “patico” della<br />

coscienza, si producano in noi in modo spontaneo (dunque, in certa misura, come “atti<br />

liberi”), assumendo un preciso rimando al concomitante lato attivo o “pragmatico” del<br />

volere. Il pentimento per un’azione ignobile da noi eventualmente compiuta (avvertito in un<br />

“fremito” delle fibre dell’animo, nel “rimordere” intimo della coscienza, che può arrivare ad<br />

esprimersi nelle pieghe involontarie del volto, in certi casi ad imprimersi nella fisionomia,<br />

associandosi al rossore della vergogna o al pallore terreo dello spavento) non è qualcosa<br />

di diverso dal moto della volontà “riparatrice”, che vorrebbe far sì che l’azione commessa<br />

non fosse più tale, o assumesse un significato diverso per l’insieme della nostra<br />

personalità. Così, il piacere maligno, con cui accogliamo la notizia di un male che sia<br />

capitato al nostro peggior nemico, non è altra cosa dall’intenzione di nuocergli, per<br />

l’interposta azione di un fattore estraneo, indipendente dalla nostra volontà, ma di cui ci<br />

auguriamo quasi di essere gli autori. E si potrebbe continuare. Che tali sentimenti si<br />

traducano o meno in azioni (che passino, dal piano del desiderio a quello della volontà), è<br />

in fondo secondario. In ogni caso, le azioni che riconosciamo come “nostre”, quelle in cui<br />

si traduce l’intera nostra personalità, non possono mai prescinderne. Per questo, non è del<br />

tutto sbagliato avvertire un senso di responsabilità, non solo di fronte alle azioni che<br />

compiamo, ma anche ai sentimenti che proviamo. Di fronte a un identico stimolo (ad<br />

esempio di fronte ad una offesa ricevuta), due individui reagiranno in modo diverso e<br />

personale, a seconda che lo stimolo agisca più in superficie, oppure scenda in profondità,<br />

incontrando le tendenze più stabili del carattere e integrandosi in esse in modo più o meno<br />

naturale e spontaneo. Così, non è da tutti provare la gratitudine (è più comune la reazione<br />

29


egoistica o narcisistica, che ci fa avvertire come qualcosa di “dovuto”, il beneficio o la<br />

gratificazione che riceviamo da un’altra persona). Così come non è da tutti essere<br />

generosi, reagire all’offesa con un moto di spontanea cordialità, capace di trasformare in<br />

amico anche il nemico (come Spinoza raccomanda all’uomo saggio e virtuoso). Di fronte a<br />

tali sentimenti, ci sembra di cogliere in modo intuitivo che essi sono il frutto di un atto di<br />

libertà: ma lo stesso dobbiamo concludere per tutti gli altri moti – anche quelli spontanei e<br />

irriflessi – dell’animo, che sono come il riaffiorare alla coscienza di una forte emozione, un<br />

tempo provata, ed ora latente nelle pieghe dell’animo, pronta ad essere riattivata dallo<br />

stimolo che si presenti improvviso nel “fuoco” (in senso ottico) della attenzione. Per questo<br />

talvolta le nostre stesse reazioni ci sorprendono, ci appaiono come nostre e insieme non<br />

nostre, come volute e insieme non volute: perché nella singola azione non sappiamo<br />

riconoscere la “risultante” di quella che potremmo anche definire la “equazione” della<br />

volontà: (s . c → a) = x . ***<br />

30


ascensione ***<br />

(Lezione 19 aprile 2005)<br />

I capitoli 11-14 delineano quella fenomenologia della libertà, che ha il compito di preparare<br />

la discussione finale sui temi cruciali della responsabilità, del libero arbitrio e della<br />

conciliazione di libertà e determinismo, che prepara all’intenso “epilogo metafisico” finale<br />

del libro (cap. 18). Libertà fisica o di spontaneità, libertà pratica o razionale, libertà morale,<br />

civile, religiosa, sono i “gradi” di uno svolgimento continuo e necessario della personalità<br />

etica dell’uomo, che Martinetti – con un termine che ne tradisce l’ascendenza<br />

“neoplatonica” (nel particolare significato storico precisato dal cap. 6) – chiama<br />

ascensione. Vi dovrebbero essere familiare la terminologia di Plotino: proodos<br />

(processione) ed epistrophé (conversione o ritorno), mediante cui il neoplatonismo<br />

accorda il punto di vista di Platone con quello di Aristotele, il dualismo metafisico del primo<br />

con il pluralismo ilemorfistico del secondo, conciliati in un gradualismo metafisico, che<br />

Martinetti riprende. Proodos è il processo necessario di irradiazione degli esseri dall’unità<br />

originaria, che segue il filo delle tre ipostasi (sostanze) principali: Uno, Intelletto, Anima. Si<br />

tratta di un processo di derivazione logica e insieme ontologica del molteplice dall’unità,<br />

mediante cui l’Uno (coincidente con il divino) non fuoriesce realmente da se stesso e dalla<br />

propria azione immanente (dio come pensiero di pensiero), ma produce come un riflesso<br />

della propria unità e perfezione razionale, nei gradi successivi e discendenti dell’essere<br />

creato. Epistrophé è l’atto (ugualmente necessario) mediante cui ciascuna ipostasi<br />

inferiore, una volta prodottasi per un allontanamento da quella superiore (le metafore<br />

poetiche usate da Plotino sono quelle della cascata d’acqua, che emana dalla sorgente, o<br />

della luce, che si rifrange in infiniti specchi concentrici, che ne indeboliscono e opacizzano<br />

l’immagine, senza farle perdere nulla della propria forza di irradiazione, ecc.), si rivolge a<br />

lei per contemplarla, acquisendo in tal modo il proprio essere sostanziale e punto di<br />

consistenza. L’essere nella sua totalità onnicomprensiva (che esclude da sé solo il non<br />

essere della materia assoluta) può essere cioè descritto in questi due modi opposti e<br />

equivalenti: come passaggio dall’unità alla molteplicità (dialettica discendente), o come<br />

passaggio dalla molteplicità all’unità (dialettica ascendente).<br />

Ora, quando Martinetti parla di ascensione spirituale, con riferimento al fenomeno della<br />

personalità morale, ovvero dell’io cosciente, che emerge per gradi dalla vita inferiore del<br />

senso a quella superiore della ragione e della libertà, ha evidentemente presente<br />

soprattutto questo secondo momento. Il suo allontanamento da Hegel (alla cui dialettica,<br />

sia pure “riformata”, si rifacevano sia Croce che Gentile) e la sua fedeltà allo spirito del<br />

criticismo kantiano, impediscono al suo idealismo trascendente di prendere la strada di<br />

una derivazione speculativa del molteplice dell’esperienza dall’unità logico-ontologica della<br />

sostanza (persino il suo Spinoza non è un realista-monista, ma un idealista neoplatonico e<br />

dualista). L’unità è il principio formale di ogni essere e di ogni realtà; laddove il molteplice<br />

ne costituisce la materia. Ma non si dà alcuna dialettica discendente, che consenta da<br />

ricondurre senza residui l’a posteriori all’a priori, il molteplice graduato o disperso<br />

dell’esperienza all’unità del suo principio sostanziale assoluto. L’unica dialettica reale è<br />

quella ascendente, mediante cui il contenuto fenomenico dell’esperienza si unifica per<br />

gradi, procedendo nella direzione (infinita) dell’unità, che rimane, nel suo termine finale,<br />

trascendente (dialettica negativa, Deus absconditus, ecc.). Il soggetto metafisico (la<br />

personalità morale) che sostiene e raccoglie in sé i vissuti esperienziali della coscienza (in<br />

linguaggio neoplatonico: l’anima rispetto all’Intelletto o nous) è la volontà stessa. Martinetti<br />

condivide il volontarismo della metafisica moderna post-idealista (da Schopenhauer a<br />

Wundt): al posto del vuoto e formale io penso kantiano si trova qui, a fondamento di una<br />

31


innovata metafisica dell’esperienza, il concreto io voglio, sempre qualificato in senso<br />

materiale, oltre che formale. Come sono giocati (in questa versione, che potremmo dire<br />

“neoaristotelica”, della psicologia moderna) i termini complementari di “forma” e “materia”?<br />

Ciò può essere stabilito solo all’interno della visione graduale e ascendente della libertà<br />

spirituale, che relativizza continuamente l’antitesi astratta di determinismo e<br />

indeterminismo.<br />

Nelle lezioni che vi ho inviato, sviluppo questa dialettica dal punto di vista contenutistico: i<br />

gradi della libertà sono cioè descritti nei termini di quella che abbiamo chiamato la libertà<br />

di, come esperienza concreta di liberazione o ascensione spirituale. Sono la spontaneità<br />

(cap. 11), ossia la libertà tipica dell’animale o del bambino, che coincide con la libertà<br />

fisica, l’incontro felice o “normale” della spontanea “fioritura” della individualità corporea<br />

con le condizioni ambientali della sua realizzazione. Ad essa segue la libertà pratica (cap.<br />

12), ossia la legislazione dell’agire, guidato insieme dal senso e dalla ragione, sulla base<br />

di quelli che Kant ha definitivamente chiarito come gli imperativi ipotetici (una legislazione<br />

di mezzi in relazione ai fini). Viene quindi la libertà morale (cap. 13), ossia la superiore<br />

legislazione dell’agire, guidato dalla sola ragione, sulla base di quello che Kant ha<br />

ugualmente definitivamente chiarito come l’unico imperativo categorico ammissibile (la<br />

legislazione del dovere per il dovere). A questi tre gradi principali Martinetti ne fa seguire<br />

(nel cap. 13 e in parte nel cap. 14) due ulteriori, che corrispondono a una migliore<br />

specificazione storica del problema della libertà: il diritto e la religione, che offrono<br />

rispettivamente un limite inferiore ed uno superiore alla generale libertà morale. Non<br />

abbiamo il tempo, nelle poche lezioni che ci restano, di analizzare ampiamente questi<br />

aspetti contenutistici (rimando per questo agli appunti scritti delle lezioni). Mi voglio limitare<br />

a una caratterizzazione più formale di questa dialettica “ascendente” (nel significato che<br />

abbiamo ribadito), che valorizza piuttosto il momento complementare della libertà da (che,<br />

in uno “schopenhaueriano” come Martinetti rimane comunque quello principale). Esso<br />

consente di dire qualcosa sul difficile problema del rapporto tra forma e materia.<br />

Possiamo riassumere così il problema. Finché ci manteniamo all’interno di un determinato<br />

grado di libertà, non può esservi contrasto o non coincidenza tra materia e forma del<br />

volere. Per l’animale, che si muove libero nel proprio ambiente, non ci può essere<br />

contrasto tra gli elementi oggettivi, che ne qualificano materialmente l’agire e quelli formali<br />

o soggettivi che vi corrispondono (che noi chiamiamo, con espressione alquanto<br />

imprecisa, “istinti”). Certamente anche l’animale “vuole” (nel senso che il suo<br />

comportamento può essere spiegato compiutamente solo in termini teleologici), ma non<br />

potrà mai arrivare alla consapevolezza del proprio volere. Già nel bambino si manifesta<br />

questa differenza, che si esprime nel contrasto tra principi “legislatori” plurali (in termini<br />

freudiani: es e Ego, principio del piacere e principio della realtà, ecc.), ma non può esservi<br />

reale distinzione tra senso e intelletto, se non in quanto lo si considera già “adulto in<br />

potenza”. Perché si manifesti pienamente la differenza tra principio formale della volontà e<br />

contenuto materiale, occorre che il grado “inferiore” si rivolga a quello “superiore”, che ne<br />

costituisce il principio di intelligibilità. Occorre cioè una elevazione, un progresso, una<br />

ascensione spirituale. Quello che, nel grado precedente, valeva in quanto forma (la<br />

spontaneità dell’agire o la libertà fisica), si abbassa cioè a materia o ad elemento<br />

contenutistico di un principio formale superiore e diverso. Nel grado successivo della<br />

libertà pratica, ad esempio, la libertà fisica non opera più come principio formale<br />

autonomo, ma come aspetto contenutistico di un principio formale ad esso sovra-ordinato.<br />

Assumendo la logica dell’imperativo ipotetico, riconoscendo una nesso formale di<br />

consequenzialità tra mezzi e fini, la spontaneità del senso non opera più nulla da sola, ma<br />

sempre in collegamento con la razionalità dell’intelletto pratico (o strumentale). Qui<br />

32


emerge per la prima volta un tipo di spontaneità (dunque, positivamente, di libertà) che è<br />

propria della ragione per se stessa. Ma solo nel passaggio al grado successivo, dalla<br />

libertà pratica alla libertà morale, dall’imperativo ipotetico a quello categorico, la ragione<br />

come forma, capace di auto-determinarsi indipendentemente dal senso, acquista piena<br />

visibilità. I contenuti concreti della libertà pratica non scompaiono, ma vengono posti, nella<br />

loro funzionalità materiale, al servizio di una più universale (dunque formale) legislazione<br />

pratico-morale, in cui rientrano il diritto positivo, il diritto morale, la libertà religiosa, ecc.<br />

Studierete nei particolari del testo la trattazione che Martinetti dà di questi problemi. Qui mi<br />

limito piuttosto a ribadire un punto. La materia non può mai essere realmente in contrasto<br />

con la forma, in quanto si tratta sempre dell’unico io voglio, dell’atto spontaneo e creativo<br />

con cui la personalità morale si attua concretamente, nel proprio sforzo di identificazione<br />

successiva con se stessa, con il proprio “io migliore”. A ciò equivalgono i termini, che non<br />

sono tra loro alternativi, ma reciprocamente fungibili, di “forma”, “sintesi”, “atto”, che<br />

ritornano di frequente nelle pagine della Libertà. Ciascun grado fornisce a quello che lo<br />

precede la piena giustificazione formale, ossia razionale, del proprio dover essere. La<br />

forma precedente, superata nel processo dell’ascensione spirituale, diventa materia della<br />

forma successiva, in un processo teleologico che non va comunque ipostatizzato (quella di<br />

anima è, si può dire, una finzione concettuale utile, non una res o sostanza). Qui si coglie<br />

la differenza tra Martinetti e un “neoplatonico” in senso storico o tradizionale. Quella<br />

neoplatonica rimane una metafisica dell’essere come sostanza (questo è per lo meno, uno<br />

dei molteplici significati della metafisica aristotelica, che ne costituisce lo sfondo storico).<br />

Essa vi aggiunge l’originale intuizione della trascendenza dell’uno, che possiamo anche<br />

esprimere come differenza ontologica (della nozione dell’essere rispetto a quella dell’ente<br />

o della sostanza). Sulla diversità tra queste due intuizioni della metafisica classica – come<br />

sapete – ha molto insistito Heidegger. Martinetti non si esprime mai sul punto con la<br />

chiarezza esplicita di un Heidegger. Ma entrambi si collocano nello stesso orizzonte<br />

neokantiano. Non deve perciò stupirci di trovare in Martinetti una declinazione del<br />

problema del rapporto materia-forma, che si muove nella stessa direzione: di una<br />

trascrizione cioè del concetto classico dell’essere dalla categoria di sostanza a quella di<br />

funzione (per usare i termini più celebri, usati da Cassirer). Ciò che impedisce al<br />

movimento della epistrophé di fissarsi in ipostasi sostanziali chiuse, rendendolo piuttosto<br />

un processo ascensivo infinitamente aperto sulla trascendenza, è l’abbandono di ogni<br />

dialettica discendente, della proodos. La libertà umana, ripete Martinetti con i neoplatonici<br />

(o quelli che lui ritiene tali: Plotino, Spinoza, Spir), si giustifica pienamente, dal lato<br />

formale, solo incontrandosi con la libertà divina. Ma nessun discorso razionale (tanto<br />

meno quello della teologia) consente di ricavare la prima dalla seconda. Per noi può<br />

esistere soltanto la libertà dello spirito, o forse meglio, la sua infinita apertura sul<br />

trascendente (un movimento del “trascendere”, si potrebbe dire, “senza Trascendenza”).<br />

Libertà è crisi, superamento della soglia contenutistica o materiale inferiore, per un dover<br />

essere formale più universale. Vi sono probabilmente infiniti gradi libertà, di cui quelli<br />

analizzati dalla dialettica filosofica rappresentano solo i modelli formali. Non c’è nulla di<br />

così basso (nella vita animale, anzi nella stessa vita vegetale), che non possa sublimarsi<br />

verso il divino. Così come non c’è nessuna forma così elevata, che non possa perdere il<br />

proprio privilegio ontologico, e abbassarsi alla materialità. Qui sta il dramma della libertà<br />

umana, che congiunge gli estremi dell’inferiore e del superiore ed assume quindi un<br />

significato cosmico, prima che semplicemente etico.<br />

33


4. ANIMALE E UOMO<br />

I capitoli 11-14 delineano una FENOMENOLOGIA <strong>DELLA</strong> LIBERTÀ, che ha il compito di preparare la<br />

discussione finale sui temi cruciali della responsabilità, del libero arbitrio e della<br />

conciliazione di libertà e determinismo, che prepara all’intenso “epilogo metafisico” finale<br />

(cap. 18). Libertà fisica o di spontaneità, libertà pratica o razionale, libertà morale, civile,<br />

religiosa, sono i “gradi” di uno svolgimento continuo e necessario dello spirito dell’uomo (in<br />

ciò paragonabili alle celebri “stazioni” della via crucis, cui Hegel paragona nella<br />

Fenomenologia dello spirito l’ascesa dolorosa della coscienza al livello di consapevolezza<br />

totalmente dispiegato della ragione assoluta). Non si deve pensare però a una dialettica di<br />

tipo hegeliano: nel passaggio da un grado al successivo non c’è negazione (e tanto meno<br />

negazione della negazione), bensì affermazione, sintesi creatrice, potenziamento dell’io.<br />

Dunque, in un significato affine piuttosto al processo della liberazione morale del vir<br />

sapiens e all’amor Dei intellectualis, di cui trattano le ultime due parti (la IV e la V)<br />

dell’Ethica di Spinoza. Il paragone con la Fenomenologia dello spirito di Hegel conserva<br />

tuttavia una giustificazione, perché si tratta (tanto per Martinetti quanto per il filosofo di<br />

Stoccarda) non tanto di “descrivere” gli aspetti empirico-psicologici della coscienza (questo<br />

essendo il significato primario del termine “fenomenologia”), quanto piuttosto di elaborare<br />

una “scienza della esperienza della coscienza”, portando in luce i momenti “tipici” o “ideali”<br />

di tale esperienza, che consentano di sottoporla al vaglio della conoscenza logicorazionale.<br />

Ciò non significa che debba trattarsi di una pittura stilizzata o astratta della<br />

coscienza (che deve anzi figurare nella sua concretezza intuitiva, o – per così dire – “in<br />

prima persona”), ma di una disamina che interroga i fenomeni secondo una ben precisa<br />

intenzionalità teoretica. In questo caso, Martinetti si chiede cioè in che modo la libertà sia<br />

compatibile con il determinismo, e pretende che sia la coscienza personale stessa, il<br />

vissuto esperienziale della libertà, a rispondere.<br />

Questo modo – per così dire fenomenologico (e qui l’allusione è anche al metodo di<br />

riduzione di Husserl, che Martinetti conosceva bene e apprezzava, anche se veniva da<br />

una diversa formazione filosofica) – di procedere si coglie molto bene nella discussione<br />

del primo grado della libertà: quella fisica o di spontaneità. E’ (come precisa Martinetti) “la<br />

libertà degli animali e dei bambini” (L 325), che segue lo stimolo del senso, laddove il<br />

grado successivo – la libertà pratica – è quella dell’adulto, che si fa guidare dal concetto.<br />

Martinetti avrebbe potuto partire direttamente da quest’ultima, come fa Kant nella Critica<br />

della ragione pratica, dal momento che essa non è controversa nella tradizione filosofica,<br />

mentre è assai discutibile che della prima si possa parlare come di una “libertà” in senso<br />

proprio e non analogico. La libertà fisica è ammessa come libertas agendi, ed ha (come si<br />

è detto) una accezione meramente negativa: sono libero di fare, quando non sono legato,<br />

impedito fisicamente, o in balia della forza soverchiante di un altro individuo, ecc. Ma che<br />

in essa si possa riscontrare una spontaneità della volontà, anziché un mero operare<br />

meccanico, è qualcosa di estremamente controverso e difficile da stabilire. Prendiamo il<br />

caso dell’animale. Cartesio afferma ad esempio che gli animali sono macchine, che i loro<br />

movimenti dipendono dalla semplice disposizione degli organi corporei, che la loro<br />

sensibilità è solo apparente, laddove solo nell’uomo (dotato anche di un’anima spirituale e<br />

di linguaggio) si può iniziare a parlare di “volontarietà” dei movimenti e delle azioni.<br />

Sebbene appaia difficile a sostenersi (nell’epoca in cui Cartesio scrive, dominata ancora<br />

dalla biologia di derivazione aristotelica) “che possa accadere, senza il ministerio di<br />

nessun’anima, che la luce che si riflette dal corpo del lupo negli occhi della pecora muova i<br />

piccoli filamenti dei nervi ottici, e che in virtù di questo movimento, che va sino al cervello,<br />

gli spiriti animali siano diffusi nei nervi nella maniera ch’è necessaria perché la pecora<br />

prenda la fuga” (come scrive Antoine Arnauld nelle Quarte obiezioni alle Meditazioni<br />

34


metafisiche di Cartesio),– questa, e non un’altra, è l’unica spiegazione scientifica possibile<br />

del comportamento animale.<br />

Anche dopo che la scienza ha abbandonato l’ipotesi insostenibile del<br />

meccanicismo, è rimasto il pregiudizio filosofico della totale assenza di libertà dal<br />

comportamento animale. Martin Heidegger, ad esempio, afferma che soltanto all’uomo il<br />

mondo è aperto come ambito di possibilità e di libertà, in conseguenza del suo modo<br />

specifico e unico di rapportarsi all’ente infra-mondano (quello del Dasein ossia della<br />

presenza consapevole-problematizzante al proprio essere nel mondo). L’animale e il suo<br />

comportamento restano invece rinchiusi all’interno dell’ambiente (Umwelt, anziché Welt), e<br />

sono determinati dall’istinto. Benché non sia affatto chiaro di che cosa si tratti<br />

esattamente, quando si parla di istinto (ad esempio se l’uomo, in quanto animale, ne sia<br />

fornito, ecc.), sembra assodato che il comportamento dell’animale non umano (Tier) sia<br />

sufficientemente spiegato in base a fattori innati e biologicamente previsti. L’animale – si<br />

dice – ha una risposta automatica agli stimoli che gli provengono dall’ambiente. Il suo non<br />

è un agire intenzionale (anche quando è assai simile a quello dell’uomo), ma guidato<br />

dall’istinto, che è una risposta a quelli che si definiscono i suoi “disibinitori specifici”. Ogni<br />

specie animale è perfettamente adattata al proprio ambiente (o “nicchia ecologica”), il<br />

quale contiene in sé gli elementi adeguati a soddisfare i suoi bisogni (nutrizione, crescita,<br />

riproduzione). L’animale è ricettivo soltanto a quegli stimoli, a quelle proprietà (colori,<br />

odori, resistenze) che i suoi organi di senso sono in grado di recepire (vista, olfatto, tatto),<br />

e che suscitano in lui una reazione immancabile. Anche se il paradigma meccanicistico è<br />

stato abbandonato dalle scienze, l’istinto animale continua ad essere immaginato (ad<br />

esempio mediante la teoria dei riflessi fisiologici) come una “molla compressa”, pronta a<br />

scattare, a rilasciare cioè la propria forza, in presenza dello stimolo. La fame (ad esempio)<br />

è “inibita” (l’animale può resistere per giorni o addirittura per mesi senza cibo), finché non<br />

incontra, sul proprio cammino, il “disibinitore” ad essa adeguato (la preda per l’animale<br />

carnivoro, certi vegetali per l’erbivoro, ecc.). La risposta allo stimolo è sempre una risposta<br />

biologicamente prevista, in cui domina perciò il più ferreo determinismo.<br />

Ora, Martinetti lascia aperto il problema della “libertà pratica” nell’animale non<br />

umano (anche se sembra citare con approvazione l’opinione di Aristotele, secondo il quale<br />

anche gli animali possiedono una phronesis, una forma di intelligenza diversa da quella<br />

dell’uomo, ma comunque sufficiente a garantire loro l’acquisizione di un “bene” specifico,<br />

della “vita buona” per ciascuna specie vivente). Gli preme piuttosto sottolineare come<br />

anche l’uomo (ad esempio il bambino piccolo) si comporti per lo più come l’animale,<br />

abbandonandosi “per così dire alla sua vita di essere naturale”, seguendo “finché qualche<br />

circostanza non lo arresta mettendo in azione l’intelligenza e la riflessione, il libero corso<br />

degli impulsi e degli istinti di natura” (L 325). L’animal rationale, cioè, rimane (per un lungo<br />

periodo della propria esistenza e per gran parte dei propri comportamenti “quotidiani”,<br />

finalizzati alla soddisfazione dei bisogni) animal: un essere bisognoso e fragile,<br />

potenzialmente riflessivo e razionale, ma che agisce anche in modo istintivo. Questa<br />

considerazione è generalmente utilizzata dai filosofi (ad esempio da Kant) per sottolineare<br />

l’insufficienza delle determinazioni naturali (sensibili) dell’uomo (homo phaenomenon), per<br />

giustificarne appieno la razionalità e la libertà (homo noumenon). Ora, non è che<br />

Martinetti non percorra anch’egli questa strada (lo farà soprattutto nei capitoli successivi,<br />

che trattano della differenza tra mera LIBERTÀ PRATICA e autentica LIBERTÀ MORALE). Ma in<br />

questo capitolo gli preme qualcosa di diverso. Se la libertà come spontaneità, di cui anche<br />

l’uomo (in quanto animale) dispone e fa uso è qualcosa di certamente deterministico,<br />

come mai accade che essa appaia alla autocoscienza umana nella forma positiva della<br />

libertà, anzi in quella più pura del sentimento vitale sfrenato, nella gioia? Se riusciremo a<br />

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dimostrare che tale sentimento non è una illusione, ma è – per così dire – il prodromo di<br />

quel più raffinato ed elaborato sentimento morale che prende appunto il nome di libertà<br />

morale, avremo ottenuto (per via fenomenologica) la conferma più evidente della<br />

conciliabilità di principio tra determinismo e libertà:<br />

Arrestiamoci ad analizzare questa forma di attività per ricercare in essa la ragione di quel senso di<br />

autonomia, di indipendenza e di gioia che caratterizza la perfetta spontaneità e che vediamo così bene nei<br />

bambini e negli animali giovani e che è in certo modo una libertà organica, elementare. Perché in questi atti,<br />

se, come non è dubbio, essi sono fisiologicamente e psicologicamente determinati, si manifesta questo<br />

senso di spontaneità? Questo sentimento non è certo identico, ma è affine al sentimento della libertà morale<br />

[…]. Ad ogni modo, data l’unità e la continuità della vita interiore, noi dobbiamo attenderci di provare in esso<br />

– per quanto in una potenza inferiore – quei medesimi rapporti e quei medesimi fattori che in un grado più<br />

alto costituiranno la volontà e la libertà morale (ibid.).<br />

L’homo phaenomenon – così potremmo commentare – e l’homo noumenon non sono<br />

evidentemente due uomini diversi, ma un unico e identico individuo: l’adulto che agisce<br />

sotto il comando dell’imperativo razionale è sempre lo stesso individuo che, come<br />

bambino, obbediva alla voce del senso (così Adamo, prima e dopo il peccato originale). Il<br />

sentimento di autonomia, indipendenza, libertà, che egli ricava dal rispetto della legge e<br />

della propria persona, non è – psicologicamente parlando – toto cielo diverso dalla gioia<br />

infantile, dall’ingenua sensazione di trionfo e di affermazione narcisistica del proprio io,<br />

che, quando era bambino, si accompagnava alle sue “scoperte” e alle gratificazioni<br />

ottenute da un ambiente, in minima parte estraneo e resistente alle sue voglie, ma per la<br />

maggior parte protetto e assicurato dal lato “materno” della sua esperienza. Il sentimento<br />

della libertà non attende – per accendersi – l’acquisizione della coscienza morale<br />

(Gewissen), ma è una delle esperienze più antiche della coscienza psicologica<br />

(Bewußtsein) dell’animale umano. A queste più primitive ed elementari attestazioni della<br />

coscienza dobbiamo rifarci, se vogliamo capire non solo come la razionalità umana si<br />

radichi nella sua animalità, ma come su di essa si edifichi gradualmente la sua stessa<br />

libertà, la sua “destinazione” di essere razionale e autonomo.<br />

Interroghiamo la coscienza, nella sua dimensione – per così dire – puntuale,<br />

immediata, la coscienza d’atto, esperita nella forma temporale del presente. Questa<br />

dimensione del tempo – il tempo come pura PRESENZA – assume una posizione privilegiata<br />

dal punto di vista fenomenologico (e qui Martinetti, pur senza citarli, è sulla stessa linea<br />

delle celebri analisi sulla coscienza interna del tempo di Husserl e di Heidegger). Il<br />

presente non è un puro atomo temporale, senza dimensione e durata, che si sostituisce<br />

ad altri istanti temporali in una serie anonima e priva di orientamento (la forma matematica<br />

del tempo come pura successione, la mera intuizione dell’“uno-dopo-l’altro” dell’Estetica<br />

trascendentale kantiana, è una astrazione). Esso ha una forma, che coincide con la forma<br />

dell’io autocosciente, ossia della presenza dell’io a se stesso, colto non in forma diretta e<br />

tematica (per usare la più raffinata terminologia fenomenologica), ma in forma indiretta,<br />

“colorato” o – per così dire – “materiato” dei suoi contenuti patici-pragmatici:<br />

ogni atto psichico, per quanto elementare, [è] costituito da un atto di sintesi e […] l’unità che in esso culmina,<br />

nell’atto che si produce, [è] l’unità medesima dell’io che è ad esso presente come forma, come luce, come<br />

forza. L’io è in quel dato istante materiato nell’atto e colorato delle sue qualità: nelle quali confluiscono non<br />

soltanto lo stimolo esterno, ma innumerevoli altri elementi che il detto stimolo mette in azione: dal carattere e<br />

dall’attività di questi elementi deriva la particolare attitudine che l’io, sotto l’azione dello stesso stimolo, può<br />

assumere in quell’istante, in diversi individui (L 326).<br />

Martinetti fa proprio l’esempio di Bain dell’atto di ritirare la mano, in presenza del dolore<br />

della scottatura, diversamente interpretandolo. Non si tratta di un semplice riflesso<br />

fisiologico, di un meccanismo semplice di azione-reazione (anche questo si verifica,<br />

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ovviamente, nel sostrato somatico, ma non è esso a fornire il senso dell’esperienza di cui<br />

si tratta): “il soggetto della sensazione dolorosa è anche il soggetto attivo che nel dolore<br />

appunto esplica una tendenza, una volontà, una “fuga” dallo stimolo doloroso: ed in questa<br />

volontà elementare concorrono non solo l’azione dolorosa dello stimolo, ma anche<br />

innumerevoli altre tendenze corrispondenti agli elementi che sono stati portati<br />

simultaneamente ad una più o meno chiara coscienza” (ibid.). Il dolore, come sensazione<br />

organica, è sempre lo stesso dolore. Ma come accade che diversi individui, nella sintesi<br />

formale dell’io presente a se stesso, lo assumono in modo diverso? Il sano rispetto al<br />

malato, l’edonista rispetto all’asceta, il sadico rispetto al masochista, ecc.? Il senso di<br />

questa esperienza elementare è un significato “complesso”, che si dà sempre e soltanto<br />

nel presente vissuto: “a questa sintesi attiva – prosegue Martinetti – che è, in quell’atto, la<br />

volontà dell’io sofferente, vengono poi a subordinarsi, resistendo o conformandosi, i<br />

sistemi di attività riflesse ed inconscie in cui traducono le tendenze coscienti la loro azione<br />

esteriore” (ibid.). Così – può concludere – “un atto fugace di volontà è già per sé una<br />

sintesi estremamente complessa: l’io si immedesima, per quell’istante, con l’unità stessa<br />

della sintesi: la sofferenza è immediatamente vissuta come atto e stato dell’io, come una<br />

cosa sola con l’io” (ibid.). E’ l’atto con cui l’io assume come proprio, “materiandosi” di esso,<br />

il dolore, e non la semplice sensazione fisiologica del dolore, che mi dà il senso di quella<br />

esperienza.<br />

In che modo questa coscienza immediata, e per così dire, puntuale si estende nelle<br />

forme della durata temporale, che vi sono intimamente intrecciate? Dobbiamo riconoscere<br />

qui una certa sommarietà della trattazione martinettiana. Egli scrive, ad esempio, che<br />

“l’atto vissuto e oltrepassato non scompare: esso persiste ordinariamente per la memoria<br />

ed agisce come disposizione, come tendenza più o meno sensibile anche quando il<br />

contenuto corrispondente scomparso nella penombra della coscienza” (ibid.). Manca<br />

tuttavia qualsiasi analisi fenomenologica del modo in cui le dimensioni temporali si<br />

collegano tra loro, restituendoci il senso pieno e concreto della durata. Di come il presente<br />

(per usare la terminologia husserliana) si “protende” nel passato e nel futuro, negli atti di<br />

“anticipazione” e “rimemorazione”, restituendoci il sentimento vivo della temporalità, come<br />

“concrescenza” e “maturazione” degli atti. Al posto di ciò, troviamo una semplice immagine<br />

analogica, che paragona l’io al rapido guizzare della fiamma (qualcosa di simile al celebre<br />

“fuoco” di Eraclito): “ad ogni atto succede rapidamente un altro atto: e l’io trapassa come<br />

una fiamma di momento in momento: in ciascuno di essi l’io si identifica con l’atto vivente<br />

ed è quella coscienza e quella volontà che per esso si attua” (ibid.). Il senso di questa<br />

immagine analogica è chiarito da Martinetti alcune righe più avanti. L’io come coscienza<br />

d’atto – e dunque l’esperienza elementare della libertà come spontaneità – si può<br />

considerare da due lati: come atto, cioè come “sintesi formale”, e come fatto, casualmente<br />

prodotto e determinato. Come la fiamma è sempre “nuova” e diversa, pur essendo il<br />

prodotto della combustione e della combinazione chimica di materiali eterogenei, così la<br />

coscienza d’atto dell’io è sempre coscienza di un presente nuovo e diverso, con cui si<br />

identifica, pur essendo il risultato di atti precedenti, che in certo modo lo condizionano e lo<br />

rendono prevedibile (L 327). Martinetti ne conclude che “la concatenazione causale non<br />

distrugge la spontaneità della coscienza, non impedisce che in ogni nuovo atto l’io senta<br />

se stesso come vero e proprio soggetto dell’atto stesso e si immedesimi col suo contenuto<br />

e con la sua attività” (ibid.). E qui richiama l’analisi già svolta in precedenza, che suppone<br />

un concetto di causa non come antecedente estrinseco e meccanico del suo effetto, ma<br />

come identico ad esso, per la diversa combinazione delle condizioni del suo prodursi. Se<br />

“l’effetto non è che il complesso dei momenti causali diversamente espresso” (L 328),<br />

anche l’atto di volontà sarà ad un tempo “un atto nuovo della coscienza” (cui si collega<br />

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immancabilmente il sentimento della libertà, della spontaneità) e la “resultante causale,<br />

l’effetto dei suoi antecedenti” (ibid.). Sarà un atto libero, anche se prevedibile.<br />

A questo grado di spontaneità si svolge l’intero comportamento animale: “nessuno<br />

vorrà negare per esempio che l’atto con cui un animale che urta un oggetto pungente<br />

ritrae il capo per sottrarsi al dolore della puntura, non sia un atto risultante<br />

necessariamente dai suoi antecedenti” (L 327). Non è così anche per l’uomo? Ma, alla<br />

coscienza d’atto dell’uomo si apre una duplice dimensione, o, se vogliamo, una duplice<br />

lettura del processo, un “divenire” che tiene insieme la “spontaneità” e la “necessità”<br />

(L 329). Come vanno infatti concepiti gli “antecedenti causali” del processo, mediante cui<br />

si attua la libera affermazione dell’io? Non come reali “condizioni”, ma come “fattori<br />

limitanti” dell’atto volontario, in sé spontaneo. E qui Martinetti introduce di nuovo una<br />

immagine analogica: quella della luce colorata, prodotto della rifrazione del raggio bianco,<br />

mediante un prisma ottico: “quando un fascio di luce è fatto passare attraverso più vetri<br />

che trattengono una parte dei raggi colorati, esso si proietterà su d’uno schermo come<br />

luce colorata” (ibid.). Ora, questi colori (che corrispondono a quelli dell’arcobaleno) sono sì<br />

l’effetto dei vetri interposti, ma non sono prodotti da essi, bensì dal raggio di luce che viene<br />

fatto passare per questo medium rifrangente. Analogamente, “dobbiamo pensare la<br />

coscienza come un’energia, una realtà possedente una legge propria; le condizioni causali<br />

sono soltanto condizioni limitanti, in quanto in ciascuna di esse la sua realtà è<br />

parzialmente, imperfettamente espressa” (ibid.). La scelta dell’analogia con il fenomeno<br />

della luce rimanda probabilmente al pathos neoplatonico di queste pagine martinettiane (si<br />

veda, nella parte storica, il capitolo su “La concezione neoplatonica” della libertà). In ogni<br />

caso, essa consente all’autore di descrivere la coscienza della spontaneità degli atti<br />

volontari, non impediti da fattori esterni o interni limitanti, come una esperienza di<br />

liberazione. Essa corrisponde infatti a una necessità avvertita come “legge” del proprio<br />

essere, come spinta autonoma di un volere che “pur non potendo essere libero da ogni<br />

condizione, è quello che è soltanto per virtù propria” (ibid.):<br />

Non vi è dunque nessuna contraddizione nell’assumere l’atto di coscienza come casualmente e<br />

necessariamente determinato dai suoi antecedenti e nello stesso tempo come un atto di spontaneità: il<br />

senso di potenza, di realtà, di dominio che in esso si manifesta non è punto un’illusione. L’io che viene alla<br />

coscienza nell’atto stesso soggioga in certo modo a sé il passato, erige una nuova legge, stabilisce una<br />

nuova necessità che è identica con l’esser suo. Sotto questo riguardo ogni atto di vita e di coscienza è un<br />

atto di gioia: anche nell’atto della sensazione dolorosa la fuga è un atto in cui si esplica la padronanza dell’io:<br />

se questa fuga non fosse contrastata dalla persistenza dello stimolo doloroso, essa sarebbe un atto di<br />

potenza e di gioia. Solo questo rende possibile l’amara voluttà del dolore e converte in piacere il dolore<br />

quando noi sentiamo il nostro trionfo su di esso. Per questo il tono fondamentale della vita è il piacere e la<br />

volontà di vivere: in ogni momento esperimentando e volendo, godendo e soffrendo assoggettiamo a noi la<br />

vita, il passato e le cose che lo modificano: ed anche l’atto con cui l’uomo pone fine alla propria vita è ancora<br />

l’affermazione disperata d’un dominio della volontà sulle cose, che non si estingue che con la vita (L 330).<br />

Non un’ascetica volontà di rinunzia, non una tetra meditatio mortis, ma una serena<br />

(spinoziana) contemplazione del flusso vitale in cui siamo immersi (una meditatio vitae) è<br />

dunque il “tono fondamentale” (Grundstimmung) della morale martinettiana, quale emerge<br />

da questa pagina dallo stile inconfondibile. Vi sono sentimenti (come il pentimento o il<br />

perdono) che hanno la forza di “modificare” anche il passato, rinnovandone il senso. Ma<br />

anche l’essere più disperato, che si getta da sé stesso nella morte con il suicidio, vuole<br />

ancora la vita (Schopenhauer lo aveva detto con cinismo: Martinetti lo ripete con un senso<br />

di umana pietà), si progetta ancora, per l’ultima volta, in un futuro che gli è tuttavia<br />

impossibile trasformare in presente (di qui l’assurdità, ma anche la logica, del suo atto, che<br />

rimane un atto di libertà).<br />

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L’intera sfera della “vita organica dell’individuo” non può essere riguardata solo dal<br />

lato dell’animalità, ma sempre anche da quello progettuale, dell’umanità. Gli umili bisogni<br />

(di cui la vita del primitivo, o quella del bambino) sono pieni, non vanno trascurati, in una<br />

considerazione globale del divenire libero dell’uomo (dell’adulto, del civilizzato, ecc.).<br />

Persino la vecchiaia, con il suo sentimento doloroso e deprimente di decadenza, di<br />

“impotenza” (L 332), può essere vissuta come libera progettazione, come rinvio di sé in un<br />

futuro (i figli, i nipoti) che sarà ancora lì ad attenderci, se l’avremo voluto con sufficiente<br />

energia. Le pagine che chiudono il capitolo vanno lette e meditate come la testimonianza<br />

di riflessioni vissute: Martinetti era un meditativo, e i sommessi accenni alle umili gioie del<br />

quotidiano, ma anche alla forza di stoicismo con cui affrontare le mille limitazioni che una<br />

volontà forte ed energica non può che incontrare al suo esterno, sono piene di verità<br />

autobiografica (e quindi di universalità umana). Queste pagine introducono già alla<br />

tensione del capitolo seguente, che parla della libertà pratica, operando un passaggio di<br />

“grado” dal sensibile al razionale, dallo “spontaneo” al “deliberato”, dalla determinazione<br />

sensibile a quella razionale. Via via che si ascende nei gradi della libertà, quelli inferiori e<br />

superati appariranno come “ostacoli” di un progresso che si attua per virtù propria. Ma essi<br />

non andranno “dimenticati”: e ciò non tanto per un sentimento nostalgico o infantile (la<br />

rousseauviana nostalgia del “buon selvaggio”), ma per ricordare all’adulto che le sorgenti<br />

della sua forza sono profonde e radicate nel tempo. Esse appaiono sempre diverse e<br />

sempre nuove perché antiche, e la gioia della felicità (nel significato eudemonistico dei<br />

filosofi) non potrà mai essere un sentimento effimero, ma coinciderà con lo sforzo<br />

doloroso di una liberazione da sé (l’uomo vecchio) e dalle precedenti limitazioni, per<br />

incontrare, in un futuro-presente, il proprio “io migliore” (l’uomo nuovo), la sintesi finale<br />

della forma propria e compiuta (che, come scrive Aristotele nell’Etica nicomachea, è<br />

possibile soltanto nell’arco temporale-narrativo di una vita completa).<br />

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5. PRATICO E MORALE<br />

I capitoli 12-13 consigliano una trattazione congiunta. Non solo, infatti, la LIBERTÀ PRATICA e<br />

quella MORALE sono i due gradi della “spontaneità propria dell’uomo”, ossia della<br />

spontaneità razionale, contrapposta a quella meramente sensibile dell’animale (L 340), ma<br />

– nel definirne del reciproco rapporto – Martinetti si fonda essenzialmente sul precedente<br />

kantiano, ossia sulla distinzione tra intelletto e ragione e su quella, correlativa, tra<br />

imperativi ipotetici e categorici. La ragion pratica – kantianamente – non è una facoltà<br />

distinta dalla ragione pura teoretica, ma l’identica facoltà, applicata in modo diverso:<br />

“dicendo che la volontà morale è la volontà razionale – scrive Martinetti – noi non abbiamo<br />

pertanto bisogno di ricorrere a una razionalità altra da quella che si esplica nelle idee e nei<br />

sistemi concettuali della ragione” (L 349). Come chiarisce Kant in apertura della sua<br />

Critica della ragion pratica, il compito di tale “critica” è quello di stabilire “se la ragione pura<br />

basti, da sola, a determinare la volontà, o se essa possa costituire un fondamento di<br />

determinazione solo in quanto empiricamente condizionata” (I. Kant, Critica della ragion<br />

pratica, trad. di V. Mathieu, Rusconi, Milano, p. 57). La risposta è positiva per entrambi gli<br />

autori, che dunque si collocano risolutamente dalla parte di un’etica formale, contrapposta<br />

all’etica eudemonistica o materiale degli antichi. Col termine “eudemonistico” si intende –<br />

come noto – la necessità di un riferimento essenziale alla felicità, come movente<br />

soggettivo del tendere della volontà. Col termine “materiale” si intende la determinazione<br />

generale del bene come termine di riferimento oggettivo della volontà. Senza una<br />

individuazione contenutistica preliminare di questo bene (sia esso fatto coincidere con la<br />

felicità, la virtù, o una unione di entrambe), è impossibile che la volontà si determini<br />

all’azione (il bene è per Aristotele il telos naturale della volontà). Kant critica – come<br />

saprete – questa impostazione, che fa dipendere l’agire morale da qualcosa di empirico (la<br />

felicità), che dipende dalla “facoltà di desiderare”, ossia dal sentimento, che l’uomo<br />

condivide con l’animale. Egli pretende che sia la ragione a stabilire a priori la modalità<br />

corretta che la volontà morale autonoma deve assumere nei confronti dell’oggetto del<br />

proprio tendere, non limitandosi a rappresentarselo sensibilmente o empiricamente, bensì<br />

ad attuarlo idealmente e formalmente.<br />

Così Kant definisce la volontà: “una facoltà, o di produrre oggetti corrispondenti alle<br />

rappresentazioni, o di determinare se stessa cioè la propria causalità a cercarli (basti, poi,<br />

o no la capacità fisica a raggiungerli” (ibid.). Kant distingue qui, implicitamente, due piani o<br />

livelli cooperanti nella dinamica concreta della volontà: la posizione del fine (Zielsetzung),<br />

dalla autodeterminazione (Selbstbestimmung) del volere. Per agire in senso lato, abbiamo<br />

anzitutto bisogno di rappresentarci qualcosa come oggetto del nostro volere<br />

(aristotelicamente, il telos o il fine). Ma per volere in senso stretto, dobbiamo disporre<br />

interiormente noi stessi, la nostra volontà, in modo tale che l’oggetto sia non solo<br />

astrattamente rappresentato come scopo, ma anche concretamente determinato, cioè<br />

scelto, come effetto o termine finale di un necessario processo causale di cui noi stessi (la<br />

nostra volontà) possiamo pensarci come l’inizio. La parola tedesca che qui Mathieu<br />

traduce con “cercare” (nel significato intenzionale che lo differenzia dall’empirico o<br />

esteriore raggiungimento (hinreichen) dello scopo proposto all’azione) è bewirken, che si<br />

tradurrebbe meglio con “effettuare”. Esso contiene nella sua radice wirken, agire, operare,<br />

da cui deriva Wirkung, effetto (come nella coppia concettuale causa-effetto: Ursache-<br />

Wirkung). Ciò che caratterizza dunque, dal lato formale e non meramente contenutistico,<br />

la volontà, non è la sua semplice natura teleologica, ma la messa in relazione di essa con<br />

una più essenziale strutturazione causale-razionale. La posizione o la scelta del fine<br />

conserva sempre (nell’uomo come nell’animale) un residuo di irrazionalità: perché questo<br />

o quell’uomo identifichi ad esempio nel piacere, oppure nella virtù, il fine generale delle<br />

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sue azioni, non può essere a priori stabilito dalla ragione. Martinetti lo riconosce con<br />

franchezza: “questo è ciò che dà all’attività umana il suo particolare aspetto: per cui essa è<br />

tutta, almeno nelle sue linee generali, razionalmente congeniata: ma è irrazionale nel suo<br />

fine ultimo, in quello che dà il carattere a tutta la vita” (L 338). Lo stesso Aristotele, del<br />

resto, affidava al costume, all’educazione, anziché all’arbitrio del raziocinio individuale, il<br />

compito di fissare un modello obiettivo di virtù morale. In che senso, allora, un’etica<br />

formale pretende di poter stabilire qualcosa a priori circa la volontà?<br />

Ciò avviene a due livelli: quello proprio dell’intelletto e quello specifico della ragione<br />

(Kant utilizza, per distinguerli, due termini che, nell’uso corrente della lingua tedesca, sono<br />

in realtà sinonimi: Verstand e Vernunft, e anche Martinetti – come vedremo – tende ad<br />

attenuare, fin quasi ad annullarla, questa differenza ). L’intelletto è la facoltà dei concetti o<br />

delle regole, la ragione la facoltà dei principi. Il primo compito che il FORMALISMO dell’etica<br />

razionale si assume è infatti di applicare diversamente – all’uso pratico, anziché a quello<br />

teorico – le determinazioni universali della ragione pura. Senza annullarne i generali<br />

requisiti deterministico-causali, si scopre in tal modo una nuova strutturazione – di tipo<br />

teleologico – della esperienza. Quelli che nella considerazione prettamente teoretica<br />

valevano univocamente come nessi di causa-effetto (Ursache-Wirkung), si dispongono ora<br />

nella diversa sequenza dei mezzi e dei fini (Mittel-Zweck o Ziel). Il processo della<br />

deliberazione (che già Aristotele indica con il termine bouleusis), che si conclude nella<br />

decisione ovvero nella scelta (che già Aristotele distingue con il termine prohairesis), si<br />

può meglio ridefinire, dal lato formale, come l’analisi della catena tecnico-strumentale<br />

interposta dall’intelletto tra la posizione (irrazionale) del fine e la scelta (razionale) dei<br />

mezzi necessari a produrlo come risultato consapevolmente voluto. Se a, b, c …. x<br />

costituiscono una serie continua di elementi, tra loro legati da un nesso di determinazione<br />

causale (a causa di b, b causa di c, ecc.), e se x (termine finale di questa serie,<br />

casualmente condizionato dagli elementi che lo precedono) è l’oggetto che la mia volontà<br />

si rappresenta come fine, sarà sufficiente (ma anche necessario) che essa si applichi,<br />

nell’ordine, ad a, b, c, ecc. (identificandoli via via come scopi parziali e subordinati, ossia<br />

come mezzi) per attuare diversamente il processo causale, che li collega gli uni agli altri e<br />

con il termine finale. Il primo effetto, dunque, che la ragione formale ottiene applicandosi<br />

alla pratica, è quello di attuare una razionalizzazione (sempre parziale) dell’esperienza.<br />

L’agire umano (dunque la libertà umana o la spontaneità razionale, come lo definisce<br />

Martinetti nel cap. 12) non è in fondo diverso dall’agire impulsivo dell’animale, se non per<br />

un diverso grado di razionalizzazione. Esso è ottenuto mediante la graduale sostituzione<br />

di elementi rappresentativi di origine concettuale a quelli sensibili, di origine memorativa o<br />

riproduttiva, propri dell’animale (ma anche del bambino).<br />

Potete leggere, alle pp. 333-338, questa spiegazione, che pone un esatto<br />

PARALLELISMO tra una esperienza conoscitiva e pratica, nel passaggio graduale e continuo<br />

dalla rappresentazione sensibile al concetto, da un lato, e dalla attività impulsiva a quella<br />

volontaria, dall’altro. Martinetti riconosce a Kant il merito di avere più esattamente<br />

circoscritto l’ambito del pratico-morale, rispetto a quello del sensibile-pratico, di quanto<br />

non avesse saputo fare Aristotele, con la propria idea di volontà come finalità intelligente<br />

(“desiderio guidato dalla ragione”), mediante la sua dottrina degli imperativi, e, in<br />

particolare, mediante il concetto di imperativo ipotetico. Kant distingue infatti tra imperativo<br />

morale (categorico) e pratico (ipotetico). Il primo comanda in modo perentorio e assoluto di<br />

volere il fine in quanto tale (si esprime nel “tu devi” della legge morale). Il secondo invece<br />

si limita a comandare alla volontà di scegliere qualcosa in quanto mezzo, nell’ipotesi che<br />

essa voglia proporsi un determinato scopo. “Se vuoi il fine …. tu devi volere il mezzo per<br />

quel fine”: questa è la diversa formulazione dell’imperativo ipotetico rispetto a quello<br />

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propriamente morale o categorico. Il campo pratico è poi ulteriormente precisato da Kant,<br />

nella suddivisione degli imperativi ipotetici tra “regole dell’abilità” e “consigli della<br />

prudenza”: le prime che si riferiscono (demarcandolo) all’ambito tecnico-pratico, le<br />

seconde a quello più propriamente pratico-morale. Kant vi applica il criterio logico della<br />

distinzione della ipoteticità in problematica e assertoria (mentre la logica dell’imperativo<br />

categorico sarà quella dell’apodissi). Se non so se voglio x, ma so che x è il mezzo per<br />

ottenerlo, posso formulare la regola generale che dovrò fare b per ottenere x (se vuoi<br />

accendere la luce, spingi l’interruttore). Se invece so che voglio x, ma non so ancora se b<br />

è il mezzo per ottenerlo, posso formulare la previsione che vorrò b, qualora scoprissi che<br />

mi garantisce di ottenere x (se vuoi essere felice, segui la virtù). Nella visione kantiana<br />

(ripresa da Martinetti), potremmo descrivere la progressione dei gradi della libertà, come<br />

una struttura di cerchi concentrici: nel più periferico collocheremo la spontaneità animale,<br />

che si lascia guidare dagli impulsi sensibili; in uno più ristretto la spontaneità razionale,<br />

ovvero la libertà pratica, che sceglie di farsi guidare dagli imperativi ipotetici dell’intelletto;<br />

in uno più ristretto ancora la libertà morale, che segue i principi pratici della ragione o<br />

imperativi categorici (ne dobbiamo ancora trattare, con riferimento al cap. 13 de La<br />

libertà).<br />

Un’ultima osservazione, prima di accingerci a questo più decisivo passaggio,<br />

riguarda l’osservazione di Martinetti sul rapporto uomo-animale. Egli riprende l’analisi della<br />

temporalità della coscienza, osservando come la dimensione prevalente della spontaneità<br />

animale sia quella del presente, mentre quella propria delle forme più primitive della<br />

spontaneità razionale umana si fondi essenzialmente sulla memoria (dunque sul confronto<br />

del presente-presente con il presente-passato). E come, infine, quella delle forme più<br />

sviluppate e adeguate della libertà pratica si fondi essenzialmente sul concetto (e dunque<br />

sulla dimensione del futuro, colto in una forma, per così dire, atemporale). Alla fine del<br />

capitolo riprende questi riferimenti, traendone una lezione pratico-morale. Se ci si arresta<br />

infatti all’ambito degli imperativi ipotetici, assumendo implicitamente il punto di vista<br />

empirico della felicità, rimane incerto se il passaggio dal primo e più ampio cerchio a<br />

quello più ristretto sia un vantaggio per l’uomo. La spontaneità animale è sì “immersa nel<br />

presente, più schiava del suo oggetto momentaneo, ma anche più libera dalle<br />

preoccupazioni del passato e dell’avvenire” (L 340). La libertà pratica assicura all’uomo un<br />

più certo dominio del terreno in cui si svolge la sua vita, estendendone il dominio “su tutti i<br />

tempi”. Ma ciò è pagato con una parallela estensione del “campo nel quale deve lottare e<br />

soffrire”: che comprende non solo ciò che ha sofferto in passato, ma ciò che dovrà soffrire<br />

in futuro. Su tutto ciò allungano fin d’ora le loro ombre “la morte e la sventura prevedute,<br />

temute ed attese” (L 341). Il prezzo per accedere alla libertà pratica è dunque la rinuncia a<br />

una forma più facile di felicità, che dovrà essere compensata dal progresso ulteriore della<br />

libertà. Uno dei motivi per cui l’uomo restringe ancora il campo intenzionale dell’agire,<br />

passando dal cerchio della libertà pratica in quello più interno della libertà morale, è<br />

proprio il desiderio di scoprire una forma di libertà che non smentisca del tutto le promesse<br />

della primitiva spontaneità animale, che ripaghi – per così dire – l’uomo dalla cacciata del<br />

paradiso perduto della felicità delle origini, facendogli sperimentare una forma di<br />

realizzazione più piena e completa. In questo decisivo passaggio l’uomo si scopre – scrive<br />

Martinetti – “animale razionale”, ma in una accezione diversa e più profonda rispetto a<br />

quella della libertà pratica: quella affermante che “l’uomo è un animale religioso” (L 345).<br />

Anche nella trattazione della libertà morale Martinetti si attiene al punto di vista<br />

kantiano, sia pure con una accentuazione del significato metafisico-religioso della sua<br />

filosofia. Mentre nel caso della libertà pratica si trattava della applicazione dei principi<br />

formali dell’intelletto (concetti e regole) alla struttura teleologica della volontà, la libertà<br />

42


morale si basa sulla possibilità che sia la ragione stessa (in quanto facoltà dei principi) a<br />

fungere da autonoma sorgente di legittimazione del volere. Il concetto di una “volontà in<br />

sé buona” prende il posto del tradizionale concetto di bene. Non è il bene, in quanto<br />

contenuto materiale, proveniente da una fonte eteronoma di legittimazione (sia esso il<br />

costume, come in Aristotele, o la volontà divina, come in Crusius), a determinare la<br />

volontà. E’ semmai la volontà stessa, in quanto si adegua al formalismo della ragione, a<br />

rendere buoni i contenuti della sua libera autodeterminazione. Ciò è reso possibile, ancora<br />

una volta, dalla stretta analogia tra ragione pura e ragione pratica. Come l’intelletto, nel<br />

suo applicarsi ai dati dell’esperienza sensibile, le conferisce la stabilità e l’oggettività di un<br />

accadere regolato da leggi (ragione legislatrice), così la ragione, nell’estendere in campo<br />

pratico la validità dei concetti intellettivi all’oggetto noumenico della volontà, lo pensa in<br />

base a un simbolismo razionale (a idee), che assume un valore di ideale regolativo. Come<br />

è possibile un ambito di pura moralità (Sittlichkeit), distinto dalla empirica manifestazione<br />

della vita pratica? Come va concepito un puro comando categorico della ragione, capace<br />

di imporsi quale principio unico di determinazione della volontà? Come si passa, in altre<br />

parole, dal cerchio della libertà pratica a quello più ristretto della libertà morale? E’ qui che<br />

il formalismo della ragione esprime tutta la sua potenza, non limitandosi a razionalizzare<br />

un comportamento, che attinge la propria spinta impulsiva alla facoltà sensibile del<br />

desiderio. Ma costringendo la volontà stessa a ricercare nel rispecchiamento con le pure<br />

idee razionali (anzitutto quella di una libertà intelligibile), la norma del proprio operare. La<br />

volontà deve disporsi in modo tale da poter volere, senza contraddizione, qualsiasi<br />

contenuto le sia proposto dall’esperienza, nella forma tipica della ragione: unità e<br />

universalità. Così Martinetti parafrasa il punto di vista kantiano:<br />

La volontà intelligente si converte per l’estensione sua ai fini universali assoluti in volontà razionale; la<br />

volontà pratica diventa libertà morale. I fini della volontà sono, come abbiamo veduto, motivi di natura<br />

concettuale: la libertà pratica corrisponde, nell’ordine pratico, al dominio che, nell’ordine intellettivo, il<br />

concetto introduce sopra il mondo della rappresentazione. Ma ciò che caratterizza l’intelligenza di fronte alla<br />

ragione è la natura frammentaria, incompiuta, dell’ordine concettuale: soltanto la ragione introduce<br />

un’unificazione concettuale della totalità dell’esperienza. Analogamente la volontà, sotto il segno<br />

dell’intelligenza, ha dei fini, ma non un sistema di fini. La sua attività intelligente introduce un ordine razionale<br />

in parti isolate della realtà, ma non nella totalità, perché questa attività sua è ancora sempre subordinata a<br />

impulsi sensibili. L’attività nel complesso ha ancora sempre carattere sensibile e impulsivo; e solo<br />

subordinatamente determinati campi di questa attività vengono sottoposti all’opera della volontà intelligente,<br />

che serve, in ultimo, alla vita sensibile. […] La volontà diventa veramente razionale soltanto quando agisce<br />

sotto l’impero di concetti assolutamente validi, di idee: quando cioè è determinata da motivi concettuali<br />

dell’ordine ideale. Soltanto la costituzione dei sistemi concettuali universali conferisce anche ai concetti<br />

singoli vera universalità. Essi valgono veramente allora per tutti gli uomini e per tutti i tempi. Così quando la<br />

volontà non limita la sua azione soltanto a parziali sistemi di fini, ma erige un unico sistema abbracciante<br />

sotto di sé tutti i fini, allora essa acquista un valore veramente universale, ideale, nel quale possono<br />

consentire tutte le volontà e tutti gli uomini. Allora diventa volontà razionale per eccellenza, volontà morale (L<br />

347-348).<br />

Non è difficile scorgere, in questo sintetico resoconto, i classici snodi della filosofia<br />

morale di Kant. La sua intende essere una metafisica della morale, non una semplice etica<br />

antropologica o pragmatica. Essa si riferisce cioè alla idea della volontà, come attributo di<br />

un ente puramente razionale, e si applica alla volontà dell’uomo, affetta patologicamente<br />

dal senso, solo in quanto partecipe della razionalità pura. Ciò che consente l’estensione al<br />

campo pratico della originaria funzione legislatrice dell’intelletto, è il comune presentarsi in<br />

forma di legge della esperienza esterna e di quella interna. Viene cioè accettato come un<br />

presupposto indiscusso che la moralità, come modo di estrinsecarsi normale della volontà,<br />

non possa che assumere la forma della legalità (Gesetzlichkeit). Non di una semplice<br />

conformità esteriore alla legge (Gesetzmäßigkeit), ma di una interna causazione legale<br />

(l’azione moralmente obbligatoria devono accadere o provenire aus Pflicht, non limitarsi ad<br />

43


apparire pflichtmäßig). Di qui la forma imperativa del comando (Gebot) che, in un essere<br />

solo imperfettamente razionale, in quanto affetto patologicamente dalle inclinazioni<br />

sensibili, deve necessariamente assumere la legge morale. L’imperativo categorico della<br />

moralità si differenzia da quelli ipotetici, appunto per questa autorità incondizionata: esso<br />

non si limita a dire: “se vuoi … tu devi), ma semplicemente “tu devi”. Ciò è reso possibile<br />

dalla presa in considerazione dei fini non più nella loro molteplicità disordinata, bensì nel<br />

principio di unità (sistema dei fini) che tutti li raccoglie. Tale principio è fornito della idea di<br />

libertà intelligibile (o trascendentale), attribuita come soggetto di diritto (se non di fatto)<br />

all’agente morale perfettamente razionale (l’homo noumenon). La forma che tale principio<br />

assume è quella della universalità (non una mera generalità di comportamenti o di<br />

empiriche volizioni, ma una totalità vera e propria dei soggetti volenti). Ciò impone la<br />

distinzione tra le massime (principi soggettivi d’azione) e le leggi (principi oggettivi<br />

d’azione o principi pratici in senso forte). Di qui la formula dell’imperativo categorico, di<br />

agire sempre in modo che la massima dell’azione possa valere contemporaneamente<br />

come legge universale di natura (una natura intesa, leibniziamente, come natura<br />

intelligibile, regno della grazia, nel suo problematico parallelismo con il mondo fisico o<br />

fenomenico: il regno della natura propriamente detto). Senza inoltrarci oltre nel riassunto<br />

del punto di vista di Kant, dobbiamo ora sottolinearne gli aspetti di coincidenza e di<br />

diversità rispetto a quello di Martinetti, che emerge chiaramente in queste pagine.<br />

Dicevamo prima che Martinetti si attiene generalmente al punto di vista kantiano,<br />

ma con una accentuazione del significato metafisico-religioso della sua filosofia, e in<br />

particolare della sua morale. Potremmo dire (come è stato osservato da qualcuno) che egli<br />

accentua la valenza trascendentistica del “trascendentale” kantiano, oppure (il che è lo<br />

stesso), che ne apprezza in modo eccessivo e unilaterale lo sfondo platonico-leibniziano.<br />

Direi che in queste pagine è soprattutto questo secondo aspetto a venire in primo piano,<br />

mentre in altre trattazioni (come il saggio sul Formalismo della morale kantiana o nelle<br />

lezioni universitarie su Kant) viene in luce anche la caratteristica “torsione” martinettiana<br />

del trascendentale di Kant, interpretato e utilizzato (ai fini di una identificazione della<br />

morale con la religione) come simbolo del trascendente. Cerchiamo di chiarire questo<br />

complesso insieme di questioni ermeneutiche. Potremmo dire che la preoccupazione di<br />

fondo di Martinetti sia quella di difendere l’etica formale di Kant (che si potrebbe anche<br />

definire come l’etica della libertà dei moderni, nel suo storico differenziarsi ed opporsi<br />

all’etica delle virtù degli antichi) dai possibili fraintendimenti. E’ frequente l’accusa rivolta<br />

alla morale kantiana di essere una morale “intellettualistica” o “astratta”, che impone<br />

artificiosamente ai contenuti e ai valori concreti dell’etica sociale, un preteso e falso rigore<br />

logico-formale. E’ ad esempio la critica che Hegel rivolge alla Sittlichkeit kantiana,<br />

considerata come sinonimo di moralità astratta e intellettualistica (Moralität), incapace di<br />

applicarsi in concreto all’etica obiettiva della famiglia, della società e dello Stato. Egli si<br />

appiglia in modo un po’ sofistico alle formule dell’imperativo categorico e agli esempi che<br />

Kant fornisce del proprio test dell’universalizzazione, per svuotarle di un concreto<br />

significato funzionale e riportarle al solo principio formale-astratto della non<br />

contraddizione. Nel proporti una massima dell’agire – suggerisce Kant – prova ad<br />

applicarle questa regola: domandati che cosa accadrebbe se tutti la assumessero come<br />

massima (trasformandola quindi in una legge universale). Il concetto del fine che ti proponi<br />

resterebbe immutato, oppure cadrebbe in contraddizione? In questo secondo caso, la<br />

massima non può divenire legge universale, e va dunque respinta. C’è infatti<br />

contraddizione nel mentire, e nel pretendere che tutti gli altri credano nella mia menzogna,<br />

prendendola come verità; così come c’è contraddizione nel volere il suicidio, come rimedio<br />

contro l’infelicità, il che suppone che si voglia in realtà vivere, e dunque al tempo stesso<br />

volere e non volere la vita. Hegel ironizza specialmente contro l’esempio del deposito: la<br />

44


somma di denaro che mi è stata affidata da un creditore, affinché la custodisca e in<br />

seguito la restituisca, e che sono invece tentato di trattenere, nella eventualità che il<br />

creditore sia nel frattempo morto e che gli eredi legittimi siano all’oscuro di questa<br />

circostanza. Debbo o non debbo restituire il deposito? Se comprendi che cosa significa<br />

deposito (ossia una “somma di denaro che va restituita”) – risponde Kant – non puoi<br />

volere che la tua massima egoistica (in questo caso particolare mi conviene trattenerlo) sia<br />

adottata da tutti come legge universale, perché allora “il deposito non sarebbe più un<br />

deposito”! Ma – obietta Hegel – questo è appunto ciò che vuole in concreto chi si<br />

comporta immoralmente (ed è ciò che si verifica frequentemente a livello sociale), e non<br />

sarà mai il riconoscimento di una contraddizione logica a trattenerlo!<br />

Ora, Martinetti è risoluto nella difesa di Kant da tali fraintendimenti. Il suo concetto<br />

di forma non coincide infatti con l’astratto (ossia con una vuota generalizzazione, che non<br />

considera i casi concreti). L’astratto in sé, come puro formalismo logico, rappresenta una<br />

determinazione insufficiente della volontà. Il formalismo logico si attua in concreto<br />

mediante l’unione funzionale con l’elemento particolare della volizione: “l’azione dei motivi<br />

ideali si esercita come ogni altra azione di oggetti concettuali: per mezzo di<br />

rappresentazioni particolari. La ragione astratta, i principi universali non muovono per sé la<br />

volontà: un fine è sempre un fine concreto e particolare” (L 351). La LEGGE MORALE si limita a<br />

formulare una esigenza assoluta: quella “dell’unità di tutti i voleri in una volontà unica”<br />

(L 350). Esigenza che non si presenta mai in astratto, ma sempre congiunta con la<br />

“preparazione” spirituale che l’agire autenticamente morale concretamente richiede.<br />

Martinetti fa l’esempio dell’elemosina: “altro è soccorrere un indigente per impulso di pietà,<br />

altro è aiutarlo con quello spirito di carità superiore che in un dolore vede gli innumerevoli<br />

dolori di tutti coloro che soffrono” (L 351). Nel primo caso abbiamo un agire “patologico”<br />

(nel significato kantiano di impulsivo), nel secondo caso un agire “pratico” (qui nel senso<br />

specifico di morale). La libertà morale consiste in una disposizione costante della volontà,<br />

acquisita mediante l’esercizio concreto della moralità, per una stratificazione di atti<br />

giudicativi, sedimentati in una attitudine o modalità tipica del sentimento: quella<br />

“disposizione per cui l’uomo è in grado di opporre un animo sempre uguale a tutte le<br />

circostanze, per cui egli ha immedesimato se stesso con un ordine di principi immutabili,<br />

contro cui poco più possono le impressioni del momento” (ibid.). Ma se ciò è vero, sbaglia<br />

Kant nel contrapporre i moventi dell’agire, sulla base della loro origine sensibile<br />

(inclinazioni), oppure razionale-intellettiva (motivi). Chi fa del bene a un amico non compie<br />

un’azione morale, perché a ciò è indotto anche dal sentimento, mentre lo compie chi fa del<br />

bene a un nemico. Qui Kant rivela una rigidità morale, contro cui già Schiller all’epoca era<br />

insorto. Ma da che cosa dipende questo persistente dualismo di sensibile e intelligibile,<br />

che ipostatizza le due fonti concorrenti dell’agire umano in due facoltà astrattamente<br />

concepite (sensibilità e intelligenza)?<br />

Potremmo dire che è un residuo di platonismo, che Martinetti valuta in maniera<br />

duplice. Da un lato, si tratta per lui (che segue in questo punto l’esegesi kantiana di<br />

Friedrich Paulsen) di una eredità positiva. Il dualismo metafisico, benché razionalmente<br />

insostenibile e contraddittorio, riveste sempre un profondo significato religioso. E’ l’antico<br />

motivo (orfico-platonico-gnostico-cristiano) della distinzione assiologica assoluta di Dio e<br />

mondo, trascendenza e immanenza, infinito e finitezza, eternità e tempo. Martinetti rifugge<br />

(spinozianamente) dall’interpretare tale dualismo come contrasto assoluto di bene e male,<br />

peccato e salvazione, anche se c’è stato qualche interprete (Augusto Del Noce) che lo ha<br />

voluto intendere così, in una luce di pessimismo religioso. Ma nelle pagine de La libertà io<br />

leggo piuttosto una forma di ottimismo razionale, tinto di religiosità platonico-stoica. Con<br />

queste parole Martinetti rileva il significato religioso del kantismo:<br />

45


La ragione introduce nella vita umana una rivelazione improvvisa: essa strappa bruscamente l’uomo dal<br />

mondo dei suoi interessi e dei suoi concetti finiti per metterlo dinanzi al più grave e al più terribile dei<br />

problemi: dinanzi al quale, una volta che lo spirito ne è stato profondamente penetrato, tutte le cure e le<br />

grandezze terrene non sono più che apparenze fugaci e spregevoli. L’intelligenza è la facoltà della vita<br />

empirica, delle sue cure e dei suoi problemi, la ragione è l’inizio e il fondamento della vita morale e religiosa.<br />

Ben a ragione si è detto che l’uomo è l’animale razionale: ciò equivale a dire che l’uomo è l’animale religioso<br />

(L 345).<br />

Tale significato si accorda con la visione profondamente ottimistica dello stoicismo, che<br />

pone Dio come omnitudo realitatis (in un significato panenteistico conciliabile sia con il<br />

teismo che con l’ateismo o il panteismo), ed esclude la riduzione “antropologistica” del<br />

concetto di libertà a semplice indifferenza:<br />

Essa [la libertà ] non è quindi un’assurda facoltà del bene e del male; essa è una cosa sola con la potenza,<br />

con la dignità dell’animo retto: mancare contro la legge morale vuol dire ricadere sotto il dominio<br />

dell’impulso, perdere la libertà morale. Noi diamo perciò ragione agli stoici che dicevano solo il saggio essere<br />

libero: per quanto anche nel saggio la libertà non sia mai perfetta (L 351).<br />

Ma vi è un altro senso del “platonismo” di Kant – già denunciato da Schopenhauer –<br />

che Martinetti rifiuta, o meglio corregge, reinterpretandone la metafisica in una versione<br />

“leibniziana”. Ciò emerge se si pone il baricentro della Critica della ragione pura di Kant<br />

(come fa Martinetti) nella Dialettica trascendentale, anziché nell’Analitica trascendentale<br />

(come fa invece Hermann Cohen e la autorevole tradizione neokantiana che si è a lui<br />

rifatta nel Novecento). La nozione centrale, in grado di gettare una luce sulla complessa<br />

tematica dell’Analitica, ossia il rapporto tra sensibilità e concetti, intuizioni pure e categorie,<br />

è per Martinetti l’idea. Il termine è identico a quello usato da Platone, ma il significato è<br />

profondamente diverso. Non si tratta infatti della “visione intellettuale” di forme assolute, di<br />

contenuti intelligibili (che Kant riserva all’intellectus archetipus divino, inattingibile da parte<br />

dell’intelligenza finita o intellectus ectypus umano). Bensì di un accesso indiretto, formale<br />

o simbolico, della razionalità umana al piano dell’assoluto o del trascendente. La ragione<br />

non è cioè in grado di concepire positivamente, ma solo negativamente, le idee o i<br />

noumeni (gli intelligibili), che si trasformano in “ideali trascendentali”, di cui è consentito un<br />

“uso regolativo”, quando si applicano ai contenuti dell’intelligenza. Di qui la distinzione<br />

kantiana tra il trascendente (ciò che supera per principio la possibilità del conoscere<br />

umano) e il trascendentale (ciò che consente l’applicazione delle forme a priori del<br />

conoscere nei limiti della esperienza possibile). Dove avrebbe sbagliato Kant (a causa del<br />

persistente dualismo platonico di sensibile-intelligibile)? Nel distinguere in modo rigido e<br />

astratto tra “facoltà” distinte e gerarchizzate: sensibilità, intelletto, ragione. Nel<br />

contrapporre, ad esempio, intelletto (Verstand) come “facoltà delle regole” a ragione<br />

(Vernunft) come “facoltà dei principi”, concetto (Begriff) o categoria (Kategorie) a idea<br />

(Idee), intuizione (che è solo empirica) a deduzione (che è solo intellettuale-raziocinativa).<br />

Come correggere questa unilateralità, senza fare venir meno la distinzione critica tra il<br />

trascendente e il trascendentale (lasciando dunque alla “intuzione” o alla esperienza del<br />

divino, cui accede il conoscere simbolico della fede religiosa, carattere “formale” e non<br />

“sostanziale”)? Recuperando lo sfondo leibniziano del kantismo, la visione cioè della<br />

intima compenetrazione della sensibilità e dell’intelligenza, concepite non come due<br />

facoltà distinte, ma come gradi di un continuum sensibile-razionale che ammette infinite<br />

sfumature intermedie. Meglio ancora: come due diverse espressioni simboliche del<br />

dinamismo unitario della monade. Questa – come afferma Lebniz con una immagine<br />

analogica – è “senza finestre”, e dunque non necessita dell’influsso fisico delle altre<br />

sostanze, per dare inizio all’autonomo movimento del conoscere e dell’agire (appetitus). Al<br />

tempo stesso, ciascuna monade (in diretta relazione con la mente infinita di Dio) è in<br />

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grado di rappresentare la totalità delle altre monadi, ossia l’intero universo (sia pure, e qui<br />

sta la sua limitazione, la sua finitezza, da un singolo “profilo” o punto di vista). Questa<br />

visione, di una necessaria fusione o “concrescenza” di sensibile e intelligibile, va<br />

recuperata al kantismo, relativizzando la differenza dei concetti (che dipendono, per il loro<br />

riempimento, dalla sensibilità) dalle idee (che, essendo prive di riferimento empirico,<br />

restano eternamente “vuote”):<br />

Kant ha avuto torto di riservare alle idee della ragione il campo del trascendente. In realtà questa elevazione<br />

si inizia già nelle operazioni stesse dell’intelligenza: ogni concetto è già per se stesso un principio<br />

trascendente. L’uso dei concetti può essere empirico: in quanto l’unità loro è fatta servire soltanto<br />

all’ordinamento del mondo sensibile e al nostro orientamento pratico in esso. Ma se noi consideriamo la<br />

unità concettuale in se stessa, noi dobbiamo già vedere in essa una vera unità intelligibile, un’idea platonica:<br />

ciascuno d’essi esercita, in un campo limitato, quella medesima funzione che hanno le idee vere e proprie<br />

della ragione in rapporto alla totalità dell’esperienza e cioè di elevarci alla considerazione di un ordine<br />

intelligibile che è il fondamento fisso ed immutabile dell’ordine sensibile. In ogni concetto si rivela già quella<br />

stessa contraddizione che è essenziale alla ragione: esso è, o dovrebbe essere, una pura unità intelligibile e<br />

tuttavia non ci è accessibile che per mezzo di schemi e simboli derivati dal senso: onde la sua unità sfugge<br />

realmente sempre alla nostra determinazione diretta (L 345).<br />

Dove risiede, in definitiva, il valore religioso del kantismo? Appunto, nel significato<br />

nuovo e profondo che assume la trascendenza, non più sottratta definitivamente al piano<br />

finito della esperienza umana, in quanto ipostatizzata in una vuota sostanza e relegata in<br />

una distanza infinita, ma resa accessibile all’esperienza umana, nella sua apertura<br />

trascendentale. Il trascendentale kantiano non esclude per sempre l’uomo, il soggetto<br />

conoscente e attivo, dall’accesso al trascendente. Il limite critico posto tra l’uno e l’altro ha<br />

per Martinetti il significato di una inclusione, piuttosto che di una esclusione:<br />

La soluzione di queste antinomie della ragione [il riferimento è alla Dialettica trascendentale della Critica<br />

della ragione pura] è data, secondo Kant, da un atto di modestia della ragione: riconosciamo, egli dice, che<br />

l’esperienza stessa con la sua costituzione ci rinvia ad un fondamento unico ed essenziale di tutta la realtà;<br />

ma riconosciamo nello stesso tempo che esso, appunto perché dovrebbe contenere le ragioni di tutta<br />

l’esperienza, è al di là di ogni esperienza; che noi possiamo giungere fino a comprendere la necessità di un<br />

fondamento trascendente dell’esperienza, ma che dobbiamo rinunciare del tutto a determinarlo. Questa<br />

duplice affermazione basta nondimeno a Kant per eliminare da un lato ogni rappresentazione superflua del<br />

trascendente e dall’altro ogni forma di dogmatismo naturalistico che pretenda rinserrare l’uomo nei confini<br />

della realtà sensibile: la ragione teoretica, se non può rivelarci i misteri ultimi dell’esistenza, può almeno dare<br />

un fondamento saldo alla nostra vita morale e religiosa che è un riconoscimento pratico del trascendente (L<br />

344).<br />

Ciò significa, in riferimento alla religiosità popolare e ai suoi simboli, la possibilità di<br />

ancoraggio della fede a una salda moralità, di cui la vita del saggio è il primo esempio. Ma<br />

anche, in riferimento alla dogmatizzazione teologica, l’appello alla ragione, nel suo<br />

significato intimamente religioso, di critica antifeticistica degli idoli, di contro alla tendenza<br />

verso il “paganizzamento” della pura fede spirituale. Ciò vale anche per quelle forme<br />

laicizzate di “superstizione” che sono, per Martinetti, il materialismo, l’ateismo, lo spirito<br />

faustiano e prometeico della civiltà della tecnica, ecc. Sono aspetti che si potranno in ogni<br />

caso meglio apprezzare nella successiva trattazione della libertà civile (cap. 14).<br />

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6. LE LIBERTA’ CIV<strong>IL</strong>I<br />

Il capitolo XIV offre una ricapitolazione dei gradi della libertà precedentemente considerati<br />

(spontaneità, libertà pratica, libertà morale), introducendo un nuovo concetto: quello di<br />

DIRITTO. Non si tratta in realtà di un concetto nuovo, rispetto a quello della libertà, ma di una<br />

sua diversa declinazione: non più interiore, ma esteriore, non più individuale, ma sociale e<br />

collettiva. Quella che entra qui in gioco è la tensione dialettica, già in precedenza<br />

analizzata, tra “libertà da” e “libertà di”. Se consideriamo l’insieme dei gradi della libertà<br />

come un unico processo di ascensione spirituale o di liberazione, quello che emerge in<br />

primo piano è l’aspetto negativo della libertà: “il progresso nella libertà è liberazione da un<br />

limite […]. Perciò lo spirito guarda ai confini in cui era rinchiuso come ad un carcere: la<br />

libertà d’un tempo si converte in necessità, contro la quale bisogna lottare per salire<br />

sempre più in alto” (L 355). Se questo fosse l’unico punto di vista che possiamo assumere<br />

sul problema della libertà, se ne dovrebbe concludere che si tratta di una idea chimerica:<br />

non la troviamo mai nel momento in cui la sperimentiamo, ma solo nella luce retrospettiva<br />

del passaggio a un momento successivo. Quella che sperimentiamo nel concreto sarebbe<br />

la necessità, mai la libertà (tenuto anche conto del fatto che i gradi dell’ascensione<br />

spirituale sono innumerevoli, mentre la nostra esistenza è finita, e si conclude nella<br />

tragedia della morte). Martinetti modifica allora il punto di vista, affermando che la libertà è<br />

“la spontaneità che accompagna ogni grado della vita […]. La libertà morale per esempio<br />

non è che l’attività morale medesima considerata nella sua spontaneità”, ecc. (L 356). In<br />

realtà, noi sappiamo che la libertà morale è la forma, il momento della unificazione ideale,<br />

della attività morale, considerata come contenuto. E sappiamo come il rapporto formacontenuto<br />

sia da concepirsi anzitutto negativamente: come “superamento”,<br />

“disciplinamento”, “rimozione” degli aspetti empirici, sensibili, concreti dell’attività. Ma se<br />

non vogliamo restringerci a una visione negativa della liberazione (con i connessi esiti<br />

pessimistici, evidenziati da Schopenhauer), dobbiamo concepire la spontaneità<br />

(ovviamente, una forma di spontaneità diversa dalla mera spontaneità fisica) come il<br />

positivo di quella negazione. Ogni grado di libertà si esplica come concreta libertà di, come<br />

esercizio di un positivo diritto, la cui piena giustificazione formale si ha tuttavia nel<br />

passaggio al grado successivo (che è da intendersi come il dover essere e la ragione<br />

ideale del grado precedente). Ciò vale per il singolo (il quale avverte l’imperativo razionale<br />

come una costrizione e una limitazione della vita istintiva, in una sorta di “violenza”<br />

pedagogica a cui si assoggetta liberamente), ma anche per la collettività sociale (in cui,<br />

all’insieme positivo dei diritti e delle libertà civili, fa da riscontro inevitabile l’insieme dei<br />

doveri che ne rappresentano la giustificazione e la ragion d’essere finale).<br />

Finora abbiamo inteso l’espressione “diritto” nel significato filosofico ampio, come<br />

equivalente di “libertà” (libertà di). Ma vi è poi un significato ristretto, giuridico, di diritto,<br />

con cui Martinetti intende misurarsi: questo rappresenta l’estensione della libertà pratica,<br />

dalla sfera dell’individuo a quella del gruppo sociale. Troviamo nel testo due definizioni, tra<br />

loro equivalenti, di tale più specifico diritto, che circoscrive il perimetro della LIBERTA’ CIV<strong>IL</strong>E<br />

propriamente detta. Il diritto è “la forma razionale che regola l’unificazione delle tendenze<br />

individuali nella libertà pratica” (L 357). Ovvero “è la forma razionale delle spontaneità<br />

istintive nella coscienza collettiva” (L 364). Nella prima definizione, emergono in primo<br />

piano l’egoismo individuale e l’uso della forza (sia pure diretti e disciplinati dalla ragione)<br />

come fondamento unico del diritto positivo. Nella seconda, si fa strada la diversa idea di<br />

un diritto morale, cui dovrebbe idealmente riferirsi (come proprio “dover essere”) l’unità<br />

collettiva dello stato (in quanto stato di diritto, ma anche stato di cultura), per realizzare in<br />

concreto e nella loro pienezza i diritti e le libertà civili dei cittadini. Introducendo tali<br />

concetti, Martinetti entra a pieno titolo nel dibattito sulla forma dello stato, introdotto dai<br />

48


teorici liberali (e dai loro critici socialisti) alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento.<br />

La sua trattazione mantiene però volutamente (e non solo per preoccupazioni di tipo<br />

“politico”) un profilo sfumato e sfuggente, che ci costringe a una più ampia<br />

contestualizzazione del discorso. Chi si è interessato del pensiero politico di Martinetti (ad<br />

esempio Cosimo Scarcella, Piero Martinetti. Politica e filosofia, Edizioni Scientifiche<br />

Italiane, Napoli-Roma, 1989), ne ha sottolineato la vicinanza con la cosiddetta teoria delle<br />

élites di Gaetano Mosca, Wilfredo Pareto e Giuseppe Rensi. Questi autori si possono<br />

annoverare tra i critici novecenteschi della democrazia liberale, di cui evidenziano i limiti di<br />

formalismo e di astrattismo. Il potere reale e l’efficienza di un sistema sociale dipendono<br />

dalla esistenza di un gruppo dirigente capace e coeso, in grado di associare all’esercizio<br />

del governo gli elementi più preparati e meritevoli delle classi subalterne. Le forme<br />

costituzionali in cui si attua questa circolazione delle élites (ossia il ricambio delle classi<br />

dirigenti) sono secondarie, rispetto al fine primario della conservazione ed estensione del<br />

potere economico e sociale. Da questo punto di vista, la DEMOCRAZIA non rappresenta<br />

affatto un ideale, in quanto forma di dominio politico della maggioranza, in cui sembra<br />

meglio rispecchiarsi l’idea liberale dello stato post-risorgimentale. Anche l’aristocrazia,<br />

l’oligarchia (e perfino certe forme “benevole” di dittatura) possono servire allo scopo,<br />

temperando gli eccessi demagogici dei regimi democratici, e frenando la tendenza<br />

naturale alla “degenerazione” dei sistemi politici (l’invecchiamento delle classi dirigenti,<br />

l’indebolimento dell’ethos sociale tradizionale, la corruzione introdotta dai meccanismi del<br />

mercato, ecc.). Il peso riconosciuto di queste teorie sul pensiero liberale (antifascista) di un<br />

Croce e su quello autoritario (filofascista) di un Gentile è stato ben rilevato dagli scienziati<br />

della politica, come Norberto Bobbio. Si tratterebbe di estendere il giudizio a Martinetti,<br />

per concludere alla tesi della sostanziale omogeneità dell’idealismo italiano con quel<br />

conservatorismo politico, che rappresenterebbe una costante della ideologia nazionale,<br />

segnalando una linea di continuità tra prefascismo e fascismo (come sosterrà, nel<br />

secondo dopoguerra, l’allievo di Martinetti: Antonio Banfi, nel frattempo approdato al<br />

comunismo togliattiano).<br />

Volendo, nel testo della Libertà si possono rilevare espliciti accenti in tal senso (più<br />

ampiamente elaborati nelle cosiddette opere popolari di Martinetti, come Il Breviario<br />

spirituale del 1922). Ad es., a pag. 361, l’accenno alla “naturale decadenza delle<br />

aristocrazie che induce negli uomini l’illusione che ognuno porti con sé una specie di bontà<br />

e saggezza naturale, per cui sia capace di reggersi da sé, anzi ne abbia il diritto”. Parole in<br />

cui è evidente l’estraneità dell’autore all’idea di Rousseau, della “bontà naturale” degli<br />

uomini e del loro conseguente “diritto alla felicità”, che è alla base della ideologia<br />

democratica della Rivoluzione Francese e della Costituzione degli Stati Uniti d’America.<br />

Analogo accento di scetticismo nella affermazione di pag. 362, secondo cui “il vago<br />

desiderio di libertà che agita spesso le moltitudini non è il più delle volte che un desiderio<br />

di mutare servitù: la libertà vera è per esse un compito troppo arduo, dal quale essere<br />

rifuggono per riposare nell’asservimento al costume ed alle convenzioni sociali e<br />

nell’adorazione del successo e della forza”. Affermazione che suona, per altro, in forte<br />

contrasto con quella che si trova in conclusione del libro, secondo la quale “l’amore della<br />

libertà è l’amore più alto ed universale dell’uomo: egli la cerca sotto tutti i cieli, in tutti i<br />

gradi della civiltà, in tutte le forme dell’attività sua: e l’uomo che lotta per la libertà ci<br />

riempie l’anima di simpatia e di rispetto anche se, per ignoranza o per passione, egli la<br />

cerca tumultuosamente là dove essa non è” (L 428-429). Ma, ciò che emerge dalle pagine<br />

di questo capitolo è piuttosto il tentativo di delineare quella che potremmo chiamare una<br />

terza via, tra le due concezioni principali della filosofia del diritto contemporanea – una che<br />

assume il paradigma dell’individualismo, l’altra quello del collettivismo – in nome di una<br />

idea personalistica (che potremmo anche definire “religiosa”) del diritto e dello stato.<br />

49


Vediamo di raccoglierne gli elementi caratterizzanti (Gioele Solari, nel secondo<br />

dopoguerra, segnalerà una vicinanza, da questo punto di vista, tra le tesi di Martinetti ne<br />

La libertà e quelle delle opere mature e di ripensamento autocritico del secondo Croce:<br />

Storia d’Italia, Etica e politica, Storia d’Europa, La storia come pensiero e come azione).<br />

Martinetti riconosce un duplice difetto di fondazione del principio concreto del diritto<br />

e delle libertà civili, nelle dottrine politiche liberali (oggi si preferisce talvolta il termine<br />

libertarie) individualistiche e in quelle collettivistiche (siano esse di impianto organicistico e<br />

conservatore oppure socialistiche e rivoluzionarie). Le prime pongono l’origine del diritto<br />

collettivo nel SINGOLO, concepito in termini naturalistici, come portatore cioè di un diritto<br />

illimitato alla esplicazione della propria forza fisica, che trova un limite empirico<br />

nell’analogo diritto dell’altro individuo:<br />

Lo stabilimento d’un ordine giuridico ha per fine soltanto la possibilità della coesistenza pacifica degli<br />

individui e delle loro volontà egocentriche. Lo stato non è in fondo che una specie di male necessario che<br />

deve essere ristretto nei minori limiti possibili: l’ideale suo, anzi, è di rendersi per ultimo inutile e cioè di<br />

rendere possibile una società di individui pacificamente conviventi senza alcuna coazione reciproca. Tutti gli<br />

individui umani, in quanto tali (e perciò in condizioni di universale uguaglianza), posseggono un diritto<br />

originario alla libertà della loro esplicazione in ogni senso entro i limiti imposti dalla libertà altrui: la facoltà di<br />

stabilire questi limiti (e cioè di stabilire un ordinamento politico e giuridico) può essere trasferita, per via di<br />

mandato, in una minoranza a ciò eletta: ma sopra di essa sta sempre l’inalienabile diritto dei singoli, fuori dei<br />

quali non vi è vero diritto (L 359).<br />

Questa concezione di fondo – nota Martinetti – si trova alla base delle più diverse<br />

formulazioni del LIBERALISMO politico: dall’anarchismo teorico (non quello pratico, tinto di<br />

socialismo) alla classica teoria di Kant dello stato di diritto. Ma noi potremmo osservare<br />

come essa sia ancora all’origine di molte teorie politiche contemporanee (libertarie,<br />

democratiche, liberali ma anche socialistiche). Martinetti consente su un aspetto<br />

fondamentale dell’individualismo, che potremmo definire la sua insopprimibile radice<br />

giusnaturalistica: l’attribuzione, cioè, a ciascuno di “quel diritto primitivo e rudimentale per<br />

cui – da un punto di vista morale – riconosciamo ad ogni creatura, che non ci offende, il<br />

sacro diritto alla vita” (L 356). Ma un semplice jus naturae non costituirà mai la base<br />

sufficiente del diritto e della libertà positiva, che va invece collocata nella idea<br />

dell’individualità concreta, non più concepita come astratta singolarità, bensì in quanto<br />

“personalità morale”:<br />

La teoria liberale, quando pone a fondamento dei diritti la personalità morale, abbandona in realtà le sue<br />

premesse individualistiche: perché la personalità morale è inseparabile dal concetto d’una coscienza morale<br />

collettiva, per cui soltanto le virtù morali hanno un senso: ed anche i diritti morali della personalità al rispetto<br />

del suo substrato fisico, della sua dignità, ecc. valgono soltanto in quanto essa è lo strumento di attività<br />

morali che trascendono l’individuo (L 360).<br />

Si ha dunque, per un verso, una accettazione di fondo del liberalismo, nella sua<br />

accezione politica più ampia. Ma tale accettazione sembra arrestarsi al limite del<br />

riconoscimento della dottrina economica del liberismo, quale suo corollario inevitabile. Nei<br />

confronti di tale dottrina (che nella visione politica liberale classica, ma anche in quella<br />

contemporanea, è ritenuta inseparabile dalla ammissione dei diritti politici e sociali)<br />

Martinetti esprime una recisa condanna (anche più netta di quella, analoga, di Benedetto<br />

Croce):<br />

quando la teoria liberale pone, con maggiore coerenza, l’individuo nella sua singolarità come base del diritto,<br />

questo non può che essere il diritto dell’individualità sensibile […]. Anche nella pratica è un ottimismo ben<br />

ingiustificato il credere che dal semplice assembramento e dal conflitto di queste volontà naturali debba<br />

sorgere infallibilmente un ordine razionale. Certo può darsi che per una specie di processo naturale gli<br />

50


interessi e gli egoismi particolari si compongano spontaneamente in un felice equilibrio: ma questa è anche<br />

più spesso la via che per l’immoderato svolgersi degli egoismi conduce alla rovina. Ciò è visibile<br />

singolarmente nel campo economico con i risultati che dà nella pratica la superstizione degli economisti per il<br />

rispetto assoluto dei naturali conflitti economici (L 361).<br />

La libertà economica (e la connessa teoria della lotta di classe, sia nella variante liberista<br />

che in quella opposta marxista), benché rientri come materia nella sfera formale del diritto,<br />

non è accolta da Martinetti come termine di riferimento assoluto delle libertà civili. Essa<br />

può anzi essere limitata dallo stato (come si legge nel Breviario spirituale), quando ciò sia<br />

indispensabile per assicurare il rispetto della concreta personalità morale dei cittadini e la<br />

aspirazione di tutti e di ciascuno al bene comune: un concetto questo, di ascendenze<br />

aristotelico-tomistiche, che il “laicista” Martinetti (come gli è stato sovente rimproverato dai<br />

cattolici) mostra di non disprezzare affatto. Analogo realismo, nel rifiuto di ogni facile<br />

ottimismo “giusnaturalistico”, si osserva nel rifiuto di considerare le più determinate libertà<br />

civili: diritto di associazione e di riunione, libertà di stampa, ecc. come un mero diritto<br />

naturale dell’individuo, che ne oblia la concreta appartenenza a un più ampio insieme<br />

morale, politicamente qualificato: “la libertà di associazione e la libertà di stampa, che<br />

sono generalmente (ed a torto) considerate come inerenti all’individuo, sono in realtà<br />

elementi e problemi della libertà politica: perché il diritto di associazione e il diritto della<br />

stampa sono coefficienti essenziali della costituzione politica” (L 364-365).<br />

Una critica altrettanto netta è rivolta alle dottrine politiche ispirate a un principio<br />

collettivistico. L’errore del COLLETTIVISMO è di porre “lo stato prima dell’individuo come il tutto<br />

è prima della parte: la sua volontà generale obbiettiva esprime la più profonda realtà e<br />

perciò ne costituisce anche la reale libertà” (L 359-360). Sia nella versione liberale di<br />

Hegel, che in quella conservatrice e tradizionalista di Haller, un analogo vizio organicistico<br />

è sotteso a tali concezioni, che stentano a sottrarsi dalla tentazione di “divinizzare” lo stato<br />

(statolatria, come la definiva ad esempio Croce: con riferimento a quella particolare<br />

versione di destra dell’hegelismo napoletano, ripresa poi da Gentile e da lui usata come<br />

impropria legittimazione “liberale” del totalitarismo fascista). Ma Martinetti sembra<br />

estendere la sua critica alle opposte forme socialistiche (o meglio comunistiche) di<br />

collettivismo, che abbandonano l’originaria matrice liberale. In esse egli denunzia anzitutto<br />

l’economicismo:<br />

Non è senz’altro accettabile […] la teoria […] che […] la libertà consista nella perfetta subordinazione alla<br />

volontà generale incarnata nello stato. Sebbene lo stato rappresenti una ragione impersonale e collettiva,<br />

esso non è che la razionalità della vita inferiore, che sola è disciplinata dal diritto. Tutto ciò che costituisce<br />

propriamente la vita dello spirito trascende l’orizzonte e la capacità dello stato. Perciò voler porre come limite<br />

ed essenza ideale della libertà la immedesimazione con la volontà collettiva dello stato è un voler proporre<br />

all’umanità l’ideale sociale delle formiche o delle termiti, un trasformare lo stato in una collettività di servitori<br />

senza personalità e senza volontà. A che allora tutto questo meccanismo colossale, che non ha altro<br />

compito se non di difendere e di nutrire i suoi servi: i quali a loro volta non hanno altro fine che di piegarsi in<br />

tutte le loro attività allo stato e di sacrificarsi per esso? (L 362).<br />

Nella teoria politica dell’epoca non era ancora invalso il termine totalitarismo, per<br />

descrivere questa reciproca, in fondo assurda, finalizzazione dell’individuo allo stato e<br />

dello stato al soddisfacimento dei bisogni elementari della massa (termine in cui si<br />

dissolve ogni parvenza di singolarità personale): ma la cosa, potremmo dire, era ben<br />

presente a Martinetti. Anche senza assumere prese di distanza esplicite da comunismo e<br />

fascismo, era evidente quale ne fosse la implicita valutazione, in questa sua denunzia<br />

dell’errore teorico fondamentale del “collettivismo”. Del resto, qualche velato accenno alla<br />

contemporaneità politica, si poteva anche cogliere: ad esempio, nell’accenno alla<br />

“tirannide” politica, che “è sempre educazione di servi e di ribelli, non di uomini liberi,<br />

51


corruzione morale, preparazione sicura di rovine irreparabili” (L 364). In ciò Martinetti (con<br />

riferimento al destino dell’Italia e dell’Europa, nell’ultimo scorcio di quello che sarebbe<br />

stato chiamato il “secolo breve”) era allora del resto buon (e inascoltato) profeta.<br />

La “terza via” (tra individualismo e collettivismo) indicata da Martinetti si può<br />

caratterizzare come un personalismo non dogmatico (come quello cattolico, affidato alla<br />

cosiddetta “dottrina sociale della Chiesa”), ma che conserva una indubbia impronta<br />

“religiosa”. Esso si lega al concetto – anticipato fin dalle prime pagine del capitolo – di un<br />

DIRITTO MORALE, distinto e superiore al diritto giuspositivo, cui rinviare il compito della<br />

giustificazione ultima delle stesse libertà civili. Come si passi dall’unità “puramente<br />

giuridica” del diritto, fondata sull’egoismo, alla superiore “unità morale”, fondata sul<br />

principio nuovo (a sfondo religioso) della carità, è compito che Martinetti lascia volentieri<br />

agli storici della civiltà o ai sociologi (un accenno si trova alle pp. 357-358). A lui preme<br />

piuttosto riconoscervi la necessità di un passaggio logico, nel progresso graduale della<br />

libertà: dal piano fisico e naturalistico a quello spirituale, dalla particolarità all’universalità,<br />

ecc. Si affaccia, in tale passaggio, una nuova idea, rispetto a quella della mera libertà, che<br />

si deve integrare con essa, a comporre la sfera completa del diritto (giuridico e morale):<br />

quella di “giustizia” e di fraternità tra gli uomini, ossia di “carità”:<br />

Così si crea al di sopra del mondo del diritto un regno della moralità, un ordine di valori ideali, il quale<br />

abbraccia non soltanto i rapporti ideali fra gli individui, ma anche il rapporto degli individui con le realtà ideali<br />

superiori e cioè l’intiera sfera della vita morale e religiosa. Anche quest’ordine, che stringe l’umanità intiera<br />

nell’unità della chiesa ideale, ha le sue esigenze, cioè il suo diritto; che non è, ben s’intende, da assimilarsi<br />

allo stretto diritto, ma è ugualmente una legislazione universale, che si impone gradualmente, con altri mezzi<br />

ed in un altro piano, a tutti gli spiriti. Come un diritto superiore allo stretto diritto, esso esercita su di questo<br />

un’azione limitatrice e formatrice: penetra le leggi giuridiche di un altro spirito, le riveste d’un nuovo carattere,<br />

condanna ciò che trova in esse d’irriducibile preparandone lentamente la di sparizione e ne estende per<br />

contro il campo in conformità delle nuove esigenze della coscienza morale. Sorge per questa via, in<br />

opposizione allo stretto diritto, un vero diritto morale, che non è soltanto coordinazione razionale delle<br />

volontà egoistiche, in quanto esse hanno la volontà e la forza di affermare nell’ordine obbiettivo il loro diritto<br />

subbiettivo: ma è riconoscimento del diritto originario a tutte le volontà che rivelino anche solo un inizio ed<br />

una possibilità di una comunione morale, sostituzione progressiva all’ordine della forza del regno dell’equità<br />

e della carità universale (L 358).<br />

Si tratta di formule suggestive, ma non sempre chiare (come Solari osserverà in seguito,<br />

proponendo, come soluzione, una integrazione del concetto martinettiano di “diritti morali”<br />

con quello crociano e azionista di “libertà e giustizia”). Martinetti pensava forse a una idea<br />

evolutiva (e non statica) del diritto: a quel processo di estensione della consapevolezza<br />

morale, che alcuni autori contemporanei hanno ad esempio caratterizzato come<br />

“allargamento del cerchio dell’etica”. L’accenno a “tutte le volontà che rivelino anche solo<br />

un inizio ed una possibilità di una comunione morale” può suggestivamente riferirsi al tema<br />

della liberazione (e del riconoscimento di diritti) dei soggetti più deboli o marginali della<br />

società: come un tempo gli schiavi, oggi le donne, gli umani marginali, o (perché no) alcuni<br />

animali non umani. Più probabilmente, Martinetti pensava alla positiva funzione<br />

pedagogica che, l’esistenza di una élite intellettuale politicamente riconosciuta (quei<br />

“chierici”, di cui Benda aveva denunciato il pericolo di “tradimento”, alle soglie della<br />

Grande Guerra), avrebbe potuto svolgere, a correzione dei difetti costitutivi del vecchio<br />

stato liberale ottocentesco. Solo uno stato che sappia riconoscere la propria vocazione<br />

culturale (ponendosi dunque come mezzo per la attuazione in concreto della libertà<br />

spirituale, anziché come fine del processo sociale, nel suo divenire naturale ininterrotto)<br />

può aiutare i cittadini ad elevarsi dal terreno empirico degli interessi, degli egoismi, dei<br />

diritti giuridici, a quello del diritto morale (che ne costituisce il dover essere formale e<br />

ideale, capace di giustificarlo e di garantirlo universalmente).<br />

52


Accenti mazziniani si colgono, del resto, nella identificazione di costituzione<br />

(l’apparato giuridico-formale dello stato) e popolo: “la costituzione di un popolo è tanto più<br />

perfetta quanto più perfetta è [la] compenetrazione dell’unità formale con le volontà<br />

individuali […]. Ogni popolo crea naturalmente a sé dalle profondità della sua anima la sua<br />

costituzione: quindi ogni popolo ha quel grado di libertà civile che corrisponde al suo<br />

spirito” (L 364). Come pure nella delineazione dei rapporti tra stato e chiesa, che vanno<br />

oltre la classica formula separatista liberale della “libera chiesa in libero stato”. Martinetti si<br />

collega, da questo punto di vista, a tutto un filone di critica antirisorgimentale, che non<br />

contesta l’opera politica in quanto tale, realizzata dai padri fondatori della patria italiana<br />

(Cavour e la Destra storica). Ma che ne denuncia un limite di visione morale di fondo:<br />

l’assenza di una profonda concezione religiosa, che stia a fondamento della libertà civile.<br />

Nelle pagine che concludono il capitolo egli si esprime senza equivoci sui rapporti tra STATO<br />

e CHIESA, che discendono dalla sua visione di un diritto morale superiore e fondante lo<br />

stesso diritto civile. Da un lato, lo stato deve rivendicare a sé non solo la sfera esterna<br />

della libertà ecclesiastica (per evitare confusioni tra temporale e spirituale), ma la sfera<br />

interna della moralità religiosa, che non può scadere in forme arcaiche e superstiziose,<br />

sottratte al giudizio universale della coscienza morale razionale, inducendo al fanatismo<br />

(riservandosi dunque quello jus in sacra, teorizzato dal giusnaturalismo laico all’epoca<br />

delle guerre di religione, ed estraneo al separatismo liberale eticamente neutrale). Lo<br />

stato, naturalmente, può intervenire soltanto a limitare le manifestazioni esterne in cui<br />

eventualmente si traduca il fanatismo superstizioso, lasciando immune il piano interno<br />

delle credenze e della fede personale. Ma esso non è indifferente, di fronte alle<br />

conseguenze morali della fede religiosa: “è naturale che in uno stato civile non potrebbe<br />

venir tollerata una religione praticante la prostituzione sacra od i sacrifici umani” (L 365). E<br />

non è neppure neutrale, di fronte alla opzione tra fede o ateismo: “in questo senso ha<br />

ragione Hegel quando insegna lo stato poter giustamente esigere che ogni cittadino debba<br />

appartenere ad una comunità religiosa” (L 366). Una affermazione – quest’ultima – che<br />

può lasciarci oggi perplessi! D’altro lato, la chiesa ha tutte le ragioni, per non volersi<br />

relegata in una sfera puramente interiore e intimistica, senza conseguenze sull’etica<br />

sociale: “la religione non può essere considerata soltanto come cosa del tutto personale.<br />

La religione è ben altro!” (L 365-366). Hegelianamente, la religione è “coscienza della<br />

verità assoluta”, momento (oggettivo) dello Spirito assoluto: “essa fonda una società<br />

ideale, la chiesa, la cui unità è più universale e profonda di quella dello stato: essa è<br />

interiormente il mezzo più potente di cultura e di unità spirituale ed anche esteriormente<br />

l’azione sua si incrocia sotto più d’un aspetto con quello dello stato” (L 366). Come<br />

conciliare allora la libertà della chiesa con la libertà dello stato, la pretesa di una verità<br />

assoluta, e quella di una verità relativa, tecnico-strumentale, in sé subordinata ai fini<br />

superiori della moralità religiosa (che fa esclamare a Martinetti: “lo stato non è veramente<br />

un dio sulla terra!” [L 365])? Martinetti si rifiuta di sciogliere il nodo gordiano con facili<br />

formule (come quella della “libera chiesa in libero stato”, di cavouriana memoria, destinata<br />

ad essere travolta, di lì a poco, dalla politica concordataria del fascismo). Egli si limita a<br />

porre in guardia, entrambi i contendenti, da un più sottile pericolo: quella della reciproca<br />

strumentalizzazione di religione e politica, morale e diritto positivo:<br />

E’ una pericolosa illusione per lo stato il credere di poter servirsi della religione come d’uno strumento; per la<br />

coscienza religiosa la legislazione dello stato è sempre qualche cosa di esteriore e di profano, che essa non<br />

potrà mai anteporre alla chiesa e alle sue volontà. Lo stato, in luogo di asservire, finisce per essere<br />

asservito: e poiché la servitù spirituale ha contro di sé le aspirazioni più elevate dello spirito e le forze della<br />

ragione e della cultura, così la chiesa finisce per mandare in rovina lo stato di cui era l’appoggio (L 367).<br />

L’introduzione del concetto di diritto e la differenziazione tra una sua più ristretta<br />

nozione giuridica e una più larga declinazione morale, introduce una ulteriore graduazione,<br />

53


nello schema della libertà. La libertà pratica, che in precedenza fungeva da transizione tra<br />

la spontaneità fisica e la libertà morale, si articola nelle forme del diritto (libertà civile) e<br />

della morale, rendendo più comprensibile il passaggio dal livello tecnico-pratico a quello<br />

pratico-morale. Essa consente inoltre di segnalare una graduale evoluzione delle forme<br />

sociali in cui la libertà si attua in concreto (libertà di), parallela allo sviluppo di una<br />

coscienza morale nell’individuo. Così, all’individualismo della spontaneità fisica (forza)<br />

corrispondono le forme dell’organizzazione economica e tecnico-strumentale della società.<br />

Al superamento dell’individualismo egoistico attuato dalla ragione pratica (diritto),<br />

corrispondono le forme di organizzazione delle libertà civili nello stato. All’interiorizzazione<br />

e alla spiritualizzazione della coscienza morale, corrispondono le forme della cultura<br />

superiore, al cui vertice si colloca la religione. Va chiarito che per religione Martinetti non<br />

intende solo la fede, che si esprime in forme confessionali. Pur estraneo a una mentalità<br />

ateistica (come quella che si imporrà nella seconda metà del Novecento, per effetto del<br />

processo di secolarizzazione della fede religiosa), Martinetti resta legato all’ideale<br />

mazziniano della religione dell’umanità, a una concezione di “chiesa” che non coincide con<br />

le istituzioni e le forme materiali di organizzazione, ma che rimanda piuttosto al concetto<br />

mistico di “chiesa invisibile”: alla comunità di tutti gli uomini di buona volontà, siano essi<br />

all’interno o all’esterno della Chiesa propriamente detta. Questa comunità rappresenta per<br />

lui quella autentica élite spirituale, capace di imprimere una più alta missione alla politica e<br />

allo stato:<br />

le forme ideali della vita, la moralità, la scienza, la religione, che costituiscono nel loro complesso una sfera<br />

superiore di unità e di perfezione ed alle quali corrisponde una forma superiore li libertà: la libertà morale. La<br />

quale libertà si converte in un diritto specifico: diritto di natura diversa dallo stretto diritto, che non ha come<br />

questo, il suo fondamento nei codici e nelle loro sanzioni e che tuttavia dello stretto diritto è la ragion<br />

d’essere ed allo stesso si sovrappone come un principio che, senza inserirsi in esso, lo dirige e lo orienta.<br />

Queste libertà ideali non sono quindi attributi dell’individualità naturale […]. Lo stato è in riguardo ad esse nel<br />

rapporto di mezzo col fine, di materia con la forma. Se la funzione essenziale dello stato è l’organizzazione<br />

della sua unità per la difesa contro ogni attentato esterno ed interno alla sua unità e sovranità, questo non è<br />

fine a sé: lo stato non è veramente un Dio sulla terra! Il fine suo è l’esplicazione della vita culturale, lo<br />

svolgimento libero di tutte le attività superiori. […] Nella sfera puramente ideale lo stato non deve né<br />

professare né imporre alcun indirizzo, perché questo non è il suo compito: esso deve limitarsi a sostenere,<br />

proteggere, e se occorre, difendere contro la persecuzione intollerante […] ogni libera manifestazione<br />

culturale dello spirito (L 365).<br />

Sono parole alte, in cui si coglie un monito contro ogni totalitarismo, ma che si<br />

accompagnano a una visione aristocratica e un po’ elitaria della cultura (ai giorni nostri un<br />

po’ fuori moda).<br />

54


7. DI CHE COSA SIAMO RESPONSAB<strong>IL</strong>I?<br />

La distinzione di diritto e morale e la graduazione (tra diritti giuridici e diritti morali)<br />

riconosciuta già nel primo ambito (quello appunto del diritto), è alla base della trattazione<br />

del tema cruciale della RESPONSAB<strong>IL</strong>ITÀ (cap. XV). Il problema della imputabilità degli atti<br />

compiuti (e dunque, dal lato soggettivo, la consapevolezza di una responsabilità<br />

personale) è alla base del diritto penale, e di qui Martinetti fa iniziare la sua trattazione.<br />

L’argomentazione segue un preciso disegno sistematico, che intende ricongiungere<br />

l’iniziale riconoscimento della necessità dell’agire (cap. VIII), con la finale riproposizione<br />

del problema del determinismo (cap. XVII). La responsabilità (sia quella giuridica, sia<br />

quella morale) contiene un implicito rimando al dovere razionale, in contrasto<br />

(kantianamente) con le inclinazioni passionali. Di fronte all’azione compiuta il soggetto<br />

(che se ne assuma la responsabilità), non può limitarsi a riconoscerne l’irrevocabilità<br />

(factum infectum fieri nequit), accettandone dunque le conseguenze, ma conserva in sé la<br />

consapevolezza razionale di un “dover essere altro” (L 369), rispetto al male commesso.<br />

Ora, il punto di vista “compatibilista” che Martinetti prende nei confronti del determinismo<br />

lo induce a sviluppare una strategia argomentativa, che salvi (per una precisa volontà di<br />

aderenza fenomenologica alla esperienza morale comune), accanto alla consapevolezza<br />

della necessità dell’agire empirico (che si sposa facilmente con una forma di determinismo<br />

naturalistico), l’opposta esigenza di un dover essere altrimenti della nostra volontà e libertà<br />

(Kant inseriva qui i suoi postulati morali: Dio, immortalità, libertà). Si deve cioè ricercare<br />

una forma di determinismo non più naturalistico, ma razionalistico (che si apre dunque su<br />

un orizzonte metafisico incognito), in grado di sopportare entrambe le esigenze. Quello<br />

che invece Martinetti tende ad escludere, è la possibilità che un tale “dover essere altro”<br />

possa esprimersi nel “gioco linguistico”, caratteristico del senso comune (e preferito dagli<br />

odierni compatibilisti), che si esprime nella domanda: “si sarebbe potuto agire altrimenti?”<br />

Egli lo esclude, e sostiene (col determinismo) che tale ingenua domanda si pone in netta<br />

antitesi con l’autentico sentimento della responsabilità. Il soggetto moralmente<br />

responsabile avverte tutto il peso della necessità dei propri atti (se è sincero con se<br />

stesso, arriverà facilmente a concludere che, qualora potesse tornare indietro nel tempo e<br />

ritrovarsi nelle identiche condizioni che hanno motivato la sua azione, non potrebbe che<br />

ripeterla). E tuttavia sente con altrettanta forza l’esigenza razionale di un diverso dover<br />

essere, che contraddice violentemente l’atto compiuto, che ne vorrebbe revocare (se non<br />

la realtà empirica) il senso, ricongiungendolo con un diverso piano ideale, che costituisce<br />

la destinazione finale (aperta su un futuro) del soggetto agente. Vediamo come si sviluppa<br />

l’argomentazione martinettiana.<br />

Che la RESPONSAB<strong>IL</strong>ITÀ LEGALE fosse meglio garantita dal determinismo, rispetto<br />

all’indeterminismo libertaristico, era opinione largamente suffragata dalla scuola positivista<br />

del diritto penale, le cui tesi Martinetti riprende nella prima parte del capitolo XVI:<br />

Un punto è fuori di dubbio: che la responsabilità giuridica non dipende affatto dall’aver potuto fare o non fare:<br />

anche i giuristi oggi quasi unanimemente riconoscono la questione della libertà come assolutamente<br />

irrilevante per il diritto penale, anzi meglio come un problema che per il giudice è provvisoriamente deciso<br />

nel senso del determinismo – senza che con ciò si voglia pregiudicare la questione metafisica. I collegi<br />

giudicanti condannano il colpevole non perché avrebbe potuto fare altrimenti (che anzi, se l’atto fosse una<br />

manifestazione contingente della personalità, mancherebbe ogni motivo di colpire questa con la pena), ma<br />

perché l’atto suo è casualmente connesso con una certa personalità, alla quale l’atto può venir ricondotto e<br />

sulla quale si intende agire con la pena. Nell’esame della responsabilità il giudice non indaga affatto se il reo<br />

possedesse al momento decisivo la facoltà di fare o non fare: egli cerca di risalire dall’atto alla personalità<br />

agente per determinarne la natura e il valore e per proporzionare a questo giudizio la reazione sociale<br />

(L 370).<br />

55


Qual è, in base a questa concezione, la funzione giuridica della pena? Quella della “difesa<br />

sociale” (L 377), di fronte alla pericolosità o all’anomia constatata del reo, che viene<br />

temporaneamente escluso dal consorzio civile, per risarcire l’insieme della società del<br />

danno inflittole col suo delitto. Secondo questa concezione (che assume pertanto un<br />

criterio utilitario e non un metro “giustizialistico” o inutilmente “afflittivo” nello stabilire<br />

l’entità delle pene) la “reazione sociale” è la forma che in una società civile si sostituisce<br />

alla repressione barbarica del delitto, attuata nella “vendetta privata” (L 370). Lo stato di<br />

diritto priva i singoli cittadini (i parenti della vittima) del diritto di farsi giustizia da sé,<br />

attribuendolo alla società nel suo complesso, in base a un criterio non solo di<br />

umanizzazione delle regole (la forza repressiva delle leggi al posto della violenza privata),<br />

ma soprattutto di diversa finalizzazione dell’azione repressiva stessa. Questa deve<br />

passare (per gradi, sulla base del diverso sviluppo civile delle società) dal semplice criterio<br />

della vendetta o del giusto risarcimento (che non può in ogni caso essere assente<br />

dall’esercizio del diritto penale, il quale deve anzitutto assicurare ai singoli l’equità della<br />

pena e, ancor prima, certezza della sua esecuzione), a quello della “prevenzione” contro il<br />

pericolo di una iterazione futura degli stessi (o di analoghi) delitti. Martinetti si esprime qui<br />

con estrema severità, paragonando addirittura la figura del delinquente abituale a quella<br />

dell’alienato mentale: il suo delitto “deve venir in primo luogo combattuto con un’azione<br />

preventiva; in secondo luogo con un’azione punitiva che freni, con la paura della sanzione,<br />

i delinquenti occasionali, migliori i delinquenti abituali ancora capaci di correggersi e metta<br />

nell’incapacità di nuocere, per il maggior tempo possibile, i delinquenti abituali<br />

incorreggibili. […] Non vi è alcuna differenza essenziale tra il pazzo e il delinquente<br />

incorreggibile: il reclusorio e il manicomio si avvicinano sempre più anche nella disciplina e<br />

nei metodi di cura” (L 370). Pur non approvando i metodi sbrigativi delle società civili nel<br />

loro primo emergere “eroico” dalla barbarie (accenna, in tal senso, alla cosiddetta “legge di<br />

Lynch”, a lungo applicata negli Stati nord-americani, specialmente nei confronti degli<br />

schiavi neri), Martinetti è costretto ad ammettere che, su un piano prettamente<br />

naturalistico di considerazione della pena, questa non ha altra giustificazione del<br />

risarcimento “egoistico” del danno subito e della “prevenzione” contro il dilagare<br />

dell’anomia sociale.<br />

Pur accettando, sul terreno pragmatico della difesa sociale, la concezione<br />

positivista, Martinetti non è però disposto a seguirne fino in fondo le conseguenze morali e<br />

specialmente (a questo livello) le implicazioni relativistiche. Critica infatti in modo esplicito<br />

la tesi di Paul Rée (l’autore a cui si era rifatto Nietzsche, nel sostenere il proprio<br />

scetticismo morale e l’immoralismo della sua concezione del superuomo), secondo cui “il<br />

sentimento della responsabilità è un sentimento destinato a sparire non appena l’umanità<br />

venga a vedere chiaramente la necessaria determinazione del suo agire” (L 370).<br />

L’umanità futura (e così anche il superuomo di Nietzsche) riconoscerà senza infingimenti<br />

che parole come “colpa”, “responsabilità”, “pena”, cariche di pathos morale e religioso,<br />

sovraccariche di immagini “afflittive” che le provengono dai “secoli bui” (dall’epoca dei<br />

roghi, della caccia alle streghe, delle inquisizioni), sono prive di significato. Il linguaggio<br />

morale è solo una “maschera” dietro cui si nasconde la immancabile volontà di<br />

autoconservazione della società. La difesa sociale o la profilassi sociale (per usare un<br />

linguaggio affine a quello della medicina), da applicarsi con fredda neutralità alla prassi<br />

antisociale del reo, costituiscono l’unica giustificazione possibile del diritto penale. Invece,<br />

per Martinetti, “sarebbe un grave errore fare consistere la pena soltanto nell’esigenza della<br />

difesa sociale” ( L 373). Alla prima e fondamentale funzione della pena egli ne aggiunge<br />

una seconda, che possiamo caratterizzare come la ricerca di una riabilitazione del reo.<br />

Quando comunemente si afferma che le pene non devono avere un carattere crudele,<br />

inutilmente afflittivo o vendicativo (lo dice anche Martinetti, come pure giustificava la<br />

56


stessa pena di morte), si ha di mira proprio questa diversa finalità: quella del possibile<br />

recupero e della piena reintegrazione del reo nel consorzio sociale. Per giustificare questo<br />

ulteriore livello giuridico (che corrisponde al passaggio da un determinismo di tipo<br />

naturalistico a uno razionalistico) Martinetti ricorre alla distinzione kantiana tra “cosa” e<br />

“persona”. Ciò che distingue gli uomini e i valori morali dagli altri beni (ad esempio da<br />

quelli economici), è che ai primi non possiamo attribuire un prezzo, come facciamo con i<br />

secondi. Detto in altri termini, mentre è legittimo (su un piano di reciproca finalizzazione<br />

utilitaria dei rapporti sociali tra uomini) trattare gli altri come “mezzi” in rapporto a singoli<br />

scopi (il matrimonio, ad esempio, è definito da Kant un contratto privato che autorizza i<br />

contraenti all’uso dei rispettivi corpi), non è lecito, dal punto di vista morale, trattare i nostri<br />

simili soltanto come mezzi, ma è doveroso piuttosto considerarli sempre anche come fini.<br />

Ciò che fonda in ultima istanza, e dal punto di vista razionale, il diritto, è la comune<br />

appartenenza all’umanità (intesa come idea), il riconoscimento cioè di una “appartenenza<br />

dell’individuo all’unità razionale di tutte le volontà pratiche” (L 377). Il senso della<br />

responsabilità è dunque indissociabile dal riconoscimento della razionalità umana.<br />

Privarne il reo (magari per il gusto umanitario di addolcirne il tragico destino) sarebbe<br />

escluderlo per sempre da tale appartenenza universale, rinchiuderlo per sempre nella<br />

condizione di minorità incolpevole propria dei bambini, delle bestie o (in certe epoche e<br />

società) delle donne.<br />

Il riconoscimento di questo secondo livello (razionale o ideale, non prettamente<br />

naturalistico) del diritto, è ciò che consente di operare il passaggio al terzo livello (quello<br />

del diritto morale), in cui soltanto la pena trova la sua definitiva e compiuta giustificazione.<br />

A pag. 377 troviamo sinteticamente riuniti i tre fattori che cooperano alla determinazione<br />

del concetto della responsabilità giuridica. In particolare il terzo:<br />

Il terzo è il fattore morale, per cui la subordinazione puramente esteriore ed egoistica all’unità sociale si<br />

trasforma in dedizione interiore all’unità morale: per esso all’ordine giuridico si sovrappone un ordine<br />

puramente ideale, che, senza mai sostituirsi totalmente allo stesso, lo penetra e lo trasforma dall’interno,<br />

dando ai suoi ordinamenti e alle sue sanzioni un carattere morale: così la pura responsabilità giuridica si<br />

completa e si compenetra con l’imputabilità morale (L 377).<br />

A questo livello riacquistano significato, accanto a parole come “recupero sociale” o<br />

“rabilitazione” del reo, quelle più difficili da pronunciare senza scadere nella retorica, come<br />

“pentimento” ed “espiazione”. Martinetti (che in ciò segue da vicino l’atteggiamento<br />

rigorista di Kant) è del tutto alieno da atteggiamenti che oggi definiremmo di “perdonismo”.<br />

Egli è convinto della necessità che le pene, oltre che giuste nella retribuzione del delitto e<br />

certe nella loro applicazione, col duplice intento: preventivo e di recupero sociale, siano<br />

anche severe. Egli crede (anche da una prospettiva semplicemente laica, e non<br />

necessariamente religiosa) alla funzione espiatoria del dolore. Senza provare nella propria<br />

carne la stessa sofferenza che si è voluta infliggere all’altro (direttamente) e alla comunità<br />

(indirettamente), difficilmente si giungerà a sperimentare un autentico pentimento. Ma al<br />

pentimento non segue necessariamente il “perdono” (ciò può valere indubbiamente<br />

nell’ambito individuale e ha un indubbio significato religioso), bensì il risarcimento sociale.<br />

Ora, per certi delitti Martinetti ritiene che solo la pena di morte rappresenti un risarcimento<br />

adeguato. Egli dunque (come Kant) non la giustifica per ragioni strettamente giuridiche<br />

(nella sua funzione preventiva o di deterrente dal compiere certi delitti efferati), ma<br />

piuttosto giuridico-morali. E’ lo stesso rispetto che dobbiamo alla personalità morale del<br />

reo (che ci obbliga – secondo una delle formulazioni dell’imperativo categorico – a<br />

considerare sempre l’umanità in noi, oltre che negli altri, come un fine in sé), che può<br />

giustificare, in determinati casi (che Martinetti per altro non specifica) l’applicazione della<br />

pena di morte. Per il reo che abbia saputo compiere in se stesso una conversione morale<br />

57


autentica, che sia giunto a concepire tutta la mostruosità dei propri atti e al tempo stesso<br />

la loro inevitabilità (stante il suo carattere empirico, le circostanze di fatto che ne hanno<br />

determinato l’agire, e di cui sopporta intera la responsabilità), la morte può essere<br />

addirittura qualcosa di liberamente accettato, una espiazione definitiva. In questa estrema<br />

conversione (certo difficile, ma meno rara di quanto si pensi: lo aveva notato anche<br />

Schopenhauer) il reo dimostra una consapevolezza del valore assoluto della propria<br />

personalità morale. Se al livello del suo carattere empirico egli non ha avuto alternative, ne<br />

acquista invece una su quello, ideale, del CARATTERE INTELLIGIB<strong>IL</strong>E (distinzione posta da Kant e<br />

sostanzialmente accettata da Martinetti, anche se con delle sfumature interpretative, che<br />

si possono apprezzare meglio nel capitolo storico a lui dedicato). Esso corrisponde all’idea<br />

della migliore persona che (nel pentimento) avremmo voluto essere – e che dobbiamo<br />

essere, nella elevazione dal grado inferiore del diritto positivo a quello superiore della<br />

moralità pura. Ad esso (e alla giustificazione di una corrispondente responsabilità morale)<br />

dobbiamo in conclusione rivolgerci, per dare una risposta compiuta all’interrogativo, posto<br />

all’inizio del capitolo, circa la compatibilità o meno della responsabilità con il determinismo.<br />

La RESPONSAB<strong>IL</strong>ITÀ MORALE trasporta il concetto della responsabilità legale, dalla sfera<br />

del diritto a quello della morale. Come quella era il giudizio esteriore, stabilito dalla società,<br />

sul valore della volontà individuale in rapporto alla volontà giuridica collettiva, questa è il<br />

giudizio interiore dell’individuo su se stesso, la coscienza (nel significato di coscienza<br />

pratica: Gewissen, piuttosto che di coscienza teorica: Bewußtsein) della propria<br />

imputabilità morale. Il determinismo naturalistico (John Stuart Mill) tenta di spiegare anche<br />

questa attitudine valutativa, che attiene alla sfera del dover essere (Sollen) piuttosto che a<br />

quella dell’essere (Sein), come una derivazione secondaria della responsabilità penale,<br />

prodottasi per un meccanismo associazionistico. La responsabilità morale non sarebbe<br />

altro che l’introiezione soggettiva del giudizio di disapprovazione che la società – mediante<br />

le proprie sanzioni giuridiche – formula nei riguardi di determinati comportamenti, cui<br />

finiscono per associarsi, nella rappresentazione soggettiva, immagini spiacevoli e<br />

dolorose, come la punizione, la condanna, la derisione, ecc. Sentimenti morali autentici,<br />

come il rimorso, cui Martinetti legava la possibilità di una definitiva espiazione della colpa,<br />

si riducono così a un mero effetto dell’associazionismo psicologico: al timore egoistico<br />

della reazione sociale. Nel respingere tale spiegazione superficiale, egli denuncia il circolo<br />

vizioso in cui cade (come al solito) il naturalismo: quello di presupporre logicamente ciò<br />

che andava spiegato. Se, infatti, “nella responsabilità esteriore non fosse già implicito un<br />

giudizio morale, nessuna associazione mai ve lo avrebbe introdotto” (L 380). Si possono<br />

addestrare gli animali (e, in una certa misura, i bambini) a determinate azioni, mediante<br />

l’associazione meccanica di piacere o dolore (“col bastone e la carota”, come suol dirsi),<br />

ma in nessun caso dalla semplice paura potrà mai scaturire il sentimento morale della<br />

disapprovazione (la vergogna), se esso non si trova già nella coscienza soggettiva.<br />

Temiamo le conseguenze sociali di ciò che sappiamo essere male, non ci limitiamo a<br />

chiamare male, ciò di cui temiamo le conseguenze sociali (qui Martinetti si stacca da<br />

Spinoza: per lo meno dal suo dettato letterale, ripreso dall’utilitarismo e portato da<br />

Nietzsche alle sue ultime conseguenze immoralistiche).<br />

La responsabilità morale è fondata essenzialmente sulla comunione morale: essa è una reazione della<br />

volontà morale ideale contro la volontà morale imperfetta. Non solo quindi l’origine sua non va cercata nella<br />

responsabilità legale, esteriore, ma la stessa responsabilità morale aliena, per cui giudichiamo alcuno<br />

responsabile di un suo atto, va cercata nel nostro interno medesimo, nel senso della responsabilità verso noi<br />

stessi (L 3881-382).<br />

Martinetti sviluppa un’analisi acuta e sagace del senso di colpa, che non esita a<br />

utilizzare – come reperto psicologico – un brano delle Confessioni di S. Agostino (un<br />

58


autore, per il resto, non particolarmente amato da Martinetti). Il sentimento di intima rivolta<br />

che il peccatore avverte di fronte alla propria incapacità ed impotenza del volere ad<br />

adeguare il suo comportamento, all’immagine interiore di perfezione che la ragione gli<br />

propone, si traduce – nell’accesa immaginazione dell’africano – in uno sconvolgimento<br />

fisico, per cui si prepara la crisi finale della conversione (omnia ossa mea clamabant). E’<br />

interessante notare come qui Martinetti giudichi su un metro razionalistico (che purifica la<br />

coscienza religiosa di tutto l’ambiguo turgore del sentimento) il processo di interiore<br />

conversione della volontà dal male al bene. Gli è in questo guida efficace Kant: la lotta<br />

interiore della volontà, travagliata dalle inclinazioni sensibili, ma attratta dalla chiara luce<br />

razionale della coscienza morale universale, traduce il proprio conflitto e lo risolve<br />

ammettendo la contraddizione logica tra volere e non poter volere l’azione malvagia, verso<br />

cui la inclina l’egoismo:<br />

Anche quando non è soddisfatta, la volontà morale resta nella coscienza come un’esigenza, come un valore<br />

superiore, che esercita sull’anima un’azione di direzione costante; come sotto l’aspetto teoretico è l’unità<br />

logica che agisce perennemente, anche quando è un’esigenza insoddisfatta, sul complesso del conoscere e<br />

lo orienta costantemente, nonostante le contraddizioni, nel senso della maggiore unità possibile. Quando<br />

perciò nella condotta nostra operiamo volontariamente in senso immorale, cioè facciamo servire la ragione<br />

contro i fini della ragione, si leva in noi una contraddizione intestina della ragione contro la ragione: della<br />

ragione parziale ed umiliata al senso contro la ragione nella sua unità ed autonomia ideale: l’esigenza di<br />

questa unità si fa sentire nel rapporto con la prima come dover essere contrariato, come esigenza a priori<br />

d’una reintegrazione, come dolore per l’unità ideale distrutta, come rimorso. Questo rimorso non si riferisce<br />

all’azione, ma a sé come agente: l’io è come diviso in un io che giudica ed un io che è giudicato: esso è in un<br />

certo modo forzato dalle sue stesse esigenze a condannare e ripudiare, sotto un certo aspetto, se stesso<br />

(L 382).<br />

Oltre che come senso di colpa, la responsabilità si lascia avvertire dalla coscienza morale<br />

come sentimento del merito, di fronte a una buona condotta. Ma Martinetti (anche in<br />

questo fedele a Kant) diffida di tale sentimento (pure in se stesso legittimo), in quanto ne<br />

intravede non solo i fili, numerosi e sottili, che lo riportano all’egoismo (al “caro io”, di cui<br />

Kant parla sempre con sarcasmo), ma soprattutto il rischio del fariseismo morale. Esso<br />

educa infatti l’individuo a una cura meticolosa delle singole azioni, ad assicurare una<br />

conformità esteriore di esse alle esigenze della legge morale, perdendo di vista il profondo<br />

significato personale che esse rivestono, e che ne rappresenta l’unica sorgente autentica<br />

di legittimazione. A costituire il valore morale e la responsabilità morale dell’agire, non<br />

sono i meriti acquisiti mediante le azioni (le buone opere della tradizione cristiana), ma il<br />

sedimentarsi nel carattere abituale e il “persistere nello spirito delle intuizioni universali”, di<br />

cui le “volontà razionali morali” non costituiscono altro che “l’aspetto attivo” (L 382).<br />

Anche se Martinetti non richiama più in queste pagine la nozione di carattere<br />

intelligibile (ampiamente discussa nella parte storica dedicata agli sviluppi del kantismo), è<br />

evidente che egli pensa proprio a questa, per impostare il problema della responsabilità<br />

morale, da lui risolto nel significato del determinismo. Come troviamo riassunto a pag. 385,<br />

il senso della responsabilità si riporta a due fattori: “1) la valutazione morale dell’atto,<br />

indipendentemente dalle cause e dalla sua necessità, considerato come qualche cosa che<br />

avrebbe moralmente dovuto essere o non essere; 2) il riferimento di questa valutazione<br />

morale dall’atto al soggetto agente considerato come capace di un perfezionamento<br />

morale”. Di fronte al carattere necessario e irreversibile del passato, appare vano e<br />

utopistico l’interrogarsi della coscienza morale: “avrei potuto agire altrimenti?”. La<br />

responsabilità “non implica affatto che questa personalità agente potesse già nel momento<br />

medesimo dell’azione essere altra ed operare altrimenti”. Non solo, infatti, la coscienza<br />

“non ci dice nulla di tutto questo”, ma (se sappiamo interrogarla con lucidità e<br />

spregiudicatezza) ci dice l’opposto, ossia che “se fossimo di nuovo gli stessi e nella stessa<br />

59


situazione, opereremmo necessariamente nello stesso modo” (L 385-386). Non si tratta di<br />

un gioco psicologistico (di sapore freudiano), ma di quello che Kant definiva a priori come<br />

il “carattere intelligibile”. L’unico modo di risolvere l’antinomia razionale tra determinismo<br />

degli atti e libertà trascendentale è infatti quello che suggerisce una “doppia lettura” delle<br />

nostre azioni. Esse appaiono, sul piano fenomenico del loro naturalistico accadere,<br />

sorrette da una rigida concatenazione di cause ed effetti, antecedenti e conseguenti. La<br />

loro spiegazione sufficiente è fornita dal nesso causale dei motivi con il carattere empirico<br />

dell’individuo. Questa medesima serie, senza con ciò perdere il proprio aspetto<br />

deterministico, può tuttavia essere riferita, sul piano del suo dover essere morale, ad un<br />

unico centro di spontaneità personale, ad un io, che ne assume intera la responsabilità.<br />

Non è sul piano naturalistico dell’accadere, ma in quello valutativo (e dunque<br />

antinaturalistico) della ragion pratica, che si risolve l’antinomia tra necessità<br />

(determinismo) e libertà. Affinché non siano frustrate le richieste universali della ragione<br />

(ma anche per non falsificare le risultanze fenomenologiche della coscienza morale,<br />

specialmente quando essa si apra al bisogno di assolutezza della coscienza religiosa), si<br />

deve poter riconoscere a un tale “io noumenico” (o “carattere intelligibile”, o “migliore<br />

persona”) un efficace potere di revoca sulle proprio decisioni:<br />

Il senso dell’imputabilità non costituisce affatto una prova che il colpevole avrebbe potuto agire<br />

diversamente; ma significa che la disposizione sua non fa parte di quell’ordine della ragione che noi<br />

riconosciamo come solo legittimo: e che, se quest’ordine fosse realizzato, e la disposizione e l’atto che ne<br />

procede non avrebbe avuto luogo. Il non dover essere implica il poter non essere; perché ciò che non fa<br />

parte dell’ordine razionale che solo deve essere (e veramente è) non solo non deve essere, ma realmente<br />

non è dal punto di vista assoluto. Il rammarico del non dover essere non è quindi solo un rammarico<br />

platonico; perché la realtà che ha dinanzi (la colpa) non è una realtà assoluta; per quanto empiricamente<br />

necessaria essa è, con tutta la concatenazione empirica, qualche cosa che dinanzi alla perfezione del<br />

mondo intelligibile non deve essere e, se questa fosse realizzata, assolutamente non sarebbe (L 386).<br />

Il tono di questa prosa martinettiana si fa decisamente metafisico (ed esso si andrà<br />

accentuando negli ultimi due capitoli (sul libero arbitrio e sul determinismo), che<br />

convergono infatti in un sobrio “epilogo metafisico” (cap. XVIII). Martinetti si interrogherà<br />

sulla necessità o meno di ammettere, accanto a questa libertas maior, che si identifica con<br />

la volontà del bene, la tradizionale libertas minor del libero arbitrio, in quanto volontà del<br />

bene o del male. Dopo l’esito negativo di questa inchiesta, che si risolve nella posizione di<br />

un puro determinismo razionale, a baluardo della coscienza morale, egli avvertirà<br />

l’esigenza di collocare sullo sfondo della aspirazione religiosa all’assoluto (di una religione<br />

che si mantenga per altro nei limiti della ragione, di una pudica fede razionale) l’intera<br />

indagine, che si è mossa anch’essa nell’ambito di uno stretto (benché non arido)<br />

razionalismo. E’ da notare come in questa pagina Martinetti traduca l’imperativo kantiano<br />

“devi, dunque puoi”, nella forma riflessiva, che ne mostra il risvolto metafisico: “il non<br />

dover essere implica il poter non essere”. Questo potere di revoca, che il soggetto morale<br />

riconosce in se stesso (ma che non proviene da lui, in quanto io psicologico e carattere<br />

empirico, bensì funge in lui, in quanto operare impersonale della ragione come carattere<br />

intelligibile), corrisponde al concetto di LIBERTÀ <strong>TRA</strong>SCENDENTALE. Per tale potere (rivolto<br />

sempre al futuro, mai al passato), diventa possibile quella conversione radicale della<br />

volontà empirica alla volontà buona (cui va riconosciuto un carattere “noumenico”,<br />

transfenomenico), che pur senza mutare il corso esterno degli eventi, ne modifica<br />

interiormente il senso (Sinn) e l’importanza (Bedeutung). Questo potere di nullificazione<br />

della coscienza (che Husserl – in altro contesto – estenderà a negazione del significato<br />

naturalistico del mondo e della realtà di fatto – Weltvernichtung – in vista della<br />

modificazione intenzionale del suo senso o della sua verità) deve essere tale, da far sì che<br />

ciò che è stato, pur senza divenire altro, sia riconosciuto, rispetto al suo reale potere di<br />

ulteriore motivazione sulla volontà, per quello che in realtà è, ossia come nulla. Il senso di<br />

60


liberazione, la forza di motivazione, che la coscienza morale acquista in ogni atto di<br />

conversione, di superamento dei propri condizionamenti passionali, dei propri errori, non è<br />

una illusione, ma il filo che ci consente di risalire, per gradi, dal sensibile all’intelligibile,<br />

dall’empirico al metafisico. Martinetti evoca qui la figura topica di Socrate: forse che lo<br />

ameremmo di più, se riuscissimo ad avvicinarne maggiormente l’umanità sublime alla<br />

nostra umanità più quotidiana? Forse che un Socrate titubante di fronte all’atto supremo<br />

della morte volontaria, un Socrate tormentato e pauroso, esitante di fronte alle richieste del<br />

proprio demone (il più probabile antenato del concetto kantiano di carattere intelligibile), ci<br />

apparirebbe più vero e più apprezzabile? Ma al contrario, è proprio la forza di negazione di<br />

fronte alla realtà empirica, la serenità con cui il greco sa affrontare la prova suprema,<br />

riconoscendo da un lato la nullità del proprio essere empirico e mortale, dall’altro la<br />

perennità del valore morale della coscienza delle leggi, che ci commuove e ci persuade. Di<br />

fronte a Socrate (quale che ne sia stata l’idealizzazione letteraria di Platone) sentiamo<br />

davvero che soltanto il saggio è libero, soltanto l’eroe morale (e il tipo di umanità che egli è<br />

in grado di indicarci) incarna, nei propri atti, quel significato di verità che è al fondo della<br />

coscienza morale di ognuno, e che soltanto una lotta costante contro la stanchezza (la<br />

misologia) morale, l’infinita ripresa dei nostri gesti responsabili, può aspirare a garantirci.<br />

61


8. POSSIAMO DIRCI LIBERI?<br />

Solo dopo avere ripercorso gli stadi della esperienza soggettiva della libertà, l’autore può<br />

trarre - nei serrati capitoli conclusivi - le conclusioni metafisiche, che più gli stanno a cuore.<br />

La testimonianza della coscienza, alle cui immancabili lacune il determinismo fa<br />

tradizionalmente appello per confutare la tesi del libero arbitrio, viene invece invocata da<br />

Martinetti a conferma del carattere non illusorio di tale esperienza, ma anche<br />

diversamente interpretata e valutata, al fine di escludere ugualmente l’opposta<br />

conclusione indeterminista (è questa la principale linea argomentativi sviluppata nei capp.<br />

XVI-XVII). Non bisogna confondere – chiarisce – “la coscienza della libertà con la<br />

coscienza della indeterminazione” (L 393). O, detto in altri termini, “la coscienza della<br />

libertà non è affatto coscienza della contingenza” (L 391). L’INDETERMINISMO utilizza infatti<br />

due argomenti principali, che Martinetti ribatte adunando molti degli argomenti già emersi<br />

nella trattazione storica del problema della libertà. Anzitutto 1) la testimonianza della<br />

coscienza, che si ribella alla pretesa del determinismo di voler prevedere il mio agire<br />

presente o futuro con la stessa certezza con cui “un astronomo predice un’eclissi” (è il<br />

medesimo esempio introdotto da Kant nella discussione della terza antinomia) (L 387). In<br />

secondo luogo 2) l’argomento morale (in parte già affrontato e discusso nel capitolo<br />

precedente) , fondato sul riconoscimento “della responsabilità, del merito e delle pene” (L<br />

388), che perderebbero appunto gran parte della loro ragion d’essere, in un mondo in cui il<br />

determinismo non fosse una semplice ipotesi di scuola, ma una persuasione diffusa e<br />

connaturata nel comportamento dei singoli. Ora, l’indeterminismo – a detta di Martinetti –<br />

risulta, da un lato, già confutato sul piano logico, in quanto negazione inammissibile del<br />

carattere a priori del principio di causalità:<br />

il principio di causa non è un principio empirico che sia in nostra facoltà di applicare o non applicare; esso è<br />

una legge a priori della realtà alla quale non possiamo rinunciare senza rinunciare alla comprensibilità della<br />

stessa. […] Noi non possiamo rinunciare al principio della concatenazione causale necessaria come<br />

principio a priori; possiamo bensì constatare la nostra ignoranza rispetto agli antecedenti causali di un fatto,<br />

ma non possiamo ammettere che esso sia senza antecedenti e che entri da sé, per virtù sua, ad un dato<br />

momento nella connessione degli elementi. Ciò che non è incluso in questa connessione non è parte della<br />

unità delle cose, non è reale (L 399-400).<br />

Dall’altro, lo si può respingere con argomenti attinti alla fenomenologia della vita morale e<br />

religiosa, della quale, lungi dal rappresentare (come ritengono i suoi proponenti) un<br />

antecedente necessario, rischia di costituire il più pericoloso e infido alleato.<br />

Per quanto riguarda la confutazione del primo argomento, Martinetti si rifà in gran<br />

parte alla trattazione datane da Schopenhauer. La testimonianza della coscienza non può<br />

essere invocata con successo a sostegno dell’ipotesi indeterminista o contingentista, in<br />

quanto la funzione primaria ed essenziale della coscienza è la conoscenza del mondo<br />

esterno e oggettivo (e solo in modo indiretto quella del mondo interiore soggettivo).<br />

Certamente la testimonianza della coscienza o dell’agire libero e spontaneo, può bastare a<br />

spiegare le manifestazioni esterne della volontà (libertas agendi), ma non può penetrare<br />

nel santuario intimo della autodeterminazione del volere (libertas volendi). “La coscienza<br />

che abbiamo delle nostre volontà – sottolinea Martinetti – non dice nulla intorno alla loro<br />

causa” (L 388): non è in grado cioè di stabilire con certezza se l’atto compiuto sia dovuto a<br />

“una decisione arbitraria” (L 390), oppure abbia come antecedenti una serie di fattori<br />

determinanti inconsci (“la vanità, l’abitudine, l’azione di impressioni remote ed obliate, il<br />

piacere di apparire indipendente agli occhi altrui e anche ai propri” (L 389), che lo<br />

renderebbero in ogni caso necessario. Per lo più, infatti, “consideriamo l’azione, di cui non<br />

conosciamo i moventi, come dovuta ad una decisione arbitraria” (L 390): ma da un non<br />

62


sapere, è illusorio pretendere di derivare un reale poter non essere, una radicale<br />

contingenza del volere. Martinetti spiega il meccanismo psicologico, fondato su una<br />

induzione incompleta dei fattori causali che concorrono nella spiegazione degli atti<br />

volontari, alla base della illusione del libero arbitrio: si tratta della proiezione nel futuro<br />

delle condizioni sperimentate in passato, come determinazioni parziali della volontà, a<br />

creare un nimbo di “possibilità” e di “indeterminazione”, che non si verificano mai nel<br />

momento effettivo della scelta o della risoluzione finale del volere. “Quando noi pensiamo<br />

a un atto passato, e ci rendiamo presente la maggior parte delle condizioni antecedenti<br />

[…] abbiamo davanti a noi una causa parziale che, completata in un senso o in un altro,<br />

potrebbe dar luogo ad azioni diverse” (L 392). Credo che avrei potuto facilmente astenermi<br />

da un atto suscitato dall’ira, e mi accuso della mia impulsività, dimenticando che il prodursi<br />

o meno dei fattori scatenanti l’emozione è del tutto sottratto alla mia libera scelta.<br />

Indubbiamente, “se le molte e varie circostanze, che hanno concorso a determinare l’atto<br />

collerico, fossero state altre”, l’atto stesso non avrebbe avuto probabilmente seguito. Ora,<br />

confrontando l’atto con le conseguenze involontarie che ne sono derivate, mi sentirei in<br />

grado di dominarlo: “sempre però – aggiunge Martinetti – che le circostanze del momento<br />

non siano troppo sfavorevoli”, ecc. E’ una illusione credere che “io potrei agire così solo<br />

perché voglio”. In realtà si suppone tacitamente un condizionale: “quando venissero in me<br />

a mancare i motivi che ora mi trattengono ed intervenissero dei motivi più forti” (L 392-<br />

393). In conclusione:<br />

La coscienza attesta irrefutabilmente la nostra libertà: ma questa non consiste nella facoltà di fare o non<br />

fare: la libertà vuol dire che l’atto nostro non è una composizione necessaria dei suoi antecedenti ma è<br />

qualche cosa di nuovo, una creazione, uno sforzo personale, per mezzo del quale ci eleviamo e ci<br />

rinnoviamo” (L 393).<br />

Questa affermazione ci riporta alla discussione del secondo argomento, quello<br />

fondato sulla responsabilità. E’ un errore ritenere che l’indeterminismo assicuri la validità di<br />

tale concetto, meglio del determinismo. L’affermazione della contingenza conserva una<br />

parziale legittimità (almeno sul piano psicologico se non su quello logico), quando si<br />

confronti con un determinismo naturalistico, che concepisca l’operare dei fattori causali (i<br />

motivi) sul volere in modo meccanico. Ma la discussione della legge di casualità<br />

(anticipata nel capitolo VIII e qui ripresa), che la concepiva come atto di sintesi e non<br />

come passivo esito di una spinta impulsiva, apre una diversa prospettiva. La vita morale e<br />

soprattutto quella religiosa ci fanno del resto esperire la libertà non come una “facoltà”, od<br />

un “abito”, ma come un “atto” e una creazione. L’uomo – come Martinetti ha già ribadito –<br />

non è libero, ma si libera, in un processo di ascensione spirituale graduale e<br />

indefinitamente aperto:<br />

La libertà non è […] una facoltà, un abito, una potenza, ma è la manifestazione stessa della vita spirituale in<br />

ciò che ha di originario e di essenziale: la sola e vera libertà è la libertà attuale, per cui lo spirito in ogni<br />

momento crea, dagli elementi in cui si è fissata e determinata la sua vita, un’unità superiore e vivente, in cui<br />

si esprime più adeguatamente la sua verità. La libertà vive nello svolgersi, nel liberarsi, nel creare (L 307).<br />

Ora la contingenza, lungi dal garantire l’universalità razionale di tale processo, lo fa<br />

scadere sul piano irrazionale, mescolandovi la nozione di un’incomprensibile creazione ex<br />

nihilo: “un uomo realmente dotato del potere d’una assoluta libertà d’indifferenza – nota<br />

argutamente Martinetti – sarebbe un uomo pericoloso” (L 397). Proprio l’indeterminismo,<br />

concependo la libertà come elezione arbitraria e contingente, pone inconsapevolmente a<br />

fondamento della morale e della religione il principio anti-etico per eccellenza, quello del<br />

male:<br />

63


L’indeterminismo è […] una concezione irreligiosa. Il concetto cardinale della religione è quello della perfetta<br />

dipendenza di tutte le cose finite da Dio, il quale non è una potenza esteriore contrapposta alle cose, ma è<br />

ciò che in tutte le cose è, vive ed agisce. Ora nella concezione indeterminista l’uomo sta di fronte a Dio con il<br />

suo libero arbitrio come una potenza straniera che è veramente un imperium in imperio, che rilutta all’ordine<br />

universale voluto da Dio: egli ha qualche cosa di cui può dire: “questo dipende da me, è la mia esclusiva<br />

volontà, non mi viene da Dio”. Ma non è appunto questo il principio del male: l’egoità, il porre sé e la propria<br />

volontà come per sé stanti, come distinti ed isolati da Dio? (L 397-398)<br />

Non a caso, la nozione di libero arbitrio è sorta sul terreno ambiguo della teodicea<br />

razionale, ma è respinta da alcuni teologi, in quanto modello inadeguato della perfetta<br />

libertà divina (questa discussione dei temi teologici, ripresi dalla prima parte, si trova svolta<br />

alle pagg. 405-408).<br />

Ora, lasciando al piano teologico la sua relativa autonomia, vi sono argomenti<br />

consistenti, sul piano strettamente razionale, per respingere il nesso posto dagli<br />

indeterministi tra contingenza e responsabilità. Una volontà indeterminata è “una volontà<br />

in cui non vi è connessione fra gli atti successivi […]: l’indeterminismo recide ogni legame<br />

fra l’io e l’atto” (L 396). Posta una connessione completa tra gli antecedenti causali (la<br />

“preparazione”) dell’atto e la sua effettuazione, si inserisce qui una ingiustificata lacuna<br />

logica o “sospensione” della validità universale del principio causale, in virtù della quale la<br />

volontà (già sufficientemente determinata dalle sue condizioni) potrebbe “in ogni istante<br />

decidere in un senso o nel senso opposto” (ibid.). Si attribuisce in tal caso all’io una<br />

funzione di “arbitro a cui spetta la decisione”, che è una finzione astratta. L’io (se deve<br />

entrare nella concatenazione causale indispensabile a produrre l’atto) non può essere<br />

altro che “l’unità formale dei fattori costanti, cioè un sistema di elementi attivi”<br />

autodeterminantesi (L 398-399). Quando agisco sotto l’imperativo passionale dell’ira,<br />

oppure quando trattengo l’emotività, lasciando che sia la razionalità del libero arbitrio a<br />

comandare sull’inclinazione (e questa è l’unica possibilità di differenziare la forma di<br />

spontaneità dell’uomo dall’arbitrium brutum dell’animale), il mio io si identifica totalmente<br />

con l’uno o l’altro dei motivi, che causano l’azione (con il più forte di essi, che ottiene<br />

immancabilmente la vittoria). Non è che vi sia un io “neutrale”, che assiste alla lotta tra i<br />

motivi, che soppesa la loro forza relativa, e alla fine “sceglie” in modo arbitrario quello a cui<br />

decide di assegnare la palma della vittoria. Questa sarebbe una ricostruzione astratta del<br />

processo decisionale della volontà, che priverebbe la scelta finale (prohairesis) della forza<br />

motivante propria della “deliberazione” (bouleusis). Ma con ciò verrebbe a cadere<br />

l’assunto da cui era partito proprio l’indeterminista: quello cioè di volere salvare la<br />

“responsabilità” del soggetto morale. La decisione finale finisce per essere una scelta<br />

irresponsabile, se si recidono i legami profondi e necessari tra l’io e l’atto. Tutti quelli “che<br />

scrivono una storia o una biografia, che governano, che educano, trattano con gli uomini,<br />

pongono a fondamento del loro agire la presupposizione […] che ciò che governa il mondo<br />

dello spirito è la concatenazione regolare delle cause e non l’arbitrio” (L 399). La<br />

concezione opposta, di una libertà fondata sul nulla, una concezione che si farà strada con<br />

l’esistenzialismo (Sartre), appare a Martinetti assurda: “un principio attivo che entrasse<br />

nella connessione universale come qualcosa di ex novo è così assurdo come sarebbe un<br />

essere che aggiungesse di tanto in tanto qualche minuto di più al tempo” (L 400). La<br />

VALIDITÀ UNIVERSALE <strong>DELLA</strong> LEGGE DI CAUSALITÀ (E QUINDI <strong>IL</strong> DETERMINISMO) non ammette lacune.<br />

Il rigetto dell’indeterminismo, a detta dei suoi difensori, non ci evita tuttavia le<br />

conseguenze “fatalistiche” dell’opposta tesi del determinismo. Esso sembra ugualmente<br />

inconciliabile con “una visione morale e religiosa del mondo”. Martinetti non si nasconde la<br />

difficoltà: se la pone anzi di fronte nella sua versione più dura. E’ infatti la scienza, con le<br />

64


sue logiche deduzioni e verifiche sperimentali, a propendere verso un determinismo<br />

assoluto, espresso nella LEGGE <strong>DELLA</strong> CONSERVAZIONE DELL’ENERGIA:<br />

Se noi pensiamo la totalità del mondo fisico come una grande concatenazione di cause e di effetti e se<br />

ricordiamo che in ogni nesso causale l’effetto e la causa sono sostanzialmente identici, tutti i successivi<br />

aggruppamenti di movimenti e di energie del mondo fisico dovranno costituire un’unità fondamentale<br />

costante, non saranno che parvenze diverse di una corrente unica, omogenea, costante. Ammettendo la<br />

possibilità d’un accrescimento o di una diminuzione, dovremmo ammettere effetti senza cause o cause<br />

senza effetti. Ora in questa concatenazione costante si inseriscono anche i moti del corpo, che sono<br />

determinati e quanto alla quantità di energia e quanto alla direzione e al tempo; il libero arbitrio, implicando la<br />

possibilità che la volontà determini da sé dei movimenti corporei, contraddice al principio della conservazione<br />

dell’energia (L 400).<br />

Né vale il ricorso, frequente nelle discussioni tra sostenitori del determinismo e “filosofia<br />

della contingenza”, alle leggi statistiche, che avrebbero l’effetto di rendere meno rigida e<br />

più flessibile la previsione scientifica. Quando si applica all’azione collettiva, la statistica<br />

non fa che mettere in luce “l’azione di alcuni fattori costanti”, senza escludere “l’azione dei<br />

fattori individuali” (L 402). Ad esempio la correlazione tra il numero dei matrimoni e le<br />

condizioni economiche (fissate dal prezzo medio del grano). Questa rappresenta un<br />

fattore costante nelle decisioni degli individui (il numero dei matrimoni diminuisce infatti<br />

percentualmente, con il peggioramento del tenore di vita), a determinare le quali<br />

concorrono ugualmente fattori variabili (ad esempio, la opposta spinta demografica ad<br />

accrescere la popolazione, dopo una crisi bellica, indipendentemente dal fatto che le<br />

condizioni economiche di miseria, determinate dalla guerra, appaiano in contrasto con<br />

essa). Il comportamento sociale sarà in ogni caso la risultante necessaria di un intreccio<br />

complesso di fattori costanti (leggi generali) e di variabili (individuali), senza che<br />

l’indeterminismo possa aggiungere nulla di meglio alla spiegazione dei fenomeni, o nulla<br />

togliere alla loro prevedibilità. L’effetto dell’applicazione sociologica della statistica ha in<br />

realtà l’effetto contrario a quello preteso dal contingentismo: ossia di rendere più oggettiva<br />

ed esatta la previsione scientifica del comportamento umano, riducendo anche le variabili<br />

individuali a qualcosa di prevedibile e (per la legge dei grandi numeri) sempre verificata (il<br />

numero dei suicidi, in una popolazione osservata per un sufficiente numero di anni e in<br />

relazione a condizioni economiche e sociali determinate, risulterà costante, anche se ciò<br />

non obbliga, ovviamente, nessun individuo a suicidarsi, per verificare la legge statistica).<br />

Una conclusione fatalistica non sembra dunque esclusa dall’accettazione letterale<br />

del determinismo scientifico: il che si pone in stridente contrasto con l’opposta esigenza<br />

morale, di riconoscere un significato positivo alla coscienza della libertà. La testimonianza<br />

della coscienza ci pone qui di fronte ad un inaccettabile “dualismo” di necessità e libertà,<br />

rivelatore di un più grave dissidio tra natura e spirito: “noi sentiamo in noi due leggi, due<br />

necessità, due nature, ma siamo sostanzialmente un essere unico e la nostra vita è<br />

unica” (L 410). Ecco come può essere descritta l’antinomia che sorge dal concepire il<br />

determinismo nella sua dura versione scientifico-naturalistica (in quanto cioè fondato sulla<br />

legge della conservazione dell’energia), e dalla volontà di espungerne l’immancabile<br />

FATALISMO, mediante il ricorso a un’intuizione idealistica (o spiritualistica) della realtà:<br />

Vi è fuori di me e nel mio corpo stesso una realtà straniera alle esigenze dello spirito, impenetrabile alla mia<br />

intuizione, che segue le sue necessità cieche attraverso l’infinità del tempo e dello spazio: e queste<br />

necessità estendono il loro dominio nella parte inferiore della mia natura, penetrano nella coscienza come<br />

impulsi ed istinti irragionevoli e sembrano attirare la mia volontà in quella direzione che è stata loro prefissata<br />

immutabilmente da innumerevoli antecedenti. Nel mio spirito sembra invece vivere un’energia radicalmente<br />

opposta, che si erige di fronte alla natura e già la domina in quanto la conosce: che di fronte all’impersonalità<br />

sua è unità per essenza, di fronte alle tenebre sue è luce spirituale, di fronte al suo cieco meccanismo è<br />

potenza autonoma di dirigere se stessa secondo qualche cosa che non è in nessuna parte, ma deve essere.<br />

65


La necessità sua non è una necessità fissata nei suoi antecedenti, immobile, stagnante, ma una necessità<br />

che si rinnova incessantemente, si eleva e si rivela a se stessa sotto forme sempre più alte: ciò che diciamo<br />

il dover essere non è che la preparazione e la rivelazione, nello spirito, d’una più profonda necessità<br />

dell’essere (L 409-410).<br />

A sciogliere l’antinomia dell’esperienza e a salvare la testimonianza della coscienza a<br />

favore della libertà, dal rischio dell’annullamento soggettivistico, interviene qui la ragione<br />

con il suo insopprimibile “bisogno metafisico”. “E’ il mondo – Martinetti si interroga - in<br />

seno all’io o l’io in seno al mondo”? La realtà è “un pensiero, che porta in sé, come<br />

fondamento oscuro, la natura e che ha il compito di sublimarla in se stesso attraverso una<br />

serie infinita di negazioni”, oppure è “una forza cieca, che agita dalle necessità tenebrose<br />

del tempo la sua mole immensa e genera nel corso delle sue trasformazioni, come un fiore<br />

delicato ed effimero, lo spirito?” (L 410). Nell’ipotesi del determinismo naturalistico<br />

“l’imputabilità morale non avrebbe più senso”, con la caduta conseguente di ogni<br />

distinzione di valore. Ma questo tipo di determinismo ammette l’auto-confutazione sul<br />

piano logico: in esso tanto l’affermazione quanto la negazione della libertà risultano infatti<br />

ugualmente necessarie (L 412-413). L’autore lo aveva del resto già superato, sostituendo<br />

a una nozione di causalità passiva e meccanica, quella di una causalità sintetica e<br />

formale, in cui l’effetto è sì sempre legato indissolubilmente ai suoi antecedenti, ma “vi è<br />

legato dalla sua stessa necessità, non è il passivo portato della necessità degli<br />

antecedenti: la sua necessità è un dover essere proprio, qualche cosa di più e di<br />

imprevedibile”. Dunque è possibile mantenere il più rigoroso determinismo senza cadere<br />

negli assurdi del meccanicismo e del fatalismo: l’atto umano risulta “determinato e<br />

necessario, ma non metafisicamente predeterminato” (L 414-415).<br />

Vanno sottolineate le implicazioni etiche dell’idealismo metafisico martinettiano: l’io<br />

e la sua identità sono “il risultato dell’azione formale d’un principio metafisico: perciò la sua<br />

libertà è la sovrapposizione, alle necessità concorrenti, d’una necessità formale superiore”<br />

(L 415). Nell’atto moralmente libero (la cui fenomenologia è svolta da Martinetti alle pagg.<br />

415 e sgg.), la volontà è mossa sempre dallo stimolo sensibile, il quale agisce però come<br />

la rappresentazione di un’idea (esso ha, per così dire, un “nimbo” ideale). La generalità<br />

che accompagna lo stimolo è pur sempre un elemento del soggetto empirico, fa parte<br />

della sua “preparazione”, così che l’azione morale rientra nella concatenazione causale<br />

empirica (la legge morale pura non può infatti muovere direttamente – come pretende<br />

Kant – la volontà). Ma il risultato di questa azione empiricamente condizionata corrisponde<br />

a una norma universale assoluta: di qui il senso di “liberazione” che accompagna<br />

l’esercizio della vita morale. La norma morale assoluta opera come una idea regolativa,<br />

nella realizzazione empirica di norme sempre più universali. Il carattere empirico è “in<br />

progresso” verso il carattere intelligibile, esso non è - come pretendeva Schopenhauer -<br />

una semplice “traduzione che distenda nel tempo l’unità intelligibile”, ma “un’ascensione,<br />

una creazione orientata nel senso dell’unità sua intelligibile” (L 416). Ciò richiede una<br />

radicale trasformazione della nozione stessa del tempo. Il carattere intelligibile, infatti, è<br />

“l’unità immobile, che in sé riassume la totalità reale delle sue manifestazioni empiriche<br />

causalmente concatenate e che appunto perciò non può in alcun modo entrare in esse<br />

come fattore” (L 416). Come Dio (è evidente qui il richiamo a Plotino), esso è fuori dalla<br />

concatenazione temporale, non vi appartiene. La libertà è dunque possibile solo<br />

riconoscendo nell’io “un’unità formale metafisica, che è di tutto il processo psichico il<br />

termine ed il limite ideale e che ne compendia tutta la realtà, quale si svolge per esso nel<br />

tempo, nella sua eterna e immutabile unità” (ibid.). Ma come si traduce questa libertà del<br />

volere nell’agire? Come si conciliano necessità ideale e il determinismo fisico? Solo se la<br />

realtà fisica non è la realtà assoluta (quindi solo all’interno di una METAFISICA IDEALISTICA),<br />

essa può attuare, a livello fenomenico la libertà spirituale. Anziché pensare qui ad un<br />

66


futuro predeterminato nel presente, dobbiamo sforzarci di pensare il presente alla luce del<br />

futuro:<br />

la realtà dell’io futuro non sarà più la realtà dell’io presente: anzi in ogni momento l’io costituisce intorno a sé<br />

una nuova realtà, che, nonostante differenze impercettibili, non è più quella di prima. Ognuna di esse<br />

obbedirà sempre alle leggi costitutive dello spirito: e perciò in ciascuna di esse il principio della<br />

conservazione causale e della conservazione dell’energia avrà la più rigorosa applicazione. Per l’intelligenza<br />

e le sue leggi formali, esso sarà sempre lo stesso mondo: ma per la personalità sarà un altro (L 419).<br />

Occorre distinguere allora tra temporalità sensibile e intelligibile: “nel tempo sensibile il<br />

mondo fluisce dinanzi all’io immobile; nel tempo intelligibile fluiscono l’io e il mondo con<br />

tutte le sue forme”. L’ordine naturale non lega lo spirito dall’esterno, ma ne è plasmato –<br />

per così dire – dall’interno: “lo spirito lo ricrea in ogni momento come un motivo melodico<br />

che torna, sempre identico e sempre altro, ad altezze diverse” (L 420).<br />

Possiamo cogliere infine il punto di intersezione e di transizione necessario tra<br />

idealismo etico e idealismo religioso (per usare due classiche definizione della filosofia di<br />

Martinetti, proposte rispettivamente da Augusto Guzzo e da Franco Alessio), accennando<br />

all’“epilogo metafisico” dell’opera. La fiducia morale, di cui si nutre la personalità etica<br />

dell’uomo, che a ogni grado della realtà intelligibile, cui lo eleva il suo sforzo di volontà<br />

(quella che Martinetti, con espressione felicissima, chiama – a pag. 419 – la “vita della<br />

ragione”), le sue necessità fisiche si pieghino ad esprimere l’ordine morale, riposa a sua<br />

volta sul riconoscimento razionale di una necessità ideale più sublime. E’ ciò che<br />

testimonia in fondo la fede religiosa, ove essa si presenti in forma sufficientemente pura<br />

ed elevata, e non nella sua versione superstiziosa e degradata: in quella che Martinetti<br />

chiama la “religiosità morbosa delle piccole menti” (L 428). Nel suo progresso morale –<br />

scrive Martinetti – l’io “non trae da sé, per una specie d’arbitrio, la nuova determinazione:<br />

ma la riceve come partecipazione, come “grazia” dal suo essere intelligibile, che è una<br />

sola cosa con la Ragione assoluta” (L 421). Noi “non abbiamo il potere di creare […]<br />

nuove attività che siano pure attività; di inserire un’azione altra da quella della Ragione:<br />

ma in ogni momento parla al nostro spirito la ragione il suo linguaggio, dispiegando dinanzi<br />

ai nostri occhi la realtà con i suoi sensi profondi ed in ogni momento la ragione, che è in<br />

noi, unifica, forma, innalza questa visione della Ragione attraverso le sue parvenze<br />

sensibili” (ibid.). Come potrei abbandonarmi passivamente alla necessità fatale delle cose,<br />

se questa non è, nella sua radice ultima, realmente altra dalla mia volontà (come<br />

confessiamo, ogni volta che pronunciamo con fede le parole del Padre nostro: “fiat<br />

voluntas tua”)? Va qui per altro sottolineato l’accento razionalistico di questa fede<br />

martinettiana: “il vero e unico mezzo di grazia, la sola sorgente di libertà è per noi il<br />

conoscere, che mentre trasforma l’essere nostro, trasforma anche intorno ad esso il<br />

mondo” (ibid.). Martinetti rappresenta il caso abbastanza unico nel Novecento di un<br />

razionalismo filosofico vissuto con la radicalità e l’esclusività di una fede religiosa.<br />

Ma insorgono qui le tradizionali difficoltà del determinismo teologico (già esaminate<br />

nella parte storica). Come si possono conciliare (sul piano metafisico) la libertà morale<br />

dell’uomo (la sua volontà finita) e la perfezione assoluta della volontà in Dio? Se Dio è<br />

veramente il principio assoluto delle cose, non è possibile ammettere negli esseri finiti<br />

un’attività veramente autonoma: è Dio (in ultima istanza) ad agire in essi. E allora “che<br />

senso hanno ancora il merito, la responsabilità e la libertà stessa?” (L 424). Vi è<br />

un’evidente incompatibilità del concetto di “creazione” con quello di “libertà”: “finché si<br />

pensa Dio come un’unità contrapposta alla nostra individualità spirituale, il fatalismo è<br />

inevitabile” (L 427). Non sembra potersi individuare altra via razionale che quella indicata,<br />

nelle sue ultime indagini sulla libertà del volere, da Schelling: “salvare l’uomo stesso con la<br />

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sua libertà in Dio”, ammettere che ciò che nell’uomo costituisce l’essenza della libertà<br />

appartiene, “come un momento assoluto di Dio, a Dio stesso” (ibid.). In questa visione –<br />

intermedia tra teismo e panteismo – Dio si identifica per noi con la Ragione: ragione<br />

infinita come “unità vivente di una molteplicità infinita di rapporti e di elementi ad essa<br />

coessenziali”, non Dio-persona, posto in una relazione di radicale alterità con il mondo<br />

creato. Questo concetto di ragione (che Martinetti indica spesso con il nome di Uno, caro a<br />

Plotino) rimane naturalmente, in rapporto a Dio, un semplice simbolo, ma “il simbolo più<br />

alto e più adeguato a noi accessibile” (ibid.). La religione è per Martinetti la più alta<br />

creazione della ragione, “che compie in essa il suo ultimo sforzo col rinviarci ad una<br />

razionalità più profonda, divinata ed agognata, sebbene non più determinabile dalla nostra<br />

ragione se non per mezzo di simboli” (L 428). L’individualità personale non risulta qui per<br />

altro annullata, ma potenziata. Questa Ragione non va infatti concepita come universalità<br />

astratta, ma come concretissima omnitudo realitatis. In essa ogni momento necessario<br />

dell’agire è conservato e sublimato come essenziale: “conservato nella sua realtà<br />

indistruttibile, che noi qui sentiamo ed esperimentiamo nel nostro limitato io in quanto<br />

ragione, sublimato nella sua unità con tutti gli altri momenti, in un divino accordo, che<br />

trascende ogni nostra potenza di concepire” (ibid.). Di qui la conclusione “scandalosa”del<br />

libro (per mentalità meno agguerrite di quella di Martinetti sul piano della metafisica, o più<br />

semplicemente nutrite da un presuntuoso “secolarismo”), che “l’essenza e il principio della<br />

libertà dell’uomo è nella sua personalità divina” e quindi “la negazione della libertà è<br />

negazione di Dio” (L 429). Una conclusione in cui si ravvisa agevolmente la cifra<br />

spinoziana della sua metafisica ultima, ma insieme il carattere umanissimo e<br />

profondamente antiretorico del suo idealismo (a differenza – se vogliamo – di quello di<br />

altri, che occupavano più di lui la scena filosofica del tempo).<br />

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