Un sogno, Gli strumenti umani, 1965 Ero a passare il ponte su un ...
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VITTORIO SERENI
Un sogno, Gli strumenti umani, 1965
Ero a passare il ponte
su un fiume che poteva essere il Magra
dove vado d'estate o anche il Tresa,
quello delle mie parti tra Germignaga e Luino.
Me lo impediva uno senza volto, una figura plumbea.
«Le carte» ingiunse. «Quali carte» risposi.
«Fuori le carte» ribadì lui ferreo
vedendomi interdetto. Feci per rabbonirlo:
«Ho speranze, un paese che mi aspetta,
certi ricordi, amici ancora vivi,
quaIche morto sepolto con onore».
«Sono favole - disse - non si passa
senza un programma.» E soppesò ghignando
i pochi fogli che erano i miei beni.
Volli tentare ancora. «Pagherò
al mio ritorno se mi lasci
andare, se mi lasci lavorare.» Non ci fu
modo d'intendersi: «Hai tu fatto -
ringhiava - la tua scelta ideologica?».
avvinghiati lottammo alla spalletta del ponte
in piena solitudine. La rissa
dura ancora, a mio disdoro.
Non lo so
chi finirà nel fiume.
Le sei del mattino, Gli strumenti umani
Tutto, si sa, la morte dissigilla.
E infatti, tornavo,
malchiusa era la porta
appena accostato il battente:
E spento infatti ero da poco,
disfatto in poche ore.
Ma quello vidi che certo
non vedono i defunti:
la casa visitata dalla mia fresca morte,
solo un poco smarrita
calda ancora di me che più non ero,
spezzata la sbarra
inane il chiavistello
e grande un’aria popolosa attorno
a me piccino nella morte,
i corsi l’uno dopo l’altro desti
di Milano dentro tutto quel vento.
Autostrada della Cisa, Stella variabile, 198i
Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).
Oggi a un chilometro dal passo
1
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio dal ciglio di un dirupo,
spegne un giorno già spento, e addio.
Sappi - disse ieri lasciandomi qualcuno -
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell'altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d'estate.
Parla così la recidiva speranza, morde
in un'anguria la polpa dell'estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochtitlan.
Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d'aria.
Ancora non lo sai
- sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire -
non lo sospetti ancora
che d[ tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?
SERGIO SOLMI
A Giacomo Leopardi, Dal balcone, 1968
Recanati 1962 - Milano 1966
L'antica luna ... il cui rotondo, scabro,
pacato lume come allora splende
su lievi colli e piagge,
mentre lento ormai scende
la china il per te nuovo, ignoto secolo
cui sognavi parlare. Nel paterno
giardino come allora
le aiuole spettralmente
l'amico raggio avviva, la vasca orla
ove talor sedevi di speranze
e di morte pensoso.
Oggi degli anni a te ignoti piu alto
volge il fragore, e assieme tutto e nulla
è mutato. Reali paion fatti
i giovanili sogni, Italia unita
e di catene scarca, ma l'onesto
e retto conversare cittadino
è tal solo in principio, ancora e sempre
di celate tirannidi il dominio
insidia il libero
competere d'eguali
cui miravi, e volgendoci
addietro al lungo
sanguinoso cammino, i fondi sonni
torpidi della storia e i fuochi rari
delle forti illusioni e dei magnanimi
pensieri, a rivelarsi
persistono tuttora ambigui segni
d'indeciso processo interscambiabili.
Né ancor s'astenne
la generosa stirpe, come saggio
antivedevi, dal por mano ad armi
ogni dì più possenti a ognor più vaste
stragi ordinate, e in luogo
di rinsavita unirsi a fronteggiare
l'inimica natura (tal suonava
il tuo monito estremo), eccola giunta
angosciosamente a un riconoscersi
dissennato sull'orlo vacillante
dell' autodistruzione.
Ancora i «nuovi
credenti» cui irridevi, sotto altri
nomi al caffè discettano,
e dietro oscuri gerghi d'orgogliose
filosofie, in grotteschi
modi tra loro commiste, trasudano
come allora sornioni il conformismo.
Ben altri mostri intanto partoriscono
i novelli romantici, che assisi
su vistose bigonce - strepitosi
batraci su palustri foglie, in rochi
gracidamenti esalano
docili il fetido
fondiglio di questi anni: ed a vicenda
s'esaltano quai zelatori e interpreti
di nostra età meccanica. Non lunge
da loro i chiericuzzi stenterelli
del contenuto, il gracil petto enfiando,
a ministri s'atteggiano
di polizia, imponendo
mire, argomenti e modi: a loro il crasso
ottuso orecchio vieta
della verace poesia i riposti
accordi e sensi intendere che l'animo
ridesta in preziosi istanti: ignari
come a sepolte attinga
regioni dove affanno e gioia, e veglia
e sonno mutuano
i lor segni, e che solo la più fonda
autentica scontata
necessità dall'ime scaturendo
radici della vita, quasi in magico
specchio indirettamente prefigura
un più umano rapporto, e d'un più libero
mondo l'immagine.
Dagli ondulati colli, dalle brune
torri donde ancor suole fino a sera
l'a te fraterno solitario passero
2
effondere il suo canto,
scende notturna pace. E quasi pare
misteriosamente dissiparsi
nell'alta quiete immobile
l'assiepato sanguigno
ordine d'anni, e intatto ricongiungersi
all'oggi l'ieri. Come se la macchina
del tempo tante volte
ad occhi aperti sognata, a ritroso
epoche valicando, trasportato
quivi m'avesse ad incontrar sul colle
dell'Infinito, in una delle sue
meditabonde passeggiate, il conte
Giacomo Leopardi. È solo un gioco,
lo so, di fantasie, che a interpretare
insiste un moto incerto
d'ombre e fronde. Il continuo irreversibile
ci mena, sale il passato e ci impietra
la sua acqua di gelo istante a istante.
Ma il tuo canto a noi dura. Ah, se potesse
simile al calmo raggio
di questa luna a te cara, far scendere
entro i contorti e faticati rovi
d'un linguaggio che certo
ti suonerebbe barbaro, si come
quel ch'io sto compitando (e sembra sfiori
la parodia), qualcosa, almeno un vago,
un tremante barlume
di tua magia suprema, che fermare
sa in aeree di musica struggenti
architetture, la labilità
d'un sospiro che esprime la più fonda
pena del nostro esistere.
A mio vanto
basterebbe, a sollievo
d'una fatica ormai tarda, in'un mondo
ogni di più straniero, da cui sciolto,
quasi assunto oltretempo
in un segreto eliso, ave s'oscurano
di momento in momento le gentili
linee del tuo paesaggio, stasera
solitario cammino
con la cara tua ombra conversando.
GIOVANNI RABONI
La guerra, A tanto caro sangue, 1988
Ho gli anni di mio padre - ho le sue mani,
quasi le dita specialmente, le unghie,
curve e un po' spesse, lunate (ma le mie
senza il marrone della nicotina)
quando, gualcito e impeccabile, viaggiava
su mitragliati treni e corriere
portando a noi tranquilli villeggianti
fuori tiro e stagione
nella sua bella borsa leggera
le strane provviste di quegli anni, formaggio fuso,
marmellata
senza zucchero, pane senza lievito,
immagini della città oscura, della città sbranata
così dolci, ricordo, al nostro cuore.
Guardavamo ai suoi anni con spavento.
Dal sotto in su, dal basso della mia
secondogenitura, per le sue coronarie
mormoravo ogni tanto una preghiera.
Adesso, dopo tanto
Che lui è entrato nel niente e gli divento
Giorno dopo giorno fratello, fra non molto
Fratello più grande, più sapiente, vorrei tanto sapere
Se anche i miei figli, qualche volta, pregano per me.
Ma subito, contraddicendomi, mi dico
che no, che ci mancherebbe altro, che nessuno
meno di me ha viaggiato fra me e loro,
che quello che gli ho dato che mangiare
era? non c'era cibo nel mio andarmene
come un ladro e tornare a mani vuote...
Una povera guerra, piana e vile,
mi dico, la mia, così povera
d’ostinazione, d'obbedienza. E prego
che lascino perdere, che non per me
gli venga voglia di pregare.
GIOVANNI GIUDICI
Il ritratto, Quanto speri di campare Giovanni, 1993
Il ritratto che qui vedete
Le mani schiuse nelle mani
E lo spento aspettare senza quiete
Arreso a fantasmi lontani
Lo osservano il visitatore o un amico
Domandano chi è vanno oltre
O udito il nome «ah» dicono
Ma tacciono il più delle volte
Forse curiosi al pensiero se sia
Un piccolo parente senza storia
O passione castisima di una zia
Morta giovane in sua memoria
Quasi postuma onoranza
Offrendo a quei gentili affanni
In pre-sepolcrale sembianza
L’amore sfatto dagli anni
Ma niente di tutto questo –
Perché nel ritratto è effigiato
Appena un vecchio Maestro
Messo in disuso benché amato
Che poi non si ha più coraggio
Di farlo sparire in disparte
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Tradita madonna di maggio
Vacilla la fede nell’arte
Mio ritratto che qui vedete
Le desolate mani nelle mani
E l’inerme nerezza senza quiete
Ingenuo a orrori lontani