Tito Livio. Gli ab urbe condita libri - Facoltà di Lettere e Filosofia
Tito Livio. Gli ab urbe condita libri - Facoltà di Lettere e Filosofia
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Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 1
Programma d’esame.
Tito Livio. Gli ab urbe condita libri
a.a. 2008-2009
Appunti delle lezioni
1 Storia della letteratura latina, da preparare sul testo G. Garbarino, Letteratura
latina, Torino (Paravia), 1998 (e successive ristampe), prima parte (dalle origini a
Tito Livio compreso, con particolare riguardo ai seguenti autori: Plauto, Ennio,
Catone, Terenzio, Lucilio, Lucrezio, Catullo, Cicerone, Cesare, Sallustio, Virgilio,
Orazio, Tibullo, Properzio, Ovidio, Tito Livio) per chi non ha ancora acquisito
crediti nel settore; seconda parte (l'età imperiale, con particolare riguardo ai
seguenti autori: Seneca, Lucano, Petronio, Marziale, Quintiliano, Giovenale,
Svetonio, Tacito, Apuleio, Ammiano Marcellino, Ambrogio, Gerolamo, Agostino)
per chi ha già acquisito 5 crediti nel settore. Degli autori indicati è opportuno
leggere (in traduzione italiana) i brani riportati nella sezione antologica della
Letteratura. Per chi abbia già acquisito 10 crediti nel settore il programma
d’esame consiste nel solo punto 2.
2. Gli argomenti svolti a lezione (riportati in questi appunti). Traduzione e
commento dei seguenti brani di Livio: praefatio; 1, 9-13; 5, 26,9 – 27; 5, 47- 49; 7,
9 – 11, 1; 9, 16, 11-19; 21, 1-4; 34, 1-4; 35, 19; 42, 47. Inoltre: Gellio 9, 13, 6-19
(= Quadrigario, fr. 10 b Peter).
Nel materiale didattico relativo a questo modulo si troveranno tutti i testi latini
(un file) e le traduzioni (un altro file), con un po’ di commento grammaticale.
N.B.: né le traduzioni né il commento grammaticale vanno studiati; le une e gli
altri sono proposti soltanto come aiuto per la comprensione dei testi dal punto di
vista linguistico. Nemmeno le note a pie’ di pagina inserite in questi appunti
vanno studiate.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 2
NOTIZIE SULL’AUTORE. ATTIVITÀ LETTERARIA
Tito Livio si può considerare lo storico “ciceroniano” per eccellenza: nella sua opera
appaiono infatti accolti ed applicati i precetti teorici sulla storiografia esposti da
Cicerone 1, che si possono riassumere e sintetizzare nella formula historia opus oratorium:
Livio non è solo un narrator, ma anche, o soprattutto, un exornator rerum.
Data di nascita. Delle vicende biografiche e dell’attività letteraria di Livio le fonti
antiche dicono assai poco. La parte conservata della sua opera storica giunge soltanto al
167 a.C.: i cenni di carattere autobiografico, che lo storico potrebbe aver inserito nella
narrazione degli eventi a lui contemporanei, sono andati perduti.
Le incertezze sulla sua biografia iniziano forse con la data di nascita, tramandata
da Girolamo 2 sotto l’anno 1958 di Abramo, corrispondente al 59 a.C., ma messa in
dubbio perché associata a quella di Messala Corvino. Girolamo dice: Messala Corvinus
orator nascitur et Titus Livius Patavinus scriptor historicus. Nel 59 a.C. dunque “nascono
Messala Corvino oratore e Tito Livio di Padova, storiografo”.
Messala Corvino è il fondatore del circolo letterario cui appartennero, tra gli altri,
Tibullo e Ovidio da giovane. Per questo personaggio la data di nascita indicata da
Gerolamo potrebbe essere sbagliata. Messala Corvino fu infatti un uomo politico, e
alcune tappe del suo cursus honorum ci sono note: in particolare, sappiamo che fu
console nel 31 a.C., ad un’età – se nacque nel 59 a.C. - troppo giovane, inferiore a quella
(30 anni) fissata dalla riforma sillana non per il consolato (che era, a quanto pare, di 43
anni), ma per iniziare il cursus honorum. Si ritiene perciò opportuno anticipare di alcuni
anni la data di nascita di Messala, precisamente al 64 a.C. In questo anno infatti i nomi
dei consoli (che come è noto venivano comunemente usati per indicare l’anno) sono molto
simili a quelli dei consoli dell’anno 59: Cesare e Figulo nel 64 e Cesare e Bibulo nel 59.
Girolamo, o la sua fonte, potrebbe aver confuso i nomi dei consoli dei due anni; ne
conseguirebbe che anche per Livio la data di nascita vada spostata al 64 a.C. Come si
vede, non si tratta di un argomento cogente: le norme per il cursus honorum fissate da
Silla furono spesso violate, soprattutto negli ultimi tempi della repubblica; inoltre, se per
1 In de or. II, 1-64 e de leg. I, 1-10.
2 Girolamo (347-420 d.C.) tradusse dal greco il Chronicon di Eusebio di Cesarea (265-340 d.C.),
un’opera in cui i principali avvenimenti della storia universale erano disposti in tavole
cronologiche sincroniche, a partire da Abramo (2016-2015 a.C.). Nella sua traduzione Girolamo
mantenne il medesimo punto di partenza cronologico, e arricchì il testo con molte notizie relative
alla storia e alla letteratura romane; per queste si servì del de viris illustribus di Svetonio; inoltre
proseguì l’esposizione dal 325 d.C., anno a cui si fermava l’opera di Eusebio, fino al 378.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 3
Messala la data di nascita può essere sbagliata, ciò non comporta necessariamente che
lo sia anche per Livio 3.
Morte. Sotto l’anno 2033 (= 17 d.C.) Girolamo registra la morte dello storico:
Livius historiographus Patăvi moritur, “muore a Padova lo storiografo Livio”. Il luogo di
nascita è confermato da altre fonti antiche 4, e dalla famosa accusa di Patavinitas, su cui
torneremo, mossa allo storico da Asinio Pollione.
Opere filosofiche. Le notizie che si possono inserire fra le due date tramandate da
Girolamo non sono molte. Il nome di Livio è legato all’opera storica, ma alcune
testimonianze antiche indicano che egli ebbe interessi, e svolse attività letteraria, anche
in campi diversi da quello della storiografia. Seneca gli attribuisce la composizione di
dialogi e di libri di filosofia: scripsit dialogos, quos non magis philosophiae adnumerare
possis quam historiae, et ex professo philosophiam continentis libros (ep. ad Luc. 100,9),
“scrisse dialoghi che si potrebbero assegnare tanto alla filosofia quanto alla storia, e libri
di contenuto propriamente filosofico”.
I dialoghi di argomento filosofico e storico insieme potrebbero essere, sul modello
dei dialoghi ciceroniani, scritti in cui personaggi storici reali sia espongono e discutono le
diverse opinioni delle scuole filosofiche, sull’etica (per es. de finibus), sulla teoria della
conoscenza (per es. Academica), sugli dèi (de natura deorum), sia analizzano, con
riferimenti concreti agli stati reali e soprattutto a quello romano e alla sua storia, temi
quali la funzione della giustizia nella vita civile, la miglior forma di governo, le doti del
princeps, ecc. (gli argomenti trattati nel de republica e nel de legibus). Dai dialoghi Seneca
distingue libri propriamente filosofici: forse la differenza era soprattutto di forma (trattati,
sul modello ciceroniano del de officiis). In ogni caso, si trae con certezza dall’accenno di
Seneca uno spiccato interesse di Livio per la filosofia, cui dedicò opere apposite.
Opinioni sullo stile. Anche sull’eloquenza Livio espresse – non sappiamo se in
opere apposite, come Cicerone – le proprie opinioni, come si deduce da qualche accenno
di Quintiliano e di Seneca Padre. Accingendosi ad indicare quali autori l’oratore debba
leggere per trarne giovamento, smarrito di fronte alla vastità del compito che sta per
affrontare, Quintiliano osserva: Fuit igitur brevitas illa tutissima, quae est apud Livium in
epistula ad filium scripta, legendos Demosthenen atque Ciceronem, tum ita ut quisque
esset Demstheni aut Ciceroni simillimus (10,1,39), “Molto sicuro fu quel breve consiglio
che Livio diede in una lettera al figlio, di leggere Demostene e Cicerone, e poi tutti quelli
che più si avvicinavano a Demostene e a Cicerone”. L’ammirazione per i modelli più alti e
indiscussi nel campo dell’eloquenza si univa all’esigenza della chiarezza nell’esposizione,
3 In genere in effetti si accetta la correzione della data di Girolamo soltanto per Messala.
4 Plutarco, Caes., 47,3; cf. Marziale I,61,3, che parla della Apǒni tellus (Abano), che deve la sua
fama al “suo Livio”, e Stazio, Silvae IV,7,55-56, che accosta a Sallustio il Timāvi /alumnum, “il
figlio del Timavo”.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 4
come sembra di poter dedurre da un altro breve accenno di Quintiliano, che
condannando coloro che di proposito rendono oscuro il loro eloquio osserva: Neque id
vitium novum est, cum iam apud Titum Livium inveniam fuisse praeceptorem aliquem qui
discipulos obscurare quae dicerent iuberet, Graeco verbo utens sko/tison. Unde illa scilicet
egregia laudatio: ‘tanto melior: ne ego quidem intellexi’ (8,2,18), “E questo difetto non è
nuovo, giacché già in Tito Livio trovo che vi fu un maestro che prescriveva ai suoi allievi
di rendere oscuro ciò che dicevano, usando il vocabolo greco sko/tison. Di qui quell’elogio
davvero straordinario: ‘sei migliorato davvero! Nemmeno io ho capito!’ ”
Che anche Livio disapprovasse questo precetto (parlare in modo oscuro) sembra
confermato da un passo di Seneca Padre, che riferisce che Livio si prendeva gioco di
quegli oratori qui verba antiqua et sordida consectantur et orationis obscuritatem
severitatem putant (contr. 9,2,26), “che vanno in cerca di vocaboli arcaici e volgari, e
ritengono che un discorso oscuro sia un discorso solenne”.
Anche l’eccessiva concisione poteva rendere il discorso oscuro, ed era condannata
da Livio, come si può dedurre da un suo giudizio su Sallustio, ricordato da Seneca Padre,
che lo considera malevolo. Dopo aver menzionato una frase di Tucidide, che Sallustio
avrebbe tradotto riuscendo ad essere ancora più conciso del modello, e vincendolo
dunque sul suo stesso terreno5, Seneca aggiunge: T. autem Livius tam iniquus Sallustio
fuit ut hanc ipsam sententiam et tamquam translatam et tamquam corruptam dum
transfertur obiceret Sallustio. Nec hoc amore Thucydidis facit, ut illum praeferat, sed laudat
quem non timet et facilius putat posse a se Sallustium vinci si ante a Thucydide vincatur.
(contr. IX,1,14), “Ma Tito Livio è così ingiusto nei confronti di Sallustio da rimproverargli
sia di aver tradotto questa frase, sia di averla rovinata traducendola. E fa questo non per
5 Contr. IX,1,13: Multa oratores, historici, poetae Romani a Graecis dicta non subripuerunt sed
provocaverunt. Tunc deinde rettulit (sc. Arellio Fusco) aliquam Thucydidis sententiam: deinaiì ga\r ai¸
eu)praci¿ai sugkru/yai kaiì suskia/sai ta\ e(ka/stwn a(marth/mata, deinde Sallustianam: res secundae mire
sunt vitiis obtentui. [Hist. 1,55 (or. Lep.), 24]. Cum sit praecipua in Thucydide virtus brevitas, hac
eum Sallustius vicit et in suis illum castris cecidit; nam in sententia Graeca tam brevi habes quae
salvo sensu detrahas: deme vel sugkru/yai vel suskia/sai, deme e(ka/stwn: constabit sensus, etiamsi
non aeque comptus, aeque tamen integer. At ex Sallusti sententia nihil demi sine detrimento sensus
potest., “In molti casi oratori, storici, poeti romani non hanno rubato ai Greci le loro parole, ma si
sono posti in competizione con loro. Riferì quindi una frase di Tucidide: ‘I successi in effetti sono
efficaci per nascondere e mettere in ombra gli errori di ciascuno’, e poi una di Sallustio: ‘I successi
fanno mirabilmente da schermo ai vizi’. Benché la brevità sia la dote precipua di Tucidide,
Sallustio con questa frase lo ha superato, e lo ha sbaragliato nel suo campo stesso. Nella frase
greca, pur così breve, ci sono parole che si possono togliere senza danneggiare il senso: togli
nascondere o mettere in ombra, togli di ciascuno; il senso sopravviverà, anche se non egualmente
adorno, tuttavia egualmente compiuto. Dalla frase di Sallustio invece nulla si può togliere senza
che il senso ne sia danneggiato”. La “frase di Tucidide” non compare nell’opera giunta a noi; una
formulazione molto simile, ma non identica, si legge invece in una epistola a Filippo di (o
attribuita a) Demostene, ep. Phil. 13: ai( ga\r eu)praci/ai deinai\ sugkru/yai kaiì suskia/sai ta\j a(marti/aj
tw=n a)nqrw/pwn ei)si/n.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 5
amore di Tucidide, per anteporlo a Sallustio, ma loda un autore che non teme, e ritiene
di poter più facilmente superare Sallustio, se prima Sallustio è superato da Tucidide.”
Le testimonianze di Quintiliano e di Seneca Padre indicano soltanto la posizione di
Livio nei confronti di una tendenza dell’eloquenza contemporanea: egli condannava
l’oscurità arcaizzante, ed era favorevole a modelli classici, quali Demostene e Cicerone.
Anche il giudizio su Sallustio, forse malevolo, va nella medesima direzione. Da questi
pochi dati non si può dedurre che Livio avesse scritto opere di retorica; si potrebbe
piuttosto pensare ad una attività di retore professionale, o quasi: Livio avrebbe cioè
frequentato le scuole di retorica, e tenuto declamazioni. Un’ultima testimonianza di
Seneca Padre parrebbe appoggiare questa ipotesi: pertinere ad rem non puto quomodo
Lucius Magius, gener Titi Livi, declamaverit, quamvis aliquo tempore suum populus
habuerit, cum illum homines non in ipsius honorem laudarent, sed in soceri fere (contr. X,
pr.2), “non mette conto valutare le qualità di declamatore di Lucio Magio, genero di Tito
Livio, per quanto egli abbia avuto per un certo tempo un suo pubblico: la gente infatti
probabilmente lo applaudiva per rendere onore non a lui ma al suocero”.
E’ però possibile, anzi probabile, che fosse la fama di Livio storico, non
declamatore, che procurava al genero consensi che Seneca giudica non del tutto meritati.
Dalle testimonianze di Quintiliano e Seneca Padre si ricava anche, indirettamente, che lo
storico ebbe un figlio e una figlia.
Rapporti con Augusto. Sui rapporti di amicizia di Livio con Augusto abbiamo una
testimonianza famosa di Tacito, che a Cremuzio Cordo, uno storico processato sotto
Tiberio per aver elogiato nella sua opera storica i cesaricidi, fa pronunciare queste parole:
Titus Livius, eloquentiae et fidei praeclarus in primis, Gnaeum Pompeium tantis laudibus
tulit ut Pompeianum eum Augustum appellaret neque id eorum amicitiae offecit (ann. IV,34),
“Tito Livio, autore fra i più illustri per eloquenza e per attendibilità, esaltò con tanto
entusiasmo Pompeo che Augusto lo chiamava ‘Pompeiano’: ma questo non guastò la loro
amicizia”.
Svetonio (Claud. 41,1) ricorda che da giovane Claudio fu incoraggiato da Livio a
coltivare i suoi interessi per la storiografia, e a comporre un’opera storica per la quale gli
fornì aiuto e consiglio: ciò conferma i rapporti di dimestichezza e amicizia dello storico
con la corte.
Queste sono tutte le notizie che gli antichi hanno tramandato su Tito Livio:
certamente egli non intraprese la carriera politica, ma dedicò l’intera sua vita alla
composizione della sua monumentale opera storica.
La città natale esercitò indubbiamente su di lui una forte influenza. Padova, che la
tradizione voleva fondata da Antenore, profugo troiano, prima di Roma (al tempo
all’incirca in cui Enea approdava sulle coste del Lazio), era al tempo di Livio un centro
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 6
commerciale assai fiorente e ricco; aveva anche fama – in contrasto con Roma – di essere
di costumi molto morigerati e severi. Parlando di una matrona di origine padovana
modello di modestia e di virtù, così si esprime Plinio il Giovane: “Serrana è persino per i
Padovani un modello di austerità” (ep.1,14,6).
Condizione sociale ed educazione. La famiglia doveva essere di condizioni agiate:
Livio ricevette infatti evidentemente una buona educazione, e poté dedicare tutta la vita
agli studi e all’attività letteraria senza preoccupazioni economiche. Dovette ricevere a
Padova i primi elementi della sua istruzione, o forse, più probabilmente, a Padova
frequentò l’intero ciclo di studi: ludus, scuola del grammaticus e scuola del rhetor. Gli
allievi più ricchi e più dotati in genere completavano a Roma la loro istruzione (scuola del
rhetor); ma quando Livio aveva l’età (circa 16 anni) a cui di solito si iniziava a frequentare
la scuola di retorica, non era forse il momento più adatto per mandare un ragazzo a
studiare nella capitale (secondo la cronologia alta, n. 64, infuriava la guerra civile fra
Cesare e Pompeo; secondo quella bassa, n. 59, la guerra contro i cesaricidi e poi tra
Ottaviano e Antonio). Forse non compì neppure il viaggio in Grecia, che spesso
concludeva il corso di studi: i pirati di Sesto Pompeo infestavano i mari, e i viaggi erano
pericolosi.
Patavinitas. La Patavinitas infine, a qualunque caratteristica si riferisca, sembra
indicare che Livio abbia trascorso gli anni formativi nella città natale. Come attesta
Quintiliano, “Asinio Pollione, ritiene che in Tito Livio, uomo di facondia straordinaria, vi
sia una certa qual patina padovana” 6. Il contesto in cui Quintiliano inserisce questa
osservazione mostra che egli riferiva il giudizio di Pollione a caratterisitiche linguistiche,
che avrebbero rivelato l’origine padovana dello scrittore. Ma Quintiliano non dice in che
cosa consistesse la “padovanità” di Livio, e forse non era in grado di rilevare nel latino di
Livio caratteri provinciali. E’ possibile che in realtà il rilievo di Pollione non riguardasse
peculiarità di lingua o di stile, ma il moralismo, il conservatorismo di Livio, che ben si
accordano con i costumi proverbialmente austeri della sua patria d’origine, e sono
evidenti nella sua opera.
Composizione dell’opera storica. A Roma comunque Livio si recò prima di
iniziare la composizione dell’ opera storica, forse anche per consultare testi che a Padova
non erano disponibili. Non abbiamo testimonianze certe che consentano di datare con
precisione questo viaggio da Padova alla capitale, ma si può egualmente indicare come
anno più probabile il 30, o il 29. Il tono della prefazione generale dell’opera lascia
supporre che Livio si accinga comporla per uno stato ormai in pace, per richiamare i
cittadini – conclusisi gli orrori delle guerre civili – ai mores di un tempo. Dopo Azio,
6
Et in Tito Livio, mirae facundiae viro, putat inesse Pollio Asinius quandam Patavinitatem, Quint.
8,1,3
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 7
Ottaviano si apprestava a restaurare la pace: probabilmente Livio intraprese il viaggio a
Roma solo dopo il 31, quando Antonio e Cleopatra erano stati definitivamente sconfitti.
Forse era presente a Roma nell’estate del 29, e assistette al ritorno trionfale di Ottaviano
dall’Oriente. Se è così, possiamo assegnare due anni alle ricerche preliminari, e alla
composizione del primo libro, che fu pubblicato fra il 27, e il 25 (dopo il 27 e prima del
25), come si deduce da un dato interno. In 1,19,3 Tito Livio scrive che fu il re Numa ad
introdurre l’usanza di indicare con la chiusura o l’apertura del tempio di Giano se la città
fosse in pace o in guerra. Fornita questa notizia, aggiunge che dopo il regno di Numa due
volte soltanto, nella storia di Roma, il tempio fu chiuso: sotto il consolato di Tito Manlio,
alla fine della prima guerra punica (241), e post bellum Actiacum ab imperatore Caesare
Augusto pace terra marique parta, “dopo la guerra di Azio, quando la pace fu ristabilita
per terra e per mare dall’imperatore Cesare Augusto”. Ottaviano assunse il titolo di
Augusto nel 27 (terminus post quem), e chiuse una seconda volta il tempio di Giano nel
25 (terminus ante quem). E’ ovvio che in questo contesto Livio avrebbe menzionato questa
nuova chiusura delle porte del tempio da parte di Augusto; si deduce dunque con
certezza dal suo silenzio che il primo libro fu scritto, e probabilmente pubblicato, prima
di quella data.
Libri conservati e periǒchae. L’opera, che giunse a 142 libri, copriva il periodo
che va dalla fondazione di Roma (anzi dall’arrivo di Enea in Italia) alla morte di Druso,
nel 9 a.C. Ne rimangono soltanto 35: 1-10 e 21-45 (relativi agli anni 754-293; e 219-167
a.C.)
Certamente la mole dell’opera non ne favorì la sopravvivenza: ben presto se ne
fecero epitomi, compendi, estratti, e la maggior parte del testo originario andò perduto.
Oltre ai libri indicati, possediamo le periǒchae di tutti i libri (tranne due 136 e 137): sono
riassunti di breve o brevissima estensione, molto utili però non soltanto per conoscere il
contenuto dei libri perduti, ma anche per avere un’idea del piano generale dell’opera.
E’ molto probabile che il primo libro, che abbraccia l’intero periodo regio, sia stato
pubblicato separatamente. Il secondo libro infatti si apre con una nuova, breve
prefazione. Con la pubblicazione del primo libro (oltre che, secondo l’uso, con letture
pubbliche di brani nel corso della composizione) l’opera cui Livio stava lavorando divenne
nota. Essa venne poi pubblicata, molto probabilmente, a gruppi di libri (5 o 10), a mano
a mano che veniva composta. Ogni gruppo di libri doveva aprirsi con una apposita
prefazione o premessa 7. Certamente il principe seguiva con interesse il procedere del
7 A volte si tratta solo di un breve riepilogo della parte già composta e di un annuncio del nuovo
tema: così è ad es. l’introduzione al libro 2, che sottolinea il fondamentale passaggio dalla
monarchia alla res publica; anche quella con cui si apre il libro 21, più solenne, sottopone al
lettore l’importanza del tema che verrà trattato (la guerra annibalica, che occupa 10 libri),
presentando i due popoli che si affrontarono, i motivi dell’ostilità, le alterne vicende del lungo
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 8
lavoro; e informò tempestivamente lo storico di una importante scoperta archeologica,
perché egli potesse inserire nella sua opera la notizia: cosa che Livio naturalmente fa 8,
cogliendo l’occasione di tributare un elogio al principe, e anche di mostrare la sua grande
dimestichezza con lui.
conflitto e la sua conclusione. In altri casi invece la prefazione contiene considerazioni più
personali, riguardanti l’atteggiamento dello storico verso la sua opera, e la difficoltà del compito in
cui è impegnato: di questo genere è la prefazione al libro 6, in cui Livio lamenta – con argomenti
probabilmente presi in prestito da Claudio Quadrigario – la mancanza di documenti sicuri per il
periodo antecedente l’incendio gallico, di cui ha appena concluso il racconto, ed annuncia per la
parte successiva un resoconto più sicuro, fondato sulla maggior disponibilità di documenti
attendibili. Così la prefazione al libro 31, oltre a rilevare formalmente la cesura costituita dalla
conclusione della seconda guerra punica narrata nella decade precedente, esprime lo sconforto
dello storico per la mole del lavoro, che invece di ridursi cresce a dismisura a mano a mano che
l’opera procede. Tono ancora più personale aveva a quanto pare la prefazione ad uno dei libri
perduti, in cui – come si apprende da Plinio il Vecchio, n.h. praef. 16 – lo storico dichiarava di
essersi ormai conquistato sufficiente gloria, ma che il suo animo inquieto gli impediva di porre
fine alla sua fatica. Evidentemente, alla maniera degli annalisti antichi, Livio non aveva un punto
d’arrivo prefissato, ma procedeva seguendo la successione cronologica degli avvenimenti, per
giungere fino all’età contemporanea.
8 In 4,23,2.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 9
GLI AB URBE CONDITA LIBRI
Titolo Di solito le opere storiografiche di impianto annalistico, quale è quella di
Livio, si intitolavano annales oppure historiae 9. Livio scelse invece un titolo diverso da
quelli più usuali, semplice e preciso, ab urbe condita libri. Era consuetudine abbastanza
diffusa nella storiografia sia greca sia latina quella di iniziare l’esposizione dei fatti dal
punto in cui si concludeva l’opera di un predecessore, oppure da una data prima della
quale i fatti si supponevano noti o già sufficientemente trattati; a volte questo punto di
partenza veniva indicato nel titolo, con un ablativo di allontanamento. Possiamo citare,
anche se più tarde di Livio, l’opera storica di Plinio il Vecchio (perduta) a fine Aufidii
Bassi; e gli annales di Tacito, il cui vero titolo era, forse, ab excessu divi Augusti. Livio
non si riallaccia a nessun predecessore, e sceglie come punto di partenza l’inizio stesso
della storia di Roma.
Fonti documentarie. Si può affermare con certezza che per la sua opera storica
Livio non fece ricorso né a documenti originali né in genere a ricerche di prima mano. I
documenti che avrebbe potuto consultare a Roma erano:
1. gli annales maximi, una raccolta in 80 volumi delle tavole annuali su cui il
pontefice massimo annotava, anno dopo anno, i fatti di maggior importanza (esito di una
campagna militare, prodigi, andamento dell’annata agricola), per metterne al corrente
con tempestività il popolo. Quando l’uso di compilare la tavola ogni anno cessò (fra il 132
e il 114), tutto l’archivio conservato nella regia del pontefice venne pubblicato
(probabilmente per la parte più antica della storia di Roma le tavole o non erano mai
esistite, o erano andate perdute: ma chi curò la pubblicazione provvide a ricostruire la
storia di Roma fin dall’inizio)
2. gli archivi privati delle gentes. Come si apprende da numerose testimonianze
antiche ogni gens custodiva con cura la propria storia, tramandandola e arricchendola
generazione dopo generazione. Tale uso è certamente connesso con lo ius imaginum, il
diritto gentilizio di conservare nell’atrio della casa le immagini in cera (probabilmente
busti o maschere) degli antenati, sotto le quali erano annotati il nome del personaggio, le
cariche ricoperte, forse anche le imprese compiute. Di qui nasce il liber commentarius,
cioè la storia della famiglia: a questo liber si attingevano le notizie per la composizione
degli elogi funebri, pronunciati durante il funerale da un figlio o un parente del morto:
oltre ai meriti del defunto , venivano ricordate anche le imprese degli antenati, per
mostrare che il personaggio elogiato le aveva eguagliate o superate. Anche i testi degli
9 Servio, ad Aen. I,373 afferma che gli annales riguardano le epoche più lontane, le historiae
invece i fatti recenti, cui l’autore ha potuto assistere; osserva anche che l’opera di Livio comprende
sia annales sia historiae.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 10
elogia venivano conservati nell’archivio della gens, e arricchivano così il corpus delle
testimonianze sulla storia della famiglia. Di solito in questi archivi privati si
conservavano anche gli acta, cioè i documenti ufficiali relativi all’attività che i membri
della famiglia avevano svolto come magistrati. Questo complesso di memorie relative alla
gens, che aveva ogni interesse ad esaltare se stessa e i propri antenati, non sempre era
del tutto attendibile: sia Cicerone (Brutus, 61 s.) sia Livio (8,40,4), riferendosi in
particolare agli elogi funebri, affermano che avevano riempito di menzogne la storia più
antica di Roma. E’ probabile che quella parte degli annales dei pontefici ricostruita (dopo
l’incendio gallico, e anche in seguito) rispecchiasse la tradizione delle famiglie nobili più
potenti, che certo non furono estranee a questa ricostruzione. Le falsificazioni più
comuni, come si apprende da Cicerone, riguardavano le cariche conseguite: a volte si
attribuivano ai propri antenati trionfi falsi e consolati più numerosi del vero. Inoltre,
grazie anche al fatto che i nomi gentilizi erano relativamente pochi, era possibile inserirsi
in una stirpe diversa dalla propria e più illustre di identico nomen, impadronendosi di
antenati altrui la cui stirpe si fosse estinta: “come se io – esemplifica Cicerone –
sostenessi di discendere da Manio Tullio, un patrizio che fu console insieme a Servio
Sulpicio dieci anni dopo la cacciata dei re”.
Per quanto dunque notoriamente viziati da falsificazioni di questo genere, gli
archivi privati esistevano, e contenevano documenti pubblici anche importanti, e
consultarli, confrontandoli eventualmente tra loro, poteva essere molto utile nella
ricostruzione storica.
3. i senatus consulta, cioè i decreti votati dal senato: al tempo di Livio erano
disponibili e consultabili, in forma di libro. I testi delle leggi e dei trattati erano più
dispersi, ma procurarseli e consultarli non era impossibile: dobbiamo a Polibio la
citazione fedele del testo di tutti i trattati stipulati tra Roma e Cartagine prima della
seconda guerra punica (3,22-26)
4. elenchi di magistrati erano conservati nei Fasti e nei libri lintei, custoditi –
questi ultimi – nel tempio di Giunone Moneta.
Livio non dice mai di aver direttamente consultato qualcuno di questi documenti;
e abbiamo alcune prove che non lo fece.
Ad es. in 4,23,2 lo storico cita le versioni contrastanti di due annalisti, Macro e
Tuberone, sui nomi dei consoli dell’anno 434: eppure entrambi, osserva Livio, adducono
a sostegno della propria notizia la medesima fonte documentaria, i libri lintei. Livio aveva
la possibilità di appurare chi dei due avesse ragione, andando a consultare
personalmente questo documento; invece preferisce lasciare la questione in sospeso: sit
inter cetera vetustate cooperta hoc quoque in incerto positum; “fra le altre questioni che
sono sommerse dall’antichità, lasciamo anche questa nell’incertezza”.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 11
Molto significativo è l’atteggiamento assunto dallo storico a proposito di un
documento – probabilmente falso 10, ma questo non ha importanza – di cui fu informato
da Augusto in persona. In 4,17-19 Livio narra che nel 438 la colonia di Fidene si ribellò
ai Romani, e si alleò a Tolumnio, re dei Veienti. Il senato decide che la direzione della
guerra sia affidata ad un dittatore, e viene nominato Mamerco Emilio. Nello sconto
decisivo, e alla fine vittorioso, davanti alle mura di Fidene, si distinse il tribuno militare
Aulo Cornelio Cosso, che uccise il generale nemico, il re Tolumnio: spogliato, com’era
consuetudine, il cadavere delle armi (e tagliatane la testa), portò questo prezioso trofeo
nella processione del trionfo, accordato dal senato al generale vittorioso Mamerco Emilio,
e dedicò poi, con una solenne cerimonia, le “spoglie opime” (quelle del generale Tolumnio)
a Giove Feretrio nel suo tempio. Il racconto si conclude con l’osservazione che in quel
giorno Cosso fu esaltato e ammirato più del dittatore stesso, e con l’affermazione che
questa versione dei fatti è attestata da tutte le fonti (omnes ante me auctores
secutus...exposui, dice Livio in 4,20,5). Solo a questo punto egli inserisce notizia del
documento nuovo scoperto da Augusto, che mette in discussione la versione dei fatti che
ha appena dato: “però, a parte il fatto che di regola sono considerate spoglie opime solo
quelle che un comandante supremo ha tolto ad un altro comandante supremo, [...]
l’iscrizione stessa che si trova su quelle spoglie dimostra, contro quegli storici e anche
contro di me, che Cosso le conquistò essendo console. Quando io appresi che Cesare
Augusto, fondatore e restauratore di tutti i templi, entrato nel tempio di Giove Feretrio,
che fece ricostruire perché rovinato dall’azione del tempo, lesse personalmente questa
iscrizione sulla corazza di lino, mi parve quasi un sacrilegio togliere a Cosso e alle sue
spoglie la testimonianza di Cesare, restauratore del tempio stesso” (4,20,6-8). Forse Livio
non ritenne necessario verificare di persona l’iscrizione “Aulo Cornelio Cosso console” sul
reperto archeologico, ma questo è secondario; quello che importa rilevare è che non
riscrive la sua ricostruzione storica, sulla base di questo nuovo documento di cui è
venuto a conoscenza; si limita a dichiarare che gli antichi annali dai quali ha tratto la
sua versione debbono essere in errore. E c’è di più. Quando, a soli 12 capitoli di distanza,
nomina nuovamente Cornelio Cosso scrive: “era comandante della cavalleria quel
10 Non solo sembra difficile che su una corazza di lino, certo sporca di sangue, si potesse scrivere
qualcosa, ma soprattutto è improbabile che l’indumento si fosse potuto conservare intatto per
oltre quattro secoli, in un tempio diroccato ed esposto all’azione degli elementi. Come argomentò
persuasivamente il Dessau (“Hermes” 41,1906, 142 ss.), il reperto fu fabbricato probabilmente per
respingere la richiesta, avanzata nel 29 a.C., da Lucio Licinio Crasso, proconsole di Macedonia, di
poter offrire gli spolia opima tolti al capo dei Bastarni, che aveva ucciso in battaglia. Come si
apprende da Dione Cassio (51,24,4), Ottaviano gli rifiutò questo onore motivandolo con il fatto che
Crasso in quella circostanza non deteneva il pieno imperium. Naturalmente Crasso avrebbe potuto
invocare il precedente di Aulo Cornelio Cosso, se davvero, come narra Livio, egli era solo tribuno
militare quando gli fu accordato questo onore. Occorreva allora dimostrare che questa tradizione
era errata, e che Cosso in realtà era console: fu dunque fabbricata la prova, e Augusto ebbe cura
di farla conoscere a Tito Livio.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 12
medesimo Aulo Cornelio Cosso che da tribuno militare nella precedente guerra, dopo
aver ucciso il re dei Veienti Tolumnio sotto gli occhi dei due eserciti, ne aveva recato le
spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio” (4,32,4).
Un altro esempio, molto più semplice, della scarsa considerazione accordata da
Livio ai documenti originali (e questo, a differenza della corazza di lino di Tolumnio, si
direbbe un documento davvero autentico) è offerto dalle stime sull’entità numerica delle
truppe condotte da Annibale in Italia. In 21,38,2-3, dopo aver detto che fra gli autori non
vi è accordo su questo dato, elenca tre stime differenti: “quelli che danno le cifre più alte
parlano di 100.000 fanti e 20.000 cavalieri quelli che danno le più basse di 20.000 fanti e
di 6.000 cavalieri; Cincio Alimento, che scrive di essere stato fatto prigioniero da
Annibale, sarebbe certo il più attendibile, sen non che confonde il numero,
aggiungendovi i Galli e i Liguri (80.000 fanti e 10.000 cavalieri)”. Come si vede, a parte il
rilievo su Cincio Alimento, le altre due stime, la più alta e la più bassa, sono accostate,
senza che lo storico si pronunci su quella che ritiene più attendibile. Eppure aveva a
disposizione un elemento sicuro per scegliere. La stima più bassa corrisponde infatti
esattamente a quella fornita da Polibio (3,33 e 56), che senza dubbio è la fonte di Livio
per questo dato. Ma Polibio aggiungeva di aver letto le cifre che riferisce su una stele di
bronzo, fatta iscrivere da Annibale in persona al capo Lacinio (nell’odierna Calabria).
Dietro l’espressione generica “quelli che danno la stima più bassa” c’è con ogni
probabilità soltanto il testo di Polibio.
Livio non solo non affronta la ricerca della documentazione originale, ma anche
quando si imbatte, senza averlo cercato, in uno di questi documenti, non vi attribuisce
molta importanza, e lo pone sul medesimo piano delle sue fonti letterarie.
Fonti letterarie e metodo del loro impiego. In sostanza il metodo di Livio
consiste nell’acquisire, come materiale su cui lavorare, le opere storiche precedenti,
senza risalire oltre. E per un’opera di mole così vasta come gli ab urbe condita libri questo
era probabilmente il solo metodo possibile. Il lavoro di Livio consistette dunque in gran
parte nel tradurre nella prosa augustea, in una veste letteraria accurata e attraente, il
materiale già raccolto da altri. Chi erano questi “altri”?
Non rientrava nelle consuetudini degli storici antichi l’indicazione esauriente delle
fonti usate; per lo più una fonte veniva menzionata o per criticarla, oppure,
occasionalmente, per indicare di un fatto versioni diverse da quella accolta. Quando le
fonti impiegate sono concordi, o l’autore non ritiene degna di nota una determinata
variante della versione che ha prescelto, non c’è da attendersi nessuna menzione della
fonte o delle fonti.
Tuttavia è stato possibile ricostruire con una certa probabilità le fonti di cui Livio
dovette valersi: per la prima decade gli annalisti romani più antichi (da Fabio Pittore a
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 13
Claudio Quadrigario e Valerio Anziate); per la terza (seconda guerra punica) soprattutto
Celio Antipatro e Polibio; e ancora Polibio, oltre agli annalisti e a Catone, per la quarta e
la quinta.
Si ritiene per lo più che per ogni sezione dell’opera Livio, pur tenendo presenti più
fonti, ne segua principalmente soltanto una, impiegando le altre come riscontro, e
menzionandole di tanto in tanto brevemente, soprattutto nei casi di forte divergenza con
la fonte principale, che cambia a seconda del periodo e/o dell’argomento trattato. In
generale Livio non contamina tra loro le fonti, ma sceltane una per ogni sezione,
riorganizza e riscrive i fatti da quella presentati secondo le su esigenze stilistiche,
aggiungendovi le proprie considerazioni morali, politiche, religiose. Solo alla fine del
racconto principale cita talvolta le opinioni divergenti di altre fonti, in modo per lo più
assai conciso. Le fonti secondarie insomma sono di solito aggiunte al racconto principale,
non consultate prima, in modo da inserire nel racconto principale correzioni e modifiche,
quando le fonti secondarie offrano una versione o interpretazione più probabile. Per es.
nel caso di Cornelio Cosso egli non tenta di mediare tra le testimonianze contrastanti,
per offrire del fatto la sua ricostruzione; si limita a giustapporre le differenti versioni. Il
confronto con la sola fonte sopravvissuta di una certa estensione, Polibio, sembra
indicare che questo fosse il metodo di lavoro abituale di Livio: quando fonte principale è
Polibio, la traccia del suo racconto è seguita in modo fedele e chiaramente riconoscibile.
Non c’è ragione di ritenere che per tutte le sezioni dell’opera per le quali il confronto con
la fonte non è possibile il metodo di lavoro non fosse il medesimo.
Naturalmente l’impiego di più fonti può comportare qualche volta, nel passaggio
dall’una all’altra, ripetizioni e contraddizioni: può accadere che lo storico non riconosca,
leggendone in fonti diverse, il medesimo fatto, e lo registri due volte; o anche che di un
unico fatto offra, in sezioni diverse dell’opera, versioni contrastanti11. 11 Questo accade anche, sorprendentemente, per qualche fatto importante e memorabile. Tale è il
famoso riscatto imposto dai Galli per abbandonare l’assedio del Campidoglio; come lo storico
narra in 5, 48-49, Camillo giunse appena in tempo per impedire questa onta, e sconfisse e cacciò i
Galli con due battaglie. Accenni successivi a questa vicenda (10,16,6; 22,59,7; 34,5,9) sembrano
invece dar per scontato che il riscatto fosse stato pagato (come probabilmente avvenne). E’ vero
che le menzioni successive sono tutte all’interno di discorsi, non nella parte narrativa, e dunque la
responsabilità dell’affermazione che il riscatto fu pagato è del personaggio che parla. Almeno in un
caso però ci si attenderebbe un rinvio alla versione offerta dallo storico in 5,48-49. Il capo dei
rappresentanti dei prigionieri romani catturati da Annibale dopo Canne, da lui inviati a Roma per
ottenere che il senato paghi il loro riscatto ricorda, in appoggio alla richiesta, il precedente famoso
con queste parole: maiores quoque acceperamus se a Gallis auro redemisse (22,59,7),“avevamo
appreso che anche i nostri antenati si erano riscattati con l’oro dai Galli”. Nel lungo discorso
(22,60) con cui Manlio Torquato argomenta in senato la propria opposizione ad accogliere la
richiesta non c’è nemmeno un accenno a quell’episodio; eppure, ricordare la “vera” versione del
fatto (quella di 5,48-49) sarebbe stato un ulteriore argomento a favore della decisione – che poi il
senato prese – di non pagare, neppure ora, il riscatto dei prigionieri. Si direbbe quasi che Livio
stesso non se ne ricordi più.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 14
CARATTERI IDEOLOGICI DELLA STORIA DI LIVIO
Scopo di Livio non è soltanto, come è proprio di ogni storico, tramandare il ricordo
di eventi importanti: a questo intento fondamentale, che naturalmente è presente, si
unisce una chiara impostazione ideologica (Livio vuole anche dimostrare qualcosa),
guidata da quello che in breve si potrebbe definire “pregiudizio patriottico”.
Come si deduce dalla prefazione generale dell’opera, Livio non aveva dei compiti e
dello scopo della storiografia un’idea nuova o insolita: anch’egli ritiene, come molti storici
prima e dopo di lui, che la storia debba essere magistra vitae, che debba insegnare.
L’insegnamento cui egli soprattutto mira non è di tipo pragmatico come in Polibio, che si
rivolge in modo prevalente ad un ben selezionato pubblico, quello degli uomini politici,
che dall’analisi dei fatti del passato possono trarre indicazioni utili per meglio svolgere il
proprio compito. Livio si rivolge ad un pubblico vasto e indeterminato, che dalla sua
opera, si augura, potrà trarre un insegnamento di tipo morale. Semplificando un poco si
può dire che il lettore di Livio trova nella sua opera l’esaltazione della virtù e la condanna
del vizio. In tal modo Livio si inserisce perfettamente nella tradizione storiografica
precedente, che nella Roma degli antenati vedeva il modello dello stato perfetto, l’esempio
di tutte le virtù etiche e politiche, tanto più idealizzate quanto meno esse appaiono
praticate nell’età presente. Il moralismo di Livio però non è astratto, né – salvo poche
eccezioni – pedante e predicatorio; fondato sui valori della Roma antica, appare per lo più
incarnato dai personaggi, illustrato dalle loro azioni, è insomma di solito interno alla
narrazione stessa: la lezione che occorre trarne è spesso affidata, con un espediente
semplice ed efficace, alle parole dei personaggi stessi. Non mancano naturalmente anche
commenti espliciti del narratore, ma non sono né estesi né frequenti.
Sfera morale e sfera politica sono in Livio strettamente connesse: l’attività politica
e militare dei Romani, ispirata e guidata dalle virtù, ha fatto grande l’imperium (è questa
l’idea base che sostiene la prefazione generale dell’opera).
Prima di analizzare la prefazione, cercheremo di illustrare, con qualche esempio, di
che cosa sia fatta questa virtù, quali qualità specifiche secondo Livio essa comprenda,
tenendo presente che essa si esplica sempre nella vita sociale, e che il fine di ogni
comportamento virtuoso è sempre e soltanto la salus rei publicae, il bene dello stato.
Religione: pietas e fides. L’elogio che abbiamo avuto occasione di menzionare12 tributato da Livio ad Augusto restitutor dei templi e della religione tradizionale degli avi,
lo scrupolo con cui lo storico riferisce prodigi ed espiazioni, sembrano indicare
12 4,20,6-8, riportato qui sopra, p. 11.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 15
un’adesione sincera e personale dello storico alla religione tradizionale. Ma in altri passi
egli assume invece un atteggiamento scettico e razionale, soprattutto per quanto
riguarda la ingenua credenza nel diretto intervento degli dèi nelle vicende di Roma. Per
es. in 1,4,2, sulla leggenda delle origini, e sulla nascita di Romolo direttamente da Marte,
lo storico dice: “la Vestale (Rea Silvia) fu violata e diede alla luce due gemelli, e sia che
così credesse veramente, sia che l’attribuire ad un dio la causa della colpa ne diminuisse
il disonore, assegnò a Marte la paternità dell’incerta prole”. Analogo è l’atteggiamento
dello storico a proposito dell’apoteosi di Romolo 13 (1,16). Molto chiaro è anche il suo
commento all’istituzione dei riti religiosi di parte di Numa, che in sostanza presenta la
religione come un efficacissimo instrumentum regni: “Chiusolo (sc. il tempio di Giano),
dopo aver legato a sé con trattati di alleanza tutti i popoli confinanti, messa da parte ogni
preoccupazione di pericoli esterni, per impedire che gli animi, che fino ad allora la paura
dei nemici e la disciplina militare avevano mantenuto sotto controllo, nella pace si
sfrenassero, pensò di dover prima di tutto incutervi il timore degli dèi, cosa efficacissima
per una massa ignorante e rozza quale era a quel tempo. Poiché questo timore non
poteva penetrare negli animi senza l’invenzione di qualcosa di soprannaturale, Numa fece
credere di avere degli incontri notturni con la dea Egeria; e che per suo consiglio egli
andava istituendo i riti più graditi agli dèi, e assegnava a ciascun dio sacerdoti suoi
propri” (1,19,4-5).
Più ambigua e sfumata è la posizione di Livio a proposito dei prodigi. Spesso egli
inserisce nel racconto liste di prodigi e delle relative espiazioni, così come le trovava nelle
sue fonti annalistiche, senza aggiungervi nessun commento. In un caso però si sente in
dovere di spiegare per quale ragione così coscienziosamente egli registri nella sua opera
fenomeni di questo genere. Il tono è difensivo, come di chi voglia rispondere a critiche,
reali o immaginate. Prima di riferire una di queste liste di prodigi, relativa all’anno 169
a.C., dichiara: “Mi rendo ben conto che a causa dell’indifferenza religiosa (neglegentia)
che oggi ispira la convinzione che gli dèi non preannuncino nulla, nessun prodigio viene
più ufficialmente annunciato né registrato nelle memorie storiche. Ma poiché io scrivo di
tempi antichi, anche l’animo mio diventa in certo modo antico, e una sorta di scrupolo
13 1,16. La scomparsa improvvisa di Romolo durante un temporale, mentre passava in rassegna le
truppe, getta nello sgomento la folla; ma i patres subito la rassicurano: Romolo è stato rapito in
cielo ed è divenuto un dio. Il fatto straordinario viene confermato poco tempo dopo dalla
testimonianza di un senatore, Giulio Proculo, al quale Romolo stesso divinizzato è apparso,
affidandogli un importante messaggio per il suo popolo, con queste precise parole: “Va’, annuncia
ai Romani che gli dèi vogliono che la mia Roma sia la capitale del mondo; coltivino dunque l’arte
della guerra, e sappiano e tramandino ai posteri che nessuna potenza umana potrà resistere alle
armi romane” (1,16,7). Fra la scomparsa improvvisa di Romolo e il racconto fatto da Giulio
Proculo del suo incontro con il re divinizzato, Livio menziona anche, molto brevemente, e senza
discuterla, una versione ben diversa: “Credo che già allora ci siano stati di quelli che senza dirlo
sospettavano che il re fosse stato fatto a pezzi con le loro mani dai senatori” (1,16,4)
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 16
religioso (religio) mi impedisce di considerare indegni della mia storia fatti di cui quegli
uomini assai saggi (illi prudentissimi viri, i Romani di un tempo) ritennero dovesse
occuparsi lo stato” (43,13,1). A volte, su singoli prodigi, egli si mostra incredulo; ed è ben
consapevole che, in tempi di terrore e sconfitta, può verificarsi una psicosi religiosa
collettiva: “molti prodigi si verificarono in quell’inverno, o, come solitamente avviene
quando le menti degli uomini sono piene del terrore religioso, molti furono riferiti e
precipitosamente creduti” (21,62,1). Ciononostante Livio nota molto spesso che
l’inosservanza dei riti, l’indifferenza di fronte ai prodigi, furono causa di disastri e
sconfitte; senza dare una personale adesione incondizionata alla fede in questi fenomeni,
Livio ne sottolinea tuttavia l’importanza, senza escludere che i prodigi possano essere, o
forse fossero nei tempi antichi, più puri e incorrotti, una manifestazione della volontà
divina, che non è comunque saggio ignorare: religio e pietas degli antichi sono insomma
considerati dallo storico valori positivi, elementi imprescindibili della virtù del popolo
romano.
Nella interpretazione globale della storia di Roma, ma in particolar modo nella
prima decade, si riconosce poi una idea guida di carattere religioso (che sembra iscriversi
nel provvidenzialismo stoico): la grandezza di Roma non è frutto del caso, è preordinata
e provvidenziale. Per es. prima di riferire, con le riserve che abbiamo ricordato 14, la
leggenda dei gemelli, Livio dichiara: sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo urbis
maximique secundum deorum opes imperii principium (1,4,1), “dai fati era fissata, io credo,
l’origine di una città così grande, e l’inizio del dominio più grande dopo la potenza degli
dèi”. Per quanto scettico possa essere sulla leggenda che ingenuamente connette in modo
diretto con un dio l’origine di Roma, Livio è però convinto che fin dalla sua nascita la
città fu assistita dalla benevolenza degli dèi, o del fato. Una benevolenza non immotivata,
ma al contrario legata direttamente alla virtù straordinaria del popolo che gli dèi hanno
scelto di proteggere. Ma anche di mettere continuamente alla prova. Ricorrono, nella
prima decade, frasi finali che tendono ad ottenere l’impressione che una necessità
impersonale intervenga spesso a saggiare le virtù civiche e militari del popolo romano,
per renderlo tanto forte da dominare il mondo, ma anche moralmente degno di guidarlo.
Il nuovo stato è minacciato da popoli stranieri; il fatto viene dallo storico introdotto con
queste parole: “perché il medesimo ciclo di avvenimenti ricorresse ogni anno (ut idem in
singulos orbis volveretur), ecco che gli Ernici annunziarono che i Volsci e gli Equi, per
quanto le loro forze fossero state duramente provate, stavano ricostituendo i loro eserciti”
(3,10,9). Se non vi sono minacce esterne, i Romani sono travagliati da difficoltà interne:
Etruschi e Sanniti sono quieti e, almeno momentaneamente, in pace con Roma; la plebe
14 1,4,2: v. qui sopra, p. 15.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 17
è tranquilla, e impegnata nella deduzione di colonie. Tamen, ne undique tranquillae res
essent, scoppiò per istigazione dei tribuni della plebe una contesa tra i primores civitatis
(10,6,3). Se vi è pace con gli altri popoli e concordia all’interno, ecco che scoppia una
pestilenza, o qualche altra calamità naturale affligge i Romani. Anche queste sciagure
sono introdotte da frasi del medesimo tipo: et ab seditione et a bello quietis rebus, ne
quando a metu ac periculo vacarent, pestilentia ingens orta (7,1,7), “la situazione era
tranquilla, senza disordini interni né guerra: perché non potessero essere mai liberi da
paura e pericoli, scoppiò una grave pestilenza”. Questa intenzione di non lasciar mai
tranquilli i Romani sembra da attribuire al fato, che, in armonia con il disegno
provvidenziale che guida il corso degli eventi, mette alla prova lo spirito di resistenza dei
Romani.
Coerente con questa visione provvidenziale è anche il concetto liviano di fortuna
(espresso con termini vari: fortuna, fatum, fors). Il concetto di fortuna come entità
volubile e capricciosa, che distribuisce il suo favore in modo del tutto arbitrario, e spesso
favorisce l’ingiusto e sconvolge i disegni umani, era largamente impiegato nella
letteratura ellenistica: esso compare, per quanto raramente, anche in Livio, ma per lo più
in discorsi, che non necessariamente riflettono il pensiero dell’autore. Più caratteristico e
più frequente, e costante nelle parti narrative, in cui lo storico parla in prima persona, è
il concetto di fortuna come entità che ha il compito di mantenere l’armonia del mondo, di
assecondare l’opera della provvidenza o degli dèi. In luogo della contrapposizione, molto
sfruttata nella letteratura ellenistica, e non solo, di virtù e fortuna, in Livio troviamo
invece un sostanziale accordo dei due concetti: secondo Livio di solito la fortuna protegge
la virtù (e punisce il vizio). Tale concetto è espresso frequentemente nella formula fortuna
populi Romani, fortuna urbis. La protezione accordata dalla fortuna a Roma è congiunta
con la virtù dei cittadini, e ne risultano per lo stato prosperità e potenza.
A volte naturalmente la fortuna abbandona i Romani, ma di solito Livio mette in
relazione questi momenti con una colpa o una mancanza, verso gli dèi o verso gli uomini,
in seguito alla quale la fortuna ha voltato le spalle ai suoi beniamini.
Per esempio la conquista di Roma da parte dei Galli è preceduta da una grave
colpa dei Romani, che Livio debitamente sottolinea (5,35-37). Minacciati dai Galli, gli
abitanti di Chiusi mandano ambasciatori a Roma a chiedere aiuti. Roma, che non era
legata a Chiusi da nessun trattato di alleanza, decide per il momento solo l’invio di tre
ambasciatori, incaricati di intavolare trattative con i Galli, per cercare, in qualità di
mediatori, di far sì che i contendenti giungano ad un accordo. La trattativa fallisce, e i
Galli attaccano la città di Chiusi. I tre ambasciatori romani, invece di rientrare in patria a
riferire al senato l’esito della missione, si uniscono ai Clusini, e partecipano ai
combattimenti, distinguendosi per il loro valore. Uno di loro uccide il comandante dei
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 18
Galli. Questo comportamento sleale è condannato da Livio con queste parole: ibi, iam
urgentibus Romanam urbem fatis, legati contra ius gentium arma capiunt (5,36,6), “un
destino di rovina già incombeva su Roma: contro il diritto delle genti, gli ambasciatori
impugnarono le armi”. E’ soprattutto la colpa che indigna i Galli, e attira sui Romani la
giusta punizione. Da questo momento in poi infatti tutto va a rovescio per Roma, che
commette un errore dopo l’altro. I Galli mandano ambasciatori a Roma a protestare per
l’offesa, e a chiedere la consegna dei tre legati disonesti. Il senato, pur riconoscendo la
legittimità della richiesta dei Galli, si lascia dominare dalla potenza della gens Fabia, cui
i tre ambasciatori appartenevano, e rimette la decisione al popolo, che si schiera a favore
dei legati colpevoli: in tal modo la colpa dei tre viene assunta dall’intera collettività dei
cittadini. Gli ambasciatori galli se ne vanno ormai decisamente ostili, e pronti a muover
guerra a Roma, haud secus quam dignum erat commenta Livio. Abbandonati ormai dalla
fortuna, i Romani sottovalutano il nemico, e si preparano alla guerra nel modo ordinario:
non viene nominato un dittatore, non si intensificano le leve, “a tal punto – osserva Livio
– la fortuna acceca gli animi, quando non vuole che la sua forza incalzante sia
ostacolata”. La descrizione della battaglia presso il fiume Allia che segue poco dopo mira
ancora, in modo evidente, a dimostrare che la fortuna ha abbandonato i Romani. Dopo
aver descritto lo schieramento dei due eserciti, e l’abile manovra dei Galli, Livio
commenta: adeo non fortuna modo, sed ratio etiam cum barbaris stabat (5,38,4). Dalla
parte dei Romani nihil simile Romanis, non apud duces, non apud milites erat; gli animi
sono invasi dal panico, tutti pensano solo a fuggire, e nella retroguardia alcuni, nella
confusione della fuga, si feriscono e uccidono a vicenda. L’insistenza sull’ostilità divina,
che acceca le menti e paralizza i Romani al punto che non sembrano più Romani, serve
anche a scagionarli in parte della vergogna per questa sconfitta. Ma all’origine di questo
disastro (e di quello peggiore che seguirà, la conquista della città stessa) c’è la grave
colpa commessa dai Romani, ripetutamente ricordata da Livio: giustamente la fortuna
cum barbaris stabat. L’insistenza sull’accecamento dei colpevoli, che richiama la tecnica
della tragedia, e che forse Livio imita dal filone della storiografia drammatica o tragica,
non serve tanto a giustificare la sconfitta e a salvare l’onore militare di Romani, ma a
mostrare la gravità irrimediabile della colpa commessa. Lo storico naturalmente non
trascura le cause propriamente militari e contingenti della sconfitta (sottovalutazione del
nemico e leva inadeguata), ma queste vengono subordinate alla violazione della fides, cui
segue la punizione divina.
La fides verso gli uomini, strettamente connessa alla pietas verso gli dèi, è però in
generale una delle virtù tipicamente romane: innumerevoli esempi del rispetto scrupoloso
della parola data, di lealtà nella condotta di guerra, di osservanza dei trattati illustrano
come secondo Livio questa virtù sia particolarmente gradita agli dèi, e assicuri la loro
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 19
protezione a coloro che la praticano. Certo, qualche volta (come nel caso appena
ricordato) i Romani vengono meno alla fides, ma si tratta di deplorevoli eccezioni, come lo
storico non manca di rilevare, con commenti ingenui e facilmente prevedibili. Quando il
re Tarquinio il Superbo, non riuscendo ad impadronirsi della città di Gabii, ricorse a
fraus e dolus, lo storico non manca di rilevare che si trattava di arti “per nulla romane”
(1,53,4).
Molto significativo per illustrare questo atteggiamento dello storico è un episodio
della seconda guerra punica. Dopo Canne, Annibale offre ai prigionieri romani catturati
la possibilità di essere riscattati. Fissato il prezzo del riscatto, dieci prigionieri vengono
inviati a Roma, perché trattino la questione in senato: nec pignus aliud fidei, quam ut
iurarent se redituros, acceptum (22,58,6), “non si pretese da loro altro pegno di lealtà se
non che giurassero di ritornare” (sc. se la trattativa con il senato non avesse avuto esito
positivo). Evidentemente anche Annibale sapeva che i Romani non vengono mai meno
alla fides, e ritenne il giuramento una garanzia sufficiente. Ma in uno almeno di quei
dieci la fiducia di Annibale era mal riposta: uno di loro infatti, subito definito da Livio
minime Romani ingeni homo (22,58,8), appena uscito dal campo di Annibale con i
compagni, vi fa ritorno, fingendo di aver dimenticato qualcosa, e si scioglie così in
anticipo dal giuramento. Poi li raggiunge e si reca a Roma con loro. Il senato decide di
non accettare la proposta di riscatto, e i prigionieri tristi vengono accompagnati alle porte
della città, per far ritorno al campo di Annibale. Resta a Roma solo quello che con
l’inganno si era sciolto da quell’obbligo; il senato però lo fa arrestare e ricondurre sotto
scorta al campo di Annibale. Un comportamento esemplare, che riscatta i Romani dalla
colpa di quel solo prigioniero. Tuttavia esisteva – e la menziona anche Livio – anche
un’altra versione, assai meno edificante, dell’episodio: tutti e dieci i prigionieri erano
ricorsi al medesimo stratagemma, e il senato permise loro di rimanere a Roma.
Politica interna. I valori supremi nell’ambito della vita civile sono per Livio la
libertas e la concordia. Il contenuto politico della libertas viene efficacemente sintetizzato
da Livio nella premessa al secondo libro: Liberi iam hinc populi Romani res pace belloque
gestas, annuos magistratus, imperiaque legum potenti ora quam hominum peragam (2,1,1),
“Tratterò di qui in avanti le imprese in pace e in guerra del popolo romano ormai libero,
le magistrature annuali e il dominio delle leggi più potente di quello degli uomini”.
L’ultimo dei re, prosegue lo storico, aveva reso più desiderabile, con la sua superbia, la
libertà; i consoli annuali furono garanzia contro la tirannide e l’arbitrio, garanzia resa
stabile da Bruto, che impose a tutto il popolo romano di giurare solennemente “che non
avrebbe mai più consentito a nessuno di regnare a Roma” (2,1,9). La libertas si
caratterizza dunque in primo luogo come antitesi al regnum, vocabolo che ha sempre in
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 20
Livio una connotazione negativa. L’accusa, o anche solo il vago sospetto, di aspirare al
regnum è la più grave che possa colpire un uomo politico. Garanzia della libertas contro il
pericolo del regnum è l’avvicendamento annuale al potere supremo; il suo contenuto
specifico, l’essenza della libertas, è il dominio della legge. Il concetto viene sviluppato da
Livio, secondo una consuetudine frequente, non in forma di commento diretto ai fatti, ma
attraverso le argomentazioni dei sostenitori della monarchia. La repubblica appena nata
deve subito affrontare un grave pericolo: un complotto dei Tarquini cacciati mira ad
imporre di nuovo il regno, con l’aiuto e la complicità di elementi della nobiltà romana
scontenti del nuovo stato di cose. Le considerazioni di questi giovani nobili, che, coetanei
e compagni dei giovani Tarquini, si erano abituati ormai a vivere more regio, sono riferite
dallo storico in forma di discorso indiretto: “ora che tutti avevano eguali diritti, la libertà
degli altri si era risolta nella loro servitù; un re, dicevano, è un uomo, dal quale si può
ottenere quando occorra il giusto e l’ingiusto; è accessibile al favore e al beneficio, può
adirarsi e perdonare, sa distinguere l’amico dal nemico; le leggi invece sono cosa sorda,
che non si piega alle preghiere, più giovevole e buona per il debole che per il potente; se
si oltrepassa il limite imposto non si può sperare né indulgenza né perdono; è pericoloso
insomma essere costretti a vivere contando solo sull’onestà, essendo la natura umana
tanto debole e incline all’errore” (2,3,3).
La concordia è per Livio essenziale nella vita dello stato: essa si configura come
collaborazione armoniosa, che comporta moderazione, buon senso, rinuncia, spirito di
sacrificio, in vista di un bene superiore. Essa riguarda i comandanti in guerra
(innumerevoli gli esempi di discordia fra i capi che provoca disastri e sconfitte), i
magistrati in pace, ma soprattutto le classi sociali (concordia ordinum). Quest’ultima è un
bene assoluto, da ottenere e conservare a qualsiasi costo. Proprio in questa prospettiva
vengono da Livio presentati i contrasti dei primi secoli della repubblica fra patrizi e plebei,
certo molto idealizzati. Lo storico coglie ogni occasione per sottolineare e lodare i
provvedimenti atti a promuovere la concordia. Si tratta dapprima di graziose concessioni
fatte dai patrizi alla plebe perché si mantenga disciplinata e obbediente, e soprattutto
faccia la guerra quando è necessario. Bruto amplia a 300 il numero dei senatori,
immettendovi un certo numero di cittadini di rango equestre: “questo giovò
straordinariamente – commenta Livio – alla concordia della città, e a conciliare ai patrizi
l’animo della plebe” (2,1,11). Porsenna sta preparando la guerra contro Roma; il senato è
preoccupato, teme che la plebe, pur di avere la pace, accetti di nuovo i re e la servitù.
Allora si mostra largo di blandimenta per la plebe: grandi rifornimenti di grano,
nazionalizzazione del sale, esenzione dai dazi e dal tributo di guerra per la plebe.
Naturalmente il risultato è quello voluto: “questa generosità del senato, anche più tardi,
quando la città fu assediata e mancavano i viveri, mantenne la città così concorde che il
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 21
nome di re era odiato dai più umili non meno che dai sommi cittadini, e in seguito
nessun uomo politico divenne con cattive arti tanto popolare quanto allora il senato tutto
con il suo buon governo” (2,9,7-8).
La notizia della morte di Tarquinio il Superbo in esilio segna l’inizio di un periodo
più difficile: dopo aver fino a quel momento trattato con ogni riguardo la plebe, gli
aristocratici iniziano a vessarla. Che cosa fecero di preciso Livio non dice, si limita a
questa indicazione piuttosto vaga: iniuriae a primoribus fieri coeptae (2,21,76). Scoppia
all’improvviso la rivolta della plebe, e le cause di essa sono appena accennate:
“incombeva la minaccia della guerra contro i Volsci, e la città discorde al suo interno
ardeva per l’odio fra patrizi e plebei, soprattutto a causa della schiavitù per debiti
(maxime propter nexos ob aes alienum)” (2,23,1). Si tratta di un tema del tutto nuovo, ma
Livio vi accenna brevemente come se fosse cosa già nota (forse sono queste le iniuriae dei
patrizi contro la plebe?) Con una tecnica abituale, piuttosto che analizzare le cause della
rivolta, Livio preferisce presentarle drammaticamente con un episodio di grande effetto.
Un vecchio trasandato, macilento, stracciato si precipita nel foro, dove molti riconoscono
in lui un antico centurione che nell’esercito si era fatto onore. Radunatasi una grande
folla, il vecchio spiega tra i lamenti la ragione del suo aspetto attuale: mentre prestava
servizio nell’esercito, le sue terre erano state devastate, la fattoria bruciata, il bestiame
rubato; ridottosi in miseria e indebitatosi, era divenuto schiavo del suo creditore. C’erano
evidentemente molti nella condizione di questo personaggio, se poco dopo la plebe si
rifiuta di arruolarsi per la guerra contro i Volsci; un editto che impone ai creditori di
lasciar liberi i debitori perché essi possano arruolarsi risolve sul momento la situazione.
Sconfitto il nemico e passato il pericolo, la situazione torna quella di prima, e di nuovo i
plebei, ad una nuova minaccia di guerra (da parte di Sabini), rifiutano l’arruolamento,
opponendosi anche ai littori che hanno il compito di arrestare i ribelli. Nemmeno in
questa circostanza, afferma Livio, si giunse alla violenza; l’intervento dei consoli sedò la
rissa, nella quale sine lapide sine telo plus clamoris atque irarum quam iniuriae fuerat
(2,29,4), “nessuno aveva messo mano a pietre o armi, e c’era stato più chiasso e rabbia
che vera violenza”.
Quando per la terza volta i patrizi si rifiutano di prendere in considerazione e di
cercare di risolvere la questione dei debiti, si arriva alla secessione sul Monte Sacro. I
patrizi sono sconfitti, ma la concordia va ristabilita ad ogni costo. Queste le
considerazioni che lo storico attribuisce ai patrizi: “fino a quando quella moltitudine che
si era ritirata se ne sarebbe rimasta tranquilla? Che cosa sarebbe accaduto, se nel
frattempo fosse scoppiata una guerra esterna? Certo non restava nessuna speranza, se
non la concordia fra i cittadini. Bisognava restituirla alla città con qualsiasi mezzo,
giusto o ingiusto”(2,32,6-7). Si manda così Menenio Agrippa, “uomo eloquente e caro alla
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 22
plebe”, che con la nota favoletta 15 persuade i ribelli ad intavolare trattative, che
porteranno ad una delle più importanti conquiste per la plebe, l’istituzione, nel 493, del
tribunato della plebe (2,32,8-33,1). Pochissime parole Livio spende per spiegare le
caratteristiche di questa magistratura – che certo poteva presumere sufficientemente
nota ai suoi lettori -, né accenna più alla questione dei debiti, dalla quale la discordia
aveva avuto origine.
In tutto il lungo racconto del primo conflitto fra patrizi e plebei è notevole
l’insistenza con cui Livio ripete che non si giunse mai, da nessuna delle due parti, alla
violenza aperta, pur essendo gli interessi in gioco così importanti. Questa presentazione è
certo, se non proprio una falsificazione dei dati, almeno una idealizzazione. Qualche atto
violento c’era stato, e risulta da Livio stesso: in un discorso Coriolano (2,34,11) si
riferisce a devastazioni e razzie che durante la secessione la plebe aveva compiuto nei
campi dei patrizi.
Anche a proposito delle successive conquiste della plebe – la codificazione delle
leggi in un testo scritto (XII tavole) 16, la lex Canuleia (diritto di conubium fra patrizi e
plebei) 17 , le leges Liciniae Sextiae 18 (la più importante delle quali accordava ai plebei
l’accesso al consolato) – Livio rileva tutti gli esempi di moderazione, che consentirono il
mantenimento della concordia pur nel corso di questo duro conflitto. Ad es. dopo aver
ottenuto che anche i plebei possano essere eletti tribuni consolari (tappa intermedia nella
lotta per il consolato), la plebe elegge alla carica soltanto dei patrizi, e Livio commenta:
“tale moderazione, equità e altezza d’animo che allora tutto il popolo dimostrò, dove si
potrebbero trovare oggi in un uomo solo?” (4,6,12). In questo caso la moderazione
consiste nel rinunciare a valersi subito del diritto appena conquistato; la concordia in
effetti il più delle volte scaturisce dal mantenimento, spontaneamente accettato,
dell’ordine sociale esistente. L’approvazione di Livio per esempi di moderazione di questo
tipo indica chiaramente che il suo atteggiamento è fondamentalmente conservatore. Ciò è
15
Il racconto, con la sua morale esplicita, è questo: “Al tempo in cui nell’uomo non c’era, come ora,
accordo armonioso fra tutte le sue parti, ma ciascuna di esse era dotata di pensiero e di parola
autonomi, le altre parti si risentirono che il loro impegno, la loro fatica, i loro servigi andassero
tutti esclusivamente a vantaggio del ventre, e che il ventre invece se ne stesse senza far nulla nel
mezzo, limitandosi a godere dei piaceri che gli venivano offerti; fecero allora una congiura,
concordando fra loro che le mani non portassero il cibo alla bocca, che la bocca non lo accogliesse,
che i denti non lo masticassero. A causa di questa ribellione, mentre volevano soggiogare il ventre
con la fame, le singole membra e il corpo tutto quanto si ridussero ad un deperimento estremo.
Fu evidente allora che anche il ventre aveva una sua funzione, non passiva, e che era nutrito non
più di quanto esso stesso nutrisse, distribuendo in ogni parte del corpo, equamente diviso
attraverso le vene, il sangue che ci dà vita e vigore, prodotto attraverso la digestione del cibo.
Mostrando quindi, con questo apologo, quanto la ribellione interna del corpo fosse simile al
risentimento della plebe contro i patrizi, (Menenio Agrippa) riuscì a piegare l’animo dei ribelli”
(2,32.9-12).
16
Nel 451-50 (3,32 ss.)
17
Nel 445 (4,2 ss,)
18
Nel 367 (6,36 ss,)
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 23
confermato dal suo giudizio sulle rivendicazioni popolari sostenute dai tribuni della
plebe: le varie proposte sia di riforme agrarie, che in parte prefigurano le proposte dei
Gracchi, sia di distribuzioni gratuite di grano alla plebe più povera, sono considerate da
Livio deleterie per lo stato; in un caso lo storico impiega addirittura il termine venenum19. Nel racconto di Livio i tribuni della plebe sono quasi tutti dei sediziosi, che fomentano
l’odio contro i patrizi, turbano l’ordine pubblico, seminano discordia e mettono in
pericolo la patria; lo storico esprime persino dei dubbi sull’opportunità dell’istituzione di
questa magistratura20. Politica estera e guerra. La moderazione è presentata da Livio come regola di
condotta dei Romani anche nei confronti dei popoli soggetti o alleati; a questa virtù si
aggiunge la clementia nei confronti degli sconfitti. Ci sono naturalmente episodi in cui i
Romani si comportano senza alcuna moderazione né clemenza, e Livio è costretto a
riconoscerlo, senza tuttavia rinunciare ad un tentativo di giustificazione. E’ il caso, ad es.,
del brutale sterminio dei cittadini inermi di Enna (durante la guerra annibalica). I
Cartaginesi sono in Sicilia, molte città alleate di Roma passano dalla loro parte. Marcello
allora fa porre presidi romani nelle città ancora fedeli, per costringerle a mantenersi tali.
Ad Enna i maggiorenti della città protestano contro questo trattamento: sono stati privati
delle chiavi della loro città, sono trattati come dei prigionieri, pretendono che i rapporti
con Roma tornino ad essere quelli di alleanza. Per discutere questa questione il generale
romano fa radunare l’assemblea dei cittadini di Enna nell’anfiteatro; quando tutti sono
ammassati inermi in un unico spazio, i soldati romani si gettano sulla folla e ne fanno
strage. Il commento conclusivo di Livio è: ita Henna aut malo aut necessario facinore
retenta (24,39,7), “e così Enna fu conservata, con un’azione o malvagia o necessaria”. Il
tentativo di giustificazione contenuto nell’aggettivo necessario è bilanciato
dall’osservazione che Livio fa subito seguire. Questa azione, dichiara, non ottenne l’effetto
sperato: la notizia dell’eccidio, invece di rafforzare nella fedeltà a Roma le altre città della
19 Nel 476, cessato, almeno momentaneamente, il pericolo esterno dei Veienti, tribuni plebem
agitare suo veneno, agraria lege, in resistentes incitare patres (2,52,2), “i tribuni presero a sobillare
la plebe con il loro solito veleno, la legge agraria, e ad aizzarla contro i patrizi”.
20 Siamo nel 491, la magistratura è appena stata istituita; una grave carestia ha colpito la città;
quando dalla Sicilia arriva un ingente quantitativo di grano, si apre in senato la discussione sul
prezzo cui lo si debba dare alla plebe; molti pensavano si potesse cogliere l’occasione per ricattare
la plebe, e recuperare i diritti dei patrizi, loro estorti con la secessione e la violenza. Livio riferisce
il discorso di Coriolano, hostis tribuniciae potestatis, che propone, in sostanza, di affamare la plebe,
per vendicare le violenze della passata secessione. Lo storico invece fa questa considerazione:
“Non è facile dire se i patrizi avrebbero dovuto – cosa che ritengo potessero fare – in cambio di un
ribasso del prezzo del grano, liberarsi della potestà tribunizia e di tutti i diritti che loro malgrado
la plebe aveva loro estorto” (2,34,12). Anche sui Gracchi, soprattutto su Gaio, il giudizio dello
storico doveva essere molto negativo; le proposte di legge di Gaio Gracco sono definite perniciosae
(per. 60).
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 24
Sicilia, provocò molte defezioni, a riprova che è il governo moderato e giusto e non il
terrore che mantiene gli alleati fedeli.
Tipicamente liviano, e privo di ripensamenti, è il breve commento che segue alla
narrazione dell’orrenda punizione che fu inflitta a Mezio Fufezio per il suo tradimento21: “fu quello – dichiara incredibilmente lo storico - presso i Romani il primo e ultimo
supplizio di un genere poco rispettoso delle leggi umane; negli altri nessun popolo può
vantarsi di aver applicato pene più miti” (1,28,11).
Nei rapporti con gli altri popoli, accanto alla clementia verso i vinti, i Romani
praticano la iustitia: le loro guerre non sono mai aggressioni brutali; il motivo per la
dichiarazione di guerra è sempre un motivo giusto, vale a dire rispondere ad un attacco
nemico, riparare un torto subito, o, più spesso, intervenire in aiuto di alleati o di popoli
più deboli, che aggrediti hanno richiesto la protezione del popolo romano. Ovviamente
Livio si rendeva conto che una simile presentazione delle ragioni di guerra romane non
poteva essere credibilmente applicata a tutte le guerre intraprese da Roma. Fino a che si
tratta di guerre di espansione in Italia, o anche dello scontro con Cartagine, questo
schema interpretativo più o meno funziona. Proprio poco prima della conclusione della
guerra annibalica, Livio riferisce con ampiezza di particolari un episodio che dovrebbe
ribadire il concetto che in guerra i Romani rispettano sempre la iustitia. Dopo la sconfitta
del loro alleato Siface, i Cartaginesi inviano a Scipione, in Africa, trenta seniorum
principes (i membri più anziani e influenti del senato) per chiedere la pace, dichiarandosi
disposti ad accettare le condizioni che Scipione vorrà imporre: paratis oboedienter servire
imperaret quae vellet (30,16,7) “comandasse pure quel che voleva: essi erano pronti a
sottomettersi alle sue condizioni”. La risposta di Scipione è riferita così: “Scipione
risponde che era venuto in Africa con la speranza, accresciuta poi dal felice successo
della guerra, di riportare in patria vittoria, non pace; e tuttavia, benché abbia già quasi in
mano la vittoria, non respinge la proposta di pace, perché tutti i popoli sappiano che il
popolo romano con giustizia intraprende le guerre e con giustizia le conclude” (30,16,8-9).
Detta quindi le condizioni di pace, molto severe, e pretende che il senato cartaginese
decida entro tre giorni: se le condizioni saranno accettate, i Cartaginesi dovranno
stipulare una tregua con lui, e inviare ambasciatori a Roma. Il senato cartaginese accetta
tutte le condizioni, ma solo, sembra implicare lo storico, per guadagnar tempo, in attesa
21 La guerra tra Roma e Alba, al tempo del re Tullo Ostiliio, è stata decisa, di comune accordo, dal
duello tra Orazi e Curiazi. Dopo la vittoria romana, il capo albano Mezio Fufezio riceve l’ordine di
partecipare con i Romani alla battaglia contro Veienti e Fidenati. Il suo comportamento ambiguo
durante il combattimento viene punito così: “Fatte avvicinare due quadrighe, fa legare (sc. il re
Tullo) Mezio disteso ai carri; quindi i cavalli furono lanciati in direzioni opposte, e ne trascinarono
via il corpo smembrato sui due carri, là dove le membra erano state fissate con i lacci”. Il supplizio
è preceduto da queste parole che il re rivolge al colpevole: “Come poco fa il tuo animo era diviso
fra Fidene e Roma, così ora verrà fatto a pezzi il tuo corpo”. (1,28,9-10).
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 25
che Annibale sbarchi in Africa. Quando ciò avviene la guerra riprende; ma i Romani
hanno dimostrato il loro rispetto della iustitia: il solo responsabile della ripresa delle
ostilità è Annibale.
Sostenere però che Roma lottasse per la propria sopravvivenza nelle successive
guerre di conquista narrate nella quarta e nella quinta decade era molto più difficile; e
non è certo un caso che proprio in questi libri, lasciata un po’ in ombra la iustitia, si
moltiplichino le menzioni della straordinaria clementia dei Romani. Lo scontro con
Filippo V di Macedonia è presentato come una guerra disinteressata e generosa,
intrapresa da Roma soltanto per liberare la Grecia dal suo dominio. Questo concetto
viene efficacemente svolto in due discorsi.
Nel 200, davanti all’assemblea degli Etòli (di cui sia Filippo sia i Romani
sollecitano l’alleanza) parlano un inviato di Filippo e un ambasciatore romano. Il discorso
del Macedone (31,29) svolge i temi antiromani classici; il legato romano, oltre a ribadire
che Roma è sempre intervenuta nelle guerre perché il suo aiuto è stato richiesto, difende
la moderazione con cui sempre Roma ha trattato i popoli vinti, come dimostra l’esempio
recentissimo di Cartagine (“dopo averla sconfitta abbiamo concesso a Cartagine pace e
libertà” 31,31,15), e dichiara: “c’è piuttosto da temere che concedendo troppo
generosamente il nostro perdono ai vinti, noi incoraggiamo un sempre maggior numero
di popoli a cercare occasioni di guerra contro di noi” (31,31,16).
Il secondo discorso è quello in cui Tito Quinzio Flaminino, dopo aver sconfitto nel
197 Filippo a Cinocefale, proclama solennemente, durante i giochi istmici del 196, la
libertà di tutta la Grecia: “il senato romano e il generale Tito Quinzio, debellati Filippo e i
Macedoni, decidono che siano liberi, esenti da tributi, retti dalle proprie leggi, i Corinzi, i
Focesi, ....” (segue l’elenco di tutti i popoli che prima erano sotto il dominio di Filippo)
(33,32,5). Il commento a questo incredibile gesto di generosità è affidato da Livio alla folla
presente alla dichiarazione, in forma di discorso indiretto: “c’era al mondo un popolo che
a sue spese, affrontando fatiche e pericoli, faceva la guerra per la libertà altrui, e offriva
questo beneficio non a popoli confinanti o vicini o della medesima terra, ma attraversava
i mari, perché non esistesse sulla terra un dominio ingiusto, ma dappertutto
dominassero il diritto, la giustizia, la legge” (33,33,5). Le medesime considerazioni erano
svolte dalla fonte (Polibio, 18,46), da cui certamente Livio dipende, ma che impiega con
accortezza: mentre Polibio in prima persona dichiara che la gioia e l’incredulità della folla
presente all’annuncio erano ben comprensibili, giacché era cosa splendida che i Romani
avessero sostenuto spese e affrontato pericoli per la libertà della Grecia, ecc., Livio non
commenta l’avvenimento, ma assai più efficacemente attribuisce questo elogio della
generosità romana ai popoli che ne beneficiano.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 26
Se Livio evita di solito di esprimere direttamente la sua approvazione per il
comportamento romano, ancor più raramente interviene a criticarlo. Ma non ignorava
certamente le accuse che venivano mosse alla politica imperialistica di Roma; in un caso
in particolare dà voce a queste critiche, in modo indiretto, come nell’elogio della
generosità di Flaminino. Quando Antioco III è minacciato in Asia dall’esercito guidato
dagli Scipioni22, nel 190 invia una lettera al re di Bitinia Prusia, per indurlo ad allearsi
con lui. Polibio (21,11,1) dice semplicemente: “il re Antioco [...] mandò ambasciatori a
Prusia, invitandolo a far alleanza con lui”; Livio aggiunge la lettera 23 , e ne rivela
brevemente il contenuto: “aveva mandato (sc. Antioco) a Prusia ambasciatori, e una
lettera, in cui lamentava che i Romani fossero passati in Asia: venivano – scriveva – per
abbattere tutti i regni, perché su tutta la terra non esistesse altro dominio che quello
romano; Filippo, Nabide erano stati sbaragliati; ora come terzo veniva assalito lui; una
sorta di inarrestabile incendio si sarebbe propagato, colpendo via via tutti quelli che si
trovavano più vicini al regno già sottomesso; da lui sarebbero passati in Bitinia, giacché
Eumene volontariamente aveva già accettato la servitù” (37,25,4-6). Questo breve testo,
tanto più se si tratta di una creazione dello storico, indica che anche Livio si rendeva
conto che la condotta romana in politica estera e verso i popoli alleati o soggetti era
andata mutando; è probabile che non riuscisse né volesse più continuare a giustificare
come “guerre giuste” anche i metodi dell’imperialismo romano nei tempi più recenti della
repubblica. Anche se i brevi riassunti delle periǒchae non consentono di capire quali
fossero l’atteggiamento e il giudizio dello storico sulle guerre di conquista più recenti, un
indizio interessante è offerto dalle considerazioni che lo storico attribuisce ad alcuni
anonimi senatori romani moris antiqui memores sull’inganno perpetrato con successo da
due ambasciatori romani ai danni di Perseo (42, 47,1-4: v. testi).
Sotto questo aspetto (la lealtà in guerra) l’antica repubblica è secondo Livio un
modello. Gli elementi fondamentali della condotta giusta in guerra, e degli esiti positivi
che questa produce (spontanea sottomissione e duratura fedeltà dei vinti) sono da Livio
sintetizzati, ad esempio, nel famoso episodio del maestro di Faleri (5, 27: v. testi).
Tra le virtù romane grande rilievo assume in Livio la disciplina, sia in pace sia
soprattutto in guerra, dove la pronta obbedienza ai superiori, la docile accettazione di
rimproveri e punizioni riscuote a volte l’approvazione esplicita dello storico. Per es.
22 Il comando supremo era affidato a Lucio Scipione; il più famoso fratello, Publio Scipione
(l’Africano), lo affiancava con il semplice titolo di legato.
23 Secondo Polibio (21,11) invece furono soltanto i Romani a scrivere a Prusia: una lettera inviata
dai fratelli Lucio e Publio Scipione rassicurò il re, che prima temeva “che i Romani passassero in
Asia e ne abbattessero tutti i regni” (il medesimo timore attribuito da Livio ad Antioco), e lo
indusse ad abbandonare la causa di Antioco. Anche Livio menziona la lettera (anzi due distinte
lettere) degli Scipioni, il cui contenuto persuase Prusia a non prendere le armi contro i Romani.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 27
quando il dittatore Cincinnato degrada il console Minucio 24 ed esclude dalla preda il suo
esercito 25, Livio fa questo commento: “a tal punto allora gli animi erano disposti ad
obbedire docilmente ad un ordine superiore che questo esercito, tenendo conto più del
beneficio ricevuto che dell’onta inflittagli [...], decretò una corona d’oro per il dittatore”
(3,29,3).
Se la disciplina è la virtù propria dei soldati, per i condottieri le doti più importanti
sono prudentia e ratio. Livio mette particolarmente in evidenza queste doti nella
caratterizzazione di Quinto Fabio Massimo, il Cunctator, e anche, per converso, ogni volta
che rileva come sconfitte e disastri siano stati causati dalla temeritas di un generale26. La
prudentia consiste soprattutto nel non lasciare mai niente al caso, e nel posporre sempre
l’ambizione a conquistarsi gloria personale ad una valutazione attenta delle circostanze.
Dopo aver illustrato il nuovo corso impresso alla guerra dal Temporeggiatore, Livio
osserva che Annibale comprende che finalmente i Romani, ammaestrati da tanti disastri,
hanno trovato un condottiero accorto, di cui egli dovrà temere non la vis ma la prudentia.
Vita privata. Nell’ambito privato, oltre alla pudicitia esemplarmente illustrata e
celebrata nelle famose leggende di Lucrezia (1,58-59) e di Virginia (3,44-50), ha grande
valore la frugalitas, un costume di vita semplice e austero, lontano dal lusso che
corrompe e fiacca. L’occasione per esaltare in modo esplicito (e in questo caso davvero
enfatico) questa virtù dei Romani antichi è offerta a Livio dalla vicenda di Cincinnato,
introdotta così: “Val la pena che ascoltino coloro che disprezzano ogni valore umano
all’infuori della ricchezza, e ritengono che non vi sia posto per un grande onore o virtù se
non là dove vi sia benessere sovrabbondante. L’unica speranza del popolo romano, Lucio
Quinzio, stava coltivando al di là del Tevere [...] un campo di quattro iugeri [...] Qui,
mentre appoggiato alla pala scavava una fossa, o mentre stava arando, intento ad ogni
modo – questo è certo – ad un lavoro agreste, fu salutato dagli inviati (sc. del senato)”
(3,26,7-9). Asciugatosi il sudore e indossata la toga, Cincinnato viene salutato dittatore, e
si reca senza indugio a Roma per assumere la carica.
24 Nel 458, inviato contro gli Equi, per imperizia e viltà si lascia rinchiudere ed assediare nel suo
accampamento stesso; per far fronte alla grave situazione (l’altro console accorso con le sue
truppe non riesce a spezzare l’assedio) si decide la nomina di un dittatore, nella persona di Lucio
Quinzio Cincinnato, che ottiene pieno successo, e conquista l’accampamento nemico.
25 “Conquistato l’accampamento dei nemici, pieno d’ogni cosa [...], distribuì il bottino soltanto ai
suoi soldati; rimbrottando l’esercito consolare e il console stesso, disse: ‘non avrete parte, soldati,
della preda conquistata a quel nemico di cui per poco non diventaste voi la preda. E tu, Lucio
Minucio, fino a che non comincerai ad avere l’animo che si conviene ad un console, comanderai
queste legioni come mio luogotenente’ ”, 3,29,1-2.
26 Le sconfitte alla Trebbia e a Canne furono secondo Livio causate dalla precipitazione e
dall’ambizione del generale, rispettivamente il console Sempronio, ansioso di dar battaglia e
vincere prima che entrino in carica i nuovi consoli, e contro il parere del collega Scipione, che è a
letto ammalato (21,53 ss.), e il console (plebeo) Terenzio Varrone (22,40-43).
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 28
Complementare all’esaltazione della frugalitas è la dimostrazione che vita agiata e
lusso hanno conseguenze disastrose: è il caso dei famosi ozi di Capua di Annibale.
Condotti a svernare, dopo Canne, in una città minime salubris militari disciplinae, i
soldati di Annibale si abituano alla pigrizia, ai banchetti, all’ubriachezza, alla compagnia
di meretrici: in questo errore va individuata addirittura la causa principale della sconfitta
di Annibale, che da Capua uscì con un esercito trasformato, che aveva perduto la
disciplina di un tempo27. Il pregiudizio patriottico induce Livio a presupporre che devozione religiosa, lealtà,
valore in guerra, giustizia, amor di patria, disciplina dei soldati e saggezza di uomini
politici e generali, moderazione e sobrietà nei costumi di vita privati siano doti proprie dei
Romani, soprattutto di quelli antichi; ma le virtù sono esaltate come valori autonomi,
non perché possedute dai Romani: lo storico non manca talvolta di biasimare quei
Romani che non vi si adeguano, e di giudicare positivamente i non Romani che si
avvicinano a questo ideale.
In generale egli interpreta i fatti, i successi e gli insuccessi militari e politici,
facendo sempre riferimento a qualità morali, che costituiscono il criterio di giudizio
fondamentale.
27 3,18,11-16. I periti artium militarium, sostiene Livio, ritennero che in quell’occasione Annibale
avesse commesso un errore più grave di quello di non aver subito marciato su Roma dopo Canne:
illa enim cunctatio distulisse modo victoriam videri potuit, hic error vires ademisse ad vincendum. Lo
storico attribuisce certo un peso eccessivo a questi famosi ozi: come infatti risulta dal suo
racconto stesso, in quel medesimo inverno 216-215 i Cartaginesi assediarono e conquistarono
Casilino (23,19 e 22), e ciò avvenne prima del consolato di Gracco, che entrò in carica a marzo
(23,24): la bella vita dell’esercito cartaginese a Capua non dovette dunque durare molto.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 29
LA PREFAZIONE
La prefazione è la sezione dell’opera storiografica in cui la persona del narratore è
in primo piano, e si rivolge direttamente al suo pubblico, dichiarando ragioni e natura del
proprio lavoro, le difficoltà incontrate, quali scopi si proponga, come sia consapevole
della necessità che il resoconto storico sia veritiero e imparziale, ecc.
Come si è detto, l’opera di Livio conteneva diverse prefazioni, o premesse. La più
importante è naturalmente la prefazione generale, che funge da presentazione dell’intera
opera.
Quando Livio scrive esisteva già una tradizione antica e abbastanza complessa
sulla funzione e sui compiti di una praefatio, studiati, catalogati e codificati dai retori. In
particolare, come si può dedurre dall’esame delle prefazioni delle opere storiche a noi
note, si direbbe che lo storico consideri necessario non solo e non tanto annunciare il
tema che sarà trattato (questo è l’atteggiamento tipico del poeta epico), quanto
soprattutto giustificare l’opera che sta per iniziare.
I retori indicavano come scopo fondamentale dell’esordio, inteso come brano
introduttivo in generale, ma in particolare di un’orazione, quello di ottenere la docilitas,
l’adtentio, la benevolentia del pubblico (o del lettore), cioè la disposizione generica ad
ascoltare, la disposizione specifica ad ascoltare quanto l’oratore (o l’autore) dirà, e un
atteggiamento favorevole verso chi parla (o scrive). La docilitas si ottiene con una breve
indicazione del tema che sarà trattato, la adtentio con la dichiarazione dell’importanza o
novità del tema, la benevolentia con l’elogio, ma senza arroganza, del compito che ci si è
assunti, con un accenno alle difficoltà incontrate, con la denigrazione degli avversari, con
dichiarazioni che mostrino quanto chi parla stimi il suo pubblico, come consideri
importante il suo giudizio, ecc. Questi precetti, che i retori elaborano soprattutto in
relazione all’oratoria giudiziaria, si possono trasferire anche alla prefazione dell’opera
storica.
In relazione specificamente ai proemi delle opere storiche abbiamo un testo
interessante, di un retore anonimo tardo, che dice:
“I proemi di un’opera storica sono di tre tipi: possono riguardare la storia, la
persona, la materia (de historia, de persona, de materia). Infatti o elogiamo in termini
generali l’utilità della storia, come fa Catone, o in rapporto alla persona di chi scrive
esponiamo il motivo per cui ha intrapreso questo compito, come Sallustio [...] oppure
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 30
mostriamo che l’argomento che ci accingiamo a trattare è degno sia di essere scritto sia
di essere letto, come Livio nei suoi libri dalla fondazione della città” 28.
Era poi considerata tipica della prefazione di un’opera storica la professione di
veridicità e di imparzialità.
Tutti questi temi sono presenti nella prefazione di Livio. Come vedremo infatti,
anche se in essa è prevalente il tema de materia, non mancano quelli de historia e de
persona, trattati non ad uno ad uno, separatamente, ma intrecciati e fusi tra loro in
modo originale.
§§ 1-2 Il periodo iniziale, cui la sequenza esametrica 29 delle prime parole
conferisce particolare solennità, è una elaborata captatio benevolentiae. L’autore si
presenta con un atteggiamento simpaticamente modesto e sincero: vorrebbe, come è
naturale, che la sua fatica avesse successo, ma dichiara subito che non è affatto certo di
ottenere questo risultato, e anche che, quando pure avesse soggettivamente questa
certezza, avrebbe ritegno a dichiararlo. Nelle parole si a primordio...perscripserim è già
contenuta una prima sommaria indicazione dell’argomento dell’opera, semplice e solenne
insieme, per l’impiego del termine primordium, e anche, più precisamente, del modello
storiografico prescelto. Sia l’indicazione del punto di partenza (l’origine della città) sia
l’impiego di perscribo30 informano i lettori, fin dalla prima riga, che non devono aspettarsi
un’opera di tipo nuovo, alla moda, come quelle di Sisenna e di Sallustio, come quella che
stava scrivendo il contemporaneo Asinio Pollione 31 : opere che trattavano un periodo
breve e vicino nel tempo, o, come le monografie sallustiane, un singolo episodio della
storia di Roma. Quella che inizia è invece l’intera storia di Roma, esposta secondo il
28
Principiorum ad historiam pertinentium species sunt tres: de historia, de persona, de materia. Aut
enim historiae bonum generaliter commendamus, ut Cato, aut pro persona scribentis rationem eius
quod hoc officium adsumpserit reddimus, ut Sallustius [...], aut eam rem, quam relaturi sumus,
dignam quae et scribatur et legatur osendimus, ut Livius ab urbe condita., Rhet. Latini min. Halm, p.
588.
29
Fāctūrūsn(e) ǒpěrāe prětĭūm sim: come si vede, abbiamo i primi quattro metri di un esametro.
Questo ordine delle parole non è attestato dai codici (tradizione diretta), che hanno facturusne
sim..., ma da una citazione di Quintiliano (tradizione indiretta): tutti gli editori accettano questa
preziosa testimonianza. Questo inizio viene citato da Quintiliano (9,4,75) come esempio di un
difetto che nella prosa va di solito evitato, e cioè iniziare un periodo con una sequenza poetica,
precisamente, in questo caso, con la parte iniziale di un verso. La testimonianza di Quintiliano è
davvero preziosa: non solo conserva, con ogni probabilità, il testo autentico, ma attesta l’origine
molto antica del diverso ordine delle parole presente nella tradizione diretta. Aggiunge infatti: nam
ita edidit, estque id melius quam quo modo emendatur. La sequenza esametrica non va
naturalmente considerata una svista di Livio, ma un ritmo scelto di proposito per conferire
solennità all’esordio.
30
Il preverbo per- aggiunge al concetto di “scrivere” quello di scrivere “compiutamente, dall’inizio
alla fine”, dunque anche “per ordine”, esponendo i fatti uno dopo l’altro secondo la loro
successione cronologica.
31
Come si apprende da Orazio, carm 2,1, l’opera di Pollione prendeva le mosse dal 60 e narrava le
guerre civili.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 31
tradizionale e antico schema annalistico. Proprio a questa sua scelta probabilmente lo
storico lega il dubbio espresso nell’interrogativa indiretta iniziale: egli si accinge a
trattare infatti una res 32 che è sia vetus sia volgata, cioè antica, perché risale molto
indietro nel tempo, e diffusa, perché già trattata da molti autori precedenti (da Fabio
Pittore in avanti il tema scelto da Livio è quello di tutte le opere di impianto annalistico).
Nell’aggettivo vetus si può scorgere anche una sfumatura lievemente negativa, che
qualifica il tema scelto da Livio come “sorpassato”: il modello annalistico è ormai
superato, e i tempi antichi non suscitano più l’interesse del pubblico (tema
esplicitamente toccato più avanti, § 4).
Nella subordinata introdotta da dum l’autore prende in considerazione, in termini
generali, gli altri storici a lui contemporanei, i novi scriptores, non però per indicare,
come ci si potrebbe attendere, i temi diversi, meglio rispondenti ai gusti del pubblico, che
essi solitamente scelgono di trattare. Dei novi scriptores Livio menziona l’aspirazione, a
tutti comune, ad una ricostruzione del vero più accurata e ad uno stile più raffinato
rispetto agli antichi. Nel verbo credunt si può scorgere un piccolo accenno polemico,
peraltro subito lasciato cadere. E’ implicito che le due esigenze avvertite dagli storici
contemporanei sono condivise anche da Livio. Anch’egli si propone (o crede) di accertare
meglio i fatti, e di essere non un semplice narrator, ma un exornator rerum.
Il senso complessivo del periodo iniziale potrebbe dunque essere questo: non so se
la mia opera avrà successo (né, se lo pensassi, oserei dirlo), per questi motivi: intendo
trattare una materia antica e già nota, perché trattata in passato da molti; i pregi che
nonostante ciò l’opera potrebbe avere, un accertamento dei fatti più accurato e una veste
letteraria più elegante rispetto ai molti che già hanno scritto delle medesime vicende, non
sono tali da assicurare il successo alla mia fatica, giacché si tratta di esigenze avvertite
da tutti gli storiografi contemporanei, che si studiano di soddisfarle.
§ 3. Con le parole utcumque erit l’accenno polemico contenuto in credunt è messo
da parte, e rimane aperta la questione iniziale. Sarà il lettore a rispondere, giudicando se
Livio sia riuscito nel suo intento. Per parte sua lo storico si limita a dichiarare che gli
basta sapere di aver contribuito a tramandare le imprese del popolo princeps terrarum, e
32 Questa mi sembra l’interpretazione più probabile del termine res, e dell’intero periodo. Secondo
un’altra interpretazione invece la res vetus e volgata è la dichiarazione, comune nelle prefazioni
storiografiche, dell’importanza dell’argomento prescelto, cui è implicitamente legata l’attesa del
successo dell’opera. Si vedano, per l’illustrazione sintattica delle due possibili interpretazioni
dell’intero periodo iniziale, le note alla traduzione. Un atteggiamento di ritegno simile a quello di
Livio è presente già in Sallustio, nella prefazione al bellum Iugurthinum. Dopo aver dichiarato che
la storiografia è una delle più nobili attività dello spirito, lo storico taglia corto all’elogio con queste
parole: “sui pregi della storiografia non ritengo di dovermi soffermare oltre”, e ne indica i motivi:
già molti altri lo hanno fatto, e soprattutto qualcuno potrebbe malignamente pensare che, lodando
l’oggetto della propria attività, lo storico intenda in realtà lodare se stesso (Iug. 4,2 s.). Così Livio
non oserebbe affermare la sua certezza, ove l’avesse, perché è una consuetudine che può attirare
critiche.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 32
ostenta disinteresse (finto) per la fama. L’idea, appena accennata nel periodo iniziale, di
una aemulatio con gli altri scriptores, qui viene sviluppata: nella gran turba 33 di scriptores
solo quelli dotati di nobilitas e magnitudo (insomma solo quelli eccellenti, nei due aspetti
che tutti si propongono di curare, l’accertamento del vero e la veste letteraria accurata)
potranno, forse, oscurare la sua fama: evidentemente anch’egli vi aspira, e le sue
dichiarazioni iniziali non sono così modeste e dimesse come paiono a tutta prima.
§ 4. La sezione si apre con un accenno al tema de materia, nei suoi due aspetti del
semplice contenuto (ut quae supra septingentesimum repetatur annum) e della sua
importanza (quae ab exiguis profecta initiis eo creverit...); esso è legato alle considerazioni
svolte precedentemente, in cui in primo piano è la persona dello storico. La mole
immensa dell’opera è un terzo (praeterea) motivo di incertezza sul risultato della fatica
dello scrittore, che si aggiunge ai due già illustrati (tema non nuovo, concorrenza degli
altri storici). Accennare alle difficoltà del compito intrapreso è uno dei modi per
accattivarsi la benevolentia del pubblico. Il sostantivo res, polivalente ed indeterminato
(più del suo corrispondente italiano “cosa”), è impiegato in questa frase con due
significati: la materia dell’opera e lo stato che ne costituisce l’oggetto. Ad avvertire del
mutamento di significato è sufficiente la ripetizione del pronome relativo (quae repetatur:
la storia; quae laboret: lo stato, la res Romana). Con un espediente stilistico semplice ed
efficace l’autore ottiene addirittura di identificare la propria opera con il popolo di cui si
accinge a narrare le imprese. Inoltre viene qui già annunciato un tema nuovo, che
riceverà nel seguito più ampio e compiuto sviluppo: con laboret per ora Livio avverte che
la grandezza raggiunta comporta per il popolo romano anche qualche difficoltà.
L’attenzione si sposta quindi sul pubblico, introducendo un ulteriore elemento di
incertezza sulla possibilità per lo storico di conquistare la fama e la considerazione cui
anch’egli, come tutti, aspira, cioè le preferenze dei lettori: lo storico sa che gran parte del
pubblico si appassiona alla storia recente o contemporanea, e tuttavia non intende
assecondarne le attese.
.§ 5. La netta contrapposizione con quanto precede, annunciata dalle parole ego
contra, ha uno sviluppo alquanto inatteso. Livio non si impegna a dimostrare come il
gusto del pubblico sia corrotto, né che la storia non deve mirare come suo primo scopo
alla voluptas. Il motivo per cui Livio non intende assecondare le attese del pubblico – non
subito per lo meno – è molto personale, e si collega, per mezzo di quoque, al tema della
fama toccato sopra. Oltre alla gloria, che forse non otterrà, oltre alla soddisfazione di aver
contribuito a tramandare le imprese del popolo più grande del mondo, un premio sicuro
egli avrà dalla sua fatica: distogliere la mente, almeno per un poco, dai mali presenti (o
33 Il termine è lievemente spregiativo, poiché significa “folla” indistinta, con annessa l’idea di
confusione e disordine: in questa folla non tutti gli scriptores sono eccellenti e grandi.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 33
appena trascorsi, come indica il perfetto vidit). Si direbbe che Livio intenda scrivere per
sé soltanto. O forse, con queste parole, vuole indirettamente invitare i lettori a distogliere
anch’essi l’attenzione dai mala, preparando l’invito esplicito del § 9 ad illa...pro se
quisque intendat animum. Il tema prevalente qui è la persona dello scrittore, che viene
esponendo con semplicità le ragioni della sua opera. Accanto a questo tema ne viene
introdotto anche un altro, nella seconda parte del periodo. Con le parole omnis expers
curae... Livio, senza insistervi, mostra di conoscere ed accettare, come cosa ovvia, la
prima legge della storia, il rispetto della verità, che deve essere ricostruita ed esposta con
assoluta imparzialità. Quanto al significato complessivo della frase, essa non va intesa
come una dichiarazione che chi scrive di eventi contemporanei, se non vuole mentire,
deve temere per sé qualche concreto pericolo34. Livio infatti non esclude la trattazione
degli eventi contemporanei; ed inoltre è il conspectus dei mali, non la loro trattazione, che
fa nascere in lui la cura, cioè affanno, pena, dispiacere nel contemplarli. Questo potrebbe
togliergli la serenità, cioè il premio, rendendo ingrata (non pericolosa) la sua fatica.
Anche l’irreale posset conferma questa interpretazione, ed equivale all’assicurazione che
Livio è consapevole che lo storico non solo deve sempre rispettare la verità, per quanto
sgradevole e angosciosa essa possa essere, ma anche impedire che la cura in qualche
modo offuschi la sua libertà di giudizio.
Quanto ai mala da cui lo storico, almeno per un poco, vuole distogliere la mente,
essi sono stati già preannunciati da due accenni in quanto precede. Con un metodo che
sembra caratteristico di questa prefazione, l’autore vi si accosta per approssimazioni
successive. Il primo accenno è contenuto nelle parole res... quae eo creverit ut iam
magnitudine laboret sua (§ 4). In quella sezione il tema principale è un altro, la vastità
dell’opera, che intende ripercorrere la storia di Roma dalle origini fino alla grandezza
presente. La consecutiva introduce un tema nuovo, non ancora orientato in senso
chiaramente negativo. La “sofferenza” dello stato dovuta alla sua grandezza potrebbe far
pensare soltanto alle oggettive difficoltà poste dal governo e dall’organizzazione di un
dominio così vasto, con tanti popoli diversi, con il problema di difendere i confini, ecc.
Poco oltre, nel medesimo § 4, con vires se ipsae conficiunt, questo stesso tema, anche qui
subordinato ad un altro prevalente (i gusti del pubblico), si precisa maggiormente: le
difficoltà che travagliano lo stato si rivelano come difficoltà interne; le forze che si
rivolgono contro se stesse sono una chiara allusione alle guerre civili, l’argomento dei
34 Un’interpretazione di questo genere non è, di per sé, inverosimile. La trattazione di fatti
contemporanei poteva effettivamente far temere qualche inconveniente all’autore. Per es. Orazio
definisce la storia delle guerre civili in cui era impegnato Asinio Pollione periculosae plenum opus
aleae, “un’opera piena di rischio pericoloso”, e aggiunge, rivolto all’autore: ...incedis per ignes /
suppositos cineri doloso, “procedi per un cammino insidioso, sul fuoco che cova sotto la cenere”
(carm 2,1,5-7).
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 34
tempi recenti e recentissimi cui soprattutto è rivolta l’attesa dei lettori. Ora infine questi
eventi recenti, dai quali lo storico vuole per il momento distogliere l’attenzione, sono
esplicitamente definiti mala: un termine negativo ma generico, scelto certo di proposito,
perché può riferirsi sia ai fatti luttuosi cui ha accennato sopra (le forze che si rivolgono
contro se stesse) sia anche a “colpe, mali morali”. In tal modo si prepara l’ulteriore
sviluppo di questo tema, al § 9: sono i mores corrotti la vera causa per cui lo stato più
grande e potente del mondo ha forse iniziato la sua parabola discendente. Non va
trascurato peraltro un piccolo segno che potremmo dire di cauto ottimismo, contenuto
nel perfetto vidit: il periodo più triste è passato; dopo Azio Augusto ha riportato la pace
nello stato, ed ha messo mano ad un vasto programma di restaurazione religiosa e
morale.
§ 6. Dopo il tema de persona prevalente sin qui, lo storico passa a trattare
compiutamente il tema de materia; il collegamento con quanto precede è offerto
dall’accenno al verum: Livio vuole anzitutto chiarire quale posizione intenda assumere
sulle tradizioni relative al passato leggendario, operando una netta distinzione fra poesia
(cui è concessa una libertà assai maggiore) e storia. I periodi ai quali si applica la
sospensione di giudizio dello storico, espressa con le parole nec adfirmare nec refellere,
sono due, distinti. Con l’espressione ante conditam urbem Livio si riferisce alle vicende
anteriori alla fondazione di Roma, ma ad essa connesse in quanto la preparano, cioè
l’arrivo di Enea in Italia, la guerra contro i Rutuli, la fondazione di Alba Longa, la
discendenza di Enea fino a Numitore e Amulio. A queste leggende lo storico dedica i primi
tre capitoli del primo libro. Con l’espressione ante condendam urbem rinvia invece alle
leggende connesse alla fondazione: la vicenda di Rea Silvia, la nascita dei gemelli, la loro
esposizione e il salvataggio, l’allevamento, il recupero del regno di Numitore, la decisione
di fondare una nuova città, l’auspicio e l’uccisione di Remo. A questi fatti Livio dedica
altri tre capitoli e mezzo; il resto di 1,7 è anch’esso di carattere leggendario, con la
digressione su Ercole e Caco. La suddivisione qui indicata con i due participi conditam e
condendam è mantenuta puntualmente anche nel racconto: il cap. 4 si apre con le parole
sed debebatur fatis origo tantae urbis, premesse al racconto della nascita dei gemelli. Di
qui inizia la parte ante condendam urbem, che si conclude, dopo l’uccisione di Remo, con
le parole condita urbs conditoris nomine appellata (1,7,3). Da questo momento in avanti
tutto il materiale tramandato è considerato storia, monumentum incorruptum. In realtà,
anche nel corso della narrazione successiva a volte Livio spesso assume un
atteggiamento simile a questo (nec adfirmare nec refellere), quando riferisce tradizioni
posteriori alla fondazione di Roma: a volte si impegna a fornire spiegazioni razionalistiche
di alcune leggende, più spesso si limita a dissociare elegantemente la propria
responsabilità di storico da quanto riferisce, con formule come ut ferunt, tradunt,
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 35
traditum est ecc. In queste dichiarazioni programmatiche della prefazione invece egli
separa come leggenda poetica solo tutto ciò che precede il regno di Romolo. Non vi è
contraddizione: prima di Romolo tutto ciò che è stato tramandato va considerato poetica
fabula; il periodo successivo presenta invece, in un tessuto di fatti storici (secondo Livio,
naturalmente), alcune leggende sulle quali egli non intende pronunciarsi. A queste allude
in modo generico con l’espressione his similia, all’inizio del § 8. Benché tali leggende non
siano adatte alla serietà di una documentata opera storica, egli le menzionerà
ugualmente, in ossequio alla tradizione. Questo atteggiamento scettico è confermato dal
paragrafo che segue.
§§ 7-9. Anche Roma, come molte altre città, si conforma alla consuetudine di
nobilitare le proprie origini, facendovi intervenire dèi o eroi. Da questa constatazione
Livio trae uno spunto polemico: se le humanae gentes sopportano di buon grado (!) il
dominio imposto loro da Roma in forza della sua superiorità militare, possono anche
tollerare che Roma si sia scelto come progenitore Marte, il dio più adatto ad un popolo
guerriero. Il tono è ironico, Livio sa bene che la Vestale (Rea Silvia) credette oppure finse
che il padre dei gemelli fosse Marte (1,4). L’accenno polemico viene subito troncato, come
al § 2, con una movenza stilistica analoga; lo storico volge invece l’attenzione a ciò cui
attribuisce la massima importanza, ed espone il contenuto propriamente storico
dell’opera, sviluppando più ampiamente gli accenni già distribuiti in quanto precede.
Il dativo etico mihi, insieme al cong. esortativo intendat, costituisce una esplicita e
diretta sollecitazione a por mente a ciò che secondo lo storico è veramente importante,
con un accento personale e commosso: dopo aver dichiarato di non essere disposto ad
assecondare i gusti del pubblico, e di esser pago di scrivere per sé solo, lo storico
recupera abilmente l’attenzione e la simpatia dei lettori, cui intende dimostrare come una
res vetus e volgata possa essere interessante e utile per ciascuno. L’espediente più
significativo ed efficace di questa appassionata esortazione è forse da scorgere nel
pronome quisque, che isola ciascuno dei lettori nella sua individualità: lo storico si
rivolge a ciascuno di loro, non ad una massa indistinta; il concetto è rafforzato da pro se,
cioè secondo le sue capacità e possibilità. Lo storico assume in tal modo un
atteggiamento di grande rispetto per ogni singolo lettore, al quale egli non intende dire
che cosa debba pensare; dalla storia ognuno, per conto proprio e con libertà di giudizio,
potrà trarre l’insegnamento che ne scaturisce. Naturalmente Livio orienta sempre il
giudizio del lettore, ma di solito senza assumere un atteggiamento didascalico, lasciando
che l’insegnamento scaturisca da sé dai fatti narrati.
Gli elementi più importanti su cui lo storico vuole si concentri l’attenzione del
lettore sono vita e mores (vita e costumi, s’intende, del popolo romano antico); viri e artes
sono in una posizione subordinata, in quanto sono presentati come i mezzi con cui
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 36
l’imperium è stato creato ed è diventato grande. La connotazione positiva del termine
mores in questa frase è implicita, e risulta dal contrasto con la loro successiva
degradazione, descritta subito dopo.
Il passaggio dall’età antica, sede del bene, a quella presente, in cui largamente il
male prevale, non è presentata come una contrapposizione netta, ma come un processo
in più stadi, una corruzione progressiva, descritta stilisticamente per mezzo di una
climax (un passaggio dal meno al più, o viceversa, in più di due tappe). Ciascuno dei tre
momenti successivi, che rappresentano un progressivo peggioramento, è contrassegnato
da un avverbio di tempo, primo, deinde, tum. Il culmine negativo, che coincide con l’età
contemporanea, è presentato come l’ultimo sviluppo della terza fase, introdotto dalla
subordinata temporale donec...perventum est. Questo culmine negativo raggiunto nell’età
contemporanea dalla decadenza dei mores è indicato dal fatto che “non siamo in grado di
sopportare né i nostri vizi né i loro rimedi”, immagine abbastanza comune, di carattere
medico: i vitia sono equiparati a malattie, da curare con remedia (medicine). Quali sono i
remedia cui lo storico allude? La frase è molto generica, e consente due diverse
interpretazioni, una politica e una morale.
Secondo la prima, Livio constaterebbe che i cittadini, pur desiderando una vita
ordinata, la concordia, la pace, non sono però disposti a rinunciare alla libertas: i
remedia sarebbero allora i successivi provvedimenti con cui Augusto andava accentrando
nelle proprie mani il potere, offrendo, in cambio della libertà repubblicana, la pace,
propagandata con ogni mezzo. E’ insomma la giustificazione che, molto più tardi, Tacito
avrebbe elaborato per l’istituzione del principato35. Ma Tacito scrive quando il processo di
trasformazione costituzionale è ormai irreversibilmente compiuto; Livio, che compone la
sua prefazione fra il 27 e il 25, o pochi anni più tardi, non può ancora, forse, già
elaborare una giustificazione di questo genere di una trasformazione che era ancora in
atto.
Sembra dunque preferibile l’interpretazione morale: i remedia vanno cercati in
provvedimenti miranti a ripristinare nella società il rispetto per i valori del tempo antico,
per quelle virtù cui Livio strettamente lega la grandezza di Roma. La campagna
moralizzatrice di Augusto mirò alla restaurazione degli antichi valori soprattutto in due
ambiti, la famiglia e la religione. Forse la restaurazione della religione e delle cerimonie
antiche36 non incontrava particolare resistenza e opposizione. Il malcontento sarà stato
piuttosto per altri provvedimenti, che tentavano, senza molto successo, di imporre per
35
Hist. 1,1,1: omnem potentiam ad unum conferri pacis interfuit ; ann. 1,9,4: non aliud discordantis
patriae remedium quam ut ab uno regeretur
36
Per es. organizzò, nel 17, una celebrazione solenne dei ludi saeculares, per la quale Orazio
compose il carmen saeculare. Inoltre, come ricorda Augusto stesso nelle sue res gestae (20,4), nel
28 fece restaurare ben 82 templi nella città di Roma.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 37
legge un costume di vita morigerato e casto. I principali provvedimenti legislativi che
conosciamo dalle fonti in questo campo sono: la lex Iulia de coercendis adulteriis del 18
a.C. e la successiva lex Papia Poppaea de maritandis ordinibus del 9 d.C. 37, che, per
incoraggiare il matrimonio e la procreazione di figli (contro il crescente calo demografico),
istituiva lo ius trium liberorum, una serie di privilegi (sia di carattere fiscale sia negli
avanzamenti di carriera) per i padri di almeno tre figli legittimi; la legge prevedeva inoltre
multe per i celibi e gli sposi senza prole, e punizioni molto severe per gli adultèri. I
risultati furono scarsi, e i costumi di vita della gente non mutarono sensibilmente.
Provvedimenti di questo tipo dovevano certo suscitare l’approvazione incondizionata di
un moralista come Livio; sfortunatamente sono troppo recenti perché ad essi egli possa
alludere nella sua prefazione (senza contare che l’effetto sperato non si poteva
immediatamente valutare). E’ possibile però che già dieci anni prima della lex Iulia
Ottaviano avesse fatto un tentativo analogo, fallito perché la legge dovette essere
abrogata, o forse ne fu respinta la proposta stessa. A questa legge probabilmente allude
Properzio, in 2,7. Rivolgendosi a Cinzia il poeta dice:
Gavisa es certe sublatam, Cynthia, legem
qua quondam edicta flemus uterque diu,
ni nos divideret; quamvis diducere amantes
non queat invitos Iuppiter ipse duos.
At magnus Caesar. Sed magnus Caesar in armis: 5
devictae gentes nil in amore valent.
Nam citius paterer caput hoc discedere collo,
quam possem nuptae perdere amore faces,
aut ego transirem tua limina clausa maritus,
respiciens udis prodita luminibus. 10
[...]
Unde mihi patriis natos praebere triumphis? 13
Nullus de nostro sanguine miles erit.
[...]
Certo ti sei rallegrata, Cinzia, quando fu abrogata* la legge
che un tempo, quando fu emanata**, ci fece piangere a lungo,
nel timore che potesse dividerci; per quanto, separare due
amanti contro la loro volontà non potrebbe Giove stesso.
Ma Cesare è grande. Sì, grande nelle armi: il fatto che
abbia sottomesso molte genti non vale nulla in amore.
Mi lascerei staccare la testa dal collo piuttosto
che perdere te, mia fiamma, per amore di una sposa,
o passare maritato davanti alla tua porta chiusa,
volgendomi a guardarla dopo averla tradita, con gli occhi pieni di lacrime.
[...]
Perché dovei fornire figli per i trionfi della patria?
Nessun soldato nascerà dal mio sangue.
[...]
* opp. “ritirata”; ** opp. “proposta”
Da questi accenni si comprende che la legge che fu abrogata, o non entrò
nemmeno in vigore, era del medesimo tipo di quelle successivamente emanate da
Augusto, e prevedeva l’imposizione del matrimonio ai cittadini e sanzioni per chi non
obbedisse38, oltre ad incoraggiare la procreazione di figli per la patria39. Se il fallimento
della legge cui allude Properzio è del 28 (come è possibile, ma non certo40), può darsi che
37 Preceduta probabilmente da una lex Iulia sulla medesima materia, non sappiamo in quale anno:
il fatto che venissero emanate successivamente leggi di contenuto simile indica quanto la loro
effettiva applicazione fosse difficile.
38 V. Prop. 2,7,7 citius paterer caput hoc discedere collo; naturalmente si tratta di un’iperbole.
39 V. Prop. 2,7,14 nullus de nostro sanguine miles erit.
40 Non si conosce con esattezza la data di composizione del secondo libro delle elegie di Properzio:
dati interni sembrano però indicare un periodo fra il 28 e il 26. Inoltre Tacito, ann. 3,28,2,
accenna, in modo generico, all’inizio dell’attività legislativa (dedit iura) di Augusto nel suo sesto
consolato, che è appunto del 28 (quando in realtà Ottaviano non aveva ancora il titolo di Augusto).
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 38
ad essa, o anche ad essa, pensi Livio, quando dice remedia pati non possumus. Dal
fallimento di questo provvedimento (un dato di fatto singolo e oggettivo, assunto come
sintomo della resistenza dei contemporanei a rimedi di questo genere), Livio poteva trarre
la considerazione più generale che la gente era ormai insofferente di tutto ciò che potesse
contrastare la rilassatezza morale, una delle cause, nella visione di Livio, che possono
portare lo stato alla rovina.
§ 10. In questo paragrafo Livio offre la sua personale (anche se non originale)
interpretazione dell’utilità della storia. Tema topico delle prefazioni o delle sezioni
programmatiche era proprio l’illustrazione dell’utilità della storia (indicata dall’anonimo
retore citato sopra 41 con l’espressione bonum historiae). Livio si conforma alla
consuetudine, anch’egli sa che la storiografia è utile, e lo dichiara; per parte sua tiene a
precisare che la famosa utilità della storia da tutti riconosciuta consiste nel suo valore
paradigmatico; essa presenta infatti al lettore fatti, vicende, personaggi esemplari,
modelli positivi e negativi, da cui ognuno può trarre norme di comportamento privato (tibi)
e pubblico (rei publicae). Ma raccogliere esempi positivi e negativi non è sufficiente:
bisogna anche porli in un inlustre monumentum. Con queste parole Livio si riferisce
probabilmente 42 all’opera storica, all’ideale cui aspira, all’opera insomma che intende
scrivere. Al § 6 l’agg. incorruptum indica l’indispensabile rispetto per la verità e
l’imparzialità, la ricostruzione fedele e attendibile dei fatti; ora, con l’agg. inlustre, viene
definito l’aspetto formale dell’opera. Per riuscire veramente utile la narrazione veritiera e
imparziale dei fatti deve essere proposta in una forma letterariamente curata e attraente.
Per mezzo di questi due aggettivi che qualificano l’opera che intende scrivere, Livio fa
sapere indirettamente ai lettori che anch’egli, come i novi scriptores, si sforzerà di
raggiungere la certezza nelle res e la perfezione nello stile. Il fatto che le sue aspirazioni
siano presentate in modo così discreto, affidate a due semplici aggettivi, è in accordo con
il tono di modestia con cui la prefazione si apre; vi contribuisce anche il fatto che Livio
non si ponga – a differenza dei novi scriptores – in concorrenza o a confronto con altri;
egli non mira a “maggior” certezza o a uno stile “più” elegante rispetto agli scrittori
antichi; gli bastano la certezza (incorruptum) e la forma letteraria dignitosa e chiara
(inlustre).
§§ 11-12. Per mezzo di ceterum, con valore restrittivo e debolmente avversativo,
Livio si collega alle ultime parole del periodo precedente, all’allusione agli esempi negativi,
41 V. pp. 29-30 e nota 28.
42 Anche un’altra interpretazione (assai meno probabile) di inlustre monumentum è possibile, a
partire dal senso fondamentale di monumentum, “ciò che fa ricordare” (medesima radice di moneo),
e cioè il “personaggio eminente”, la “vicenda famosa”, cui è affidata la funzione di exemplum.
Sembra preferibile intendere il sostantivo monumentum con la medesima accezione, “opera
storica”, che ha al § 6.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 39
che è utile aver sotto gli occhi, per studiarsi di evitarli. Lo storico non desidera
soffermarsi molto a lungo su questo aspetto. L’analisi della decadenza morale, dei mali
della società contemporanea, che pure viene svolta, è presentata sotto forma di
commosso elogio per la res publica che in misura maggiore e per un tempo più lungo di
ogni altra si è mantenuta fedele ai buoni costumi. I vitia, che infine lo storico si risolve ad
indicare, avaritia e luxuria, rinviano – con una differenza significativa - all’analisi già
svolta da Sallustio, soprattutto nella prima monografia. Dopo la prefazione vera e propria
e il ritratto di Catilina, Sallustio presenta (capp. 6-13) la storia passata di Roma,
suddivisa nettamente in due periodi contrapposti, l’epoca anteriore alla distruzione di
Cartagine e quella successiva. Il periodo anteriore al 146 è presentato come
caratterizzato dalla virtus: in quest’epoca tutti i Romani indistintamente aspirano solo a
compiere splendide imprese a vantaggio dello stato, sono disciplinati, concordi, assetati
di gloria. Caduta Cartagine, aemula imperii Romani, venuta cioè meno la minaccia
esterna che manteneva efficiente l’esercito e virtuoso e concorde il corpo civico, la pace e
il benessere corruppero in breve tempo i Romani, che non erano mai stati piegati prima
da fatiche, difficoltà, pericoli. Irrompono nella società avaritia e ambitio, che portano con
sé la luxuria. Questa visione è ripresa, più brevemente ma senza sostanziali modifiche,
anche nella seconda monografia (41,2-5) e, con una notevole accentuazione del giudizio
negativo, nel proemio delle historiae. Quando Livio compone la sua prefazione ha
certamente ben presente l’analisi fatta dal suo illustre predecessore, come mostrano
riprese di alcune parole e immagini 43 . Il quadro della corruzione, le sue cause
(soprattutto le divitiae) e i suoi effetti (la distruzione del tessuto stesso della società) si
corrispondono; ma in Livio manca uno dei tre vitia menzionati da Sallustio: troviamo l’
avaritia e la luxuria (o luxus), non l’ambitio, che in Sallustio è molto importante. Dopo la
distruzione di Cartagine, nel quadro di Sallustio, crescono insieme la cupido pecuniae e
la cupido imperii, cioè la brama di denaro e quella di potere, insomma avaritia e ambitio
(Cat.10). Sallustio cerca di distinguere, un po’ artificiosamente, una ambitio buona da
una cattiva: di per sé l’ambizione è un vizio molto vicino alla virtù, in quanto spinge a
conquistare gloria, honos, imperium, aspirazioni in sé non condannabili. Ma quando a
questi fini buoni si cerca di arrivare con ogni mezzo, con violenza, doli e fallaciae, allora
l’ambitio assume le caratteristiche di un vizio dei peggiori: ciò avviene, secondo Sallustio,
quando in Roma fa il suo ingresso l’avaritia, dopo il 146.
In Livio manca invece, significativamente, qualsiasi accenno all’ambitio. Se Livio
trae da Sallustio tutto il quadro della degenerazione dei costumi, ma omette una delle
43 Si confrontino per es. con la descrizione della decadenza al § 9 Sall.Cat. 10,6: haec (sc. avaritia e
ambitio) primo paulatim crescere, interdum vindicari; post ubi contagio quasi pestilentia invasit,
civitas immutata e hist. Fr. 16 M ex quo tempore maiorum mores non paulatim ut antea sed
torrentis modo praecipitati.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 40
cause, ciò probabilmente significa che egli non condivide del tutto l’analisi del suo
predecessore. Secondo Livio infatti l’ambitio non entra in Roma insieme alle divitiae, ma
esiste fin dall’inizio della storia di Roma: la fondazione della città infatti altro non è che la
conclusione della lotta per il potere fra i due fratelli. Inoltre, la visione di Livio è più
sfumata di quella di Sallustio, che pone tutto il bene nel passato e tutto il male nel
presente o nel passato prossimo. Benché anche Livio presenti come esemplare il periodo
più antico della storia di Roma, egli sa che in ogni epoca male e bene sono intrecciati. Nel
complesso l’analisi delle cause della decadenza morale, salvo l’omissione dell’ambitio, non
è in Livio nuova né originale; originale e caratteristico è invece il modo in cui lo storico la
propone: solo con nuper si risolve a constatare e considerare la diffusione dei vizi, prima
menzionati soltanto per far rilevare quanto a lungo Roma ne sia stata immune.
Prima dell’implicito confronto di Roma con ogni altro stato, confronto da cui
risulta la indiscutibile superiorità di Roma, Livio ammette la possibilità che il troppo
amore offuschi l’obiettività del suo giudizio, inducendolo forse a dare di Roma un quadro
troppo positivo e non del tutto veritiero. Ma si tratta di un’ammissione solo formale, come
è evidente dalla sua formulazione con l’alternativa aut...aut, in cui un termine esclude
l’altro. La prima alternativa è tanto assurda che la seconda ne risulta rafforzata44: poiché,
come ha dichiarato in modo discreto ma chiaro, Livio è ben consapevole che nulla deve
far deflettere dal vero lo storico, i lettori potranno con fiducia accogliere e condividere il
suo elogio di Roma. Con negotium Livio si riferisce all’opera che intende scrivere; ma
l’amore non sarà tanto per l’opera quanto per il popolo che ne è protagonista: notiamo
che di nuovo, come al § 4, opera e argomento sono quasi identificati.
Infine, va rilevato che anche per il tema corruzione, come per gli altri, Livio
procede nel modo caratteristico di questa prefazione, consistente, come si è detto, nel
trattare ogni tema per accenni successivi. Il tema dei vitia compare già al § 4 (magnitudo
laboret sua; vires se ipsae conficiunt), si precisa al § 5 con un accenno specifico ai mala;
viene più ampiamente sviluppato nella seconda parte del § 9, dove la descrizione della
decadenza dei costumi chiarisce la causa morale di quei mala. E infine, al § 12 quei mala
sono individuati: si tratta di avaritia e luxuria, che hanno provocato la decadenza morale,
44 Il medesimo procedimento stilistico, con la medesima funzione (rafforzare enfaticamente
un’affermazione mettendola in alternativa con un’altra palesemente assurda) è impiegato da Livio
anche in altri casi. Particolarmente chiaro è un esempio in 22,39,8. Nell’esortazione rivolta al
console Lucio Emilio Paolo perché controlli e freni il collega Terenzio Varrone, la cui precipitazione
potrebbe causare (e in effetti causerà) un disastro, Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore,
dice: [...] si hic, quod facturum se denuntiat, extemplo pugnaverit, aut ego rem militarem, belli hoc
genus, hostem hunc ignoro [alternativa evidentemente assurda] aut nobilior alius Trasumenno locus
nostris cladibus erit [...], “se costui, come dichiara di voler fare, darà subito battaglia, o io non
conosco l’arte militare, il carattere di questa guerra, questo nemico, oppure un altro luogo diverrà
per le nostre sconfitte ancor più famoso del Trasimeno”.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 41
le discordie interne, le difficoltà e il malessere che travagliano lo stato romano nel tempo
presente.
§ 13. Messi subito da parte i rimproveri (querellae 45, appena accennate al § 12,
con la frase che si apre con nuper), che sarebbero di cattivo augurio, il brano introduttivo
si chiude in modo molto solenne, e originale, con una invocazione agli dèi, che lo storico
stesso dichiara non appropriata ad un’opera storica. Il periodo ipotetico (si
esset...inciperemus, che esprime irrealtà al presente) gli consente di non violare
formalmente le regole del genere storiografico, e di porre egualmente sotto la protezione
divina l’opera che sta iniziando: ab initio tantae ordiendae rei. Ma ancora una volta, con
l’uso del sostantivo res, Livio lascia di proposito nell’incertezza se stia parlando dell’opera
o dello stato che ne è protagonista. Anche se il rinvio esplicito è all’uso dei poeti epici (che
però, come si sa, si rivolgevano alla Musa), l’invocazione richiama piuttosto quella che
accompagnava il generale e l’esercito in partenza per una guerra46, rivolta genericamente
a tutti gli dèi e a tutte le dee, in modo da evitare di inimicarsi la divinità eventualmente
dimenticata.
Infine, con l’assunzione di un inizio che dichiara proprio dei poeti, l’autore vuole
forse anche mostrare che egli concepisce il suo compito come quello non solo di un
ricercatore, ma anche di un artista.
45 Lett. “lamenti, deplorazioni”. A chi non saranno gratae le querellae? Non tanto forse a chi dovrà
ascoltarle o leggerle, quanto soprattutto all’autore. Egli cioè non vuole, proprio all’inizio dell’opera
da cui si ripromette il praemium di venir distolto dal conspectus malorum, soffermarsi sui mala più
del necessario, rendere sollicitus il suo animo e ingrato il suo compito. Sarebbe inoltre fuor di
luogo diffondersi già ora su temi che saranno oggetto dei libri futuri, dell’ultima parte dell’opera;
ora lo storico si accinge a mostrare quae vita, qui mores fuerint ecc. La mente dello scrittore si
rivolge soprattutto a quella parte della sua storia che immediatamente sarà trattata, quella più
antica, una disposizione d’animo che domina in tutta la prefazione. In essa l’autore offre, è vero,
nelle sue linee molto generali il piano di tutto il lavoro (dalle origini ai tempi presenti), ma se ne
vale soprattutto per introdurre la prima parte, la storia più antica. Rinvia perciò le querellae al
momento in cui non potranno essere evitate. L’avv. forsitan, più che un dubbio sull’opportunità (o
la necessità) di dar voce a quei rimproveri ora banditi, esprime la riluttanza dell’autore a
soffermarvisi fin d’ora con il pensiero.
46 V. per es. Livio 45,39,10 (parla Lucio Emilio Paolo, riferendosi ai riti propiziatori prima dell’inizio
di una guerra e alle cerimonie di ringraziamento dopo la sua felice conclusione): maiores vestri
omnium magnarum rerum et principia exorsi a dis sunt et finem statuerunt.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 42
IL PRIMO LIBRO. STORIA DELLA MONARCHIA
Probabilmente Livio pubblicò a sé il primo libro della sua opera. Esso ha una sua
fisionomia peculiare, che lo distingue da tutti gli altri. Abbraccia l’intero periodo regio
(754-509), ed è organizzato attorno alle figure dei sette re tradizionali. Tipico del primo
libro è un interesse archeologico-antiquario quasi assente nel resto dell’opera, che certo
Livio ricavava dalle sue fonti annalistiche: lo storico si adegua alla tradizione che faceva
risalire al periodo regio l’origine di istituzioni, riti, culti, molti dei quali ancora esistenti in
epoca contemporanea, ma certo istituiti tutti (salvo forse qualche cerimonia religiosa) in
epoca più tarda) 47. Anche le numerose spiegazioni di carattere eziologico rientrano in
questo interesse di tipo antiquario: oggetti ancora visibili, nomi di luoghi, riti vengono
legati a un episodio antico, che ne spiega e nobilita l’origine. Ai brani di carattere erudito
si alternano numerose leggende: per queste vale la dichiarazione programmatica inserita
dallo storico nella prefazione generale dell’opera (nec adfirmare nec refellere in animo est,
§ 6). Sezioni antiquarie e leggende insieme conferiscono all’intero libro un aspetto arcaico,
accentuato dall’uso frequente, nella parte narrativa, di termini e locuzioni poetiche.
Pur nel suo carattere composito il primo libro ha, con ogni evidenza, un tema
prevalente e unificatore: la crescita progressiva di Roma verso quella grandezza cui fin
dall’inizio è destinata. Questo viene solennemente affermato dallo storico prima di riferire
la leggenda dei gemelli48, è il motivo ricorrente dell’ostilità dei popoli vicini e delle guerre
da essi suscitate contro Roma, è, infine, oggetto di incrollabile fede da parte dei Romani
stessi.
IL REGNO DI ROMOLO
Al primo re sono dedicati i capp. 8-17 del primo libro. Livio ha già registrato, senza
abbellimenti né reticenze, la poco onorevole origine di Roma: i due gemelli, racconta,
restituito il regno di Alba al nonno Numitore, decidono di fondare una nuova città, nei
luoghi in cui erano stati esposti ed allevati. Accompagnati da molti Albani e Latini, scelto
il luogo, si accingono alla fondazione. Tra i due fratelli, fino a quel momento
perfettamente concordi, si insinuò un avitum malum, la regni cupido, e sorse una
vergognosa contesa su chi dovesse essere il fondatore e il re della nuova città. Si decide
di lasciare la decisione agli dèi, e ciascuno prende posto in un luogo d’osservazione,
47
Per es. l’istituzione del senato (Romolo), della maggior parte dei collegi sacerdotali (Numa), della
suddivisione della popolazione in classi su base censitaria (Servio Tullio).
48
1,4,1 Sed debebatur, ut opīnor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii
principium.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 43
Romolo sul Palatino e Remo sull’ Aventino (1,6,4). Per primo Remo scorge il segno, sei
avvoltoi; ma subito dopo Romolo annuncia di averne visti dodici: entrambi i gemelli sono
proclamati re dai rispettivi seguaci; scoppia una zuffa, e Remo resta ucciso. Livio
aggiunge anche la versione più nota (volgatior fama), secondo cui Remo fu ucciso dal
fratello, irato per l’atto di provocazione da lui compiuto (saltò con spregio al di là del
tracciato delle nuove mura). Da questo momento di Remo non si parla più: ita solus
potitus imperio Romulus; condita urbs conditoris nomine appellata (1,7,1-3). Romolo
fortifica il Palatino, e offre sacrifici agli dèi: agli altri secondo il rito albano, ad Ercole
secondo quello greco, che era stato istituito da Evandro. Segue un’ampia digressione
eziologica, in cui viene narrata la leggenda di Ercole e Caco49, e la consacrazione da parte
di Evandro di un’ara che – profetizza Evandro – “un giorno il popolo più potente del
mondo chiamerà Massima”. Questo lungo racconto (1,7,4-14), che non ha nulla a che
fare con la fondazione di Roma e con le vicende di Romolo, non ha solo lo scopo di
inserire la menzione dell’ Ara Maxima, al cui rinnovato culto Augusto attribuiva grande
importanza; svolge anche una importante funzione all’interno del testo, separando l’inizio
poco edificante della città dalla narrazione dei fatti del regno di Romolo.
Fatti e leggende erano offerti, come si è detto, a Livio dalle sue fonti; egli impiega il
suo talento di narratore soprattutto nel dare una veste letteraria accurata ed attraente
ad una res, come lo storico ha esplicitamente affermato nella prefazione, vetus e volgata.
In concreto, la rielaborazione operata da Livio (sia qui sia in generale nella sua
storia di Roma) consiste in primo luogo in una disposizione della materia atta, con la sua
varietà, ad evitare la monotonia, per mezzo di una frequente alternanza di temi: per
Romolo, descrizione della situazione interna a Roma e delle guerre esterne, brani eruditi
o eziologici e leggende tradizionali. Non solo: di fronte ad una materia sterminata e
spesso assai ripetitiva, Livio non si limita all’alternanza dei temi; applica anche, nella sua
narrazione, un fondamentale principio di selezione: pur non rinunciando ad informare il
lettore di tutti i fatti storicamente rilevanti, non li racconta però tutti per esteso.
Concentra la sua attenzione su alcuni eventi più significativi, o più ricchi di spunti
drammatici o patetici, o ancora che si prestano meglio di altri a trarne un insegnamento
morale; a molti altri episodi analoghi si limita ad accennare brevemente, senza veramente
raccontarli e sfruttarne tutte le possibilità.
Sul piano artistico e stilistico, a questa selezione degli argomenti corrisponde un
uso moderato e sapiente delle tecniche della storiografia drammatica: ad episodi ricchi di
pathos, trattati in modo da coinvolgere emotivamente il lettore, e caratterizzati da uno
49 In Virgilio il mito viene narrato da Evandro ad Enea (Aen. 8,185-275). Dopo aver ucciso il
mostro Gerìone ed essersi impossessato dei suoi armenti, Ercole ne viene derubato da Caco, un
pastore predone (secondo la versione di Livio) o un mostro, figlio di Vulcano (secondo quella di
Virgilio). Scoperta la spelonca in cui Caco aveva nascosto le bestie, Ercole lo affronta e lo uccide.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 44
stile elaborato (periodi ampi, termini ricercati, talvolta locuzioni poetiche) sono alternati
brani più prosaici, descrittivi, composti in uno stile rapido e stringato. In tal modo la
tensione drammatica creata negli episodi più elaborati (con un principio, un nucleo
narrativo, lo scioglimento finale) si allenta, e nel lettore non si ingenera la sazietà.
Sul regno di Romolo la tradizione offriva a Livio questi elementi: una serrie di
guerre; alcune misure di politica interna; due leggende famose, connesse entrambe alla
guerra contro i Sabini, il tradimento di Tarpea e il ratto delle donne.
La sezione dedicata al regno di Romolo si apre con queste parole: “Compiute
secondo il rito le cerimonie religiose e riunita in assemblea la moltitudine che nulla se
non le leggi poteva unire a formare un solo popolo, fissò le norme del diritto (iura dedit)”
(1,8,1). Una situazione, brevemente delineata, ben diversa da quella con cui si apriva il
capitolo precedente: in luogo di una folla che si azzuffa, una moltitudine che si avvia a
diventare un popolo; al posto di un (probabile) assassino, un re risoluto e saggio, che
prima di tutto si preoccupa di fissare le leggi. Segue l’istituzione dei simboli del potere, i
12 littori, la sella curulis, la toga praetexta, con una discussione di carattere erudito
sull’origine etrusca di tutti e tre questi simboli.
Dopo l’ampliamento della città 50, il secondo provvedimento preso da Romolo è
l’istituzione dell’asilo: un luogo, posto sotto la protezione di una divinità, che garantisce
l’inviolabilità a chiunque vi si rifugi; a questo è collegato il diritto di stanziamento, per cui
coloro che ottengono asilo diventano cittadini del luogo. Si rifugia nell’asilo aperto da
Romolo ogni sorta di persone dalle popolazioni vicine, senza distinzione fra liberi e servi.
Infine Romolo istituisce il senato, con 100 membri.
Il sinecismo sabino
Prima fase: il ratto (1,9). Il racconto della fusione fra Romani e Sabini è costruito
come una sorta di dramma in più atti, con le donne sabine che – come il coro nelle
tragedie – fanno da sfondo e collegano fra loro le parti del dramma, e accompagnano con
il graduale mutamento dei loro sentimenti lo sviluppo della vicenda, fino alla
riconciliazione finale, in cui assumono il ruolo di protagoniste.
La storia era notissima; il confronto con le versioni che possiamo leggere in
Cicerone 51 , in Plutarco 52 e in Dionigi di Alicarnasso 53 mostra che l’elaborazione del
racconto è opera di Livio, non gli deriva dalla tradizione.
50
“Cresceva frattanto la città, includendo nella cerchia delle sue mura sempre nuovi territori,
giacché quelle fortificazioni venivano costruite più nell’attesa della popolazione futura che non per
il numero effettivo degli abitanti di allora” (1,8,4).
51
de rep. 2,7
52
Romolo, 14 ss.,
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 45
Livio elabora un antefatto della vicenda (9,2-5), che non si trova in nessuna delle
fonti parallele, evidentemente allo scopo di far apparire meno gravi, se non proprio di
giustificarli, l’inganno e la violenza cui i Romani ricorsero. Romolo infatti manda
ambasciatori a chiedere ai popoli vicini di concedere ai Romani il diritto di conubium, e
solo dopo aver ricevuto da tutti un rifiuto, e da molti anche un oltraggio, decide il ricorso
alla violenza. La vis annunciata, e attesa dal lettore, è alquanto rimandata, per
accrescere la tensione; viene infatti descritta, assai più ampiamente del ratto vero e
proprio, la preparazione della festa, organizzata appositamente (ex industria) per attirare
nell’agguato i popoli vicini. Il racconto procede poi lentamente, con la registrazione del
successo del piano: gli ospiti arrivano numerosi, sono accolti amichevolmente e condotti
in giro a visitare la città, ammirati e stupiti (9,6-9).
Quando finalmente giunge il momento tanto atteso dal lettore, tutto si compie in
fretta, con ordine, quasi come un’azione militare, registrata con una sola frase (9,10). La
tensione si allenta subito, nella descrizione dell’ordinata distribuzione delle rapite (9,11):
non sono registrati strilli, né confusione, né, soprattutto, risse fra i rapitori; l’ultimo
accenno (le più belle sono destinate ai primi della città) fa capire che tutto era stato
perfettamente organizzato in anticipo. Segue infine una notazione erudita, di carattere
eziologico, sull’origine dell’Invocazione a Talassio, tradizionale nelle cerimonie nuziali
(9,12); essa ha anche una importante funzione all’interno del racconto, in quanto la
menzione della nuptialis vox fa comprendere che tutta l’impresa non è una brutale
aggressione, ma prelude a nozze regolari.
L’attenzione del narratore si sposta quindi (9, 13-16) sulla parte offesa, soprattutto
sulle donne. Il discorso di Romolo (in o.o.) conclude la prima fase dell’episodio, che si era
anch’essa aperta con un discorso (anche questo in o.o.), quello dei legati ai popoli vicini.
L’unità tematica di questa prima fase, la cui scena è costantemente in Roma, è
sottolineata dalla ripresa, nelle parole di Romolo, del motivo iniziale del rifiuto del
conubium.
Seconda fase. Il tempio di Giove Feretrio. (1,10-11,4). L’unità della sezione
anche in questo caso è sottolineata dal fatto che il narratore la racchiude fra due
menzioni dei parentes raptarum, all’inizio irati e indignati, e alla fine riconciliati con
Roma al punto di trasferirsi addirittura in quella città cui in passato avevano rifiutato
societas e conubium. La scena è per lo più fuori Roma, salvo che per la cerimonia della
dedica delle spoglie opime, il vero centro di interesse di questa fase della vicenda. In
contrasto con la prima sezione (e soprattutto con l’ultima), questa è caratterizzata da
53 Ant. Rom. 2,30,1
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 46
estrema concisione: essa è una sorta di pausa, prima della guerra con i Sabini, con la
sua inattesa conclusione. La coalizione dei popoli offesi attorno al re dei Sabini Tito Tazio
si scioglie ancor prima che un’azione comune possa essere progettata e adeguatamente
preparata, e ciascuno dei popoli attacca Roma da solo, in momenti successivi. Si
presentavano dunque allo storico quattro distinte campagne militari: egli sceglie di
concentrarsi su una soltanto di esse, naturalmente quella contro i Sabini. Delle altre tre
offre un resoconto molto stringato.
I più impazienti di vendicare l’offesa sono i Ceninesi. La guerra contro di loro è la
prima impresa bellica in cui è impegnata la nuova città, che era, come lo storico ha
asserito (1,9,1), cuilibet finitimarum civitatium bello par, e l’esito vittorioso lo dimostra. Lo
scontro non è affatto memorabile (leve certamen), salvo che per l’uccisione da parte di
Romolo del re dei nemici. E’ proprio questa circostanza che offre al re l’occasione per
immortalare l’evento, con la solenne istituzione della cerimonia dell’offerta delle spoglie
opime e la promessa del tempio; e allo storico di inserire la sua notazione eziologica ed
erudita. Questa ha anche la funzione narrativa di interporre una pausa dopo la prima
guerra vittoriosa della storia di Roma, che per quanto insignificante andava solennizzata
in qualche modo. I medesimi “fatti” (guerra contro Cenina e offerta delle spoglie) sono
elaborati in modo molto diverso da Properzio, nella sezione iniziale dell’elegia eziologica
sul tempio di Giove Feretrio54. In essa il poeta presenta compiutamente il re nemico,
Acrone discendente di Ercole, lo descrive mentre assale minaccioso le porte di Roma, e
accenna anche al duello da cui Romolo uscì vittorioso. Livio invece insiste sulla facilità
della vittoria, e del re ucciso non dice neppure il nome. Ogni particolare superfluo viene
eliminato: centro di interesse non è l’ucciso, ma l’uccisore, e la tradizione da lui
inaugurata; per questo, pur in un resoconto molto conciso, l’uccisione del re è
menzionata due volte (regem obtruncat; duce hostium occiso 55 ): occorreva mettere in
rilievo la qualifica dell’ucciso, non chi egli fosse. In tal modo risulta chiaro che spolia
opima sono soltanto quelle offerte dal condottiero dotato di imperium supremo che abbia
54
4,10,5-18: Imbuis exemplum primae tu, Romule, palmae / huius, et exuvio plenus ab hoste redis,
/ tempore quo portas Caeninum Acrona petentem / victor in eversum cuspide fundis equum. / Acron
Herculeus Caenina ductor ab arce, / Roma, tuis quondam finibus horror erat. / Hic spolia ex umeris
ausus sperare Quirini / ipse dedit, sed non sanguine sicca suo. / Hunc videt ante cavas librantem
spicula turres / Romulus et votis occupat ante ratis: / 'Iuppiter, haec hodie tibi victima corruet
Acron.' / Voverat, et spolium corruit ille Iovi., “Tu per primo, Romolo, inauguri l’esempio di questo
trofeo, e torni carico di spoglie dal nemico, al tempo in cui con la tua lancia vittorioso abbatti sul
cavallo riverso il ceninese Acrone che assale le porte. Acrone, condottiero discendente da Ercole,
dalla rocca di Cenina minacciava un tempo, o Roma, i tuoi territori. Egli, che aveva osato sperare
le spoglie tolte dagli omeri di Quirino, le offrì egli stesso, ma bagnate del suo sangue. Romolo lo
vede scagliare dardi davanti alle cave torri, e lo previene formulando un voto, che fu esaudito:
‘Giove, per te oggi cadrà questa vittima, Acrone’. Così aveva promesso, e quello cadde, spoglia per
Giove”.
55
Al tempo di Romolo la medesima persona assomma in sé la carica politica più alta (rex) e il
supremo comando militare (dux).
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 47
ucciso in battaglia il suo pari grado dell’esercito nemico. Questo è ribadito nella solenne,
orgogliosa formula della dedica di Romolo: victor Romulus rex regia arma fero... regibus
ducibusque hostium caesis.
Le altre due campagne, contro Antemnati (11,1-2) e Crustumini (11, 3) si svolgono
nel medesimo modo, e vengono registrate con concisione crescente. Lo svolgimento della
guerra contro gli Antemnati è analogo a quello della guerra contro i Ceninesi: attacco del
nemico, reazione di Romolo, vittoria e conquista della città. Qui però sono omessi
inseguimento e fuga del nemico sconfitto. Alla digressione su Giove Feretrio corrisponde,
in certo modo, la pausa costituita dall’intercessione di Ersilia, la moglie di Romolo, a
favore degli sconfitti, che prefigura già (come il discorso di Romolo alle ragazze rapite) lo
scioglimento finale della guerra contro i Sabini, ed è riferito, come le imprese militari, con
stile assai conciso: due participi congiunti (ovantem e fatigata) delineano brevemente le
condizioni che preparano e favoriscono la richiesta; i due congiuntivi introdotti da ut (det
e accipiat) ne espongono il contenuto; non manca (in stile indiretto) anche una succinta
valutazione politica sull’utilità di accogliere la richiesta, che ben si adatta alla moglie del
re.
Per la terza guerra, contro i Crustumini, Livio non dice neppure se vi sia stata una
vera e propria battaglia, o se la città si sia subito arresa. Invece di ripetere per la terza
volta la medesima successione di azioni, lo storico registra il comune risultato di
entrambe le vittorie (utroque coloniae missae, 11, 4).
Terza fase. La guerra contro i Sabini (1, 11,5-13). Dopo aver con estrema
facilità vinto tre guerre, Roma può senza disonore apparire in difficoltà: il nemico in
questo caso si è preparato seriamente e in segreto alla guerra, e riesce a cogliere di
sorpresa i Romani.
A questo punto del racconto Livio introduce la nota leggenda di Tarpea (11,6-7).
La vicenda non viene rielaborata come nel caso del ratto: questo mito, di cui esistevano
diverse varianti, è esposto con tono distaccato e un poco scettico, da erudito più che da
narratore. Non vi è tensione drammatica, il racconto è quanto mai scarno e scolorito, e
gli elementi più pittoreschi, che facevano parte tradizionalmente della versione scelta da
Livio, non vengono sfruttati per costruire il racconto, ma sono relegati nel commento
erudito finale.
La leggenda era nata evidentemente per spiegare l’origine del nome del Tarpeius
mons, la rupe Tarpea, una roccia sul colle del Campidoglio, dalla quale venivano nei
tempi antichi precipitati i traditori della patria: questo fece nascere la leggenda di un eroe
eponimo, Tarpea appunto. Di questo mito erano note al tempo di Livio almeno tre
versioni:
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 48
a) Tarpea tradisce per avidità, per brama dell’oro da lei chiesto ai Sabini o promesso da
loro; i nemici stessi la puniscono uccidendola. Questa era probabilmente la versione più
antica, e certo la più diffusa; si trovava già in Fabio Pittore e Cincio Alimento 56, ed è
quella accolta da Livio stesso.
b) Tarpea tradisce per amore: è la versione famosa di Properzio (4,4), la più originale 57.
Livio non mostra di conoscere questa versione, che adatta alla leggenda romana un
motivo frequente nei racconti ellenistici.
c) Una versione patriottica era stata elaborata dall’annalista Pisone, ed è menzionata
anche da Livio: Tarpea non intendeva tradire, finse solo di volersi accordare con i nemici;
chiedendo loro le armi come ricompensa del suo (finto) tradimento intendeva in realtà
consegnarli disarmati ai Romani. L’inganno però non riesce, e Tarpea viene uccisa.
Questa versione forse nacque, più che per motivi patriottici, per una esigenza di
razionalizzazione: poiché la tomba di Tarpea era oggetto di culto, evidentemente essa non
poteva essersi resa colpevole di tradimento.
Sono evidenti la semplicità e la concisione del racconto di Livio, concentrato sul
dolus: lo storico di proposito elimina, nel racconto principale, l’elemento fondamentale
dell’ambiguità della richiesta di Tarpea, sulla quale era costruita la versione più nota del
mito: Tarpea non chiese l’oro né chiese gli scudi, ma “ciò che portavano nella mano
sinistra”, e i Sabini non la ingannarono. Rinunciando a questo elemento, Livio
razionalizza e banalizza il racconto: lo confermano le due spiegazioni proposte del
comportamento dei soldati sabini, che invece di compensare Tarpea la uccidono (o per
dar l’impressione di aver conquistato la rocca, o per rivolgere un avvertimento
minaccioso a tutti i possibili traditori).
Anche i particolari relativi al personaggio di Tarpea sono lasciati ai margini: ciò
che a Livio importa sottolineare è che fu un dolus a consegnare la rocca ai Sabini. Il dato
tradizionale (e anacronistico) secondo cui Tarpea era una Vestale, è implicito nel termine
virgo e nell’accenno ai sacra, ma per la storia del tradimento è superfluo. L’espressione
forte ierat (si noti soprattutto l’uso del piuccheperfetto) permette allo scrittore di non
soffermarsi su particolari di minor conto anteriori al fatto centrale su cui è concentrata
l’attenzione (il dolus), relegando in un momento precedente le circostanze che lo hanno
determinato. Il lettore poteva legittimamente chiedersi come Tazio si fosse potuto
accordare con Tarpea, che viveva dentro la rocca, all’interno delle mura: la frase
aquam...petitum ierat fornisce, in forma quasi parentetica, la necessaria spiegazione; il
racconto principale riprende subito, con la medesima parola con cui si era interrotto:
56
Come attesta Dionigi di Alicarnasso, Ant. rom 1,38
57
Non inventata probabilmente da Properzio, giacché era narrata già da un certo Similo,
menzionato da Plutarco, Romolo, 18.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 49
accipiat ... accepti. Omessi tutti i particolari relativi all’accordo, dopo la parentesi il
tradimento è già consumato, e la traditrice punita. Con additur fabula inizia il commento
di carattere erudito; solo qui, a racconto principale già concluso, sono infine forniti i
particolari relativi al patto e all’oro; e poi è aggiunta ancora l’altra versione.
Con le parole tenuere tamen arcem Sabini riprende il racconto storico: tamen lascia
implicito un enunciato di questo genere: benché la storia del tradimento di Tarpea non
sia certa, né tramandata in modo concorde58, è certo però che i Sabini occuparono la
rocca del Campidoglio. Di qui Livio si impegna nella prima descrizione particolareggiata
di una battaglia, che occupa per intero il capitolo 12.
Esso si apre con un ampio periodo (12,1) che fornisce il quadro del luogo in cui lo
scontro avverrà (la pianura fra i colli Palatino e Capitolino), descrive la rispettiva
posizione dei due eserciti (in cima al pendio i Sabini, nella pianura i Romani), i
sentimenti che animano i Romani (ira e cupiditas reciperandae arcis), e infine il primo
movimento dei due schieramenti, che si corrono incontro (in discesa i Sabini, in salita i
Romani, dunque in situazione di svantaggio). Anche il secondo paragrafo abbraccia ad
un tempo entrambi gli schieramenti. Poi la descrizione si suddivide, e tratta
separatamente prima le azioni dei Romani (12,3-7) e poi quelle dei Sabini (12,8), con un
ritorno, segnalato dall’uso dei piuccheperfetti decucurrerat, egerat, al momento iniziale
dello scontro: l’azione dei Sabini viene seguita fino al momento in cui Romolo e Mezio si
trovano l’uno di fronte all’altro, accanto alla porta del Palatino; di qui inizia la ripresa dei
Romani59, introdotta e propiziata dalla preghiera di Romolo.
La preghiera vera e propria è costituita dai tre imperativi arce, deme, siste. Ma
prima di rivolgere la supplica a Giove, Romolo riassume la situazione, per mettere, se
così si può dire, rispettosamente il dio davanti alle sue responsabilità: tu hai voluto che
io fondassi questa città; ora vedi quale pericolo essa corre; dunque salvala. I diversi
momenti di questo accorato ragionamento sono scanditi – con lo stile tipico, per l’impiego
dell’anafora, delle preghiere – dalla ripetizione dell’avv. di luogo: hic...huc...hinc...hic. Altri
elementi che conferiscono solennità alla preghiera sono individuabili nell’uso del verbo
58 Di questa cautela sull’incertezza della tradizione, implicita in tamen, Livio non tiene più conto
nel seguito del racconto, quando fa dire a Romolo, nella sua preghiera a Giove: arcem scelere
emptam Sabini habent, 1,12,4.
59 Curiosamente pare che non sia il re a guidare fin dall’inizio l’esercito romano, ma il valoroso
Osto Ostilio, che però esce subito di scena. Il personaggio fu probabilmente inventato dalla
tradizione annalistica per fornire al terzo re di Roma un antenato prestigioso (cf. Livio 1,22,1: ...
Tullum Hostilium, nepotem Hostilii, cuius in infima arce clara pugna adversus Sabinos fuerat, regem
populus iussit.). Dopo la sua prova di valore Osto Ostilio lascia infatti opportunamente il posto a
Romolo. Dalla parte dei Sabini invece il comandante è dall’inizio alla fine Mezio Curzio; il re Tito
Tazio (figura molto evanescente) non compare mai nella battaglia; soltanto a conflitto felicemente
concluso Livio lo nomina (13,8); anche il regno in comune con Romolo dura poco: il re Tito Tazio
viene ucciso, per un colpa commessa da lui solo, dalla folla inferocita di Lavinio. L’incidente non
ha conseguenze per Roma; Romolo non si affligge troppo per l’accaduto, e torna a regnare da solo
(1,14,1-3).
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 50
arceo, termine tecnico del linguaggio sacrale 60, il chiasmo in deme terrorem ...fugamque
foedam (con allitterazione) siste; l’aggettivo praesens (praesenti ope), che riferito ad una
divinità o al suo aiuto indica un intervento sia pronto sia efficace.
Come per il tempio di Giove Feretrio, insieme alla promessa Romolo assegna un
epiteto al dio connesso con la competenza che gli viene assegnata: stator, sostantivo che
mostra la medesima radice di sisto. Il commento di Livio (la comparativa ipotetica veluti
si sensisset) è un po’ scettico; ma l’effetto psicologico delle parole di Romolo sui soldati è
reale: lo storico lo sottolinea con la ripresa del medesimo verbo: resistere ...iubet.
Restitere
Terminata la descrizione della battaglia dal punto di vista romano
(disorientamento, fuga, rapida ripresa), il narratore, come si è detto, fa un passo indietro,
e torna a descriverla dal punto di vista dei Sabini. Le parole attribuite a Mezio
corrispondono alla preghiera di Romolo, e nel medesimo tempo creano con essa un
contrasto: troppo presto il condottiero sabino crede di avere ormai vinto, e usa un
linguaggio tracotante. Da notare la paronomasia hospites-hostes; il parallelismo nella
prima parte del periodo (agg. sost., con gli aggettivi che sono in contrasto con i sostantivi)
e il chiasmo nella seconda (oggetto verbo – verbo complemento). Proprio da questo
momento invece i Sabini vengono respinti.
La descrizione della battaglia si chiude, provvisoriamente, con la “peripezia” di
Mezio: trascinato dal cavallo nella palude – incidente che distoglie i suoi dal
combattimento61 – sembra perduto, e la situazione si fa disperata per i Sabini; ma il
generale riesce a salvarsi, e il combattimento riprende: sed res Romana erat superior.
L’imperfetto erat indica che il combattimento è ben lontano dall’essere concluso, quando
si verifica l’evento inatteso.
Questo è naturalmente l’improvviso e imprevisto irrompere delle donne sabine
nella battaglia. Con indubbia efficacia drammatica, questa “peripezia” è collocata nel
momento in cui il combattimento è ripreso con nuovo vigore, e in condizioni quasi di
parità: entrambi gli eserciti sono ora nella pianura; l’esito finale dello scontro è ancora
incerto, anche se Livio non rinuncia a dare ai Romani un lieve vantaggio. Le donne
intervengono ora per imporre la pace, non per chiedere clemenza per i vinti, come Ersilia
in 11,2.
60
Propriamente impiegato per indicare la necessaria esclusione dei profani da un luogo consacrato,
o in cui si sta celebrando un rito.
61
Va rilevato che il piuccheperfetto averterat non è impiegato per riportare la descrizione ad un
momento precedente (come invece decucurrerat ed egerat a 12,8), ma ha valore aspettuale (azione
conchiusa): indica cioè la rapidità del processo verbale, presentandolo come già compiuto. Mezio
cade nella palude, ed ecco che i suoi (prima quelli che gli stanno intorno, e poi tutti gli altri) sono
già distolti dal combattere, e seguono con trepidazione, e con le manifestazioni tipiche (gesti, grida,
favor) degli spettatori ai giochi del circo, il suo tentativo di uscire dalla palude.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 51
L’episodio conclusivo è messo in scena da Livio con mezzi stilistici adeguati al
rilievo che intende conferirgli. L’intera descrizione dell’intervento delle Sabine è racchiusa
in un unico periodo di notevole ampiezza, privo di pause marcate, retto da un unico
verbo principale ripetuto 62 , l’infinito storico dirimere...dirimere, posposto a numerosi
elementi subordinati. Il narratore apre il periodo con la presentazione del soggettoprotagonista
(con la funzione quasi di un titolo), Sabinae mulieres, e ritarda il predicato,
un espediente dei più comuni, mirante ad accrescere la tensione nel lettore, che fino a
dirimere non sa ancora a che cosa miri o che cosa ottenga il comportamento insolito e
temerario delle Sabine. Gli elementi interposti sono:
a) la relativa quarum ex iniuria bellum ortum erat, che in tono pacato e oggettivo richiama
l’origine della guerra; questo stesso fatto (l’iniuria patita) nel brano in discorso diretto
diventa un patetico atto d’accusa delle donne contro se stesse (nos causa belli)
b) la descrizione del loro aspetto, crinibus passis scissaque veste. Non si tratta di un
elemento puramente esornativo, esso al contrario mette in rilievo un ben determinato
stato d’animo; i capelli sciolti sono infatti un segno esteriore di agitazione e di dolore, e in
particolare denotano un atteggiamento di supplica 63 ; le vesti strappate sono la
manifestazione del lutto. L’uno e l’altro inoltre sono atteggiamenti tipicamente femminili.
c) l’abl. ass. victo pavore. Con il termine pavor, più descrittivo di timor, in quanto indica
propriamente il tremare, la manifestazione esteriore e visibile della paura, l’autore non si
riferisce alla paura della battaglia in corso, ma ad una caratteristica propria dell’essere
femminile, la cui indole è naturalmente paurosa.
d) il part. congiunto ausae: accostato direttamente a pavore per accentuare il contrasto,
ne dipende l’infinitiva se inferre, locuzione tipicamente militare, che, insieme alla
sequenza di ritmo epico īntēr tēlă vǒlāntĭă, mette in rilievo quanto sia inconsueto e
stupefacente il comportamento di queste donne.
e) l’abl. ass. impetu facto (altra espressione del lessico militare): completa la descrizione,
indicando il modo in cui le donne improvvisamente entrano nel campo di battaglia.
La principale ripetuta dirimere presenta, per la prima volta dall’inizio dell’episodio
della battaglia fra Romani e Sabini, l’infinito storico (o descrittivo o narrativo64). In latino
esso è frequentemente impiegato per introdurre un elemento nuovo, violento o inatteso
nella rappresentazione di un fatto, e conferisce alla descrizione un carattere di vivacità,
62
Il periodo ammette due interpretazioni sintattiche (v. note alla traduzione): qui si considera solo
quella che pare più probabile.
63
V. per es. Virgilio, Aen. 1,479-480: Interea ad templum non aequae Palladis ibant / crinibus
Iliades passis peplumque ferebant ; v. anche 2,404.
64
Si tratta di un uso latino originale, che non ha equivalenti in greco; sfruttando il valore
nominale dell’infinito, esso presenta il processo verbale in sé, come pura durata, prescindendo da
ogni altra determinazione grammaticale (tempo, modo, persona). Si presta particolarmente ad
essere usato in serie.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 52
immediatezza, drammaticità maggiori di quelli espressi dal perfetto, o anche
dall’imperfetto o dal presente storico. A dirimere è legato il part. orantes, da cui
dipendono le due completive ne...respergerent e ne...macularent che espongono il
contenuto della preghiera, e le conseguenze che la guerra avrà per i contendenti e i loro
discendenti comuni. Alle donne stesse è riservata in questa sezione solo una menzione
indiretta, anche se molto commossa e patetica, nelle parole partus suos. Le conseguenze
della guerra in relazione alle donne chiudono invece la sezione in discorso diretto (viduae
aut orbae). L’argomento su cui si fonda la preghiera è la parentela ormai instauratasi tra
i due popoli, tra i quali dunque la guerra è sacrilega. Il parricidium evocato dalle donne è
propriamente l’uccisione di un parente prossimo, soprattutto di un consanguineo: fra
coloro che si combattono non esiste nessun legame di sangue, ma il termine viene
impiegato perché qui si fa riferimento ai discendenti, consanguinei degli uni e degli altri.
Senza alcun verbo introduttivo – procedimento spesso impiegato da Livio per
segnare il culmine emotivo di un episodio – si passa infine ad una breve sezione in
discorso diretto, cui è affidata la mozione degli affetti: dichiarandosi disposte a subire
esse sole, le uniche in realtà non colpevoli di nulla, tutte le conseguenze della guerra, le
donne fanno appello all’affetto che lega a loro sia i padri sia i mariti. Non vi è più alcuna
menzione dei figli, e l’attenzione è concentrata di nuovo, come all’inizio dell’episodio, sulle
Sabinae mulieres.
Un procedimento stilistico evidente infine, impiegato con insistenza in tutto il
brano, è l’anafora: dirimere...dirimere; hinc...hinc (con il valore di hinc...illinc); ne...ne;
si...si; nos...nos.
Molto efficace – e caro a Livio, che lo impiega molto spesso per sottolineare il
culmine drammatico di un episodio – è il silenzio che segue alla preghiera, e crea un
momento di sospensione e pausa prima della felice conclusione della vicenda.
Gli effetti pratici e politici della pace ottenuta dalle donne sono esposti in uno stile
conciso, con frasi brevi e scarne, che contrastano notevolmente con l’impegno stilistico
profuso dal narratore nei paragrafi precedenti.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 53
MARCO FURIO CAMILLO
Il personaggio di Camillo è la figura di maggior spicco nella prima decade: Livio lo
caratterizza in primo luogo come estremamente rispettoso degli dèi, e delle
manifestazioni (presagi, prodigi) della loro volontà (diligentissimus religionum cultor è
definito in 5,50,1); egli è, soprattutto, il fatalis dux ad excidium illius urbis servandaeque
patriae (5,19,2), predestinato a distruggere la città nemica di Veio e a salvare la patria:
l’allusione rinvia, in particolar modo, alla vittoria sui Galli, e alla ferma opposizione, alla
fine vincente, ai progetti di abbandonare Roma, incendiata e distrutta dai Galli, per
trasferire tutta la popolazione in massa a Veio; ma anche alle molte altre vittorie contro i
nemici di Roma, narrate nel libro VI. Come generale, Camillo ha tutte le doti necessarie:
ripristina con severità la disciplina militare fra i soldati impegnati nell’assedio di Veio; è
dotato di prudentia (ratio, consilium), di fides65, di fortuna. Ma ha anche dei nemici, nei
tribuni della plebe, che sobillano sia il popolo sia i soldati contro di lui. Dopo la
conquista di Veio, e del suo immenso bottino, è costretto ad andare in esilio, con l’accusa,
o il pretesto, di una ingiusta suddivisione della preda catturata a Veio. Così lo storico
commenta il suo forzato allontanamento da Roma: Expulso cive quo manente, si quicquam
humanorum certi est, capi Roma non potuerat, adventante fatali urbi clade legati ab
Clusinis veniunt auxilium adversus Gallos petentes (5,33,1), “dopo che da Roma era stato
scacciato il cittadino presente il quale, se c’è qualcosa di certo nelle cose umane, Roma
non avrebbe potuto essere conquistata, mentre la rovina decretata dal fato si stava
avvicinando alla città, giunsero da Chiusi ambasciatori a chiedere aiuto contro i Galli”.
Segue il racconto della colpa dei legati romani66, e dei molteplici errori che condurranno
alla sconfitta dell’Allia e alla conquista di Roma da parte dei Galli. Camillo si trova in
esilio ad Ardea, e quando una schiera di Galli attacca la città, gli Ardeati si affidano a
Camillo, che ottiene uno splendido successo. I Romani intanto, a Veio, si organizzano per
riconquistare la loro città, e decidono di richiamare da Ardea Camillo, perché quello era il
capo che mancava loro, il solo in grado di guidare le forze raccolte contro i Galli.
Nominato dittatore in assenza, Camillo viene condotto a Veio, organizza le truppe, cui si
aggiungono reparti di Ardeati, e accorre a salvare i Romani dall’indegno riscatto che
stavano trattando con i Galli. Sconfitti e messi in fuga i nemici, Camillo salva una
seconda volta la città, impedendo che venga abbandonata: Livio elabora per il suo
personaggio un ampio, appassionato discorso (5,51-54) contro l’empio progetto. La città
viene ricostruita in pochissimo tempo.
65
Esemplarmente illustrata nell’episodio del maestro di Faleri, in 5,27 (v. testi)
66
V. sopra, pp. 17-18
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 54
Assedio e resa di Faleri (5,26,9-27)
Gli episodi proposti dal libro V 67 hanno entrambi come protagonista il personaggio di
Camillo. Il primo (conquista di Faleri) si colloca poco dopo l’espugnazione di Veio, e la
capitolazione, senza combattimenti, di Capena. Nel 394 Camillo viene eletto tribunus
militum consulari potestate, grazie all’appoggio dei patrizi, che vedono in lui, non a torto,
un oppositore deciso e sicuro alle iniziative dei tribuni della plebe. Ufficialmente però a
Camillo viene affidata la guerra contro Faleri, e in attesa che egli parta per questa guerra
i tribuni della plebe rimangono tranquilli.
Dopo aver ricacciato i Falisci che hanno attaccato l’accampamento romano,
Camillo cinge d’assedio la città, un assedio che si prospetta lungo e difficile, come Livio
ha cura di illustrare. Il raccontino sul maestro traditore, narrato da molti altri autori
antichi, è un exemplum, che illustra il comportamento corretto in guerra, quello che –
nella visione idealizzata di Livio – è proprio in generale dei Romani. L’episodio ha il
medesimo significato di quello, altrettanto o forse più famoso, del console Fabrizio e del
medico di Pirro, che certamente anche Livio narrava, nella prima decade (perduta) della
sua opera. Il valore esemplare della vicenda viene indicato esplicitamente dallo storico
nella parte conclusiva del cap. 5,26 (§§ 9-10), che funge da introduzione al racconto.
Questo, che occupa l’intero cap. 27, come per lo più avviene in Livio, non è interrotto né
disturbato da commenti del narratore, che lascia che siano i personaggi ad illustrare – in
modo assai chiaro ed esauriente – la morale dell’episodio. Lo scrittore anticipa, in queste
frasi introduttive, l’esito della vicenda (la rapida vittoria del generale romano), ma il modo
in cui egli giunse a tale felice conclusione si rivela solo nel corso del racconto.
L’introduzione dello storico accenna solo, in termini generali, alla virtus rebus bellicis
cognita di Camillo: si tratta, certo non a caso, di una indicazione un poco fuorviante per
il lettore, che certo si attende una impresa militare straordinaria, come quella che portò
alla conquista di Veio, ma molto più rapida di quella. Il racconto che segue invece illustra
un aspetto nuovo e ancora inedito della virtus di Camillo, la lealtà nella condotta di
guerra.
La storia si apre con l’antefatto, una spiegazione necessaria per la piena
comprensione del successivo svolgimento della vicenda; l’esposizione comprende brevi
brani in discorso indiretto (l’indegna proposta del maestro) e in discorso diretto (la
risposta di Camillo e le parole degli ambasciatori di Faleri al senato romano). Con il
67 Il quinto libro contiene la narrazione degli anni 403-390: la guerra contro Veio, iniziata nel 405,
si conclude, dopo dieci anni di assedio, nel 395, grazie al dittatore Marco Furio Camillo, che la
espugna operibus, non vi (5,22,8): Livio si riferisce con queste parole alla galleria (cuniculus) che
Camillo fa scavare in segreto, e permette ai soldati di sbucare direttamente sulla rocca della città,
mentre gli assedianti la attaccano da ogni parte.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 55
discorso degli ambasciatori in senato (§14) l’episodio è concluso. L’ultimo paragrafo
registra rapidamente, in stile semplice e conciso, le conseguenze pratiche della resa di
Faleri.
L’intero episodio è certamente leggendario: in realtà i rapporti fra Roma e Faleri
non furono in seguito così armoniosi e pacifici come indurrebbe a credere la storiella, e in
particolare la solenne dichiarazione finale degli ambasciatori. I fatti successivi, registrati
da Livio stesso, dimostrano che probabilmente sia i Falisci ebbero a lamentarsi del
dominio romano sia i Romani della lealtà dei Falisci. O piuttosto, ottenuta la vittoria in
quell’occasione grazie al comportamento corretto e leale di Camillo, i Romani non
imposero il loro dominio alla città di Faleri, che non rinunciò alla sua autonomia: il solo
risultato pratico sarà stato verosimilmente il pagamento di una indennità di guerra (cui
Livio allude brevemente nella conclusione del capitolo). Non solo infatti, pochi anni dopo
questo episodio, nel 357, Roma è di nuovo in guerra con i Falisci, ma ancora nel 293, un
secolo più tardi, i Falisci sono schierati al fianco degli Etruschi contro Roma: fatti riferiti
da Livio stesso (in 7,16-22 e 10,45s.): la città poté ancora opporre le sue armi a Roma, e
ciò smentisce la notizia della sua sottomissione definitiva.
Il contrasto, che Livio non spiega, dipende dalla difficoltà per lo storico di
concepire un tipo di guerra diverso da quello ormai consueto per Roma da alcuni secoli
quando Livio scrive: la guerra di conquista, che ha come scopo l’annessione del territorio
del vinto, l’annullamento della sua individualità e indipendenza, attraverso l’imposizione
delle leggi del vincitore, e di un tributo stabile.
Nei secoli più antichi le guerre dovevano essere semplici scorrerie, scontri con
popoli confinanti di portata assai limitata, nel tempo, nello spazio e negli scopi. Si
trattava ad esempio di decidere con le armi il diritto di accesso a fonti o a pascoli, o di
recuperare il maltolto (greggi o raccolti razziati): questi conflitti non mettevano in
discussione né l’esistenza delle comunità coinvolte né la loro indipendenza. Nell’età regia
e nei primi due secoli almeno della repubblica la guerra era una sorta di competizione tra
pari, che obbediva a regole precise, non imposte unilateralmente da Roma, ma accettate
e condivise da popoli partecipi della medesima cultura religiosa e politica (Latini, Sabini,
Sanniti, Falisci ecc.). In quest’epoca il bellum iustum et pium era considerato quello
indetto e dichiarato secondo il cerimoniale dei Feziali, solo dopo che il nemico avesse
opposto un rifiuto alla legittima richiesta di soddisfazione, e dopo che l’assemblea
popolare avesse votato per la guerra. Questa procedura rituale e piuttosto complessa è
descritta da Livio in 1,32, e fu mantenuta in vigore, in modo simbolico, per un certo
tempo, anche dopo che natura e scopi della guerra erano profondamente mutati. A
partire dalla fine del IV secolo, con la dissoluzione della lega latina, a poco a poco la
guerra diventa per Roma il mezzo per espandersi territorialmente, assoggettando
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 56
politicamente i popoli vinti. Parallelamente si elaborano giustificazioni teoriche (sostenute
anche da dottrine filosofiche greche) per dimostrare il diritto di Roma di imporre le sue
leggi al mondo intero: accanto alla guerra difensiva e preventiva, per respingere attacchi
e scongiurare pericoli, sono considerate giuste la guerra pro sociis e quella de imperio (per
difendere gli alleati e per affermare e conservare la supremazia raggiunta). Soprattutto
per legittimare quest’ultimo tipo di guerra si ricorre all’esaltazione dei numerosi benefici
di cui godono i popoli sottomessi all’imperium di Roma (civiltà, benessere, pace, giustizia
ecc.), un imperium che va considerato, secondo la nota formulazione ciceroniana, non
dominio ma “protettorato del mondo” (patrocinium orbis terrae, de off. 2,27) 68.
Camillo e i Galli (5,47-49)
Il personaggio di Camillo riconferma le sue doti, già ampiamente dimostrate nelle
imprese precedenti, con il suo intervento in extremis nella vicenda forse più famosa della
storia romana arcaica. Vicenda che Livio elabora accuratamente, inserendovi anche
leggende, motivi offerti dalla tradizione, notazioni erudite, in un tutto unitario e
altamente drammatico.
Mentre Camillo è in esilio ad Ardea, maestior fortuna publica quam sua (5,43,7),
pochi superstiti della sconfitta dell’Allia tornano a Roma, la maggior parte si dirige a Veio.
Comprendendo che la città non può essere difesa con forze così scarse, si decide che gli
uomini validi si ritirino in Campidoglio con le scorte di viveri disponibili, che le Vestali e
gli oggetti sacri siano messi in salvo fuori di Roma, e che si abbandonino al loro destino,
con il loro consenso e anzi il loro incoraggiamento, i vecchi, che si votano alla morte, con
la cerimonia della devotio, per la salvezza della patria. I Galli entrano nella città quasi
deserta, uccidono i vecchi, saccheggiano e danno alle fiamme le case. Dopo un tentativo
fallito di conquistare con un assalto la rocca, i Galli suddividono le loro forze: una parte
inizia l’assedio del Campidoglio, l’altra è inviata a fare razzie nei campi. Contro questa
parte dell’esercito nemico Camillo ottiene uno splendido successo.
I Romani che si erano rifugiati a Veio capiscono che occorre affidarsi di nuovo a
Camillo; dopo una non facile consultazione del senato (che si trovava a Roma sul
Campidoglio), Camillo viene nominato dittatore in absentia.
A Roma intanto prosegue l’assedio. La prima “peripezia” è quella famosa che vede
protagonisti a pari merito Marco Manlio (detto poi Capitolino) e le oche sacre. Il tentativo
dei Galli di cogliere di sorpresa gli assediati, scalando di notte la rocca, fallisce: le oche
danno l’allarme, i Romani reagiscono spronati da Manlio, la rocca è salva. (5,47) Ma la
fame alla fine sta per sconfiggere i valorosi difensori della rocca, anche se sembra che
68 Si veda, per una trattazione un poco più ampia di questo tema, la scheda La guerra giusta e
l’imperialismo romano, in Garbarino, pp. 276-277.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 57
siano i Galli a patire i disagi peggiori (5,48,2-3). Si stabilisce una tregua, ma senza
risultati: i Galli non se ne vanno e i Romani non si arrendono. In questo intervallo è
collocata la notizia, tipica dei racconti di assedio, del pane gettato dalle mura per far
credere agli assedianti che gli assediati hanno viveri per resistere ancora a lungo. La
seconda “peripezia”, famosissima questa, conduce i Romani alla resa e quasi all’onta del
riscatto: conferisce drammaticità al racconto la contemporaneità degli alacri preparativi
di Camillo e della perdita di forze e di speranza degli assediati (con la nota patetica dei
soldati che quasi stramazzano per la debolezza sotto il peso delle armi), e, soprattutto,
l’arrivo di Camillo all’ultimo momento utile per capovolgere la situazione. Il tono dello
scrittore si fa a questo punto commosso, enfatico e solenne: “a mille libbre d’oro fu
fissato il prezzo del popolo che presto doveva dominare tutto il mondo” (5,48,8); e ancora:
“Ma dèi e uomini impedirono che i Romani vivessero da riscattati” (5,49,1). L’intervento
divino si scorge nella tempestività dell’arrivo di Camillo (forte quadam...dictator intervenit);
gli uomini fanno il resto, infliggendo due sconfitte in rapida successione ai Galli.
Il personaggio di Camillo in questo episodio è veramente il fatalis dux cui sono
legate le sorti di Roma; ma è anche il nemico corretto e leale che già i lettori conoscono
dall’episodio del maestro di Faleri. Invece infatti di assalire senz’altro i Galli intenti a
pesare l’oro e a litigare con il tribuno Sulpicio, si sofferma a spiegare perché il patto non
è valido: “Per un caso fortunato, prima che lo scellerato pagamento si concludesse, non
essendo stato ancora pesato tutto l’oro per via del litigio, sopraggiunge il dittatore e
ordina che l’oro sia tolto di mezzo e i Galli si allontanino”. Un atteggiamento deciso, un
secco ordine (iubet) rivolto a Romani e Galli senza distinzione, ma nessuna aggressione.
Anzi, Camillo si preoccupa di illustrare la situazione ai nemici: “Poichè quelli,
protestando, dicevano di aver fatto un patto, dichiara che quel patto non è valido, perché
è stato stipulato dopo la sua nomina a dittatore, senza suo ordine, da un magistrato di
grado inferiore”. Ragionamento perfettamente valido: il dittatore è dotato di imperium
superiore a quello di ogni altro magistrato, dunque ogni decisione presa iniussu suo è
nulla. Solo dopo aver spiegato ai Galli il suo diritto di riprendere le ostilità, si predispone
alla battaglia. Anche questo con ordine e con rispetto delle regole; infatti “intima ai Galli
di prepararsi alla battaglia”, dà cioè modo al nemico di armarsi e provvedere allo
schieramento delle truppe. Quindi prepara anche i suoi, non senza una breve allocuzione
per richiamarli al comportamento che solo si addice ai Romani, e per infondere loro
coraggio: “Ordina ai suoi di radunare in un mucchio i bagagli e di preparare le armi, e di
riconquistare la patria con il ferro e non con l’oro, avendo davanti agli occhi i templi degli
dèi, le spose, i figli e il suolo della patria sfigurato dai mali della guerra e tutto ciò che è
sacro dovere difendere, riconquistare e vendicare” (da notare la climax). Quindi lo
schieramento delle truppe: “Schiera quindi l’esercito, come lo consentiva la natura del
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 58
luogo, sul terreno della città semidistrutta, naturalmente accidentato, e provvide a tutto
ciò che, grazie alla sua perizia bellica, si poteva scegliere e preparare a favore dei suoi”.
Molto più breve di tutti i preamboli è lo svolgimento dello scontro: “I Galli, agitati per quel
fatto inatteso, afferrano le armi e si gettano sui Romani con ira più che con ponderazione.
Già la fortuna era mutata, già l’aiuto divino e le decisioni umane favorivano la parte
romana. E dunque al primo assalto i Galli furono sbaragliati, con la medesima facilità
con cui all’Allia avevano vinto”. La menzione della precedente vittoria dei Galli non ha
solo la funzione di illustrare la facilità con cui i Romani ebbero la meglio, mira
soprattutto a mostrare che l’onta di quella battaglia è stata riscattata. Segue un secondo
combattimento “più regolare”, sotto la guida e gli auspici di Camillo, che si conclude con
una strage completa, tanto che non resta nemmeno chi possa portare agli altri Galli la
notizia della sconfitta.
Un ultimo particolare completa il ritratto di Camillo: conclusa nel migliore dei
modi (con il trionfo in cui gli fu assegnato dai soldati l’appellativo onorifico di parens
patriae, e anche di Romolo e di secondo fondatore) l’impresa per la quale era stato
nominato dittatore, avrebbe dovuto secondo le leggi romane deporre la carica. Se non lo
fece, si preoccupa di rilevare lo storico, fu per le insistenti preghiere del senato: c’è
ancora bisogno di lui, per sventare il pericolo che i cittadini abbandonino Roma. E anche
in questo nuovo, difficile incarico, Camillo ottiene il successo.
NOVA AC NIMIS CALLIDA SAPIENTIA (42,47)
Con il procedere della storia di Roma, i metodi della guerra cambiano. Livio lo
rileva in un passo molto significativo di uno degli ultimi libri conservati, che si presta
anche ad essere accostato a quello in cui è descritta la riscossa vittoriosa di Camillo
contro i Galli; è evidente che lo storico non ignora che questo mutamento era stato
inevitabile, e tuttavia non rinuncia a manifestare, nel modo indiretto che gli è più
consueto, il proprio giudizio, e anche una evidente nostalgia per un’epoca in cui vigevano
i valori e le virtù che avevano reso grande Roma.
I Romani (siamo nel 171 a.C., alla vigilia della guerra contro Perseo di Macedonia)
hanno già collocato in Grecia e in Epiro presidi e reparti armati, ma con Perseo ancora
non c’è guerra aperta. Mentre avvengono scambi inconcludenti di ambascerie, sia i
Romani sia Perseo si preparano in realtà alla guerra. I Romani però non sono ancora
pronti; gli inviati Marcio e Atilio fanno credere a Perseo che Roma sia disposta alla pace e
al rinnovo dell’alleanza, e ottengono da lui una tregua ufficiale, per poter tornare a Roma
in sicurezza. Giunti a Roma riferiscono il risultato della loro missione. Livio presenta
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 59
l’episodio con queste parole: “ Giunti a Roma, Marcio e Atilio riferirono in Campidoglio
della loro missione: di nulla si vantarono più che di essere riusciti ad ingannare il re,
ottenendone una tregua e facendogli balenare la speranza della pace” (42,47,1).
Il primo risultato di cui gli inviati menano vanto è costituito dalle indutiae; come
spiegano più chiaramente nel discorso che segue, si tratta di un rinvio dell’inizio della
guerra di vitale importanza per Roma, non di una vera tregua, come il re ha creduto. E
questo è il primo inganno. Il secondo consiste nell’esser riusciti a convincere il re
dell’autentica intenzione di Roma di mantenere o ristabilire con Perseo rapporti di pace.
In forma di discorso indiretto i due inviati illustrano le ragioni per cui ritengono di
aver compiuto una missione importante e utile per Roma (42,47,2-3), che in realtà non
aveva mai avuto intenzione di ristabilire con Perseo rapporti di pace: durante le false
indutiae pattuite con Perseo i Romani potranno prepararsi alla guerra; inoltre, l’aver
gettato la discordia fra i membri della lega beotica ha tolto al nemico molti potenziali
alleati. All’approvazione per l’operato dei legati espressa dalla maggioranza dei senatori si
contrappone il biasimo espresso dai pochi moris antiqui memores. Le loro considerazioni,
esposte anch’esse in forma di discorso indiretto, illustrano compiutamente le Romanae
artes nella condotta di guerra, che si possono compendiare nella regola della guerra
dichiarata e lealmente combattuta in campo aperto, e nel rifiuto di ogni stratagemma,
astuzia, inganno. Non mancano, nel discorso dei seniores, la contrapposizione dei
Romani con popoli, i Punici e i Greci, tradizionalmente considerati infidi e sleali, né gli
esempi classici della fides propria dei maiores (la denuncia del medico di Pirro, la
consegna del maestro di Faleri). A conclusione del discorso dei seniores c’è la
considerazione più significativa, quella che spesso accompagna, di solito espressa dai
personaggi, episodi edificanti di questo genere: la lealtà in guerra ottiene anche risultati
concreti vantaggiosi per chi vi si attiene.
Nel racconto di Livio non sempre in realtà i maiores si comportano come sembrano
credere questi senatori69; ma Camillo incarna perfettamente70 questo tipo di Romano
antico. Nel brano conclusivo del passo dedicato alla sua rivincita contro i Galli egli, come
si è visto, si preoccupa di spiegare la piena legittimità della ripresa delle ostilità (questo
equivale a indicere prius quam gerere bellum), e addirittura di denuntiare pugnam
(denuntiatque Gallis ut se ad proelium expediant, 5,49,2)
69 Ad esempio già un romano antichissimo, il re Tullo Ostilio, era ricorso all’astuzia e all’inganno
per dar inizio alla guerra con Alba, come lo storico narra in 1,22.
70 O quasi: Veio infatti, dopo il decennale assedio, era stata conquistata operibus...non vi.
Nell’epitafio che lo storico dedica alla città si può scorgere forse un accenno di biasimo per il
mezzo (il cuniculus) cui Camillo ricorse: Hic Veiorum occasus fuit, urbis opulentissimae Etrusci
nominis, magnitudinem suam vel ultima clade indicantis, quod decem aestates hiemesque continuas
circumsessa, cum plus aliquanto cladium intulisset quam accepisset, postremo, iam fato quoque
urgentce, operibus tamen, non vi expugnata est (5,22,8).
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 60
Alle parole dei senatori nostalgici del mos maiorum in guerra Livio fa seguire il suo
commento, realistico e un po’ sconsolato: vicit tamen ea pars senatus cui potior utilis
quam honesti cura erat (42,47,9), e pertanto non solo il comportamento sleale del
rappresentante di Roma invece che sanzionato viene approvato, ma gli viene confermata
piena fiducia, per proseguire la sua precedente missione guidato dalla nova sapientia di
cui aveva dato prova.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 61
DUELLI
Al motivo del duello fra campioni delle due parti in lotta Livio ricorre, nei libri
rimasti, sei volte 71: si tratta di un elemento atto a variare e soprattutto ad arricchire
drammaticamente il resoconto di una guerra o di una campagna militare. Non si tratta
naturalmente di episodi inventati da Livio: egli li trae certamente dalle sue fonti,
arricchendoli però, probabilmente, di un significato più vasto, come si può constatare in
un caso, per il quale disponiamo della fonte impiegata dallo storico.
Il duello più antico e più famoso è quello fra gli Orazi e i Curiazi: nec ferme res
antiqua alia est nobilior (1,24,1), dichiara Livio apprestandosi a descriverlo. In questo
caso il duello è molto importante perché, per concorde decisione del capo albano, che
avanza la proposta, e del re Tullo Ostilio, che la accetta, si decide di affidare al duello fra
i campioni (tre per parte, un elemento che distingue questo da tutti gli altri duelli) la
decisione sull’esito della guerra, per stabilire utri utris imperent: il popolo i cui campioni
si dimostreranno più valorosi acquisirà il diritto di dominare sull’altro, perché i campioni
sono l’espressione delle virtù guerresche dell’intero popolo. La situazione richiama, ma
solo superficialmente ed esteriormente, il famoso duello epico fra Paride e Menelao
nell’Iliade, cui si vorrebbe affidare la definitiva soluzione della guerra; ma i combattenti
in Omero sono gli eroi direttamente interessati alla contesa, non i rappresentanti dei due
popoli. In entrambi i casi lo scopo del duello non viene raggiunto, e la guerra riprende.
Nessuno degli altri duelli descritti da Livio è preceduto, come nel caso degli Orazi e
dei Curiazi, da un accordo preventivo ufficiale; ma lo storico li arricchisce di un analogo
valore simbolico, poiché i combattenti incarnano le qualità (e i difetti) dei rispettivi popoli.
Tutti gli episodi di questo tipo hanno caratteristiche ricorrenti, anche se ciascuno ha
naturalmente uno svolgimento suo proprio. Il primo elemento che li accomuna tutti è,
abbastanza prevedibilmente, la vittoria del campione romano; il secondo il fatto che la
sfida è sempre lanciata dal nemico (salvo ovviamente che nel primo duello); il terzo è
71 E cioè: 1,24-25 (Orazi e Curiazi); 7,9,8-10 (Tito Manlio Torquato e un Gallo); 7,26,1-10 (Marco
Valerio Corvo e un Gallo); 8,7 (Tito Manlio il Giovane e Gèmino Mecio, comandante dei cavalieri di
Tuscolo, sconfitto e ucciso); 23,46,12-47 (Claudio Asello e Cerrino Vibellio Taurea, cavaliere
campano); 25,18 (Tito Quinzio Crispino e Badio, cavaliere campano). Questo elenco comprende
soltanto i combattimenti extra ordinem, cioè quelli in cui due guerrieri si affrontano dopo un
accordo preventivo – sempre, tranne che nel caso degli Orazi e Curiazi, la sfida lanciata da uno e
accolta dall’altro - , in una pausa delle ostilità, e senza che altri intervengano; non gli scontri
singoli nel corso di una battagliia, che sono più numerosi, ma hanno caratteristiche diverse (per
es. 2,6 Arrunte e Bruto; 2,19-20 vari scontri singoli; 4,19 Cornelio Cosso e Tolumnio re dei Veienti;
5,36 l’ambasciatore Quinto Fabio e il comandante dei Galli; 9,22 il magister equitum Aulio
Cerretano e il generale dei Sanniti; 22,6 il cavaliere insubro Ducario e il console Flaminio, batt.
del Trasimeno; ecc.). A tutti i combattimenti singoli è dedicato il libro di J.FRIES, Der Zweikampf.
Historische und literarische Aspekte seiner Darstellung, Hain, 1985, che contiene molte
interessanti considerazioni, ma non distingue sufficientemente i “duelli” dagli scontri fra due
guerrieri nel corso di una mischia.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 62
costituito dal comportamento disciplinato del guerriero romano, che chiede al suo
comandante il permesso di accogliere la sfida, salvo che in un solo caso (8,7). Questo
episodio però rende ancora più evidente il valore assoluto della disciplina, ribadito dalla
sua terribile conclusione: il guerriero romano vittorioso è condannato a morte, benché il
comandante, il Manlio Torquato vincitore del Gallo, sia suo padre. Infine, il campione
romano è sempre individuato con precisione, con l’indicazione del suo nome, e in qualche
caso con il richiamo a vicende precedenti ricordate dallo storico; dell’avversario invece
non sempre è ricordato il nome: più precisamente, lo sfidante non ha nome nei due casi
in cui si tratta di un Gallo, sufficientemente caratterizzato dall’etnico (i barbari sono
evidentemente considerati una massa indistinta di individui tutti uguali). Anche la
conclusione dei singoli duelli è diversa: fatta eccezione per l’impresa di Manlio il giovane,
che si distingue da tutte le altre anche per il comportamento indisciplinato del guerriero
romano, negli altri casi il duello si conclude con l’uccisione dello sfidante solo quando
questi è un barbaro72. Il duello di Tito Manlio Torquato contro un Gallo (7,9 – 11,1)
Del primo duello fra un Romano, Tito Manlio, e un guerriero gallo, abbiamo grazie
a Gellio anche la versione dell’annalista Claudio Quadrigario, che fu certamente la fonte
di Livio per questo episodio.
In 9,13, 1-7 Gellio scrive:
Tito Manlio discendeva da famiglia ragguardevolissima e fu un nobile fra i primi. A questo Manlio fu dato il
soprannome di Torquato. La ragione di questo soprannome, come abbiamo appreso, fu la spoglia
consistente in una collana d’oro, che egli tolse al nemico che aveva ucciso e indossò. Ma chi fosse questo
nemico, di che razza, e quanto gigantesca e temibile la sua corporatura, e quanto insolente la sua sfida, e
come si svolse il combattimento, tutto questo è stato narrato da Quinto Claudio nel primo libro dei suoi
annali, in uno stile sommamente puro e splendido, con la dolcezza semplice e disadorna dell’eloquio antico.
Ho trascritto qui le parole con cui Quinto Claudio descrisse codesto duello.
L’ultima frase assicura che il brano citato è la trascrizione letterale del testo di
Quadrigario. Che proprio questo sia la fonte di Livio si può considerare certo, anche se lo
storico non lo indica esplicitamente, cosa che del resto di norma non fa, se non quando
vuole rilevare una discordanza tra più fonti, o aggiungere una versione diversa da quella
accolta come principale73. Dimostra la dipendenza di Livio da Quadrigario la coincidenza
dei due testi su alcuni particolari (le armi del soldato romano, il gesto di scherno del
Gallo), oltre che lo svolgimento complessivo del duello. Il confronto dei due testi permette
di constatare alcune modifiche significative introdotte da Livio nel racconto della fonte.
72 Mentre i due Galli si battono, e trovano con onore la morte nel duello, i due Campani, tracotanti
a parole, nel combattimento si rivelano vili e si salvano con la fuga.
73 Il capitolo in realtà registra, nei paragrafi iniziali, un disaccordo tra le fonti, che non riguarda
però l’episodio del duello, ma la ragione per cui in quell’anno (363) fu nominato un dittatore.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 63
In primo luogo, Livio elimina l’interruzione inverosimile di una battaglia in corso
da parte dello sfidante, scegliendo invece per il duello un momento di pausa nei frequenti
scontri fra Galli e Romani per impadronirsi del ponte 74. Trasforma poi in discorso diretto
l’enunciazione della sfida e, soprattutto, ne muta sensibilmente il tenore: il Gallo di
Quadrigario invita al duello uno dei nemici, uno qualsiasi (si quis vellet); quello di Livio
invece vuole misurarsi con il guerriero più forte, e dichiara che l’esito del duello mostrerà
il valore dell’intero popolo cui il combattente appartiene. In entrambi gli storici nessuno
dei Romani accoglie subito la sfida. Ma i due testi solo apparentemente si corrispondono:
mentre nell’autore più antico i Romani semplicemente e comprensibilmente hanno paura
(per la corporatura gigantesca e l’aspetto feroce del barbaro), in Livio essi probabilmente
valutano in silenzio la terribile responsabilità che chi accetterà di misurarsi con il Gallo
si deve assumere (dimostrare quanto valga tutto il suo popolo). È questo il periculum che
ognuno esita ad affrontare, non il rischio di perdere la vita. Ma infine Tito Manlio decide
di affrontare la prova. Il personaggio è già noto al lettore, e lo storico lo rileva con le
parole “...figlio di Lucio, quello che aveva riscattato suo padre dalla persecuzione di un
tribuno75” (7,10,1). Del solenne, cerimonioso scambio di battute in discorso diretto fra
Tito Manlio e il dittatore (7,10,2-3) non c’è traccia in Quadrigario: sono una inserzione di
Livio, che tiene molto, come si è detto, a sottolineare la disciplina dei soldati romani. Per
contro, al posto del gesto di scherno del Gallo, che, quando nessuno si fa avanti, tira
fuori la lingua, in Livio troviamo soltanto un laconico tum (tum Titus Manlius... 7,10,2).
Vinto il momento di esitazione che accomuna tutti, Manlio accetta la sfida: ma invece di
farsi avanti e iniziare senz’altro lo scontro, ne chiede licenza al comandante. Nelle parole
di Manlio c’è una presentazione del Gallo (aspetto selvaggio e tracotanza) negativa e
denigratoria, in accordo con quella fatta subito dopo direttamente dallo scrittore.
Le armi di cui i compagni dotano Manlio corrispondono esattamente a quelle
menzionate da Quadrigario. Livio non si cura di correggere, o non rileva, l’anacronismo
costituito dalla spada spagnola, che – almeno secondo Polibio (fr. 179) - entrò in uso
nell’esercito romano solo più tardi, durante la guerra annibalica; aggiunge invece la
piccola chiosa esplicativa ad propiorem habili pugnam, una spada da duello. Solo quando
il duello sta per iniziare Livio, ostentando il suo biasimo per chi ha ritenuto di dover
tramandare questo particolare sordido e futile, recupera il gesto di scherno del Gallo che
tira fuori la lingua. Ma trasferito a questo punto il gesto muta anche significato: non una
manifestazione di disprezzo per la paura che paralizza i Romani, nessuno dei quali osa
accogliere la sfida, ma un gesto immotivato e volgare, accostato alla stolida esultanza.
74
Lo indica il fatto che Livio fa avanzare il Gallo in vacuum pontem
75
Episodio narrato in 7,5
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 64
Le parole della fonte metu magno...utroque exercitu inspectante (Gellio 9,13,15)
vengono da Livio sviluppate, con l’assimilazione esplicita dei due eserciti che assistono al
duello agli spettatori di una gara; il metus degli uni e degli altri, accoppiato alla spes,
viene registrato solo più avanti, quando il duello sta per iniziare (§ 9 animis spe metuque
pendentibus). Mentre infatti la fonte registra soltanto il fronteggiarsi dei due avversari
nell’imminenza dello scontro - il Gallo avanza cantando, Manlio subito attacca -, Livio
interpone una pausa piuttosto lunga, che contribuisce a tener ben desta l’attenzione del
lettore, prima di far iniziare lo scontro, per mettere complessivamente a confronto i due
guerrieri.
In Quadrigario il Gallo, anonimo come in Livio, è compiutamente presentato fin
dall’inizio: abbigliamento, o meglio mancanza dello stesso, armi, ornamenti, aspetto, doti,
voce. In Livio invece la presentazione è graduale: la prima notazione è riservata alla
corporatura gigantesca, elemento sul quale torna più volte con insistenza, e alla voce
(7,9,8 eximia corporis magnitudine... quantum maxima voce potuit). Abbigliamento e armi
sono descritti solo nell’imminenza dello scontro, e sono funzionali alla contrapposizione
dei due contendenti. All’aspetto comune e per nulla appariscente della persona (di
statura assai inferiore a quella dell’avversario), delle armi, dell’atteggiamento del Romano
sono accostati l’aspetto sgargiante e l’atteggiamento baldanzoso del Gallo. A quest’ultimo
Livio si riferisce per via negativa, mettendo in rilievo ciò che il Romano non faceva: canto,
esultanza, agitar d’armi. Per contro, all’aspetto modesto del Romano si accompagnano
coraggio, ira e fierezza; il Gallo invece, così spaventoso a vedersi, darà nel combattimento
una prova mediocre. Anche la trasformazione dell’abbigliamento del Gallo ha la
medesima funzione: Livio riveste la semplice nudità del guerriero di Quadrigario di un
abito variopinto; lo scudo e le due spade, menzionati da Quadrigario senza qualificanti,
diventano in Livio genericamente “armi” 76, però preziose e dipinte. Collana e braccialetti
sono in questa descrizione del tutto omessi da Livio, che solo alla fine menziona la
collana, il trofeo strappato dal Romano al corpo del nemico ucciso.
In Quadrigario – altra differenza significativa – il Gallo non è solo gigantesco, ha
anche molte qualità, che Livio non menziona affatto: è dotato di vires, di adulescentia, di
virtus; insomma la caratterizzazione liviana del barbaro è esclusivamente negativa. Viene
anche omessa l’osservazione contenuta nelle parole della fonte sua disciplina (Gellio
9,13,16) riferite al canto: in tal modo esso diventa, da uso proprio del modo di
combattere dei Galli, solo una delle tante manifestazioni di sciocca esultanza .
Lo svolgimento del duello è riprodotto da Livio abbastanza fedelmente, salvo il
primo attacco, assegnato al Gallo, mentre in Quadrigario lo sfidante subisce solo colpi,
76
Il termine arma si riferisce soprattutto alle armi per la difesa: ed è probabile che sia proprio lo
scudo che Livio immagina decorato e dipinto.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 65
non ne assesta mai. In Livio il Gallo incombe con la sua mole sul Romano e sferra un
gran fendente sullo scudo di Manlio, ma senza conseguenze; Manlio colpisce una sola
volta (non due) lo scudo del Gallo, prima di insinuarsi fra lo scudo e il corpo del nemico e
infliggergli, come in Quadrigario, le due ferite mortali in rapida successione.
Però Livio, avendo tanto insistito sulla corporatura gigantesca del Gallo, sulla
sproporzione di statura fra i due combattenti, modifica sia il cozzo degli scudi, sia le parti
del corpo del nemico ferite dalla spada di Manlio: mentre Quadrigario dice semplicemente,
due volte, scuto scutum percussit, Livio precisa scuto scutum imum; e le ferite non sono al
petto e alla spalla destra, ma alle parti del corpo alla portata della sua modesta statura, e
colpite per di più tenendo la spada alzata in alto. Di sapore epico è l’immagine finale del
Gallo ucciso, il cui corpo disteso va ad occupare spatium ingens (del resto il lettore ha già
capito che il Gallo era gigantesco...).
Un ultimo particolare della fonte viene da Livio modificato, o meglio negato:
“Quindi, senza infierire in nessun modo sul corpo del nemico caduto, lo spogliò solo della
collana, che si mise al collo intrisa di sangue” (7,10,11).
Come si vede, il particolare della decapitazione del cadavere non è solo omesso, ma
esplicitamente escluso: forse Livio considerava il gesto barbarico, selvaggio e incivile.
Conserva però, un po’ incongruamente, essendo le ferite del suo Gallo ben lontane dal
petto e dal collo, la collana insanguinata (senza contare la difficoltà di sfilarla dal collo
del cadavere con la testa attaccata).
Molto importante, tipica di Livio, è la preoccupazione dello storico di non lasciare
che il duello appaia un isolato atto di valore, fine a se stesso, ma di raccordarlo al
contesto più ampio, mostrando che ebbe conseguenze positive sul prosieguo della guerra
(7,11,1)
Cenni ad altri duelli.
A poca distanza dalla descrizione dell’impresa di Tito Manlio Torquato, Livio
inserisce la narrazione di un secondo duello tra un Gallo e un Romano (7,26, anno 349
a.C.). In questo caso l’elemento di spicco dell’episodio è il verificarsi di un prodigio, dal
quale il combattente vittorioso trae il suo cognomen. L’episodio è narrato assai più
brevemente, ma la struttura fondamentale è la medesima. Un particolare interessante,
assente nel duello di Manlio, è la presenza di un interprete per lanciare la sfida: “dopo
aver imposto il silenzio percuotendo lo scudo con l’asta, sfida (sc. il Gallo) per mezzo di
un interprete uno dei Romani a misurarsi con lui” (7,26,1). Non ci sono scherni né frasi
offensive; il duello non assume in questo caso, almeno non in modo esplicito, quel valore
generale e altamente simbolico chiaro invece in 7,9-10. Da parte dei Romani non ci sono
esitazioni, e la sfida è raccolta immediatamente da Marco Valerio, impaziente di emulare
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 66
l’impresa di Torquato. Naturalmente il Romano si batte prius sciscitatus consulis
voluntatem; l’assenso del comandante questa volta è implicito. L’attenzione del narratore
in questo caso è concentrata soprattutto sull’elemento nuovo, presentato come
“l’interporsi della volontà divina”. Fin dall’inizio dello scontro infatti un corvo si posa
sull’elmo del Romano, e collabora con lui alla vittoria, colpendo più volte il nemico al
collo e al volto con il becco e con le unghie. Solo dopo che Valerio ha ucciso il Gallo il
corvo vola via, verso oriente, lasciando al guerriero il soprannome di Corvo. In questo
caso l’esito del duello viene interpretato come chiaro presagio della vittoria nella battaglia
che subito dopo viene ingaggiata.
Negli altri due duelli, che si svolgono entrambi nel corso della seconda guerra
punica, la caratterizzazione dell’avversario del Romano è diversa: non si tratta di un
barbaro, cioè di un nemico per natura e definizione, ma di un Campano, di un socius
divenuto hostis. Il dato è sfruttato da Livio per far scontrare, in entrambi i casi,
personaggi tra loro già reciprocamente noti. Nel primo duello (23,46-47) si tratta di ex
commilitoni, nel secondo (25,18) i due avversari sono legati addirittura da amicizia
personale. E’ evidente dunque che colui che lancia la sfida non può essere un anonimo
qualsiasi: è un ben preciso individuo, non un tipo. Entrambi i Campani tuttavia sono
dotati da Livio di una caratteristica presentata come propria in generale di tutto il loro
popolo, proprio come la prestanza fisica e la sciocca tracotanza sono i tratti tipici dei
Galli. Tale caratteristica è la superbia, un difetto del carattere che assume però anche
una chiara valenza politica. Dal punto di vista romano, superbi sono coloro che non
accettano di sottomettersi, che oppongono resistenza alla evidente superiorità, non solo
militare, dei Romani. I Campani ribelli, passati dalla parte di Annibale, sono certamente
superbi anche in questo senso. La vittoria del Romano e il comportamento vile del
Campano mostrano che schiacciare la superbia è possibile, giusto e doveroso.
Il duello fra il campano Taurea e il romano Asello (23,46-47) non avviene neppure:
dopo qualche schermaglia non dei guerrieri ma dei loro cavalli, il Campano ne ha
abbastanza, e fugge prima di essere costretto in un luogo delimitato, che renderebbe
inevitabile il combattimento corpo a corpo.
I protagonisti di 25,18, il campano Badio e il romano Crispino sono legati dal
sacro vincolo dell’ospitalità. Livio ha cura di connettere preventivamente il duello alla
narrazione principale: il lettore non deve pensare si tratti di un diversivo emozionante
offerto al suo diletto; l’episodio è al contrario la dimostrazione pratica che in guerra
anche fatti di poco conto possono rivestire grande importanza. I Romani hanno subìto un
rovescio, perdendo, senza quasi combattere, 1500 uomini. Il duello, esplicitamente
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 67
definito parva res, contribuì a restituire loro fiducia. Livio elabora con cura l’antefatto,
illustrando i precedenti rapporti intercorsi fra i due protagonisti: il Campano era stato
ospitato e curato, durante una malattia, a Roma, a casa del Romano. Proprio con lui ora
Badio vuole misurarsi in duello; non lancia la sfida ad un Romano qualsiasi, ma fa
chiamare precisamente Crispino. Questi rifiuta con orrore di scontrarsi con il suo antico
amico e ospite, e sopporta persino senza reagire i pesanti oltraggi verbali del Campano:
questo per un Romano è davvero molto, ma in Crispino prevale ora la virtù della pietas77. I compagni devono a lungo insistere perché Crispino, pubblicamente oltraggiato, accetti
la sfida. Dopo la solita cerimonia della richiesta, naturalmente accolta, al comandante
del permesso di combattere extra ordinem, il duello ha inizio. I due sono a cavallo: al
primo assalto Crispino ferisce Badio alla spalla e lo fa cadere, ma velocemente il
Campano si rialza, si sottrae al colpo di grazia e fugge, parma atque equo relicto. Nella
vergognosa fuga di Badio Livio si compiace di inserire un particolare di antica e nobile
tradizione letteraria, l’abbandono dello scudo 78 . La medesima disavventura era stata
narrata, con noncurante baldanza, già da Archiloco79 e da Alceo80, e con fine autoironia
(forse) da Orazio81. 77
Non, è importante sottolinearlo, il sentimento privato dell’affetto per l’amico di un tempo.
78
Lo scudo sarebbe naturalmente d’impaccio, impedendo una fuga veloce: abbandonare lo scudo
equivale dunque, tradizionalmente, al fuggire, sottraendosi al combattimento.
79
Fr. 6 Diehl “Del mio scudo mena vanto uno dei Sai, arma eccellente che abbandonai presso un
cespuglio, e non avrei voluto. Ma ho salvato la vita. Che mi importa di quello scudo? Vada in
malora: me ne comprerò un altro, non peggiore”.
80
Fr. 401 b Voigt “Alceo è salvo, ma il suo scudo appesero gli Attici nel tempio della Glaucopide”
81
Carm. 2,7,9-12: tecum Philippos et celerem fugam / sensi relicta non bene parmula, / cum fracta
virtus et minaces / turpe solum tetigere mento.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 68
L’ INIZIO DELLA TERZA DECADE
Livio dedica per intero dieci libri (21-30) alla seconda guerra punica, un tema
importante e unitario, la cui narrazione complessiva viene accuratamente organizzata. La
decade è spartita in due metà di eguale ampiezza, corrispondenti alle due fondamentali
fasi della guerra: i libri 21-25, dalla caduta di Sagunto all’assedio di Siracusa (219-212),
espongono successi e vittorie dei Cartaginesi; i libri 26-30, dalla conquista di Siracusa
alla battaglia c.d. di Zama (212-202), sono dedicati alla lenta ma sicura ripresa romana
fino alla vittoria finale. Naturalmente lo svolgimento della guerra fu proprio questo, e allo
storico basta esporre i fatti nella loro successione cronologica: la contrapposizione fra le
due metà della decade è certamente insita nei fatti stessi che in esse vengono narrati,
non dipende da una particolare abilità del narratore. In realtà tuttavia le cose non stanno
semplicemente così: il contrasto offerto dai fatti è accentuato e messo in rilievo, con
svariati mezzi, dallo storico. In primo luogo, la suddivisione scelta dall’autore, che riserva
5 libri ai successi di Annibale e 5 a quelli dei Romani, è cronologicamente asimmetrica,
poiché i primi cinque libri abbracciano sette anni e undici gli altri cinque. In secondo
luogo, la prima pentade è dominata dalla figura di Annibale e la seconda da quella di
Scipione (Africano). Ma soprattutto, l’intento di sottolineare queste bipartizione della
decade è rivelato da una serie di studiati parallelismi. Ciascuna delle due metà inizia con
la narrazione di un assedio, rispettivamente quello cartaginese di Sagunto (21,6-15) e
quello romano di Capua (26,4-14), che occupano uno spazio all’incirca eguale. L’assedio
di Capua segna, con la riconquista di una delle più importanti fra le città che erano
passate al nemico, l’inizio della ripresa romana. E ancora: ogni libro nella prima pentade
si apre con la descrizione delle attività dei Cartaginesi (quattro su cinque hanno
addirittura il nome di Annibale nelle prime righe 82 ); quasi tutti i libri della seconda
pentade riservano invece ai Romani la prima menzione 83. Difficilmente tutto ciò può
essere casuale. A volte poi è possibile che Livio abbia di proposito alterato un poco la
cronologia, per far meglio rientrare tutti i fatti della guerra in questa studiata e artificiosa
suddivisione della decade, che oppone i successi cartaginesi nella prima metà a quelli
romani nella seconda. Ad esempio, rispetto alla cronologia di Polibio, Livio anticipa di un
anno, ponendolo nel 212 invece che nel 211, l’evento sfortunato della morte dei due
82 21,1,1: ...bellum ...quod Hannibale duce Carthaginienses cum populo Romano gessere; 22,1,1:
Iam ver appetebat cum Hannibal ex hibernis movit; 23,1,1 Hannibal post Cannensem pugnam...;
25,1,1 Dum haec in Africa et in Hispania geruntur, Hannibal in agro Sallentino aestatem consumpsit.
Il libro 24 si apre anch’esso con le operazioni dei Cartaginesi, guidate da Annone: Ut ex Campania
in Bruttios reditum est, Hanno adiutoribus et ducibus Bruttiis Graecas urbes temptavit
83 26,1,1,: Cn. Fulvius Centumalus P. Sulpicius Galba consules...; 27,1,1: Hic status rerum in
Hispania erat. In Italia consul Marcellus...; 29,1,1: Scipio postquam in Siciliam venit; 30,1,1: Cn.
Servilius et C. Servilius consules... Il libro 28 si apre invece con l’illustrazione della situazione in
Spagna, e delle rispettive zone controllate in quel momento da Romani e Cartaginesi.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 69
Scipioni, padre e zio dell’Africano, in Spagna (25,34 e 36); e posticipa di un anno, al 211
invece che al 212, l’alleanza di Roma con gli Etòli (26,24), che bilancia quella di Annibale
con Filippo V (23,33).
Prefazione. Il giuramento di Annibale (21,1). Il rilievo che lo storico vuole
conferire alla figura di Annibale nella prima metà della terza decade è evidente fin dalla
prefazione. La frase con cui il libro 21 si apre, che annuncia il tema complessivo della
decade, si può considerare una sorta di titolo: in essa la menzione del condottiero
cartaginese (Hannibale duce) è anteposta a quella del popolo che fece guerra ai Romani.
Enunciato chiaramente il tema, lo storico elenca i motivi che fanno della guerra
annibalica un evento importante e memorabile. I quattro motivi indicati, ma soprattutto
l’ultimo, attengono all’aspetto propriamente narrativo della sezione che sta per iniziare.
L’andamento mutevole e l’esito inatteso di una guerra fra popoli non solo molto potenti,
ma entrambi all’apice della loro potenza, e già reciprocamente noti, prospetta un
racconto particolarmente avvincente e ricco di peripezie. La menzione dell’odio fra i due
popoli (§3) serve a creare il passaggio al racconto del giuramento di Annibale bambino
(§4): non un episodio curioso o pittoresco, ma un evento che segna per sempre il futuro
condottiero, e anche un mezzo che consente allo storico di porre immediatamente la
decade che inizia sotto il segno, per così dire, di Annibale, in accordo con le parole
Hannibale duce. Il protagonista cartaginese della guerra, e il principale protagonista del
racconto nei primi cinque libri, non può attendere, per entrare in scena, che lo storico
abbia terminato di riepilogare sommariamente i principali avvenimenti fra la fine della
prima guerra punica e i progetti di riscossa di Amilcare, e poi fra la morte di Amilcare e
la stabile assunzione del comando da parte di Annibale.
Formalmente la scena del giuramento è un’aggiunta, che mostra quanto antico
fosse l’odio concepito contro i Romani dal loro futuro nemico; l’espressione hostem fore
non vuol dire “che avrebbe nutrito sentimenti di ostilità” (cosa che Annibale potrebbe ben
fare subito), ma, all’incirca, “che avrebbe fatto guerra ai Romani”, come mostra la
precisazione cum primum posset. La scena del giuramento è presentata in dipendenza da
fama est, una di quelle formule cui Livio abitualmente ricorre o per introdurre leggende
di cui si sa bene che non sono vere alla lettera, o per riferire tradizioni delle quali come
storico non può rendersi garante, ma che ritiene comunque opportuno non passare sotto
silenzio.
Ma il giuramento di Annibale non è una leggenda, e neppure una tradizione di
origine dubbia; al contrario la fonte di questo racconto è quanto mai attendibile, dal
momento che si tratta di Annibale in persona. Molti anni più tardi, dopo esser stato
sconfitto da Scipione e cacciato dalla sua patria, Annibale trova ospitalità e rifugio presso
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 70
Antioco III il Grande, re di Siria, e mette a sua disposizione la sua grande esperienza
militare. Quando ingiustamente viene sospettato di segrete intese con i Romani, contro i
quali Antioco si stava preparando a fare la guerra, Annibale riconquista la piena fiducia
del re narrandogli del giuramento prestato da bambino. Il contenuto di quel giuramento
era stato diverso da quello riferito da Livio all’inizio della terza decade. Lo si apprende
dalle testimonianze concordi di Polibio, di Cornelio Nepote, e di Livio stesso, quando il
suo racconto giunge a quei fatti (35,19: v. testi).
Accingendosi a narrare dall’inizio la seconda guerra punica, Polibio anticipa il
colloquio di Annibale con Antioco, e scrive:
Al tempo in cui, sconfitto dai Romani e alla fine scacciato dalla patria, Annibale soggiornava presso
Antioco [...] gli ambasciatori romani, trattandolo con ogni riguardo, cercavano di renderlo sospetto al re. E
questo in effetti accadde. [...] Dopo aver fatto ricorso a svariati argomenti di difesa, alla fine Annibale, non
trovando più argomenti, fece al re questo racconto. Disse che quando suo padre, in procinto di partire per la
Spagna, stava sacrificando [...] lo prese per mano e gli ingiunse di giurare che non sarebbe mai stato amico
dei Romani (Polibio 3,11)
Anche Cornelio Nepote ricorda il colloquio con Antioco, e la rievocazione del
giuramento prestato da bambino, con cui Annibale si riconquistò la fiducia del re; anche
in Nepote la formula del giuramento è iurare iussit numquam me in amicitia cum Romanis
fore (Hann. 2,5).
Esisteva evidentemente una tradizione consolidata, che si faceva risalire ad
Annibale stesso, che sapeva che Annibale bambino aveva giurato “che non sarebbe mai
diventato amico dei Romani”; richiamare questo giuramento nel contesto del malinteso
con Antioco è opportuno, e appropriato alla situazione: Annibale è stato nemico dei
Romani, ma ora ha bisogno di convincere Antioco che lo sarà sempre.
Collocata invece molto prima che la guerra con i Romani effettivamente abbia
inizio, ad apertura della terza decade, quella promessa non sarebbe stata egualmente
efficace: un impegno troppo generico, e soprattutto troppo a lunga scadenza, se la
funzione di questo episodio è, come sembra evidente, quella di presentare subito il dux
che farà guerra ai Romani, quella guerra che Amilcare non ebbe tempo di iniziare, e che
la politica di Asdrubale, volta a mantenere la pace, sembrava rinviare indefinitamente.
Livio allora svincola l’episodio dalla testimonianza del protagonista Annibale (fama est), e
può quindi anche prendersi la libertà di modificare leggermente, ma in modo significativo,
il contenuto di quella promessa, in modo che si accordi meglio con l’impostazione
generale della prima metà della decade, e con l’argomento annunciato, una guerra di cui
Annibale fu il dux.
Presentato così il protagonista principale della sezione che sta iniziando, lo storico
recupera ed espone per sommi capi (21,1,5 – 3) le vicende cartaginesi del periodo, non
breve, che separa la conclusione della prima punica dall’inizio della seconda (241-218).
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 71
Non si tratta di una vera e propria esposizione narrativa, ma solo di una succinta
presentazione delle iniziative e delle attività cartaginesi, considerate come preparazione
(con Amilcare) o come rinvio (con Asdrubale) della ripresa delle ostilità con Roma. La
considerazione che conclude la sezione dedicata ad Amilcare (21,1,5 – 2,2), ...ut
appareret [...] si diutius vixisset, Hamilcare duce Poenos arma inlaturos fuisse quae
Hannibalis ductu intulerunt, non risponde tanto ad una esigenza di informazione – lo
storico ha appena detto che la guerra si svolse Hannibale duce – quanto al desiderio di
non relegare in secondo piano il protagonista cartaginese della guerra, nemmeno nel
periodo in cui egli non ha nessuna parte nei fatti che lo storico sta esponendo.
A differenza di Amilcare, Asdrubale non mostra alcuna fretta di iniziare la guerra
contro Roma: si impegna invece, con un’abile attività diplomatica, a consolidare il potere
cartaginese in Spagna; e stipula, o meglio rinnova, con Roma il famoso patto dell’Ebro,
che in seguito darà origine a discussioni sulla sua corretta interpretazione, e poi agli
incidenti che porteranno, dopo la caduta di Sagunto, alla guerra. Morto Asdrubale, viene
finalmente per Annibale il momento di assumere il comando: “Non vi furono dubbi su chi
dovesse prendere il posto di Asdrubale: alla scelta preliminare dei soldati [...] teneva
dietro anche il favore popolare” (21,3,1). Registrato così il passaggio dell’imperium
militare ad Annibale, lo storico dedica i due capitoli successivi all’esposizione di fatti
precedenti e non ancora trattati, posti fra la morte di Amilcare e quella di Asdrubale, cioè
i contrasti interni allo stato cartaginese, dove non tutti erano favorevoli alla politica di
espansione attuata e sostenuta dalla potente fazione dei Barca, e il tirocinio militare di
Annibale in Spagna. Si tratta di un tema accessorio rispetto a quello annunciato all’inizio
del libro, e per questo lo storico ne rinvia l’esposizione. Registrato e fissato il dato
essenziale, il passaggio ad Annibale del comando dell’esercito, lo storico fa un passo
indietro84, e spiega come Annibale fosse giunto ad esser scelto come generale alla morte
di Asdrubale. A conclusione di questa sezione è collocato il ritratto di Annibale (21,4).
Questa collocazione non è certo casuale: da un lato il ritratto si inserisce naturalmente in
quella sorta di breve digressione dal filo principale del racconto (passaggio del comando
militare da Amilcare ad Asdrubale e poi ad Annibale), che spiega come Annibale si fosse
conquistato il diritto di occupare il posto che era stato di suo padre85, dall’altro presenta
compiutamente, prima che la guerra inizi, il personaggio del dux con il quale i Romani
dovranno ben presto confrontarsi.
84 Segnalato dalle forme verbali al piuccheperfetto accersierat e acta fuerat (= acta erat) di 21,3,2.
85 Non per diritto ereditario, come sarcasticamente aveva insinuato Annone nel suo discorso in
senato, ma grazie alle eccellenti doti militari di cui dà prova nel tirocinio alle dipendenze di
Asdrubale.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 72
Con il cap. 21,5 riprende il racconto principale, e viene registrata la decisione di
far guerra ai Saguntini, presa da Annibale allo scopo di creare un incidente che provochi
la reazione romana: “Del resto, dal giorno in cui fu proclamato comandante, come se
l’Italia fosse la provincia che gli era stata assegnata, e la guerra contro Roma l’incarico di
cui era stato investito, ritenendo di non dover tardare, perché, mentre indugiava, un
qualche evento sfortunato non cogliesse anche lui, come suo padre Amilcare e poi
Asdrubale, decise di far guerra ai Saguntini” (21,5,1).
Si può dire che a questo punto il personaggio ha già onorato il giuramento fattogli
prestare dal padre (così come Livio lo ha trasformato): davvero “al più presto possibile”
Annibale sta iniziando la guerra contro Roma.
Ritratto di Annibale (21,4). Nel corso dell’opera Livio cura in svariati modi la
caratterizzazione dei viri sui quali, secondo la dichiarazione della prefazione (v. § 9 ...per
quos viros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium sit), desidera
che il lettore concentri la sua attenzione; non manca neppure quella, come nel caso di
Annibale, di alcuni insigni nemici di Roma. Molto frequente è il ritratto – epitafio: in
occasione della notizia della morte di un grande personaggio lo storico ne offre una
succinta biografia, in cui traccia un breve bilancio delle sue azioni più significative ed
esprime il proprio giudizio complessivo86, un congedo dal personaggio di cui, nel corso
della narrazione, è stato già offerto il ritratto indiretto, attraverso le sue azioni e, talvolta,
le sue parole. Meno frequenti sono i ritratti di tipo statico, quale, almeno in parte, quello
di Annibale87. 86 Qualche esempio. “In quel medesimo anno [203] morì Quinto Fabio Massimo in età assai
avanzata, se è vero che fu augure per 62 anni, come sostengono alcuni autori. Fu uomo certo
degno di un così grande cognomen, se pure non fu lui il primo a portarlo. Superò le cariche del
padre, eguagliò quelle degli antenati. Il suo avo Rullo ottenne più vittorie, e in battaglie più
importanti, ma il solo fatto di aver avuto come nemico Annibale può eguagliare ogni altra impresa.
Fu tuttavia ritenuto prudente più che deciso; e se può darsi che egli sia stato temporeggiatore più
per indole che non perché così richiedeva la guerra che allora si combatteva, è però certo che,
come dice Ennio, fu proprio lui l’uomo che temporeggiando salvò lo stato” (30,26,7-10). Il tono
generale, e alcuni temi – il confronto con gli antenati e l’affermazione che il defunto se ne mostrò
degno – ricordano gli elogi funebri. Altri epitafi sono meno convenzionali, ad es. quello famoso di
Cicerone, conservatoci da Seneca Padre, suas.22-24 (v. Garbarino p. 456).
87 Anche per Annibale naturalmente c’è quello che si è indicato come “ritratto indiretto”, la
costruzione graduale della figura del personaggio attraverso il suo agire, seguito dallo storico ben
oltre la conclusione della guerra contro Roma. Ad esempio il brano, citato qui sopra, dedicato al
colloquio con il re Antioco (35,19, v. testi) ne mette in luce il carattere fiero e schietto; drammatico
e commosso è il racconto della sua morte (39,51): tradito dal re di Bitinia Prusia, Annibale si
sottrae con il veleno ai soldati romani di Flaminino che circondano la sua dimora, pronunciando
queste nobili parole: “Liberiamo il popolo romano da una preoccupazione che dura da tanto tempo,
giacché ritengono troppo lungo attendere la morte di un vecchio. Non grande né memorabile sarà
la vittoria di Flaminino su un uomo inerme e tradito. Questo solo giorno basterà a provare quanto
siano mutati i costumi del popolo romano. Gli antenati di costoro misero in guardia contro il
veleno il re Pirro, un nemico armato, che era in Italia con l’esercito; questi hanno mandato un ex
console con l’incarico di indurre Prusia ad uccidere a tradimento un ospite” (39,51, 9-11). Il
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 73
Il suo infatti è, nel medesimo tempo, un ritratto statico, alla maniera sallustiana 88
(aspetto, carattere, vizi e virtù), svincolato cioè da qualsiasi contesto storicamente
determinato, e una descrizione, inserita invece in un momento storico preciso, del
tirocinio militare del giovane Annibale.
La notazione relativa ai veterani (§1), colpiti dalla somiglianza di Annibale con il
padre introduce un elemento di originalità nel ritratto fisico di tipo tradizionale: le
fattezze del personaggio sono presentate in modo indiretto, attraverso gli occhi dei
veteres milites, che immediatamente riconoscono in lui i tratti di Amilcare; solo il termine
liniamenta, che conclude l’elenco, si riferisce in realtà alle vere e proprie fattezze fisiche;
tutti gli altri (vigor, vis, habitus oris) rinviano piuttosto a qualità del carattere (energia,
vigore) che traspaiono dall’espressione complessiva del volto. In effetti, la somiglianza con
il padre non è limitata all’aspetto fisico; le doti che Annibale ben presto mostra di
possedere non deludono le aspettative suscitate dalla sua straordinaria somiglianza con
il padre. Si tratta di doti propriamente militari, che fanno sì che i soldati apprezzino
Annibale indipendentemente dall’immagine vivente del padre che scorgono in lui (§2).
Appropriata alla descrizione del tirocinio militare del giovane Annibale è la
menzione della sua attitudine tanto ad parendum quanto ad imperandum (§3), giacché
per la caratterizzazione di Annibale comandante supremo sarebbe fuor di luogo ricordare
la disposizione ad obbedire; e così l’accenno alle imprese a lui affidate (neque Hasdrubal
alium quemquam praeficere malle... §4) rinvia, anch’esso, a quel periodo. La frase è però
molto generica; l’ampliamento ottenuto con le iterazioni sinonimiche (fortiter ac strenue;
confidere aut audere) sembra miri a compensare, in certo modo, la mancanza di
riferimenti precisi a fatti specifici. Lo storico è interessato a presentare le doti del
personaggio, più che a ricordare qualche impresa da lui compiuta quando militava alle
dipendenze di Asdrubale; ed è probabile del resto che nelle sue fonti non trovasse alcuna
menzione di azioni militari degne di memoria. Sappiamo infatti 89 che il periodo di
comando supremo di Asdrubale era stato caratterizzato da pax, da azioni diplomatiche
volte ad allargare le alleanze cartaginesi con altri popoli. Soprattutto per questo
probabilmente l’illustrazione delle doti militari di Annibale, necessaria nel ritratto del
futuro grande generale, si mantiene piuttosto generica, e anche molto convenzionale.
Livio assegna infatti al suo giovane Annibale tutte le doti che secondo la tradizione
romana il buon soldato doveva possedere: dopo la disciplina, il coraggio, l’accortezza, gli
attribuisce anche resistenza fisica, temperanza, aspirazione a primeggiare nelle battaglie.
racconto della morte di Annibale è preceduto da un lusinghiero, brevissimo epitafio: morirono nel
medesimo anno (183) Scipione e Annibale, “i due più grandi generali dei due popoli più potenti”
(39,50,11).
88
Cat., 5 (Catilina); 25 (Sempronia); Iug., 63 (Mario); 95 (Silla).
89
V. 21,2,5-6.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 74
Subito dopo, con brusco contrasto, Annibale viene dotato anche di una nutrita
serie di vitia. Questi, assai più che le virtù, prescindono completamente dalla situazione
specifica in cui il ritratto di Annibale è inserito. Quelli che lo storico elenca sono infatti i
vitia del generale cartaginese nemico dei Romani, non quelli del giovane impegnato nel
tirocinio militare, non dotato di potere autonomo e difficilmente quindi in grado di venir
meno a patti o giuramenti, che non spettava certo a lui concludere o prestare. Si tratta di
un elenco molto scarno, anch’esso privo di esempi concreti, ma molto più schematico
della descrizione delle doti positive, non altrettanto statiche. Ponendo tuttavia a
conclusione del ritratto la serie dei vitia, certo lo scrittore mira a far sì che essi si
imprimano nella mente del lettore con forza particolare.
La maggior parte dei vitia di Annibale è presentata per via negativa, con l’anafora
di nihil e di nullus; egli è insomma la vivente negazione di tutte le più importanti virtù
romane. L’elenco è peraltro sia ridondante sia convenzionale: ridondante, perché la
perfidia (violazione della fides) comprende e implica quasi tutti i vizi introdotti in forma
negativa, precisando i campi in cui la perfidia può manifestarsi; convenzionale, perché
nel corso del racconto Annibale non appare particolarmente perfidus, empio o crudele.
Anzi, a volte lo storico registra comportamenti che smentiscono qualcuno di questi vitia.
In primo luogo, il rispetto per il giuramento fatto all’età di nove anni, che tanta
importanza riveste proprio nel racconto di Livio, mette evidentemente in dubbio il nullum
ius iurandum.
Smentisce poi il nullus deum metus, mostrando invece la pietas religiosa del
generale cartaginese, il viaggio che, prima di partire per l’Italia, egli compì a Cadice, per
sciogliere un voto fatto ad Ercole e invocarne la protezione per l’impresa che si accingeva
ad iniziare (21,21,9).
Quanto alla crudeltà e alla slealtà nella condotta di guerra, queste non appaiono
prerogative del solo Annibale, o dei soli Cartaginesi. Anche i Romani vi ricorrono spesso,
come lo storico onestamente riferisce. Per i Romani tuttavia tenta di elaborare
giustificazioni che invece per i Cartaginesi non cerca mai. Si è già ricordato90 il massacro
a tradimento dei cittadini inermi di Enna progettato ed eseguito dai Romani senza un
ripensamento (24,39), e la considerazione conclusiva dello storico: ita Henna aut malo aut
necessario facinore retenta (24,39,7). Questa non è una vera e propria giustificazione di
un atto che lo storico certo disapprova, ma le assomiglia molto. Un comportamento
analogo, anzi meno crudele, dei Cartaginesi è invece condannato senza esitazioni dallo
storico. Dopo la sconfitta del Trasimeno, seimila soldati romani scampati al massacro si
arrendono, dopo una fuga durata una intera notte, al generale cartaginese Maarbale,
90 V. p. 23.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 75
fidando nella sua promessa che, se avessero consegnato tutte le armi, li avrebbe lasciati
liberi. Annibale però non mantiene la promessa fatta dal suo luogotenente: “questa
parola – commenta lo storico – fu rispettata da Annibale con lo scrupolo proprio dei
Cartaginesi, e tutti furono fatti prigionieri” (22,6,12).
Il ritratto si conclude con una considerazione riassuntiva, che prepara e precede la
ripresa del racconto, chiudendo la breve digressione aperta al cap. 3: “Con questa indole
in cui si mescolavano virtù e vizi, prestò servizio per tre anni sotto il comando di
Asdrubale, senza trascurare niente di ciò che un uomo destinato a diventare un grande
generale doveva compiere e conoscere” (21,4,10).
Con 21, 5 riprende il filo principale del racconto, che ricorda ancora una volta la
successione Amilcare, Asdrubale, Annibale. Il giuramento e il ritratto preparano
efficacemente questo inizio della guerra: il lettore a questo punto conosce quel dux
annunciato fin dall’introduzione alla decade91. 91 Fra gli altri ritratti presenti nell’opera di Livio si propone alla lettura quello dedicato a Papirio
Cursore (9,16, v. testi). Mentre quello di Annibale ne precede l’effettiva comparsa in scena come
protagonista, quello di Papirio suggella la sua impresa più gloriosa, la vittoria sui Sanniti, che
riscatta l’onta delle Forche Caudine. A questo punto del racconto il lettore conosce già bene il
personaggio e alcune delle sue caratteristiche, richiamate nel ritratto da due piccoli aneddoti
caratterizzanti (cosa abbastanza inconsueta in Livio), entrambi arricchiti da una battuta in
discorso diretto. Livio rende a Papirio un onore grandissimo, affermando che era opinione comune
che egli sarebbe stato in grado di tener testa ad Alessandro Magno; con Alessandro Papirio
condivide una caratteristica certo biasimevole (la tendenza al bere), che Livio trasforma, senza
mettere le due figure direttamente a confronto, in un segno del suo straordinario vigore fisico:
fuisse ferunt cibi vinique eundem capacissimum. Come si è visto invece la frugalità nel mangiare e
nel bere è una delle virtù di Annibale.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 76
DISCORSO DI CATONE CONTRO L’ABROGAZIONE DELLA LEX OPPIA (34,1-4)
Il brano è un interessante esempio di discorso diretto, di genere deliberativo. Al
discorso di Catone è fatto seguire immediatamente quello di un avversario, secondo la
tecnica dei discorsi a coppie inaugurata da Tucidide, cui Livio ricorre abbastanza spesso.
Oltre che ad esporre, con maggiore o minore fedeltà, ciò che fu detto effettivamente, i
discorsi contrapposti adempiono alla funzione di illustrare con immediatezza, dando la
parola ai protagonisti stessi, la situazione e i termini del problema, accostando
direttamente i due diversi punti di vista.
Il libro 34 è dedicato ad un periodo di circa tre anni (195-193): il racconto relativo
all’anno 195 inizia già nel libro precedente; il primo fatto preso in considerazione nel
libro 34 è la proposta dell’abrogazione della lex Oppia. Le vicende militari riguardano tre
distinti teatri di guerra: la Spagna, dove il console Catone guida una spedizione vittoriosa
ma non risolutiva contro alcune popolazioni indigene che si erano ribellate; la Gallia,
dove viene inviato l’altro console, Valerio Flacco, contro i Galli Boi; e infine la Grecia,
dove Tito Quinzio Flaminino, dopo la vittoria su Filippo, affronta e sconfigge Nabide di
Sparta, con il quale Roma stipula un trattato di pace. Il libro si conclude con le prime
avvisaglie della guerra contro Antioco III , presso il quale ha trovato rifugio Annibale
esule dalla patria.
Lo spazio dedicato alla questione di politica interna costituita dalla proposta di
abrogazione della lex Oppia è considerevole (otto capitoli su 62 complessivi), forse
sproporzionato all’effettiva rilevanza dell’argomento, definito dallo storico stesso res parva.
Il primo capitolo illustra con chiarezza la questione: una legge suntuaria, proposta
e promulgata nel periodo più duro della guerra annibalica, imponeva restrizioni alle
donne nel vestiario, nei gioielli e nell’uso di carrozze; passato ormai da tempo quel
pericolo, tornate la prosperità e di pace, sembrava a molti che la legge potesse essere
cancellata. Si fecero promotori dell’abrogazione due tribuni della plebe; altri si opposero
alla proposta: gli oratori dell’una e dell’altra opinione si alternavano alla tribuna per
illustrare al popolo che avrebbe votato le ragioni a favore o contro la proposta. Livio
sceglie di riferire il discorso del più illustre degli oppositori della proposta, Catone, che
nel 195 era console; e poi quello di uno dei due tribuni proponenti, Lucio Valerio. Di
quest’ultimo il lettore non sa nulla se non ciò che si può trarre dal discorso che lo storico
gli attribuisce: le sue parole, in contrasto con il piglio battagliero di Catone, sono
ragionevoli e calme, a tratti anche finemente ironiche; la sua difesa delle donne è efficace,
ed è persuasiva la dimostrazione che l’abolizione di pochi e ormai assurdi divieti non
avrebbe certo messo a repentaglio né l’integrità dei costumi né la saldezza dello stato
romano.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 77
Di Catone invece sappiamo che fu oratore, e che nel corso della sua lunghissima
carriera politica pronunciò parecchi discorsi, di cui curò personalmente la pubblicazione,
e che al tempo di Livio si leggevano ancora in gran numero. Si potrebbe dunque pensare
che, a differenza del discorso del tribuno, quello attribuito a Catone sia la rielaborazione
del discorso effettivamente pronunciato in quell’occasione. Probabilmente non è così.
Livio ricorda altri discorsi pronunciati da Catone92, ma ne riferisce solo genericamente il
contenuto, senza trascriverli né riscriverli (con la motivazione che il discorso exstat93). Questo è il solo discorso diretto che il personaggio di Catone pronuncia nella sua opera94: probabilmente non ne esisteva più (o non era mai esistito) il testo originale. Questo non
significa che Livio abbia inventato l’intervento di Catone in difesa della legge:
probabilmente nelle sue fonti trovava la notizia del dibattito e della partecipazione ad
esso di Catone. Poiché, supponiamo, nella raccolta disponibile delle orazioni di Catone
quel discorso non c’era (nemmeno a noi sono giunti frammenti di un discorso pro lege
Oppia), Livio sfrutta l’occasione per assegnare un ampio discorso diretto al personaggio,
alla sua prima comparsa significativa nel racconto95. Le caratteristiche più note di Catone, inflessibile, autoritario, ostinatamente fedele
alle sue idee di uomo all’antica, di moralista severo e un po’ misogino, sono delineate
molto felicemente attraverso il discorso che lo storico ricostruisce per lui.
All’avversario Livio assegna un discorso in totale contrasto con quello di Catone,
non per gli argomenti (questo è ovvio), ma per il tono, garbato, ragionevole, conciliante
quanto invece è aggressivo, categorico e aspro quello di Catone: il suo accanimento
92
In 38,54,11 lo storico ricorda il discorso de pecunia regis Antiochi, pronunciato da Catone per
sollecitare l’apertura di un’inchiesta sulla questione del denaro di Antioco. Sconfitto nel 189 a
Magnesia sul Sipilo da Lucio Scipione, fratello dell’Africano che lo affiancava con il titolo di legatus,
Antioco aveva accettato la pace di Apamea (188). Si sospettava che il re avesse versato agli
Scipioni e ad altri personaggi politici romani ingenti somme di denaro per ottenere condizioni di
pace vantaggiose, o anche solo che una parte dell’indennità di guerra imposta ad Antioco non
fosse stata versata all’erario, ma trattenuta dagli Scipioni. In 39,42,5 lo storico menziona l’oratio
molto severa pronunciata da Catone nell’esercizio della sua censura (184) contro Lucio Quinzio
per espellerlo dal numero dei senatori durante la lectio senatus. Infine, in 45,25,2-4 si riferisce al
discorso pro Rhodiensibus pronunciato da Catone in senato contro la proposta di dichiarar guerra
ai Rodiesi sulla base del semplice sospetto che essi avessero avuto intenzione di aiutare Perseo in
guerra contro i Romani.
93
A proposito del discorso pro Rhodiensibus Livio si esprime così: Non inseram simulacrum viri
copiosi, quae dixerit referendo: ipsius oratio scripta exstat, Originum quinto libro inclusa (45,15,3),
“non introdurrò qui una pallida immagine di quell’uomo facondo riferendo ciò che disse: il suo
discorso si conserva scritto, inserito nel quinto libro delle Origines”; si deduce da ciò che anche
l’opera storica di Catone era conservata e disponibile al tempo di Livio.
94
Fatta eccezione per una breve allocuzione alle truppe assegnata a Catone in 34,13,5-9,
nell’imminenza di un combattimento durante la campagna militare in Spagna, un brano
convenzionale, probabile creazione dello storico, come segnalano le parole che seguono in hunc
modum [...]adhortatus...
95
Prima del suo consolato Livio lo menziona solo incidentalmente, in seguito invece segue con
attenzione la sua carriera sia militare sia politica.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 78
finisce per apparire sproporzionato alla reale importanza della questione per la quale si
batte.
Come in tutti i discorsi di maggior estensione inseriti nell’opera, anche questo
presenta la struttura canonica prevista dalle norme della retorica: a) exordium (2,1-3); b)
tractatio (2,5-4,18), che svolge nell’ordine questi temi: il comportamento delle donne
costituisce una minaccia per lo stato; la legge di cui si propone l’abrogazione è utile allo
stato; i motivi delle donne sono cattivi; se la legge verrà abrogata lo stato ne sarà
danneggiato; c) conclusio o peroratio (4,19-21).
Come lo storico riferisce in 34,1,5, le matronae, direttamente interessate alla
proposta, non rimasero disciplinatamente in casa ad attendere l’esito della votazione (che
vide la sconfitta di Catone), ma si riversarono in folla nelle strade, facendo vive pressioni
sugli uomini perché la legge che ingiustamente le danneggiava venisse abrogata.
Esordio (2,1-3). Normalmente con l’esordio l’oratore mira ad ottenere attenzione e
soprattutto benevolenza dal pubblico. Catone invece rinuncia quasi del tutto a cercare di
ingraziarsi l’uditorio, scegliendo un esordio severo e aggressivo. Il punto di partenza non
è la legge di cui si propone l’abrogazione, ma il comportamento intollerabilmente
indisciplinato e scandaloso delle donne, segno preoccupante di un generale
allontanamento dai mores antiqui: i Romani non sono più in grado di comandare alle loro
donne. E’ questo il rimprovero che l’oratore rivolge agli ascoltatori, appena attenuato dal
fatto che egli vi comprenda anche se stesso (quisque nostrum... sustinere non potuimus).
Questo non implica l’ammissione da parte dell’oratore che anch’egli abbia difficoltà a
controllare la sua mater familiae, è soltanto una concessione generica alla norma retorica
che prescrive di non irritare fin dall’esordio l’uditorio che si vuole persuadere.
Catone ricorre quindi ad un exemplum, un elemento efficace per delineare il
personaggio, che anche nel seguito del discorso inserisce exempla e massime sentenziose
di carattere generale96. L’exemplum mitico cui Catone allude con ostentato scetticismo97 conferisce efficacia alla massima di carattere generale che segue immediatamente, che
conferma invece la piena plausibilità della leggenda: non c’è categoria che non possa
costituire un grave pericolo.
96 Appellandosi ad un bagaglio comune di esperienze e di conoscenze, o al valore universale e
indiscutibile di una massima o di un proverbio, l’oratore conferisce autorevolezza alle proprie
argomentazioni, a patto naturalmente che sappia presentare il caso specifico che gli sta a cuore
come rientrante nella norma generale enunciata.
97 Si noti in aliqua insula, come se l’oratore non sapesse di quale isola si tratta, o non ritenesse
importante precisarlo, trattandosi di una res ficta. La leggenda narrava che a Lemno tutte le
donne, per aver trascurato il culto di Afrodite, erano state punite dalla dea con una puzza
repellente, che non lasciava mai i loro corpi. Trascurate dai mariti, che avevano preferito loro delle
donne di Tracia, si erano vendicate sterminando tutti gli uomini; si salvò solo Toante, grazie alla
figlia Issìpile.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 79
Tractatio 1 La consternatio muliebris (2,4-3,2). Il primo argomento svolto
dall’oratore è un ampio, prolisso sviluppo del concetto enunciato nella massima generale
che chiude l’esordio. Il dubbio con cui la tractatio si apre (atque ego vix statuere possum
utrum...) è retorico: l’oratore considera gravi sia la res, cioè il vero oggetto della contesa,
la proposta di abrogazione, sia l’exemplum, il precedente pericoloso che si creerebbe, se si
cedesse alle pressioni delle donne. Questi due aspetti vengono ripresi due volte con
disposizione chiastica da alterum ad nos (l’exemplum) e alterum ad vos (la res), e da
vestra existimatio est (la res) e da consternatio muliebris...ad culpam magistratuum
pertinens (l’exemplum). L’ultima considerazione dà luogo ad un’altra struttura a due
elementi, vobis...an consulibus, ripresa e sviluppata con struttura questa volta parallela
(vobis...nobis).
Ancora prima di discutere dell’opportunità di mantenere in vigore la legge,
abilmente subordinando la questione specifica ad un problema d’ordine generale e più
importante, Catone cerca di dimostrare che la proposta va respinta in primo luogo per
ristabilire l’ordine interno, per punire la sollevazione delle donne e per prevenire altre
situazioni disdicevoli e pericolose come quella che si è creata. L’argomentazione è
fortemente tendenziosa, basata su un uso accorto dei termini, e sull’insinuazione che il
tumulto sia stato addirittura organizzato dai tribuni. I sostantivi usati per definire la
protesta delle donne sono via via più specifici e più gravi, e anche via via più lontani
dalla realtà. Consternatio descrive il fatto in modo abbastanza obiettivo: indica una
agitazione disordinata e disorganizzata, determinata per lo più da una forte emozione
(panico, rabbia). Seditio si applica invece ad una agitazione finalizzata ad uno scopo: è la
rivolta di una parte del corpo civico, o, in ambito militare, dei soldati, contro il potere
costituito, contro l’autorità; implica il concetto politico di discordia. Secessio infine – il
ritirarsi dal resto della popolazione in segno di protesta, come aveva fatto la plebe
rifiutando di arruolarsi – è il termine più grave e più improprio per descrivere la
consternatio muliebris. Le donne non fanno, né minacciano di fare, perché non
potrebbero, una secessio. Impiegando termini che sono sì sinonimi, ma non del tutto
equivalenti, l’oratore cerca di evocare il pericolo della discordia civile. La famosa
secessione della plebe sul Monte Sacro aveva ottenuto come risultato l’istituzione del
tribunato della plebe; ora, insinua l’oratore, proprio i tribuni hanno forse istigato le
donne: la questione in discussione potrebbe essere soltanto un pretesto, per chissà quali
oscuri e minacciosi fini 98 . La tendenziosità insita nei termini usati da Catone per
98 E’ vero, come osservano i commentatori (v. Briscoe, Commentary on Livy books 34-37, Oxford,
1981, p. 47), che non è verosimile che Catone, homo novus e plebeo, ricorra ad un argomento che
presuppone disapprovazione per le lotte con cui la plebe era giunta all’eguaglianza civile e politica
con i patrizi, costringendoli, con secessiones, ad accipere leges. Livio avrebbe cioè attribuito al suo
personaggio, facendogli alludere con disapprovazione alle “sedizioni tribunizie” e alle secessiones,
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 80
descrivere il comportamento delle donne verrà denunciata, con garbata ironia, dal
tribuno Valerio 99: “ha definito coetus 100 e seditio, e talvolta secessio delle donne il fatto
che le matrone vi abbiano chiesto di abrogare una legge, promulgata contro di loro in
tempi duri, durante la guerra, ora che siamo in tempo di pace, e lo stato è prospero e
fiorente. Queste e altre sono parole altisonanti, quelle che si ricercano, lo so bene, per
esagerare l’importanza della questione: e che Catone sia un oratore non solo potente ma
talvolta anche violento, benché per indole sia mite, lo sappiamo tutti” (34,5,5-6).
Passando a descrivere la reazione di uno dei consoli, Catone stesso, allo
sconveniente tumulto di donne, l’oratore dichiara di aver provato vergogna:
probabilmente prima di tutto come supremo magistrato, che si sente in certo modo
responsabile di quella deplorevole situazione, e poi forse anche come vir, uomo e marito,
rappresentante dell’intera categoria maschile. Il discorsetto, che avrebbe voluto rivolgere
alle donne, viene ora impiegato come un nuovo e più aspro rimprovero ai viri, dopo quello
dell’esordio 101 . Le parole sono deliberatamente offensive. La domanda (retorica) an
blandiores...estis? trasforma una rivendicazione collettiva in nulla più che un capriccio,
per soddisfare il quale le donne possono solo ricorrere alle blanditiae, lecite però
unicamente nell’intimità della propria casa, con il proprio marito, non in pubblico e con i
mariti altrui: un comportamento che trasforma le rispettabili matrone in cortigiane.
Anche questa parziale concessione viene però spazzata via, con il quamquam correttivo:
le donne per bene non devono occuparsi di politica.
Il solenne richiamo ai maiores, contrapposti a nos che apre il periodo seguente
(§11), illustra quali siano i fines entro i quali le matrone devono restare, o meglio esser
prontamente fatte rientrare. Il riferimento è confuso e impreciso. L’oratore sovrappone
due diversi tipi di controllo, quello del tutor e quello dei parenti, come se le donne fossero
contemporaneamente sottoposte ad entrambi. Invece le donne di condizione libera, sia
all’epoca cui Catone si riferisce sia all’epoca stessa di Catone, erano soggette, come i figli
maschi, alla potestas del pater familias; quando si sposavano, entravano a far parte della
famiglia del marito, cadendo sotto la potestas del pater familias di quella (non
necessariamente il marito). Solo quando non era sotto la potestas di nessuno la donna
veniva giuridicamente sottoposta, per tutta la vita, ad un tutor, del cui consenso aveva
un argomento del tutto inadatto al Catone reale. Si può osservare invece che non è affatto
inverosimile che l’oratore, per ottenere lo scopo che si prefigge e trarre dalla sua parte anche la
componente più conservatrice del pubblico, faccia ricorso ad argomenti in contrasto con le sue
personali convinzioni.
99 Come anche la scarsa pertinenza di tutta la parte del discorso di Catone non dedicata alla
confutazione della proposta: plura verba – osserva Valerio – in castigandis matronis quam in
rogatione nostra dissuadenda consumpsit (34,5,3), “ha speso più parole a biasimare le matrone
che a combattere la nostra proposta”.
100 Il termine compare in 2,3, alla fine dell’esordio, non ancora in riferimento diretto alle donne.
101 Anche la contrapposizione singulae / universae rinvia a quella con cui si apre il discorso.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 81
bisogno per tutti gli atti più importanti 102, soprattutto quelli riguardanti il patrimonio
(vendite, acquisti, donazioni, eredità). Inoltre, la potestas era esercitata sulla donna dal
padre o dal marito (se questi era il pater familias), non mai però – per quanto sappiamo –
dai fratelli. Elencando tutti insieme i diversi tipi di controllo esercitati dai maiores sulle
donne, e aggiungendone uno inesistente, Catone crea l’impressione che vi fosse una
quantità più grande del vero di ostacoli e cautele saggiamente frapposti dagli antichi alle
iniziative delle donne: ciò conferisce risalto alla scandalosa situazione attuale, in cui esse
invece pretendono di partecipare a contiones e comitia 103, e gli uomini glielo concedono.
Catone parla come se si fosse deciso non solo di ammettere le donne alla contio, ma
anche di farle partecipare al voto. Ciò è ovviamente paradossale, in armonia con il tono
generale di questa sezione del discorso. Con suadent e censent di proposito l’oratore
ricorre a verbi tecnici del linguaggio politico: suadeo (e dissuadeo) indicano l’intervento
pubblico in appoggio a (o contro) una proposta; censeo, seguito dalla perifrastica passiva,
costituisce la formula ufficiale con cui si esprime il proprio parere sulla proposta104, o, in
senato, il proprio voto. Dopo aver detto che si permette alle donne di capessere rem
publicam, Catone le descrive come intente ad esercitare i loro nuovi diritti: con suadent le
donne salgono sulla tribuna a parlare davanti alla contio, con censent sono forse
ammesse addirittura in senato. La descrizione è ovviamente derisoria, e il bersaglio sono
ancora una volta i viri, cui l’oratore rivolge un altro rimprovero, questa volta direttamente
(2,13-3,2), rudemente esortandoli a riprendere, finché sono in tempo, il controllo di esseri
irrazionali e ribelli105, che, una volta strappata questa sola concessione, arriveranno a
dominare gli uomini106. L’insistenza, davvero eccessiva, sul pericolo rappresentato dalle
donne mira a far passare in secondo piano la questione specifica in discussione, come se
essa fosse secondaria rispetto alla necessità di recuperare prima che sia troppo tardi il
102
Tutti naturalmente di carattere privato; l’espressione nullam ne privatam quidem rem, cui si
contrappone rem publicam capessere in riferimento alla situazione attuale, amplifica
retoricamente il rigore del controllo esercitato dagli antichi sulle donne, in quanto i soli atti che
esse potevano compiere erano appunto di carattere privato. E’ noto che le donne erano
completamente escluse da qualsiasi partecipazione ufficiale alla vita pubblica.
103
La contio è l’assemblea ufficiale del popolo o dell’esercito, convocata per essere informata di
qualcosa; il comitium è la parte del foro riservata alle adunanze ufficiali, e anche l’adunanza stessa,
investita di competenze elettorali, legislative e giudiziarie, convocata da un magistrato in carica e
suddivisa per tribù, curie o centurie, a seconda di ciò su cui si deve votare. Quella davanti alla
quale Catone tiene il suo discorso è una contio; la votazione che seguirà il giorno successivo
(cf.34,8,1) vedrà il popolo suddiviso per tribù, sarà cioè una riunione dei comitia tributa.
104
Si veda la conclusione del discorso: ego nullo modo abrogandam legem Oppiam censeo, 34,4,21.
105
Il quadro delle donne offerto in questa sezione è fatto in termini generali, non riguarda quelle
che si sono radunate nelle vie, ma la natura femminile in quanto tale. I due sostantivi natura e
animal (“essere vivente”, non si tratta di un insulto) sono equivalenti; gli aggettivi che li
qualificano contrappongono invece il dominio esercitato su se stessi (impotens, che può però
significare anche “prepotente”), di cui le donne sono incapaci, a quello imposto da altri (indomitus),
cui le donne tendono a ribellarsi.
106
Si noti la correctio in omnium rerum libertatem, immo licentiam, giacché il termine libertas ha
una connotazione generalmente positiva.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 82
predominio maschile. In realtà Catone non dispone di argomenti veramente persuasivi
contro la proposta di abrogazione.
Tractatio 2. La legge è utile allo stato (3,3-5). La sezione, assai più breve,
dedicata alla lex Oppia si apre con la figura retorica dell’occupatio: la frase at
hercule...deprecantur espone il punto di vista dei sostenitori dell’abrogazione e dei diritti
delle donne, contrapponendo iniuria a ius. La risposta dell’oratore è sostenuta e solenne.
Notiamo l’anafora di quam, la ripetizione di legem, e soprattutto il nesso asindetico
accepistis iussistis, che richiama la formula con cui il magistrato che presiedeva
l’assemblea invitava il popolo a votare: velitis iubeatis –sc. rogo - , cui seguiva il testo
della proposta oggetto della votazione 107. Il passaggio dalla singola legge, che il popolo ha
votato e che non deve essere cancellata, alle considerazioni di carattere generale avviene
per mezzo di una massima: nulla lex satis commoda omnibus est (§5). Lo stile dell’oratore
prosegue enfatico e solenne; si noti l’interrogatio retorica quid attinebit...?, l’allitterazione
in destruet ac demolietur, che, insieme al significato dei verbi, che evocano scene di
distruzione e rovina, concorre a sottolineare l’inaudita gravità del principio che, a dire
dell’oratore, si rischierebbe di introdurre, minando la saldezza dell’intera legislazione. Il
tribuno Valerio (34,6,4 ss.) confuta questo argomento tracciando una distinzione fra le
leges che non in tempus aliquod sed perpetuae utilitatis causa in aeternum latae sunt e
quelle che, richieste da circostanze particolari, si possono definire mortales, e possono e
107 V. Gellio, 5,19,9. La formula in questo caso sottopone all’approvazione del popolo il passaggio
di una persona dalla propria ad un’altra familia, con l’adozione detta adrogatio (quella, appunto,
che avviene per populi rogationem): Eius rogationis verba haec sunt: 'Velitis iubeatis, uti L. Valerius
L. Titio tam iure legeque filius siet [=sit], quam si ex eo patre matreque familias eius natus esset,
utique ei vitae necisque in eum potestas siet, uti patri endo [=in] filio est. Haec ita, uti dixi, ita vos,
Quirites, rogo.', “Le parole di questa consultazione sono le seguenti: ‘Se vogliate e ordiniate che
Lucio Valerio diventi figlio di Lucio Tizio per diritto e secondo la legge, come se fosse nato da quel
padre e dalla moglie di lui, e che egli (sc. Lucio Tizio) abbia su di lui diritto di vita e di morte, come
lo ha un padre sul proprio figlio. Questo, Quiriti, così come ho detto, chiedo a voi’ ”. Identica è la
formula ricordata da Livio per la rogatio relativa all’inchiesta sulla pecunia regis Antiochi, in 38,54,
3-4: Fuit autem rogatio talis: 'Velitis iubeatis, Quirites, quae pecunia capta ablata coacta ab rege
Antiocho est quique sub imperio eius fuerunt, quod eius in publicum relatum non est, uti de ea re Ser.
Sulpicius praetor urbanus ad senatum referat, quem eam rem velit senatus quaerere de iis, qui
praetores nunc sunt.' , “La consultazione fu di questo tenore: ‘Se vogliate e ordiniate, Quiriti, che
del denaro preso, sottratto, ricavato dal re Antioco e da quanti erano sotto il suo dominio, per
quella parte di esso che non è stata versata all’erario, il pretore urbano Servio Sulpicio riferisca al
senato, perché il senato decida a quale dei pretori in carica assegnare l’inchiesta’ ”. La formula
velitis iubeatis si conserva anche nella interrogativa diretta, v. Livio 22,10,2 (dopo la sconfitta del
Trasimeno): Rogatus in haec verba populus: ‘Velitis iubeatisne haec sic fieri? Si res publica populi
Romani Quiritium ad quinquennium proximum [...] salva servata erit ...’, “Il popolo fu consultato
con queste parole: ‘Volete e ordinate che si faccia così? Se lo stato del popolo romano dei Quiriti
per i prossimi cinque anni [...] si manterrà sano e salvo...’ ”. Si tratta della promessa in voto di un
ver sacrum, cioè del sacrificio delle primizie di tutte le greggi: la formulazione del voto è molto
lunga, per questo probabilmente viene sintatticamente svincolata dalla dipendenza da velitis
iubeatis.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 83
debbono essere abrogate, quando non sussistono più i motivi contingenti che le hanno
causate; la lex Oppia, sostiene persuasivamente, fa parte di questa seconda categoria di
leggi.
Tractatio 3. I motivi delle donne sono cattivi (3,6-9). Con finta
condiscendenza, con un atteggiamento ostentatamente aperto e tollerante (volo tamen
audire...), Catone prende ora in considerazione le ragioni di quella parte della popolazione
cui la legge reca danno, per dimostrare che tali ragioni – che non devono in ogni caso mai
prevalere sull’interesse della maggioranza e dello stato nel suo complesso, come l’oratore
ha appena detto – non sono né valide né serie. Per dimostrare quanto scandalosamente
frivoli e biasimevoli siano i motivi che hanno indotto le matrone ad uscire per le strade,
Catone ricorre ad exempla storici. Ricorda, nella forma enfatica della interrogatio retorica,
altre due occasioni, risalenti entrambe alla seconda guerra punica, in cui le donne
avevano abbandonato, come ora, il loro consueto riserbo, per scopi tuttavia ben più seri.
Il primo, narrato da Livio in 22, 58-61, riguarda il riscatto dei prigionieri catturati
da Annibale dopo la battaglia di Canne. E’ vero che in quella circostanza feminas quoque
metus ac necessitas in foro turbae virorum miscuerat (22,60,1); ma anche la turba virorum,
costituita dai parenti dei prigionieri, non diversamente dalle feminae, aveva fatto
pressioni sul senato perché accettasse la proposta di Annibale. La decisione presa infine
dal senato, di non pagare il riscatto, era stata molto sofferta, e preceduta da una lunga
discussione. La versione che Catone offre di quella vicenda contrappone invece le donne
a tutti gli altri, come se esse soltanto avessero avuto a cuore il riscatto dei loro congiunti.
Con negastis poi egli si rivolge a tutto il popolo presente, con una duplice alterazione dei
fatti: non solo molti, come si è detto, avevano appoggiato e condiviso le preghiere delle
donne, ma la decisione era stata presa dal solo senato, non era stata sottoposta al voto
popolare.
Il secondo episodio, che non necessita di essere alterato agli scopi dell’oratore,
corrisponde nella sostanza al racconto che Livio ne fa in prima persona108: nel 204, per
propiziare la vittoria, in ossequio ad una indicazione tratta dai Libri Sibillini e confermata
e precisata dal responso dell’oracolo di Delfi, il simulacro della Magna Mater Cìbele era
stato solennemente trasportato, per concessione del re Attalo di Pergamo, a Roma da
Pessinunte in Frigia, dove sorgeva un importante tempio della dea ed era conservata la
pietra sacra che la rappresentava. Il compito di accogliere degnamente e custodire la dea
108 In 29,10,4-11,8 e 14, 5-14
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 84
in forma di pietra era stato assegnato, secondo la prescrizione dell’oracolo 109, a Scipione,
accompagnato da tutte le matrone fin sul lido di Ostia. Il breve riferimento che Catone fa
alla vicenda è limitato alla partecipazione delle matrone, ma è corretto.
Nel discorso attribuito al tribuno Valerio Livio inserisce un numero maggiore di
exempla di questo tipo. Che cosa c’è di inconsueto, argomenta persuasivamente il
tribuno, se le donne si sono mostrate in pubblico, per una questione che direttamente le
riguarda? Lo hanno fatto spesso in passato, e sempre nell’interesse dello stato (34,5,7); il
tribuno passa quindi in rassegne altre occasioni in cui le matrone in publico
apparuerunt 110 . Fingendo di ricavare gli esempi proprio dalle Origines di Catone 111 ,
Valerio ne trae una conclusione opposta: “Ciò che nessuno si è scandalizzato le donne
facessero a vantaggio di tutti, ora ci scandalizziamo lo facciano per una cosa che le
riguarda? [...] I padroni ascoltano le preghiere dei loro servi, e noi ci indigniamo che
donne rispettabili ci rivolgano una richiesta?” (34,5,12-13)
Catone invece, ovviamente, sfrutta ai propri fini il contrasto fra l’importanza delle
occasioni che ha ricordato e i motivi biasimevoli che ora animano la rivolta delle donne112, mettendo in bocca a loro stesse una dichiarazione sfacciata e arrogante. Esse sono
rappresentate come intente a celebrare il trionfo sulla legge abrogata: quella carrozza il
cui uso la legge aveva loro vietato equivale al carro del generale vittorioso; l’oro e la
porpora sono i medesimi che adornano il mantello del generale che celebra il trionfo. La
coppia “oro e porpora” compare due volte nei frammenti di Catone113, e ben tre114 nel
discorso elaborato da Livio per il suo personaggio: è probabile che lo storico tragga il
nesso dalle opere di Catone, e lo impieghi per echeggiare il suo stile, il suo modo di
tuonare contro il lusso. Le rovinose conseguenze dell’abrogazione della legge, fatte
esprimere dalle donne stesse (ne ullus modus sumptibus, ne luxuriae sit, § 9), offrono il
109
Naturalmente l’oracolo, secondo le sue consuetudini, non aveva indicato Scipione per nome, ma
aveva prescritto che a prendersi cura della dea fosse il vir optimus di cui Roma disponeva; e i
senatori Publium Scipionem [...] iudicaverunt in tota civitate virum bonorum optimum esse, 39,14,8.
110
In 34,5,8-10 sono ricordati, oltre al secondo degli exempla di Catone, questi episodi: l’intervento
durante il proelium fra Romani e Sabini, intercursu matronarum [...] sedatum (in questo caso in
verità le donne erano sabine e non romane); quello per distogliere Coriolano dal proposito di
marciare contro Roma alla testa dei Volsci; l’offerta dell’oro allo stato per riscattare la città
conquistata dai Galli (evidentemente anche Valerio sapeva che il riscatto era stato pagato); l’aiuto
offerto durante la seconda punica all’erario esausto dalle vedove che offrirono il loro denaro.
111
Tuas adversus te Origines revolvam, dichiara Valerio (34,5,7). L’espediente è felice e molto
efficace, ma cronologicamente errato: nell’anno del suo consolato Catone non aveva ancora
composto, e forse neppure progettato, la sua opera storica, cui si dedicò nella vecchiaia, come si
apprende da Cornelio Nepote (Senex historias scribere instituit, Cato, 3,3): dunque dopo il 174,
poiché gli antichi facevano generalmente iniziare la senectus a 60 anni.
112
Contrasto sottolineato dall’impiego dal medesimo tipo di proposizione: ut [...] fulgamus e ut [..]
vectemur , come sopra ut captivi...redimantur.
113
Origines, fr. 113 Peter: mulieres opertae auro purpuraque; orat.rel fr. 172 Sblendorio Cugusi (=
224 Malcovati): fures privatorum furtorum in nervo atque in compedibus aetatem agunt, fures
publici in auro atque in purpura.
114
34,3,9; 4,10 e 14.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 85
passaggio al punto successivo, in cui il discorso si allontana alquanto dal tema specifico,
per trattare, in una sorta di digressione, della generale corruzione dei mores, provocata e
favorita dall’accresciuto benessere materiale, uno dei temi cari al Catone reale.
Tractatio 4. Digressione (4,1-11) Livio attribuisce al suo personaggio un
richiamo, molto verosimile, alle molte occasioni in cui già i Romani avevano avuto
occasione di udire discorsi di Catone in deplorazione di avaritia e luxus, capaci di
mandare in rovina omnia magna imperia (un’altra massima sentenziosa), e introdotti in
Roma dalle inlecebrae e dalle gazae di Grecia e d’Asia. In realtà, nel momento in cui
Catone parla, l’Asia non era responsabile di nessuno dei mali lamentati dall’oratore:
nessun esercito romano aveva ancora messo le mani sui tesori orientali, giacché la prima
spedizione in Asia, quella contro Antioco, avvenne soltanto cinque anni più tardi. Livio
non si cura tanto dell’esattezza cronologica, quanto piuttosto di assegnare al suo
personaggio un argomento topico ben appropriato a questo contesto. L’Asia era da
sempre considerata – già dai Greci – il luogo della vita molle e dissoluta, corrotta e
corruttrice; e un luogo comune della storiografia romana consisteva nell’indicare il
momento preciso in cui la corruzione era entrata in Roma, minando con l’avaritia e la
luxuria 115 la compatta saldezza dei mores antiqui. La data varia sensibilmente da un
autore all’altro116, ma è significativo che un ruolo importante nel processo di corruzione
sia sempre attribuito all’Asia, che fa conoscere ai rozzi e virtuosi Romani un sistema di
vita più piacevole, rendendoli sensibili e soggetti al fascino pericoloso delle raffinatezze,
degli oggetti preziosi, delle opere d’arte. Quest’ultimo tema (le opere d’arte) viene svolto
da Catone in riferimento ad un’epoca più antica, quella della conquista di Siracusa nel
212, quando Marcello fece portare a Roma da quella città molte statue di dèi, togliendole
sacrilegamente dai loro templi. La vendetta degli dèi ostili consisterebbe, secondo
l’oratore, nell’aver ispirato ai Romani disprezzo per le antiche immagini in terracotta (o in
115 Si veda, per l’accostamento dei due concetti, l’analoga formulazione di Sallustio, Cat. 5,8:
pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia; anche Livio, in praef. 12 menziona questi
due vizi, ma per rilevare quanto a lungo Roma ne fu immune.
116 Una parte della tradizione annalistica, e Livio stesso (39,6,7) indicano il ritorno dell’esercito
romano dalla spedizione vittoriosa contro Antioco III di Siria come la causa dell’aumento della
luxuria. Sallustio (Cat. 10,1-6) individua il punto di partenza del processo di corruzione nella
distruzione di Cartagine, nel 146, e il punto d’arrivo nel ritorno dall’Asia dell’esercito di Silla,
nell’88, dopo la vittoria su Mitridate (Cat. 11,5-6). Così Sallustio descrive la perniciosa influenza
esercitata dai luoghi sui soldati, già guastati dall’allentamento della disciplina permesso da Silla
per legare a sè l’esercito: “I luoghi attraenti e ricchi di allettamenti facilmente avevano
nell’inattività reso fiacchi gli animi fieri dei soldati: qui per la prima volta l’esercito romano si
avvezzò alla compagnia di concubine e alle gozzoviglie, imparò ad ammirare statue, quadri, vasi
cesellati, e a farne razzìa in luoghi privati e pubblici, e a spogliare i santuari, e a contaminare ogni
cosa, sacra e profana”.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 86
legno) delle divinità, primo segno di cedimento di fronte alla luxuria, che porterà con sé
anche l’ammirazione per gli ornamenta di Corinto e di Atene 117.
Ad un’epoca ancora più antica (280) riporta la menzione di Pirro: dopo la battaglia
di Eraclea egli tentò di intavolare con il senato trattative di pace; i doni offerti erano un
tentativo di far pressione perché il senato accogliesse la proposta di pace, e furono
effettivamente offerti anche alle donne, come riferiscono altre fonti 118 , e tutti
indistintamente, uomini e donne, li rifiutarono. Catone ovviamente ha interesse a
prendere in considerazione solo il rifiuto delle donne di allora, per contrapporlo più
avanti (4,11) all’opposto comportamento attuale (solo immaginato). Il confronto, molto
tendenzioso, è posto a conclusione di una analisi delle ragioni della incorruttibilità delle
donne romane di un tempo, corredata da un paragone di tono sentenzioso (sicut ante
morbos...§ 8) e da due nuovi exempla storici, che tendono a presentare tutte le
disposizioni di legge (dunque anche la lex Oppia) come introdotte per frenare pericolose e
già dilaganti deviazioni dal retto comportamento119. Tractatio 5 Conseguenze dell’abrogazione della legge (4,12-18). Dopo la
parentesi costituita dalla deplorazione moralistica della corruzione dei costumi, Catone
torna a considerare la situazione presente, per mostrare quanto siano meschini i motivi
veri e taciuti della richiesta delle donne. Per la prima volta l’oratore non le considera più
tutte insieme, come ostinatamente concordi nella biasimevole richiesta, ma da questo
punto in avanti le suddivide in due gruppi: le povere (invidiose e sciocche) e le ricche
(superbe). Alla dubbia consolazione che può offrire alle povere (la legge vi vieta di avere
ciò che non potreste comunque avere, e dunque non avete motivo di protestare), Catone
premette un severo richiamo ai valori positivi della parsimonia e della paupertas120, di cui
nessuno deve provar vergogna. Ben comprensibile è invece la protesta delle ricche, che
vorrebbero finalmente tornare a distinguersi dalle povere; Catone fa esprimere questa
117
Non ancora conquistate nel 195, ma conosciute dai Romani durante la seconda guerra
macedonica.
118
Plutarco, Pirro, 18,4; Valerio Massimo 4,3,14.
119
Entrambe le leggi menzionate venivano spesso aggirate. La lex Licinia (una delle leggi Licinie-
Sestie del 367) fissava un limite all’estensione degli appezzamenti di ager publicus che ogni privato
poteva occupare; la cifra di 500 iugeri è però da riferire certamente ad un’epoca successiva,
poiché nel 367 Roma non disponeva ancora di terra conquistata di estensione compatibile con tale
cifra. La lex Cincia, proposta da Marco Cincio Alimento, tribuno della plebe, e approvata nel 205,
vietava agli avvocati di percepire compensi per difendere un imputato in un processo o assistere
un cliente in una causa civile, e forse anche semplicemente per dare consigli legali: sembra poco
verosimile infatti che i plebei dovessero ricorrere così spesso alle prestazioni di un avvocato in
tribunale da diventare “tributari fissi” del senato. Erano naturalmente solo i senatori, oratori ed
esperti di diritto, a poter offrire queste prestazioni. La lex Cincia fu abrogata solo nel 47 d.C.,
dall’imperatore Claudio (Tacito, ann.11,5-7).
120
Il termine indiche la modestia di mezzi, non la povertà, l’indigenza (egestas).
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 87
meschina e malevola motivazione direttamente da una rappresentante della categoria,
con un altro breve brano in discorso diretto.
Avviandosi a concludere il suo discorso, l’oratore torna a rivolgersi ai viri che si
apprestano ad andare a votare, con l’appellativo ufficiale di Quirites, e prospetta loro le
conseguenze rovinose che l’abrogazione della legge produrrebbe: liti domestiche e la
rovina economica. Ritorna in questa sezione finale l’espressione ambigua alieni viri
(“uomini estranei” e “mariti altrui”) già usata in 2,9, che implicitamente equiparava le
matrone scese in piazza a cortigiane: essa funge da rinvio al tema della prima parte del
discorso, il biasimo per i viri che non impediscono alle loro donne di tenere un
comportamento tanto sconveniente. Ma il tema principale della sezione finale è un altro,
e l’oratore si impegna a dimostrare che, una volta cancellata la legge, sia cedere ai
capricci delle donne sia non cedere sarà egualmente rovinoso. Molto efficace è, alla fine
del § 4,18, il passaggio ai verbi al singolare (es; facies), come se l’oratore volesse rivolgersi
personalmente a ciascuno degli ascoltatori.
Conclusio (4,19-21). Un breve riepilogo degli argomenti principali e la mozione
degli affetti dovevano, secondo le norme dei retori, concludere il discorso. La piana
asserzione che l’abrogazione della legge non riporterà la situazione nelle condizioni
precedenti (che vale come succinto riepilogo dei temi svolti, soprattutto nell’ampia
digressione sulla corruzione dei mores) è rafforzata da due massime di tono sentenzioso,
ben adatte a caratterizzare l’oratore. La mozione degli affetti è affidata invece alla
personificazione della luxuria, che si scatenerà come una bestia feroce non appena sarà
liberata dai vincula della legge.
La formulazione ufficiale della proposta dell’oratore, e il convenzionale, solenne
richiamo agli dèi chiudono il discorso.
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 88
Bibl. consultata
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M. MAZZA, Storia e ideologia in Livio, Catania, 1966
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G.FORSYTHE, Livy and Early Rome, Stuttgart, 1999
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 89
INDICE
NOTIZIE SULL’AUTORE. ATTIVITÀ LETTERARIA p. 2
Data di nascita p. 2
Morte p. 3
Opere filosofiche p. 3
Opinioni sullo stile p. 3
Rapporti con Augusto p. 5
Condizione sociale ed educazione p. 6
Patavinitas p. 6
Composizione dell’opera storica p. 6
Libri conservati e periǒchae p. 7
GLI AB URBE CONDITA LIBRI p. 9
Titolo p. 9
Fonti documentarie p. 9
Fonti letterarie e metodo del loro impiego p. 12
CARATTERI IDEOLOGICI DELLA STORIA DI LIVIO p. 14
Religione: pietas e fides p. 14
Politica interna p. 19
Politica estera e guerra p. 23
Vita privata p. 27
LA PREFAZIONE p. 29
§§ 1-2 p. 30
§ 3 p. 31
§ 4 p. 32
§ 5 p. 32
§ 6 p. 34
§§ 7-9 p. 35
§ 10 p. 38
§§ 11-12 p. 38
§ 13 p. 41
IL PRIMO LIBRO. STORIA DELLA MONARCHIA p. 42
IL REGNO DI ROMOLO p. 42
Il sinecismo sabino. Prima fase: il ratto (1,9) p. 44
Seconda fase. Il tempio di Giove Feretrio. (1,10-11,4) p. 45
Terza fase. La guerra contro i Sabini (1, 11,5-13) p. 47
MARCO FURIO CAMILLO p. 53
Assedio e resa di Faleri (5,26,9-27) p. 54
Camillo e i Galli (5,47-49) p. 56
NOVA AC NIMIS CALLIDA SAPIENTIA (42,47) p. 58
DUELLI p. 61
Il duello di Tito Manlio Torquato contro un Gallo (7,9-11,1) p. 62
Cenni ad altri duelli p. 65
Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 90
L’ INIZIO DELLA TERZA DECADE p. 68
Prefazione. Il giuramento di Annibale (21,1) p. 69
Ritratto di Annibale (21,4) p. 72
DISCORSO DI CATONE CONTRO L’ABROGAZIONE DELLA LEX OPPIA (34,2-4) p. 76
Esordio (2,1-3) p. 78
Tractatio 1 La consternatio muliebris (2,4-3,2) p. 79
Tractatio 2. La legge è utile allo stato (3,3-5) p. 82
Tractatio 3. I motivi delle donne sono cattivi (3,6-9) p. 83
Tractatio 4. Digressione (4,1-11) p. 85
Tractatio 5 Conseguenze dell’abrogazione della legge (4,12-18) p. 86
Conclusio (4,19-21) p. 87
Bibliografia consultata p. 88