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Tito Livio. Gli ab urbe condita libri - Facoltà di Lettere e Filosofia

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Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 1<br />

Programma d’esame.<br />

<strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong>. <strong>Gli</strong> <strong>ab</strong> <strong>urbe</strong> <strong>con<strong>di</strong>ta</strong> <strong>libri</strong><br />

a.a. 2008-2009<br />

Appunti delle lezioni<br />

1 Storia della letteratura latina, da preparare sul testo G. Garbarino, Letteratura<br />

latina, Torino (Paravia), 1998 (e successive ristampe), prima parte (dalle origini a<br />

<strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong> compreso, con particolare riguardo ai seguenti autori: Plauto, Ennio,<br />

Catone, Terenzio, Lucilio, Lucrezio, Catullo, Cicerone, Cesare, Sallustio, Virgilio,<br />

Orazio, Tibullo, Properzio, Ovi<strong>di</strong>o, <strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong>) per chi non ha ancora acquisito<br />

cre<strong>di</strong>ti nel settore; seconda parte (l'età imperiale, con particolare riguardo ai<br />

seguenti autori: Seneca, Lucano, Petronio, Marziale, Quintiliano, Giovenale,<br />

Svetonio, Tacito, Apuleio, Ammiano Marcellino, Ambrogio, Gerolamo, Agostino)<br />

per chi ha già acquisito 5 cre<strong>di</strong>ti nel settore. Degli autori in<strong>di</strong>cati è opportuno<br />

leggere (in traduzione italiana) i brani riportati nella sezione antologica della<br />

Letteratura. Per chi <strong>ab</strong>bia già acquisito 10 cre<strong>di</strong>ti nel settore il programma<br />

d’esame consiste nel solo punto 2.<br />

2. <strong>Gli</strong> argomenti svolti a lezione (riportati in questi appunti). Traduzione e<br />

commento dei seguenti brani <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>: praefatio; 1, 9-13; 5, 26,9 – 27; 5, 47- 49; 7,<br />

9 – 11, 1; 9, 16, 11-19; 21, 1-4; 34, 1-4; 35, 19; 42, 47. Inoltre: Gellio 9, 13, 6-19<br />

(= Quadrigario, fr. 10 b Peter).<br />

Nel materiale <strong>di</strong>dattico relativo a questo modulo si troveranno tutti i testi latini<br />

(un file) e le traduzioni (un altro file), con un po’ <strong>di</strong> commento grammaticale.<br />

N.B.: né le traduzioni né il commento grammaticale vanno stu<strong>di</strong>ati; le une e gli<br />

altri sono proposti soltanto come aiuto per la comprensione dei testi dal punto <strong>di</strong><br />

vista linguistico. Nemmeno le note a pie’ <strong>di</strong> pagina inserite in questi appunti<br />

vanno stu<strong>di</strong>ate.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 2<br />

NOTIZIE SULL’AUTORE. ATTIVITÀ LETTERARIA<br />

<strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong> si può considerare lo storico “ciceroniano” per eccellenza: nella sua opera<br />

appaiono infatti accolti ed applicati i precetti teorici sulla storiografia esposti da<br />

Cicerone 1, che si possono riassumere e sintetizzare nella formula historia opus oratorium:<br />

<strong>Livio</strong> non è solo un narrator, ma anche, o soprattutto, un exornator rerum.<br />

Data <strong>di</strong> nascita. Delle vicende biografiche e dell’attività letteraria <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> le fonti<br />

antiche <strong>di</strong>cono assai poco. La parte conservata della sua opera storica giunge soltanto al<br />

167 a.C.: i cenni <strong>di</strong> carattere autobiografico, che lo storico potrebbe aver inserito nella<br />

narrazione degli eventi a lui contemporanei, sono andati perduti.<br />

Le incertezze sulla sua biografia iniziano forse con la data <strong>di</strong> nascita, tramandata<br />

da Girolamo 2 sotto l’anno 1958 <strong>di</strong> Abramo, corrispondente al 59 a.C., ma messa in<br />

dubbio perché associata a quella <strong>di</strong> Messala Corvino. Girolamo <strong>di</strong>ce: Messala Corvinus<br />

orator nascitur et Titus Livius Patavinus scriptor historicus. Nel 59 a.C. dunque “nascono<br />

Messala Corvino oratore e <strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong> <strong>di</strong> Padova, storiografo”.<br />

Messala Corvino è il fondatore del circolo letterario cui appartennero, tra gli altri,<br />

Tibullo e Ovi<strong>di</strong>o da giovane. Per questo personaggio la data <strong>di</strong> nascita in<strong>di</strong>cata da<br />

Gerolamo potrebbe essere sbagliata. Messala Corvino fu infatti un uomo politico, e<br />

alcune tappe del suo cursus honorum ci sono note: in particolare, sappiamo che fu<br />

console nel 31 a.C., ad un’età – se nacque nel 59 a.C. - troppo giovane, inferiore a quella<br />

(30 anni) fissata dalla riforma sillana non per il consolato (che era, a quanto pare, <strong>di</strong> 43<br />

anni), ma per iniziare il cursus honorum. Si ritiene perciò opportuno anticipare <strong>di</strong> alcuni<br />

anni la data <strong>di</strong> nascita <strong>di</strong> Messala, precisamente al 64 a.C. In questo anno infatti i nomi<br />

dei consoli (che come è noto venivano comunemente usati per in<strong>di</strong>care l’anno) sono molto<br />

simili a quelli dei consoli dell’anno 59: Cesare e Figulo nel 64 e Cesare e Bibulo nel 59.<br />

Girolamo, o la sua fonte, potrebbe aver confuso i nomi dei consoli dei due anni; ne<br />

conseguirebbe che anche per <strong>Livio</strong> la data <strong>di</strong> nascita vada spostata al 64 a.C. Come si<br />

vede, non si tratta <strong>di</strong> un argomento cogente: le norme per il cursus honorum fissate da<br />

Silla furono spesso violate, soprattutto negli ultimi tempi della repubblica; inoltre, se per<br />

1 In de or. II, 1-64 e de leg. I, 1-10.<br />

2 Girolamo (347-420 d.C.) tradusse dal greco il Chronicon <strong>di</strong> Eusebio <strong>di</strong> Cesarea (265-340 d.C.),<br />

un’opera in cui i principali avvenimenti della storia universale erano <strong>di</strong>sposti in tavole<br />

cronologiche sincroniche, a partire da Abramo (2016-2015 a.C.). Nella sua traduzione Girolamo<br />

mantenne il medesimo punto <strong>di</strong> partenza cronologico, e arricchì il testo con molte notizie relative<br />

alla storia e alla letteratura romane; per queste si servì del de viris illustribus <strong>di</strong> Svetonio; inoltre<br />

proseguì l’esposizione dal 325 d.C., anno a cui si fermava l’opera <strong>di</strong> Eusebio, fino al 378.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 3<br />

Messala la data <strong>di</strong> nascita può essere sbagliata, ciò non comporta necessariamente che<br />

lo sia anche per <strong>Livio</strong> 3.<br />

Morte. Sotto l’anno 2033 (= 17 d.C.) Girolamo registra la morte dello storico:<br />

Livius historiographus Patăvi moritur, “muore a Padova lo storiografo <strong>Livio</strong>”. Il luogo <strong>di</strong><br />

nascita è confermato da altre fonti antiche 4, e dalla famosa accusa <strong>di</strong> Patavinitas, su cui<br />

torneremo, mossa allo storico da Asinio Pollione.<br />

Opere filosofiche. Le notizie che si possono inserire fra le due date tramandate da<br />

Girolamo non sono molte. Il nome <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> è legato all’opera storica, ma alcune<br />

testimonianze antiche in<strong>di</strong>cano che egli ebbe interessi, e svolse attività letteraria, anche<br />

in campi <strong>di</strong>versi da quello della storiografia. Seneca gli attribuisce la composizione <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>alogi e <strong>di</strong> <strong>libri</strong> <strong>di</strong> filosofia: scripsit <strong>di</strong>alogos, quos non magis philosophiae adnumerare<br />

possis quam historiae, et ex professo philosophiam continentis libros (ep. ad Luc. 100,9),<br />

“scrisse <strong>di</strong>aloghi che si potrebbero assegnare tanto alla filosofia quanto alla storia, e <strong>libri</strong><br />

<strong>di</strong> contenuto propriamente filosofico”.<br />

I <strong>di</strong>aloghi <strong>di</strong> argomento filosofico e storico insieme potrebbero essere, sul modello<br />

dei <strong>di</strong>aloghi ciceroniani, scritti in cui personaggi storici reali sia espongono e <strong>di</strong>scutono le<br />

<strong>di</strong>verse opinioni delle scuole filosofiche, sull’etica (per es. de finibus), sulla teoria della<br />

conoscenza (per es. Academica), sugli dèi (de natura deorum), sia analizzano, con<br />

riferimenti concreti agli stati reali e soprattutto a quello romano e alla sua storia, temi<br />

quali la funzione della giustizia nella vita civile, la miglior forma <strong>di</strong> governo, le doti del<br />

princeps, ecc. (gli argomenti trattati nel de republica e nel de legibus). Dai <strong>di</strong>aloghi Seneca<br />

<strong>di</strong>stingue <strong>libri</strong> propriamente filosofici: forse la <strong>di</strong>fferenza era soprattutto <strong>di</strong> forma (trattati,<br />

sul modello ciceroniano del de officiis). In ogni caso, si trae con certezza dall’accenno <strong>di</strong><br />

Seneca uno spiccato interesse <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> per la filosofia, cui de<strong>di</strong>cò opere apposite.<br />

Opinioni sullo stile. Anche sull’eloquenza <strong>Livio</strong> espresse – non sappiamo se in<br />

opere apposite, come Cicerone – le proprie opinioni, come si deduce da qualche accenno<br />

<strong>di</strong> Quintiliano e <strong>di</strong> Seneca Padre. Accingendosi ad in<strong>di</strong>care quali autori l’oratore debba<br />

leggere per trarne giovamento, smarrito <strong>di</strong> fronte alla vastità del compito che sta per<br />

affrontare, Quintiliano osserva: Fuit igitur brevitas illa tutissima, quae est apud Livium in<br />

epistula ad filium scripta, legendos Demosthenen atque Ciceronem, tum ita ut quisque<br />

esset Demstheni aut Ciceroni simillimus (10,1,39), “Molto sicuro fu quel breve consiglio<br />

che <strong>Livio</strong> <strong>di</strong>ede in una lettera al figlio, <strong>di</strong> leggere Demostene e Cicerone, e poi tutti quelli<br />

che più si avvicinavano a Demostene e a Cicerone”. L’ammirazione per i modelli più alti e<br />

in<strong>di</strong>scussi nel campo dell’eloquenza si univa all’esigenza della chiarezza nell’esposizione,<br />

3 In genere in effetti si accetta la correzione della data <strong>di</strong> Girolamo soltanto per Messala.<br />

4 Plutarco, Caes., 47,3; cf. Marziale I,61,3, che parla della Apǒni tellus (Abano), che deve la sua<br />

fama al “suo <strong>Livio</strong>”, e Stazio, Silvae IV,7,55-56, che accosta a Sallustio il Timāvi /alumnum, “il<br />

figlio del Timavo”.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 4<br />

come sembra <strong>di</strong> poter dedurre da un altro breve accenno <strong>di</strong> Quintiliano, che<br />

condannando coloro che <strong>di</strong> proposito rendono oscuro il loro eloquio osserva: Neque id<br />

vitium novum est, cum iam apud Titum Livium inveniam fuisse praeceptorem aliquem qui<br />

<strong>di</strong>scipulos obscurare quae <strong>di</strong>cerent iuberet, Graeco verbo utens sko/tison. Unde illa scilicet<br />

egregia laudatio: ‘tanto melior: ne ego quidem intellexi’ (8,2,18), “E questo <strong>di</strong>fetto non è<br />

nuovo, giacché già in <strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong> trovo che vi fu un maestro che prescriveva ai suoi allievi<br />

<strong>di</strong> rendere oscuro ciò che <strong>di</strong>cevano, usando il voc<strong>ab</strong>olo greco sko/tison. Di qui quell’elogio<br />

davvero straor<strong>di</strong>nario: ‘sei migliorato davvero! Nemmeno io ho capito!’ ”<br />

Che anche <strong>Livio</strong> <strong>di</strong>sapprovasse questo precetto (parlare in modo oscuro) sembra<br />

confermato da un passo <strong>di</strong> Seneca Padre, che riferisce che <strong>Livio</strong> si prendeva gioco <strong>di</strong><br />

quegli oratori qui verba antiqua et sor<strong>di</strong>da consectantur et orationis obscuritatem<br />

severitatem putant (contr. 9,2,26), “che vanno in cerca <strong>di</strong> voc<strong>ab</strong>oli arcaici e volgari, e<br />

ritengono che un <strong>di</strong>scorso oscuro sia un <strong>di</strong>scorso solenne”.<br />

Anche l’eccessiva concisione poteva rendere il <strong>di</strong>scorso oscuro, ed era condannata<br />

da <strong>Livio</strong>, come si può dedurre da un suo giu<strong>di</strong>zio su Sallustio, ricordato da Seneca Padre,<br />

che lo considera malevolo. Dopo aver menzionato una frase <strong>di</strong> Tuci<strong>di</strong>de, che Sallustio<br />

avrebbe tradotto riuscendo ad essere ancora più conciso del modello, e vincendolo<br />

dunque sul suo stesso terreno5, Seneca aggiunge: T. autem Livius tam iniquus Sallustio<br />

fuit ut hanc ipsam sententiam et tamquam translatam et tamquam corruptam dum<br />

transfertur obiceret Sallustio. Nec hoc amore Thucy<strong>di</strong><strong>di</strong>s facit, ut illum praeferat, sed laudat<br />

quem non timet et facilius putat posse a se Sallustium vinci si ante a Thucy<strong>di</strong>de vincatur.<br />

(contr. IX,1,14), “Ma <strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong> è così ingiusto nei confronti <strong>di</strong> Sallustio da rimproverargli<br />

sia <strong>di</strong> aver tradotto questa frase, sia <strong>di</strong> averla rovinata traducendola. E fa questo non per<br />

5 Contr. IX,1,13: Multa oratores, historici, poetae Romani a Graecis <strong>di</strong>cta non subripuerunt sed<br />

provocaverunt. Tunc deinde rettulit (sc. Arellio Fusco) aliquam Thucy<strong>di</strong><strong>di</strong>s sententiam: deinaiì ga\r ai¸<br />

eu)praci¿ai sugkru/yai kaiì suskia/sai ta\ e(ka/stwn a(marth/mata, deinde Sallustianam: res secundae mire<br />

sunt vitiis obtentui. [Hist. 1,55 (or. Lep.), 24]. Cum sit praecipua in Thucy<strong>di</strong>de virtus brevitas, hac<br />

eum Sallustius vicit et in suis illum castris ceci<strong>di</strong>t; nam in sententia Graeca tam brevi h<strong>ab</strong>es quae<br />

salvo sensu detrahas: deme vel sugkru/yai vel suskia/sai, deme e(ka/stwn: const<strong>ab</strong>it sensus, etiamsi<br />

non aeque comptus, aeque tamen integer. At ex Sallusti sententia nihil demi sine detrimento sensus<br />

potest., “In molti casi oratori, storici, poeti romani non hanno rubato ai Greci le loro parole, ma si<br />

sono posti in competizione con loro. Riferì quin<strong>di</strong> una frase <strong>di</strong> Tuci<strong>di</strong>de: ‘I successi in effetti sono<br />

efficaci per nascondere e mettere in ombra gli errori <strong>di</strong> ciascuno’, e poi una <strong>di</strong> Sallustio: ‘I successi<br />

fanno mir<strong>ab</strong>ilmente da schermo ai vizi’. Benché la brevità sia la dote precipua <strong>di</strong> Tuci<strong>di</strong>de,<br />

Sallustio con questa frase lo ha superato, e lo ha sbaragliato nel suo campo stesso. Nella frase<br />

greca, pur così breve, ci sono parole che si possono togliere senza danneggiare il senso: togli<br />

nascondere o mettere in ombra, togli <strong>di</strong> ciascuno; il senso sopravviverà, anche se non egualmente<br />

adorno, tuttavia egualmente compiuto. Dalla frase <strong>di</strong> Sallustio invece nulla si può togliere senza<br />

che il senso ne sia danneggiato”. La “frase <strong>di</strong> Tuci<strong>di</strong>de” non compare nell’opera giunta a noi; una<br />

formulazione molto simile, ma non identica, si legge invece in una epistola a Filippo <strong>di</strong> (o<br />

attribuita a) Demostene, ep. Phil. 13: ai( ga\r eu)praci/ai deinai\ sugkru/yai kaiì suskia/sai ta\j a(marti/aj<br />

tw=n a)nqrw/pwn ei)si/n.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 5<br />

amore <strong>di</strong> Tuci<strong>di</strong>de, per anteporlo a Sallustio, ma loda un autore che non teme, e ritiene<br />

<strong>di</strong> poter più facilmente superare Sallustio, se prima Sallustio è superato da Tuci<strong>di</strong>de.”<br />

Le testimonianze <strong>di</strong> Quintiliano e <strong>di</strong> Seneca Padre in<strong>di</strong>cano soltanto la posizione <strong>di</strong><br />

<strong>Livio</strong> nei confronti <strong>di</strong> una tendenza dell’eloquenza contemporanea: egli condannava<br />

l’oscurità arcaizzante, ed era favorevole a modelli classici, quali Demostene e Cicerone.<br />

Anche il giu<strong>di</strong>zio su Sallustio, forse malevolo, va nella medesima <strong>di</strong>rezione. Da questi<br />

pochi dati non si può dedurre che <strong>Livio</strong> avesse scritto opere <strong>di</strong> retorica; si potrebbe<br />

piuttosto pensare ad una attività <strong>di</strong> retore professionale, o quasi: <strong>Livio</strong> avrebbe cioè<br />

frequentato le scuole <strong>di</strong> retorica, e tenuto declamazioni. Un’ultima testimonianza <strong>di</strong><br />

Seneca Padre parrebbe appoggiare questa ipotesi: pertinere ad rem non puto quomodo<br />

Lucius Magius, gener Titi Livi, declamaverit, quamvis aliquo tempore suum populus<br />

h<strong>ab</strong>uerit, cum illum homines non in ipsius honorem laudarent, sed in soceri fere (contr. X,<br />

pr.2), “non mette conto valutare le qualità <strong>di</strong> declamatore <strong>di</strong> Lucio Magio, genero <strong>di</strong> <strong>Tito</strong><br />

<strong>Livio</strong>, per quanto egli <strong>ab</strong>bia avuto per un certo tempo un suo pubblico: la gente infatti<br />

prob<strong>ab</strong>ilmente lo applau<strong>di</strong>va per rendere onore non a lui ma al suocero”.<br />

E’ però possibile, anzi prob<strong>ab</strong>ile, che fosse la fama <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> storico, non<br />

declamatore, che procurava al genero consensi che Seneca giu<strong>di</strong>ca non del tutto meritati.<br />

Dalle testimonianze <strong>di</strong> Quintiliano e Seneca Padre si ricava anche, in<strong>di</strong>rettamente, che lo<br />

storico ebbe un figlio e una figlia.<br />

Rapporti con Augusto. Sui rapporti <strong>di</strong> amicizia <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> con Augusto <strong>ab</strong>biamo una<br />

testimonianza famosa <strong>di</strong> Tacito, che a Cremuzio Cordo, uno storico processato sotto<br />

Tiberio per aver elogiato nella sua opera storica i cesarici<strong>di</strong>, fa pronunciare queste parole:<br />

Titus Livius, eloquentiae et fidei praeclarus in primis, Gnaeum Pompeium tantis lau<strong>di</strong>bus<br />

tulit ut Pompeianum eum Augustum appellaret neque id eorum amicitiae offecit (ann. IV,34),<br />

“<strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong>, autore fra i più illustri per eloquenza e per atten<strong>di</strong>bilità, esaltò con tanto<br />

entusiasmo Pompeo che Augusto lo chiamava ‘Pompeiano’: ma questo non guastò la loro<br />

amicizia”.<br />

Svetonio (Claud. 41,1) ricorda che da giovane Clau<strong>di</strong>o fu incoraggiato da <strong>Livio</strong> a<br />

coltivare i suoi interessi per la storiografia, e a comporre un’opera storica per la quale gli<br />

fornì aiuto e consiglio: ciò conferma i rapporti <strong>di</strong> <strong>di</strong>mestichezza e amicizia dello storico<br />

con la corte.<br />

Queste sono tutte le notizie che gli antichi hanno tramandato su <strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong>:<br />

certamente egli non intraprese la carriera politica, ma de<strong>di</strong>cò l’intera sua vita alla<br />

composizione della sua monumentale opera storica.<br />

La città natale esercitò indubbiamente su <strong>di</strong> lui una forte influenza. Padova, che la<br />

tra<strong>di</strong>zione voleva fondata da Antenore, profugo troiano, prima <strong>di</strong> Roma (al tempo<br />

all’incirca in cui Enea approdava sulle coste del Lazio), era al tempo <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> un centro


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 6<br />

commerciale assai fiorente e ricco; aveva anche fama – in contrasto con Roma – <strong>di</strong> essere<br />

<strong>di</strong> costumi molto morigerati e severi. Parlando <strong>di</strong> una matrona <strong>di</strong> origine padovana<br />

modello <strong>di</strong> modestia e <strong>di</strong> virtù, così si esprime Plinio il Giovane: “Serrana è persino per i<br />

Padovani un modello <strong>di</strong> austerità” (ep.1,14,6).<br />

Con<strong>di</strong>zione sociale ed educazione. La famiglia doveva essere <strong>di</strong> con<strong>di</strong>zioni agiate:<br />

<strong>Livio</strong> ricevette infatti evidentemente una buona educazione, e poté de<strong>di</strong>care tutta la vita<br />

agli stu<strong>di</strong> e all’attività letteraria senza preoccupazioni economiche. Dovette ricevere a<br />

Padova i primi elementi della sua istruzione, o forse, più prob<strong>ab</strong>ilmente, a Padova<br />

frequentò l’intero ciclo <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>: ludus, scuola del grammaticus e scuola del rhetor. <strong>Gli</strong><br />

allievi più ricchi e più dotati in genere completavano a Roma la loro istruzione (scuola del<br />

rhetor); ma quando <strong>Livio</strong> aveva l’età (circa 16 anni) a cui <strong>di</strong> solito si iniziava a frequentare<br />

la scuola <strong>di</strong> retorica, non era forse il momento più adatto per mandare un ragazzo a<br />

stu<strong>di</strong>are nella capitale (secondo la cronologia alta, n. 64, infuriava la guerra civile fra<br />

Cesare e Pompeo; secondo quella bassa, n. 59, la guerra contro i cesarici<strong>di</strong> e poi tra<br />

Ottaviano e Antonio). Forse non compì neppure il viaggio in Grecia, che spesso<br />

concludeva il corso <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>: i pirati <strong>di</strong> Sesto Pompeo infestavano i mari, e i viaggi erano<br />

pericolosi.<br />

Patavinitas. La Patavinitas infine, a qualunque caratteristica si riferisca, sembra<br />

in<strong>di</strong>care che <strong>Livio</strong> <strong>ab</strong>bia trascorso gli anni formativi nella città natale. Come attesta<br />

Quintiliano, “Asinio Pollione, ritiene che in <strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong>, uomo <strong>di</strong> facon<strong>di</strong>a straor<strong>di</strong>naria, vi<br />

sia una certa qual patina padovana” 6. Il contesto in cui Quintiliano inserisce questa<br />

osservazione mostra che egli riferiva il giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> Pollione a caratterisitiche linguistiche,<br />

che avrebbero rivelato l’origine padovana dello scrittore. Ma Quintiliano non <strong>di</strong>ce in che<br />

cosa consistesse la “padovanità” <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>, e forse non era in grado <strong>di</strong> rilevare nel latino <strong>di</strong><br />

<strong>Livio</strong> caratteri provinciali. E’ possibile che in realtà il rilievo <strong>di</strong> Pollione non riguardasse<br />

peculiarità <strong>di</strong> lingua o <strong>di</strong> stile, ma il moralismo, il conservatorismo <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>, che ben si<br />

accordano con i costumi proverbialmente austeri della sua patria d’origine, e sono<br />

evidenti nella sua opera.<br />

Composizione dell’opera storica. A Roma comunque <strong>Livio</strong> si recò prima <strong>di</strong><br />

iniziare la composizione dell’ opera storica, forse anche per consultare testi che a Padova<br />

non erano <strong>di</strong>sponibili. Non <strong>ab</strong>biamo testimonianze certe che consentano <strong>di</strong> datare con<br />

precisione questo viaggio da Padova alla capitale, ma si può egualmente in<strong>di</strong>care come<br />

anno più prob<strong>ab</strong>ile il 30, o il 29. Il tono della prefazione generale dell’opera lascia<br />

supporre che <strong>Livio</strong> si accinga comporla per uno stato ormai in pace, per richiamare i<br />

citta<strong>di</strong>ni – conclusisi gli orrori delle guerre civili – ai mores <strong>di</strong> un tempo. Dopo Azio,<br />

6<br />

Et in <strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong>, mirae facun<strong>di</strong>ae viro, putat inesse Pollio Asinius quandam Patavinitatem, Quint.<br />

8,1,3


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 7<br />

Ottaviano si apprestava a restaurare la pace: prob<strong>ab</strong>ilmente <strong>Livio</strong> intraprese il viaggio a<br />

Roma solo dopo il 31, quando Antonio e Cleopatra erano stati definitivamente sconfitti.<br />

Forse era presente a Roma nell’estate del 29, e assistette al ritorno trionfale <strong>di</strong> Ottaviano<br />

dall’Oriente. Se è così, possiamo assegnare due anni alle ricerche preliminari, e alla<br />

composizione del primo libro, che fu pubblicato fra il 27, e il 25 (dopo il 27 e prima del<br />

25), come si deduce da un dato interno. In 1,19,3 <strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong> scrive che fu il re Numa ad<br />

introdurre l’usanza <strong>di</strong> in<strong>di</strong>care con la chiusura o l’apertura del tempio <strong>di</strong> Giano se la città<br />

fosse in pace o in guerra. Fornita questa notizia, aggiunge che dopo il regno <strong>di</strong> Numa due<br />

volte soltanto, nella storia <strong>di</strong> Roma, il tempio fu chiuso: sotto il consolato <strong>di</strong> <strong>Tito</strong> Manlio,<br />

alla fine della prima guerra punica (241), e post bellum Actiacum <strong>ab</strong> imperatore Caesare<br />

Augusto pace terra marique parta, “dopo la guerra <strong>di</strong> Azio, quando la pace fu rist<strong>ab</strong>ilita<br />

per terra e per mare dall’imperatore Cesare Augusto”. Ottaviano assunse il titolo <strong>di</strong><br />

Augusto nel 27 (terminus post quem), e chiuse una seconda volta il tempio <strong>di</strong> Giano nel<br />

25 (terminus ante quem). E’ ovvio che in questo contesto <strong>Livio</strong> avrebbe menzionato questa<br />

nuova chiusura delle porte del tempio da parte <strong>di</strong> Augusto; si deduce dunque con<br />

certezza dal suo silenzio che il primo libro fu scritto, e prob<strong>ab</strong>ilmente pubblicato, prima<br />

<strong>di</strong> quella data.<br />

Libri conservati e periǒchae. L’opera, che giunse a 142 <strong>libri</strong>, copriva il periodo<br />

che va dalla fondazione <strong>di</strong> Roma (anzi dall’arrivo <strong>di</strong> Enea in Italia) alla morte <strong>di</strong> Druso,<br />

nel 9 a.C. Ne rimangono soltanto 35: 1-10 e 21-45 (relativi agli anni 754-293; e 219-167<br />

a.C.)<br />

Certamente la mole dell’opera non ne favorì la sopravvivenza: ben presto se ne<br />

fecero epitomi, compen<strong>di</strong>, estratti, e la maggior parte del testo originario andò perduto.<br />

Oltre ai <strong>libri</strong> in<strong>di</strong>cati, posse<strong>di</strong>amo le periǒchae <strong>di</strong> tutti i <strong>libri</strong> (tranne due 136 e 137): sono<br />

riassunti <strong>di</strong> breve o brevissima estensione, molto utili però non soltanto per conoscere il<br />

contenuto dei <strong>libri</strong> perduti, ma anche per avere un’idea del piano generale dell’opera.<br />

E’ molto prob<strong>ab</strong>ile che il primo libro, che <strong>ab</strong>braccia l’intero periodo regio, sia stato<br />

pubblicato separatamente. Il secondo libro infatti si apre con una nuova, breve<br />

prefazione. Con la pubblicazione del primo libro (oltre che, secondo l’uso, con letture<br />

pubbliche <strong>di</strong> brani nel corso della composizione) l’opera cui <strong>Livio</strong> stava lavorando <strong>di</strong>venne<br />

nota. Essa venne poi pubblicata, molto prob<strong>ab</strong>ilmente, a gruppi <strong>di</strong> <strong>libri</strong> (5 o 10), a mano<br />

a mano che veniva composta. Ogni gruppo <strong>di</strong> <strong>libri</strong> doveva aprirsi con una apposita<br />

prefazione o premessa 7. Certamente il principe seguiva con interesse il procedere del<br />

7 A volte si tratta solo <strong>di</strong> un breve riepilogo della parte già composta e <strong>di</strong> un annuncio del nuovo<br />

tema: così è ad es. l’introduzione al libro 2, che sottolinea il fondamentale passaggio dalla<br />

monarchia alla res publica; anche quella con cui si apre il libro 21, più solenne, sottopone al<br />

lettore l’importanza del tema che verrà trattato (la guerra annibalica, che occupa 10 <strong>libri</strong>),<br />

presentando i due popoli che si affrontarono, i motivi dell’ostilità, le alterne vicende del lungo


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 8<br />

lavoro; e informò tempestivamente lo storico <strong>di</strong> una importante scoperta archeologica,<br />

perché egli potesse inserire nella sua opera la notizia: cosa che <strong>Livio</strong> naturalmente fa 8,<br />

cogliendo l’occasione <strong>di</strong> tributare un elogio al principe, e anche <strong>di</strong> mostrare la sua grande<br />

<strong>di</strong>mestichezza con lui.<br />

conflitto e la sua conclusione. In altri casi invece la prefazione contiene considerazioni più<br />

personali, riguardanti l’atteggiamento dello storico verso la sua opera, e la <strong>di</strong>fficoltà del compito in<br />

cui è impegnato: <strong>di</strong> questo genere è la prefazione al libro 6, in cui <strong>Livio</strong> lamenta – con argomenti<br />

prob<strong>ab</strong>ilmente presi in prestito da Clau<strong>di</strong>o Quadrigario – la mancanza <strong>di</strong> documenti sicuri per il<br />

periodo antecedente l’incen<strong>di</strong>o gallico, <strong>di</strong> cui ha appena concluso il racconto, ed annuncia per la<br />

parte successiva un resoconto più sicuro, fondato sulla maggior <strong>di</strong>sponibilità <strong>di</strong> documenti<br />

atten<strong>di</strong>bili. Così la prefazione al libro 31, oltre a rilevare formalmente la cesura costituita dalla<br />

conclusione della seconda guerra punica narrata nella decade precedente, esprime lo sconforto<br />

dello storico per la mole del lavoro, che invece <strong>di</strong> ridursi cresce a <strong>di</strong>smisura a mano a mano che<br />

l’opera procede. Tono ancora più personale aveva a quanto pare la prefazione ad uno dei <strong>libri</strong><br />

perduti, in cui – come si apprende da Plinio il Vecchio, n.h. praef. 16 – lo storico <strong>di</strong>chiarava <strong>di</strong><br />

essersi ormai conquistato sufficiente gloria, ma che il suo animo inquieto gli impe<strong>di</strong>va <strong>di</strong> porre<br />

fine alla sua fatica. Evidentemente, alla maniera degli annalisti antichi, <strong>Livio</strong> non aveva un punto<br />

d’arrivo prefissato, ma procedeva seguendo la successione cronologica degli avvenimenti, per<br />

giungere fino all’età contemporanea.<br />

8 In 4,23,2.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 9<br />

GLI AB URBE CONDITA LIBRI<br />

<strong>Tito</strong>lo Di solito le opere storiografiche <strong>di</strong> impianto annalistico, quale è quella <strong>di</strong><br />

<strong>Livio</strong>, si intitolavano annales oppure historiae 9. <strong>Livio</strong> scelse invece un titolo <strong>di</strong>verso da<br />

quelli più usuali, semplice e preciso, <strong>ab</strong> <strong>urbe</strong> <strong>con<strong>di</strong>ta</strong> <strong>libri</strong>. Era consuetu<strong>di</strong>ne <strong>ab</strong>bastanza<br />

<strong>di</strong>ffusa nella storiografia sia greca sia latina quella <strong>di</strong> iniziare l’esposizione dei fatti dal<br />

punto in cui si concludeva l’opera <strong>di</strong> un predecessore, oppure da una data prima della<br />

quale i fatti si supponevano noti o già sufficientemente trattati; a volte questo punto <strong>di</strong><br />

partenza veniva in<strong>di</strong>cato nel titolo, con un <strong>ab</strong>lativo <strong>di</strong> allontanamento. Possiamo citare,<br />

anche se più tarde <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>, l’opera storica <strong>di</strong> Plinio il Vecchio (perduta) a fine Aufi<strong>di</strong>i<br />

Bassi; e gli annales <strong>di</strong> Tacito, il cui vero titolo era, forse, <strong>ab</strong> excessu <strong>di</strong>vi Augusti. <strong>Livio</strong><br />

non si riallaccia a nessun predecessore, e sceglie come punto <strong>di</strong> partenza l’inizio stesso<br />

della storia <strong>di</strong> Roma.<br />

Fonti documentarie. Si può affermare con certezza che per la sua opera storica<br />

<strong>Livio</strong> non fece ricorso né a documenti originali né in genere a ricerche <strong>di</strong> prima mano. I<br />

documenti che avrebbe potuto consultare a Roma erano:<br />

1. gli annales maximi, una raccolta in 80 volumi delle tavole annuali su cui il<br />

pontefice massimo annotava, anno dopo anno, i fatti <strong>di</strong> maggior importanza (esito <strong>di</strong> una<br />

campagna militare, pro<strong>di</strong>gi, andamento dell’annata agricola), per metterne al corrente<br />

con tempestività il popolo. Quando l’uso <strong>di</strong> compilare la tavola ogni anno cessò (fra il 132<br />

e il 114), tutto l’archivio conservato nella regia del pontefice venne pubblicato<br />

(prob<strong>ab</strong>ilmente per la parte più antica della storia <strong>di</strong> Roma le tavole o non erano mai<br />

esistite, o erano andate perdute: ma chi curò la pubblicazione provvide a ricostruire la<br />

storia <strong>di</strong> Roma fin dall’inizio)<br />

2. gli archivi privati delle gentes. Come si apprende da numerose testimonianze<br />

antiche ogni gens custo<strong>di</strong>va con cura la propria storia, tramandandola e arricchendola<br />

generazione dopo generazione. Tale uso è certamente connesso con lo ius imaginum, il<br />

<strong>di</strong>ritto gentilizio <strong>di</strong> conservare nell’atrio della casa le immagini in cera (prob<strong>ab</strong>ilmente<br />

busti o maschere) degli antenati, sotto le quali erano annotati il nome del personaggio, le<br />

cariche ricoperte, forse anche le imprese compiute. Di qui nasce il liber commentarius,<br />

cioè la storia della famiglia: a questo liber si attingevano le notizie per la composizione<br />

degli elogi funebri, pronunciati durante il funerale da un figlio o un parente del morto:<br />

oltre ai meriti del defunto , venivano ricordate anche le imprese degli antenati, per<br />

mostrare che il personaggio elogiato le aveva eguagliate o superate. Anche i testi degli<br />

9 Servio, ad Aen. I,373 afferma che gli annales riguardano le epoche più lontane, le historiae<br />

invece i fatti recenti, cui l’autore ha potuto assistere; osserva anche che l’opera <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> comprende<br />

sia annales sia historiae.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 10<br />

elogia venivano conservati nell’archivio della gens, e arricchivano così il corpus delle<br />

testimonianze sulla storia della famiglia. Di solito in questi archivi privati si<br />

conservavano anche gli acta, cioè i documenti ufficiali relativi all’attività che i membri<br />

della famiglia avevano svolto come magistrati. Questo complesso <strong>di</strong> memorie relative alla<br />

gens, che aveva ogni interesse ad esaltare se stessa e i propri antenati, non sempre era<br />

del tutto atten<strong>di</strong>bile: sia Cicerone (Brutus, 61 s.) sia <strong>Livio</strong> (8,40,4), riferendosi in<br />

particolare agli elogi funebri, affermano che avevano riempito <strong>di</strong> menzogne la storia più<br />

antica <strong>di</strong> Roma. E’ prob<strong>ab</strong>ile che quella parte degli annales dei pontefici ricostruita (dopo<br />

l’incen<strong>di</strong>o gallico, e anche in seguito) rispecchiasse la tra<strong>di</strong>zione delle famiglie nobili più<br />

potenti, che certo non furono estranee a questa ricostruzione. Le falsificazioni più<br />

comuni, come si apprende da Cicerone, riguardavano le cariche conseguite: a volte si<br />

attribuivano ai propri antenati trionfi falsi e consolati più numerosi del vero. Inoltre,<br />

grazie anche al fatto che i nomi gentilizi erano relativamente pochi, era possibile inserirsi<br />

in una stirpe <strong>di</strong>versa dalla propria e più illustre <strong>di</strong> identico nomen, impadronendosi <strong>di</strong><br />

antenati altrui la cui stirpe si fosse estinta: “come se io – esemplifica Cicerone –<br />

sostenessi <strong>di</strong> <strong>di</strong>scendere da Manio Tullio, un patrizio che fu console insieme a Servio<br />

Sulpicio <strong>di</strong>eci anni dopo la cacciata dei re”.<br />

Per quanto dunque notoriamente viziati da falsificazioni <strong>di</strong> questo genere, gli<br />

archivi privati esistevano, e contenevano documenti pubblici anche importanti, e<br />

consultarli, confrontandoli eventualmente tra loro, poteva essere molto utile nella<br />

ricostruzione storica.<br />

3. i senatus consulta, cioè i decreti votati dal senato: al tempo <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> erano<br />

<strong>di</strong>sponibili e consult<strong>ab</strong>ili, in forma <strong>di</strong> libro. I testi delle leggi e dei trattati erano più<br />

<strong>di</strong>spersi, ma procurarseli e consultarli non era impossibile: dobbiamo a Polibio la<br />

citazione fedele del testo <strong>di</strong> tutti i trattati stipulati tra Roma e Cartagine prima della<br />

seconda guerra punica (3,22-26)<br />

4. elenchi <strong>di</strong> magistrati erano conservati nei Fasti e nei <strong>libri</strong> lintei, custo<strong>di</strong>ti –<br />

questi ultimi – nel tempio <strong>di</strong> Giunone Moneta.<br />

<strong>Livio</strong> non <strong>di</strong>ce mai <strong>di</strong> aver <strong>di</strong>rettamente consultato qualcuno <strong>di</strong> questi documenti;<br />

e <strong>ab</strong>biamo alcune prove che non lo fece.<br />

Ad es. in 4,23,2 lo storico cita le versioni contrastanti <strong>di</strong> due annalisti, Macro e<br />

Tuberone, sui nomi dei consoli dell’anno 434: eppure entrambi, osserva <strong>Livio</strong>, adducono<br />

a sostegno della propria notizia la medesima fonte documentaria, i <strong>libri</strong> lintei. <strong>Livio</strong> aveva<br />

la possibilità <strong>di</strong> appurare chi dei due avesse ragione, andando a consultare<br />

personalmente questo documento; invece preferisce lasciare la questione in sospeso: sit<br />

inter cetera vetustate cooperta hoc quoque in incerto positum; “fra le altre questioni che<br />

sono sommerse dall’antichità, lasciamo anche questa nell’incertezza”.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 11<br />

Molto significativo è l’atteggiamento assunto dallo storico a proposito <strong>di</strong> un<br />

documento – prob<strong>ab</strong>ilmente falso 10, ma questo non ha importanza – <strong>di</strong> cui fu informato<br />

da Augusto in persona. In 4,17-19 <strong>Livio</strong> narra che nel 438 la colonia <strong>di</strong> Fidene si ribellò<br />

ai Romani, e si alleò a Tolumnio, re dei Veienti. Il senato decide che la <strong>di</strong>rezione della<br />

guerra sia affidata ad un <strong>di</strong>ttatore, e viene nominato Mamerco Emilio. Nello sconto<br />

decisivo, e alla fine vittorioso, davanti alle mura <strong>di</strong> Fidene, si <strong>di</strong>stinse il tribuno militare<br />

Aulo Cornelio Cosso, che uccise il generale nemico, il re Tolumnio: spogliato, com’era<br />

consuetu<strong>di</strong>ne, il cadavere delle armi (e tagliatane la testa), portò questo prezioso trofeo<br />

nella processione del trionfo, accordato dal senato al generale vittorioso Mamerco Emilio,<br />

e de<strong>di</strong>cò poi, con una solenne cerimonia, le “spoglie opime” (quelle del generale Tolumnio)<br />

a Giove Feretrio nel suo tempio. Il racconto si conclude con l’osservazione che in quel<br />

giorno Cosso fu esaltato e ammirato più del <strong>di</strong>ttatore stesso, e con l’affermazione che<br />

questa versione dei fatti è attestata da tutte le fonti (omnes ante me auctores<br />

secutus...exposui, <strong>di</strong>ce <strong>Livio</strong> in 4,20,5). Solo a questo punto egli inserisce notizia del<br />

documento nuovo scoperto da Augusto, che mette in <strong>di</strong>scussione la versione dei fatti che<br />

ha appena dato: “però, a parte il fatto che <strong>di</strong> regola sono considerate spoglie opime solo<br />

quelle che un comandante supremo ha tolto ad un altro comandante supremo, [...]<br />

l’iscrizione stessa che si trova su quelle spoglie <strong>di</strong>mostra, contro quegli storici e anche<br />

contro <strong>di</strong> me, che Cosso le conquistò essendo console. Quando io appresi che Cesare<br />

Augusto, fondatore e restauratore <strong>di</strong> tutti i templi, entrato nel tempio <strong>di</strong> Giove Feretrio,<br />

che fece ricostruire perché rovinato dall’azione del tempo, lesse personalmente questa<br />

iscrizione sulla corazza <strong>di</strong> lino, mi parve quasi un sacrilegio togliere a Cosso e alle sue<br />

spoglie la testimonianza <strong>di</strong> Cesare, restauratore del tempio stesso” (4,20,6-8). Forse <strong>Livio</strong><br />

non ritenne necessario verificare <strong>di</strong> persona l’iscrizione “Aulo Cornelio Cosso console” sul<br />

reperto archeologico, ma questo è secondario; quello che importa rilevare è che non<br />

riscrive la sua ricostruzione storica, sulla base <strong>di</strong> questo nuovo documento <strong>di</strong> cui è<br />

venuto a conoscenza; si limita a <strong>di</strong>chiarare che gli antichi annali dai quali ha tratto la<br />

sua versione debbono essere in errore. E c’è <strong>di</strong> più. Quando, a soli 12 capitoli <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza,<br />

nomina nuovamente Cornelio Cosso scrive: “era comandante della cavalleria quel<br />

10 Non solo sembra <strong>di</strong>fficile che su una corazza <strong>di</strong> lino, certo sporca <strong>di</strong> sangue, si potesse scrivere<br />

qualcosa, ma soprattutto è improb<strong>ab</strong>ile che l’indumento si fosse potuto conservare intatto per<br />

oltre quattro secoli, in un tempio <strong>di</strong>roccato ed esposto all’azione degli elementi. Come argomentò<br />

persuasivamente il Dessau (“Hermes” 41,1906, 142 ss.), il reperto fu f<strong>ab</strong>bricato prob<strong>ab</strong>ilmente per<br />

respingere la richiesta, avanzata nel 29 a.C., da Lucio Licinio Crasso, proconsole <strong>di</strong> Macedonia, <strong>di</strong><br />

poter offrire gli spolia opima tolti al capo dei Bastarni, che aveva ucciso in battaglia. Come si<br />

apprende da Dione Cassio (51,24,4), Ottaviano gli rifiutò questo onore motivandolo con il fatto che<br />

Crasso in quella circostanza non deteneva il pieno imperium. Naturalmente Crasso avrebbe potuto<br />

invocare il precedente <strong>di</strong> Aulo Cornelio Cosso, se davvero, come narra <strong>Livio</strong>, egli era solo tribuno<br />

militare quando gli fu accordato questo onore. Occorreva allora <strong>di</strong>mostrare che questa tra<strong>di</strong>zione<br />

era errata, e che Cosso in realtà era console: fu dunque f<strong>ab</strong>bricata la prova, e Augusto ebbe cura<br />

<strong>di</strong> farla conoscere a <strong>Tito</strong> <strong>Livio</strong>.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 12<br />

medesimo Aulo Cornelio Cosso che da tribuno militare nella precedente guerra, dopo<br />

aver ucciso il re dei Veienti Tolumnio sotto gli occhi dei due eserciti, ne aveva recato le<br />

spoglie opime nel tempio <strong>di</strong> Giove Feretrio” (4,32,4).<br />

Un altro esempio, molto più semplice, della scarsa considerazione accordata da<br />

<strong>Livio</strong> ai documenti originali (e questo, a <strong>di</strong>fferenza della corazza <strong>di</strong> lino <strong>di</strong> Tolumnio, si<br />

<strong>di</strong>rebbe un documento davvero autentico) è offerto dalle stime sull’entità numerica delle<br />

truppe condotte da Annibale in Italia. In 21,38,2-3, dopo aver detto che fra gli autori non<br />

vi è accordo su questo dato, elenca tre stime <strong>di</strong>fferenti: “quelli che danno le cifre più alte<br />

parlano <strong>di</strong> 100.000 fanti e 20.000 cavalieri quelli che danno le più basse <strong>di</strong> 20.000 fanti e<br />

<strong>di</strong> 6.000 cavalieri; Cincio Alimento, che scrive <strong>di</strong> essere stato fatto prigioniero da<br />

Annibale, sarebbe certo il più atten<strong>di</strong>bile, sen non che confonde il numero,<br />

aggiungendovi i Galli e i Liguri (80.000 fanti e 10.000 cavalieri)”. Come si vede, a parte il<br />

rilievo su Cincio Alimento, le altre due stime, la più alta e la più bassa, sono accostate,<br />

senza che lo storico si pronunci su quella che ritiene più atten<strong>di</strong>bile. Eppure aveva a<br />

<strong>di</strong>sposizione un elemento sicuro per scegliere. La stima più bassa corrisponde infatti<br />

esattamente a quella fornita da Polibio (3,33 e 56), che senza dubbio è la fonte <strong>di</strong> <strong>Livio</strong><br />

per questo dato. Ma Polibio aggiungeva <strong>di</strong> aver letto le cifre che riferisce su una stele <strong>di</strong><br />

bronzo, fatta iscrivere da Annibale in persona al capo Lacinio (nell’o<strong>di</strong>erna Cal<strong>ab</strong>ria).<br />

Dietro l’espressione generica “quelli che danno la stima più bassa” c’è con ogni<br />

prob<strong>ab</strong>ilità soltanto il testo <strong>di</strong> Polibio.<br />

<strong>Livio</strong> non solo non affronta la ricerca della documentazione originale, ma anche<br />

quando si imbatte, senza averlo cercato, in uno <strong>di</strong> questi documenti, non vi attribuisce<br />

molta importanza, e lo pone sul medesimo piano delle sue fonti letterarie.<br />

Fonti letterarie e metodo del loro impiego. In sostanza il metodo <strong>di</strong> <strong>Livio</strong><br />

consiste nell’acquisire, come materiale su cui lavorare, le opere storiche precedenti,<br />

senza risalire oltre. E per un’opera <strong>di</strong> mole così vasta come gli <strong>ab</strong> <strong>urbe</strong> <strong>con<strong>di</strong>ta</strong> <strong>libri</strong> questo<br />

era prob<strong>ab</strong>ilmente il solo metodo possibile. Il lavoro <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> consistette dunque in gran<br />

parte nel tradurre nella prosa augustea, in una veste letteraria accurata e attraente, il<br />

materiale già raccolto da altri. Chi erano questi “altri”?<br />

Non rientrava nelle consuetu<strong>di</strong>ni degli storici antichi l’in<strong>di</strong>cazione esauriente delle<br />

fonti usate; per lo più una fonte veniva menzionata o per criticarla, oppure,<br />

occasionalmente, per in<strong>di</strong>care <strong>di</strong> un fatto versioni <strong>di</strong>verse da quella accolta. Quando le<br />

fonti impiegate sono concor<strong>di</strong>, o l’autore non ritiene degna <strong>di</strong> nota una determinata<br />

variante della versione che ha prescelto, non c’è da attendersi nessuna menzione della<br />

fonte o delle fonti.<br />

Tuttavia è stato possibile ricostruire con una certa prob<strong>ab</strong>ilità le fonti <strong>di</strong> cui <strong>Livio</strong><br />

dovette valersi: per la prima decade gli annalisti romani più antichi (da F<strong>ab</strong>io Pittore a


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 13<br />

Clau<strong>di</strong>o Quadrigario e Valerio Anziate); per la terza (seconda guerra punica) soprattutto<br />

Celio Antipatro e Polibio; e ancora Polibio, oltre agli annalisti e a Catone, per la quarta e<br />

la quinta.<br />

Si ritiene per lo più che per ogni sezione dell’opera <strong>Livio</strong>, pur tenendo presenti più<br />

fonti, ne segua principalmente soltanto una, impiegando le altre come riscontro, e<br />

menzionandole <strong>di</strong> tanto in tanto brevemente, soprattutto nei casi <strong>di</strong> forte <strong>di</strong>vergenza con<br />

la fonte principale, che cambia a seconda del periodo e/o dell’argomento trattato. In<br />

generale <strong>Livio</strong> non contamina tra loro le fonti, ma sceltane una per ogni sezione,<br />

riorganizza e riscrive i fatti da quella presentati secondo le su esigenze stilistiche,<br />

aggiungendovi le proprie considerazioni morali, politiche, religiose. Solo alla fine del<br />

racconto principale cita talvolta le opinioni <strong>di</strong>vergenti <strong>di</strong> altre fonti, in modo per lo più<br />

assai conciso. Le fonti secondarie insomma sono <strong>di</strong> solito aggiunte al racconto principale,<br />

non consultate prima, in modo da inserire nel racconto principale correzioni e mo<strong>di</strong>fiche,<br />

quando le fonti secondarie offrano una versione o interpretazione più prob<strong>ab</strong>ile. Per es.<br />

nel caso <strong>di</strong> Cornelio Cosso egli non tenta <strong>di</strong> me<strong>di</strong>are tra le testimonianze contrastanti,<br />

per offrire del fatto la sua ricostruzione; si limita a giustapporre le <strong>di</strong>fferenti versioni. Il<br />

confronto con la sola fonte sopravvissuta <strong>di</strong> una certa estensione, Polibio, sembra<br />

in<strong>di</strong>care che questo fosse il metodo <strong>di</strong> lavoro <strong>ab</strong>ituale <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>: quando fonte principale è<br />

Polibio, la traccia del suo racconto è seguita in modo fedele e chiaramente riconoscibile.<br />

Non c’è ragione <strong>di</strong> ritenere che per tutte le sezioni dell’opera per le quali il confronto con<br />

la fonte non è possibile il metodo <strong>di</strong> lavoro non fosse il medesimo.<br />

Naturalmente l’impiego <strong>di</strong> più fonti può comportare qualche volta, nel passaggio<br />

dall’una all’altra, ripetizioni e contrad<strong>di</strong>zioni: può accadere che lo storico non riconosca,<br />

leggendone in fonti <strong>di</strong>verse, il medesimo fatto, e lo registri due volte; o anche che <strong>di</strong> un<br />

unico fatto offra, in sezioni <strong>di</strong>verse dell’opera, versioni contrastanti11. 11 Questo accade anche, sorprendentemente, per qualche fatto importante e memor<strong>ab</strong>ile. Tale è il<br />

famoso riscatto imposto dai Galli per <strong>ab</strong>bandonare l’asse<strong>di</strong>o del Campidoglio; come lo storico<br />

narra in 5, 48-49, Camillo giunse appena in tempo per impe<strong>di</strong>re questa onta, e sconfisse e cacciò i<br />

Galli con due battaglie. Accenni successivi a questa vicenda (10,16,6; 22,59,7; 34,5,9) sembrano<br />

invece dar per scontato che il riscatto fosse stato pagato (come prob<strong>ab</strong>ilmente avvenne). E’ vero<br />

che le menzioni successive sono tutte all’interno <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorsi, non nella parte narrativa, e dunque la<br />

respons<strong>ab</strong>ilità dell’affermazione che il riscatto fu pagato è del personaggio che parla. Almeno in un<br />

caso però ci si attenderebbe un rinvio alla versione offerta dallo storico in 5,48-49. Il capo dei<br />

rappresentanti dei prigionieri romani catturati da Annibale dopo Canne, da lui inviati a Roma per<br />

ottenere che il senato paghi il loro riscatto ricorda, in appoggio alla richiesta, il precedente famoso<br />

con queste parole: maiores quoque acceperamus se a Gallis auro redemisse (22,59,7),“avevamo<br />

appreso che anche i nostri antenati si erano riscattati con l’oro dai Galli”. Nel lungo <strong>di</strong>scorso<br />

(22,60) con cui Manlio Torquato argomenta in senato la propria opposizione ad accogliere la<br />

richiesta non c’è nemmeno un accenno a quell’episo<strong>di</strong>o; eppure, ricordare la “vera” versione del<br />

fatto (quella <strong>di</strong> 5,48-49) sarebbe stato un ulteriore argomento a favore della decisione – che poi il<br />

senato prese – <strong>di</strong> non pagare, neppure ora, il riscatto dei prigionieri. Si <strong>di</strong>rebbe quasi che <strong>Livio</strong><br />

stesso non se ne ricor<strong>di</strong> più.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 14<br />

CARATTERI IDEOLOGICI DELLA STORIA DI LIVIO<br />

Scopo <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> non è soltanto, come è proprio <strong>di</strong> ogni storico, tramandare il ricordo<br />

<strong>di</strong> eventi importanti: a questo intento fondamentale, che naturalmente è presente, si<br />

unisce una chiara impostazione ideologica (<strong>Livio</strong> vuole anche <strong>di</strong>mostrare qualcosa),<br />

guidata da quello che in breve si potrebbe definire “pregiu<strong>di</strong>zio patriottico”.<br />

Come si deduce dalla prefazione generale dell’opera, <strong>Livio</strong> non aveva dei compiti e<br />

dello scopo della storiografia un’idea nuova o insolita: anch’egli ritiene, come molti storici<br />

prima e dopo <strong>di</strong> lui, che la storia debba essere magistra vitae, che debba insegnare.<br />

L’insegnamento cui egli soprattutto mira non è <strong>di</strong> tipo pragmatico come in Polibio, che si<br />

rivolge in modo prevalente ad un ben selezionato pubblico, quello degli uomini politici,<br />

che dall’analisi dei fatti del passato possono trarre in<strong>di</strong>cazioni utili per meglio svolgere il<br />

proprio compito. <strong>Livio</strong> si rivolge ad un pubblico vasto e indeterminato, che dalla sua<br />

opera, si augura, potrà trarre un insegnamento <strong>di</strong> tipo morale. Semplificando un poco si<br />

può <strong>di</strong>re che il lettore <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> trova nella sua opera l’esaltazione della virtù e la condanna<br />

del vizio. In tal modo <strong>Livio</strong> si inserisce perfettamente nella tra<strong>di</strong>zione storiografica<br />

precedente, che nella Roma degli antenati vedeva il modello dello stato perfetto, l’esempio<br />

<strong>di</strong> tutte le virtù etiche e politiche, tanto più idealizzate quanto meno esse appaiono<br />

praticate nell’età presente. Il moralismo <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> però non è astratto, né – salvo poche<br />

eccezioni – pedante e pre<strong>di</strong>catorio; fondato sui valori della Roma antica, appare per lo più<br />

incarnato dai personaggi, illustrato dalle loro azioni, è insomma <strong>di</strong> solito interno alla<br />

narrazione stessa: la lezione che occorre trarne è spesso affidata, con un espe<strong>di</strong>ente<br />

semplice ed efficace, alle parole dei personaggi stessi. Non mancano naturalmente anche<br />

commenti espliciti del narratore, ma non sono né estesi né frequenti.<br />

Sfera morale e sfera politica sono in <strong>Livio</strong> strettamente connesse: l’attività politica<br />

e militare dei Romani, ispirata e guidata dalle virtù, ha fatto grande l’imperium (è questa<br />

l’idea base che sostiene la prefazione generale dell’opera).<br />

Prima <strong>di</strong> analizzare la prefazione, cercheremo <strong>di</strong> illustrare, con qualche esempio, <strong>di</strong><br />

che cosa sia fatta questa virtù, quali qualità specifiche secondo <strong>Livio</strong> essa comprenda,<br />

tenendo presente che essa si esplica sempre nella vita sociale, e che il fine <strong>di</strong> ogni<br />

comportamento virtuoso è sempre e soltanto la salus rei publicae, il bene dello stato.<br />

Religione: pietas e fides. L’elogio che <strong>ab</strong>biamo avuto occasione <strong>di</strong> menzionare12 tributato da <strong>Livio</strong> ad Augusto restitutor dei templi e della religione tra<strong>di</strong>zionale degli avi,<br />

lo scrupolo con cui lo storico riferisce pro<strong>di</strong>gi ed espiazioni, sembrano in<strong>di</strong>care<br />

12 4,20,6-8, riportato qui sopra, p. 11.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 15<br />

un’adesione sincera e personale dello storico alla religione tra<strong>di</strong>zionale. Ma in altri passi<br />

egli assume invece un atteggiamento scettico e razionale, soprattutto per quanto<br />

riguarda la ingenua credenza nel <strong>di</strong>retto intervento degli dèi nelle vicende <strong>di</strong> Roma. Per<br />

es. in 1,4,2, sulla leggenda delle origini, e sulla nascita <strong>di</strong> Romolo <strong>di</strong>rettamente da Marte,<br />

lo storico <strong>di</strong>ce: “la Vestale (Rea Silvia) fu violata e <strong>di</strong>ede alla luce due gemelli, e sia che<br />

così credesse veramente, sia che l’attribuire ad un <strong>di</strong>o la causa della colpa ne <strong>di</strong>minuisse<br />

il <strong>di</strong>sonore, assegnò a Marte la paternità dell’incerta prole”. Analogo è l’atteggiamento<br />

dello storico a proposito dell’apoteosi <strong>di</strong> Romolo 13 (1,16). Molto chiaro è anche il suo<br />

commento all’istituzione dei riti religiosi <strong>di</strong> parte <strong>di</strong> Numa, che in sostanza presenta la<br />

religione come un efficacissimo instrumentum regni: “Chiusolo (sc. il tempio <strong>di</strong> Giano),<br />

dopo aver legato a sé con trattati <strong>di</strong> alleanza tutti i popoli confinanti, messa da parte ogni<br />

preoccupazione <strong>di</strong> pericoli esterni, per impe<strong>di</strong>re che gli animi, che fino ad allora la paura<br />

dei nemici e la <strong>di</strong>sciplina militare avevano mantenuto sotto controllo, nella pace si<br />

sfrenassero, pensò <strong>di</strong> dover prima <strong>di</strong> tutto incutervi il timore degli dèi, cosa efficacissima<br />

per una massa ignorante e rozza quale era a quel tempo. Poiché questo timore non<br />

poteva penetrare negli animi senza l’invenzione <strong>di</strong> qualcosa <strong>di</strong> soprannaturale, Numa fece<br />

credere <strong>di</strong> avere degli incontri notturni con la dea Egeria; e che per suo consiglio egli<br />

andava istituendo i riti più gra<strong>di</strong>ti agli dèi, e assegnava a ciascun <strong>di</strong>o sacerdoti suoi<br />

propri” (1,19,4-5).<br />

Più ambigua e sfumata è la posizione <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> a proposito dei pro<strong>di</strong>gi. Spesso egli<br />

inserisce nel racconto liste <strong>di</strong> pro<strong>di</strong>gi e delle relative espiazioni, così come le trovava nelle<br />

sue fonti annalistiche, senza aggiungervi nessun commento. In un caso però si sente in<br />

dovere <strong>di</strong> spiegare per quale ragione così coscienziosamente egli registri nella sua opera<br />

fenomeni <strong>di</strong> questo genere. Il tono è <strong>di</strong>fensivo, come <strong>di</strong> chi voglia rispondere a critiche,<br />

reali o immaginate. Prima <strong>di</strong> riferire una <strong>di</strong> queste liste <strong>di</strong> pro<strong>di</strong>gi, relativa all’anno 169<br />

a.C., <strong>di</strong>chiara: “Mi rendo ben conto che a causa dell’in<strong>di</strong>fferenza religiosa (neglegentia)<br />

che oggi ispira la convinzione che gli dèi non preannuncino nulla, nessun pro<strong>di</strong>gio viene<br />

più ufficialmente annunciato né registrato nelle memorie storiche. Ma poiché io scrivo <strong>di</strong><br />

tempi antichi, anche l’animo mio <strong>di</strong>venta in certo modo antico, e una sorta <strong>di</strong> scrupolo<br />

13 1,16. La scomparsa improvvisa <strong>di</strong> Romolo durante un temporale, mentre passava in rassegna le<br />

truppe, getta nello sgomento la folla; ma i patres subito la rassicurano: Romolo è stato rapito in<br />

cielo ed è <strong>di</strong>venuto un <strong>di</strong>o. Il fatto straor<strong>di</strong>nario viene confermato poco tempo dopo dalla<br />

testimonianza <strong>di</strong> un senatore, Giulio Proculo, al quale Romolo stesso <strong>di</strong>vinizzato è apparso,<br />

affidandogli un importante messaggio per il suo popolo, con queste precise parole: “Va’, annuncia<br />

ai Romani che gli dèi vogliono che la mia Roma sia la capitale del mondo; coltivino dunque l’arte<br />

della guerra, e sappiano e traman<strong>di</strong>no ai posteri che nessuna potenza umana potrà resistere alle<br />

armi romane” (1,16,7). Fra la scomparsa improvvisa <strong>di</strong> Romolo e il racconto fatto da Giulio<br />

Proculo del suo incontro con il re <strong>di</strong>vinizzato, <strong>Livio</strong> menziona anche, molto brevemente, e senza<br />

<strong>di</strong>scuterla, una versione ben <strong>di</strong>versa: “Credo che già allora ci siano stati <strong>di</strong> quelli che senza <strong>di</strong>rlo<br />

sospettavano che il re fosse stato fatto a pezzi con le loro mani dai senatori” (1,16,4)


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 16<br />

religioso (religio) mi impe<strong>di</strong>sce <strong>di</strong> considerare indegni della mia storia fatti <strong>di</strong> cui quegli<br />

uomini assai saggi (illi prudentissimi viri, i Romani <strong>di</strong> un tempo) ritennero dovesse<br />

occuparsi lo stato” (43,13,1). A volte, su singoli pro<strong>di</strong>gi, egli si mostra incredulo; ed è ben<br />

consapevole che, in tempi <strong>di</strong> terrore e sconfitta, può verificarsi una psicosi religiosa<br />

collettiva: “molti pro<strong>di</strong>gi si verificarono in quell’inverno, o, come solitamente avviene<br />

quando le menti degli uomini sono piene del terrore religioso, molti furono riferiti e<br />

precipitosamente creduti” (21,62,1). Ciononostante <strong>Livio</strong> nota molto spesso che<br />

l’inosservanza dei riti, l’in<strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> fronte ai pro<strong>di</strong>gi, furono causa <strong>di</strong> <strong>di</strong>sastri e<br />

sconfitte; senza dare una personale adesione incon<strong>di</strong>zionata alla fede in questi fenomeni,<br />

<strong>Livio</strong> ne sottolinea tuttavia l’importanza, senza escludere che i pro<strong>di</strong>gi possano essere, o<br />

forse fossero nei tempi antichi, più puri e incorrotti, una manifestazione della volontà<br />

<strong>di</strong>vina, che non è comunque saggio ignorare: religio e pietas degli antichi sono insomma<br />

considerati dallo storico valori positivi, elementi imprescin<strong>di</strong>bili della virtù del popolo<br />

romano.<br />

Nella interpretazione globale della storia <strong>di</strong> Roma, ma in particolar modo nella<br />

prima decade, si riconosce poi una idea guida <strong>di</strong> carattere religioso (che sembra iscriversi<br />

nel provvidenzialismo stoico): la grandezza <strong>di</strong> Roma non è frutto del caso, è preor<strong>di</strong>nata<br />

e provvidenziale. Per es. prima <strong>di</strong> riferire, con le riserve che <strong>ab</strong>biamo ricordato 14, la<br />

leggenda dei gemelli, <strong>Livio</strong> <strong>di</strong>chiara: sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo urbis<br />

maximique secundum deorum opes imperii principium (1,4,1), “dai fati era fissata, io credo,<br />

l’origine <strong>di</strong> una città così grande, e l’inizio del dominio più grande dopo la potenza degli<br />

dèi”. Per quanto scettico possa essere sulla leggenda che ingenuamente connette in modo<br />

<strong>di</strong>retto con un <strong>di</strong>o l’origine <strong>di</strong> Roma, <strong>Livio</strong> è però convinto che fin dalla sua nascita la<br />

città fu assistita dalla benevolenza degli dèi, o del fato. Una benevolenza non immotivata,<br />

ma al contrario legata <strong>di</strong>rettamente alla virtù straor<strong>di</strong>naria del popolo che gli dèi hanno<br />

scelto <strong>di</strong> proteggere. Ma anche <strong>di</strong> mettere continuamente alla prova. Ricorrono, nella<br />

prima decade, frasi finali che tendono ad ottenere l’impressione che una necessità<br />

impersonale intervenga spesso a saggiare le virtù civiche e militari del popolo romano,<br />

per renderlo tanto forte da dominare il mondo, ma anche moralmente degno <strong>di</strong> guidarlo.<br />

Il nuovo stato è minacciato da popoli stranieri; il fatto viene dallo storico introdotto con<br />

queste parole: “perché il medesimo ciclo <strong>di</strong> avvenimenti ricorresse ogni anno (ut idem in<br />

singulos orbis volveretur), ecco che gli Ernici annunziarono che i Volsci e gli Equi, per<br />

quanto le loro forze fossero state duramente provate, stavano ricostituendo i loro eserciti”<br />

(3,10,9). Se non vi sono minacce esterne, i Romani sono travagliati da <strong>di</strong>fficoltà interne:<br />

Etruschi e Sanniti sono quieti e, almeno momentaneamente, in pace con Roma; la plebe<br />

14 1,4,2: v. qui sopra, p. 15.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 17<br />

è tranquilla, e impegnata nella deduzione <strong>di</strong> colonie. Tamen, ne un<strong>di</strong>que tranquillae res<br />

essent, scoppiò per istigazione dei tribuni della plebe una contesa tra i primores civitatis<br />

(10,6,3). Se vi è pace con gli altri popoli e concor<strong>di</strong>a all’interno, ecco che scoppia una<br />

pestilenza, o qualche altra calamità naturale affligge i Romani. Anche queste sciagure<br />

sono introdotte da frasi del medesimo tipo: et <strong>ab</strong> se<strong>di</strong>tione et a bello quietis rebus, ne<br />

quando a metu ac periculo vacarent, pestilentia ingens orta (7,1,7), “la situazione era<br />

tranquilla, senza <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ni interni né guerra: perché non potessero essere mai liberi da<br />

paura e pericoli, scoppiò una grave pestilenza”. Questa intenzione <strong>di</strong> non lasciar mai<br />

tranquilli i Romani sembra da attribuire al fato, che, in armonia con il <strong>di</strong>segno<br />

provvidenziale che guida il corso degli eventi, mette alla prova lo spirito <strong>di</strong> resistenza dei<br />

Romani.<br />

Coerente con questa visione provvidenziale è anche il concetto liviano <strong>di</strong> fortuna<br />

(espresso con termini vari: fortuna, fatum, fors). Il concetto <strong>di</strong> fortuna come entità<br />

volubile e capricciosa, che <strong>di</strong>stribuisce il suo favore in modo del tutto arbitrario, e spesso<br />

favorisce l’ingiusto e sconvolge i <strong>di</strong>segni umani, era largamente impiegato nella<br />

letteratura ellenistica: esso compare, per quanto raramente, anche in <strong>Livio</strong>, ma per lo più<br />

in <strong>di</strong>scorsi, che non necessariamente riflettono il pensiero dell’autore. Più caratteristico e<br />

più frequente, e costante nelle parti narrative, in cui lo storico parla in prima persona, è<br />

il concetto <strong>di</strong> fortuna come entità che ha il compito <strong>di</strong> mantenere l’armonia del mondo, <strong>di</strong><br />

assecondare l’opera della provvidenza o degli dèi. In luogo della contrapposizione, molto<br />

sfruttata nella letteratura ellenistica, e non solo, <strong>di</strong> virtù e fortuna, in <strong>Livio</strong> troviamo<br />

invece un sostanziale accordo dei due concetti: secondo <strong>Livio</strong> <strong>di</strong> solito la fortuna protegge<br />

la virtù (e punisce il vizio). Tale concetto è espresso frequentemente nella formula fortuna<br />

populi Romani, fortuna urbis. La protezione accordata dalla fortuna a Roma è congiunta<br />

con la virtù dei citta<strong>di</strong>ni, e ne risultano per lo stato prosperità e potenza.<br />

A volte naturalmente la fortuna <strong>ab</strong>bandona i Romani, ma <strong>di</strong> solito <strong>Livio</strong> mette in<br />

relazione questi momenti con una colpa o una mancanza, verso gli dèi o verso gli uomini,<br />

in seguito alla quale la fortuna ha voltato le spalle ai suoi beniamini.<br />

Per esempio la conquista <strong>di</strong> Roma da parte dei Galli è preceduta da una grave<br />

colpa dei Romani, che <strong>Livio</strong> debitamente sottolinea (5,35-37). Minacciati dai Galli, gli<br />

<strong>ab</strong>itanti <strong>di</strong> Chiusi mandano ambasciatori a Roma a chiedere aiuti. Roma, che non era<br />

legata a Chiusi da nessun trattato <strong>di</strong> alleanza, decide per il momento solo l’invio <strong>di</strong> tre<br />

ambasciatori, incaricati <strong>di</strong> intavolare trattative con i Galli, per cercare, in qualità <strong>di</strong><br />

me<strong>di</strong>atori, <strong>di</strong> far sì che i contendenti giungano ad un accordo. La trattativa fallisce, e i<br />

Galli attaccano la città <strong>di</strong> Chiusi. I tre ambasciatori romani, invece <strong>di</strong> rientrare in patria a<br />

riferire al senato l’esito della missione, si uniscono ai Clusini, e partecipano ai<br />

combattimenti, <strong>di</strong>stinguendosi per il loro valore. Uno <strong>di</strong> loro uccide il comandante dei


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 18<br />

Galli. Questo comportamento sleale è condannato da <strong>Livio</strong> con queste parole: ibi, iam<br />

urgentibus Romanam <strong>urbe</strong>m fatis, legati contra ius gentium arma capiunt (5,36,6), “un<br />

destino <strong>di</strong> rovina già incombeva su Roma: contro il <strong>di</strong>ritto delle genti, gli ambasciatori<br />

impugnarono le armi”. E’ soprattutto la colpa che in<strong>di</strong>gna i Galli, e attira sui Romani la<br />

giusta punizione. Da questo momento in poi infatti tutto va a rovescio per Roma, che<br />

commette un errore dopo l’altro. I Galli mandano ambasciatori a Roma a protestare per<br />

l’offesa, e a chiedere la consegna dei tre legati <strong>di</strong>sonesti. Il senato, pur riconoscendo la<br />

legittimità della richiesta dei Galli, si lascia dominare dalla potenza della gens F<strong>ab</strong>ia, cui<br />

i tre ambasciatori appartenevano, e rimette la decisione al popolo, che si schiera a favore<br />

dei legati colpevoli: in tal modo la colpa dei tre viene assunta dall’intera collettività dei<br />

citta<strong>di</strong>ni. <strong>Gli</strong> ambasciatori galli se ne vanno ormai decisamente ostili, e pronti a muover<br />

guerra a Roma, haud secus quam <strong>di</strong>gnum erat commenta <strong>Livio</strong>. Abbandonati ormai dalla<br />

fortuna, i Romani sottovalutano il nemico, e si preparano alla guerra nel modo or<strong>di</strong>nario:<br />

non viene nominato un <strong>di</strong>ttatore, non si intensificano le leve, “a tal punto – osserva <strong>Livio</strong><br />

– la fortuna acceca gli animi, quando non vuole che la sua forza incalzante sia<br />

ostacolata”. La descrizione della battaglia presso il fiume Allia che segue poco dopo mira<br />

ancora, in modo evidente, a <strong>di</strong>mostrare che la fortuna ha <strong>ab</strong>bandonato i Romani. Dopo<br />

aver descritto lo schieramento dei due eserciti, e l’<strong>ab</strong>ile manovra dei Galli, <strong>Livio</strong><br />

commenta: adeo non fortuna modo, sed ratio etiam cum barbaris st<strong>ab</strong>at (5,38,4). Dalla<br />

parte dei Romani nihil simile Romanis, non apud duces, non apud milites erat; gli animi<br />

sono invasi dal panico, tutti pensano solo a fuggire, e nella retroguar<strong>di</strong>a alcuni, nella<br />

confusione della fuga, si feriscono e uccidono a vicenda. L’insistenza sull’ostilità <strong>di</strong>vina,<br />

che acceca le menti e paralizza i Romani al punto che non sembrano più Romani, serve<br />

anche a scagionarli in parte della vergogna per questa sconfitta. Ma all’origine <strong>di</strong> questo<br />

<strong>di</strong>sastro (e <strong>di</strong> quello peggiore che seguirà, la conquista della città stessa) c’è la grave<br />

colpa commessa dai Romani, ripetutamente ricordata da <strong>Livio</strong>: giustamente la fortuna<br />

cum barbaris st<strong>ab</strong>at. L’insistenza sull’accecamento dei colpevoli, che richiama la tecnica<br />

della trage<strong>di</strong>a, e che forse <strong>Livio</strong> imita dal filone della storiografia drammatica o tragica,<br />

non serve tanto a giustificare la sconfitta e a salvare l’onore militare <strong>di</strong> Romani, ma a<br />

mostrare la gravità irrime<strong>di</strong><strong>ab</strong>ile della colpa commessa. Lo storico naturalmente non<br />

trascura le cause propriamente militari e contingenti della sconfitta (sottovalutazione del<br />

nemico e leva inadeguata), ma queste vengono subor<strong>di</strong>nate alla violazione della fides, cui<br />

segue la punizione <strong>di</strong>vina.<br />

La fides verso gli uomini, strettamente connessa alla pietas verso gli dèi, è però in<br />

generale una delle virtù tipicamente romane: innumerevoli esempi del rispetto scrupoloso<br />

della parola data, <strong>di</strong> lealtà nella condotta <strong>di</strong> guerra, <strong>di</strong> osservanza dei trattati illustrano<br />

come secondo <strong>Livio</strong> questa virtù sia particolarmente gra<strong>di</strong>ta agli dèi, e assicuri la loro


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 19<br />

protezione a coloro che la praticano. Certo, qualche volta (come nel caso appena<br />

ricordato) i Romani vengono meno alla fides, ma si tratta <strong>di</strong> deplorevoli eccezioni, come lo<br />

storico non manca <strong>di</strong> rilevare, con commenti ingenui e facilmente preve<strong>di</strong>bili. Quando il<br />

re Tarquinio il Superbo, non riuscendo ad impadronirsi della città <strong>di</strong> G<strong>ab</strong>ii, ricorse a<br />

fraus e dolus, lo storico non manca <strong>di</strong> rilevare che si trattava <strong>di</strong> arti “per nulla romane”<br />

(1,53,4).<br />

Molto significativo per illustrare questo atteggiamento dello storico è un episo<strong>di</strong>o<br />

della seconda guerra punica. Dopo Canne, Annibale offre ai prigionieri romani catturati<br />

la possibilità <strong>di</strong> essere riscattati. Fissato il prezzo del riscatto, <strong>di</strong>eci prigionieri vengono<br />

inviati a Roma, perché trattino la questione in senato: nec pignus aliud fidei, quam ut<br />

iurarent se re<strong>di</strong>turos, acceptum (22,58,6), “non si pretese da loro altro pegno <strong>di</strong> lealtà se<br />

non che giurassero <strong>di</strong> ritornare” (sc. se la trattativa con il senato non avesse avuto esito<br />

positivo). Evidentemente anche Annibale sapeva che i Romani non vengono mai meno<br />

alla fides, e ritenne il giuramento una garanzia sufficiente. Ma in uno almeno <strong>di</strong> quei<br />

<strong>di</strong>eci la fiducia <strong>di</strong> Annibale era mal riposta: uno <strong>di</strong> loro infatti, subito definito da <strong>Livio</strong><br />

minime Romani ingeni homo (22,58,8), appena uscito dal campo <strong>di</strong> Annibale con i<br />

compagni, vi fa ritorno, fingendo <strong>di</strong> aver <strong>di</strong>menticato qualcosa, e si scioglie così in<br />

anticipo dal giuramento. Poi li raggiunge e si reca a Roma con loro. Il senato decide <strong>di</strong><br />

non accettare la proposta <strong>di</strong> riscatto, e i prigionieri tristi vengono accompagnati alle porte<br />

della città, per far ritorno al campo <strong>di</strong> Annibale. Resta a Roma solo quello che con<br />

l’inganno si era sciolto da quell’obbligo; il senato però lo fa arrestare e ricondurre sotto<br />

scorta al campo <strong>di</strong> Annibale. Un comportamento esemplare, che riscatta i Romani dalla<br />

colpa <strong>di</strong> quel solo prigioniero. Tuttavia esisteva – e la menziona anche <strong>Livio</strong> – anche<br />

un’altra versione, assai meno e<strong>di</strong>ficante, dell’episo<strong>di</strong>o: tutti e <strong>di</strong>eci i prigionieri erano<br />

ricorsi al medesimo stratagemma, e il senato permise loro <strong>di</strong> rimanere a Roma.<br />

Politica interna. I valori supremi nell’ambito della vita civile sono per <strong>Livio</strong> la<br />

libertas e la concor<strong>di</strong>a. Il contenuto politico della libertas viene efficacemente sintetizzato<br />

da <strong>Livio</strong> nella premessa al secondo libro: Liberi iam hinc populi Romani res pace belloque<br />

gestas, annuos magistratus, imperiaque legum potenti ora quam hominum peragam (2,1,1),<br />

“Tratterò <strong>di</strong> qui in avanti le imprese in pace e in guerra del popolo romano ormai libero,<br />

le magistrature annuali e il dominio delle leggi più potente <strong>di</strong> quello degli uomini”.<br />

L’ultimo dei re, prosegue lo storico, aveva reso più desider<strong>ab</strong>ile, con la sua superbia, la<br />

libertà; i consoli annuali furono garanzia contro la tirannide e l’arbitrio, garanzia resa<br />

st<strong>ab</strong>ile da Bruto, che impose a tutto il popolo romano <strong>di</strong> giurare solennemente “che non<br />

avrebbe mai più consentito a nessuno <strong>di</strong> regnare a Roma” (2,1,9). La libertas si<br />

caratterizza dunque in primo luogo come antitesi al regnum, voc<strong>ab</strong>olo che ha sempre in


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 20<br />

<strong>Livio</strong> una connotazione negativa. L’accusa, o anche solo il vago sospetto, <strong>di</strong> aspirare al<br />

regnum è la più grave che possa colpire un uomo politico. Garanzia della libertas contro il<br />

pericolo del regnum è l’avvicendamento annuale al potere supremo; il suo contenuto<br />

specifico, l’essenza della libertas, è il dominio della legge. Il concetto viene sviluppato da<br />

<strong>Livio</strong>, secondo una consuetu<strong>di</strong>ne frequente, non in forma <strong>di</strong> commento <strong>di</strong>retto ai fatti, ma<br />

attraverso le argomentazioni dei sostenitori della monarchia. La repubblica appena nata<br />

deve subito affrontare un grave pericolo: un complotto dei Tarquini cacciati mira ad<br />

imporre <strong>di</strong> nuovo il regno, con l’aiuto e la complicità <strong>di</strong> elementi della nobiltà romana<br />

scontenti del nuovo stato <strong>di</strong> cose. Le considerazioni <strong>di</strong> questi giovani nobili, che, coetanei<br />

e compagni dei giovani Tarquini, si erano <strong>ab</strong>ituati ormai a vivere more regio, sono riferite<br />

dallo storico in forma <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorso in<strong>di</strong>retto: “ora che tutti avevano eguali <strong>di</strong>ritti, la libertà<br />

degli altri si era risolta nella loro servitù; un re, <strong>di</strong>cevano, è un uomo, dal quale si può<br />

ottenere quando occorra il giusto e l’ingiusto; è accessibile al favore e al beneficio, può<br />

a<strong>di</strong>rarsi e perdonare, sa <strong>di</strong>stinguere l’amico dal nemico; le leggi invece sono cosa sorda,<br />

che non si piega alle preghiere, più giovevole e buona per il debole che per il potente; se<br />

si oltrepassa il limite imposto non si può sperare né indulgenza né perdono; è pericoloso<br />

insomma essere costretti a vivere contando solo sull’onestà, essendo la natura umana<br />

tanto debole e incline all’errore” (2,3,3).<br />

La concor<strong>di</strong>a è per <strong>Livio</strong> essenziale nella vita dello stato: essa si configura come<br />

coll<strong>ab</strong>orazione armoniosa, che comporta moderazione, buon senso, rinuncia, spirito <strong>di</strong><br />

sacrificio, in vista <strong>di</strong> un bene superiore. Essa riguarda i comandanti in guerra<br />

(innumerevoli gli esempi <strong>di</strong> <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>a fra i capi che provoca <strong>di</strong>sastri e sconfitte), i<br />

magistrati in pace, ma soprattutto le classi sociali (concor<strong>di</strong>a or<strong>di</strong>num). Quest’ultima è un<br />

bene assoluto, da ottenere e conservare a qualsiasi costo. Proprio in questa prospettiva<br />

vengono da <strong>Livio</strong> presentati i contrasti dei primi secoli della repubblica fra patrizi e plebei,<br />

certo molto idealizzati. Lo storico coglie ogni occasione per sottolineare e lodare i<br />

provve<strong>di</strong>menti atti a promuovere la concor<strong>di</strong>a. Si tratta dapprima <strong>di</strong> graziose concessioni<br />

fatte dai patrizi alla plebe perché si mantenga <strong>di</strong>sciplinata e obbe<strong>di</strong>ente, e soprattutto<br />

faccia la guerra quando è necessario. Bruto amplia a 300 il numero dei senatori,<br />

immettendovi un certo numero <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> rango equestre: “questo giovò<br />

straor<strong>di</strong>nariamente – commenta <strong>Livio</strong> – alla concor<strong>di</strong>a della città, e a conciliare ai patrizi<br />

l’animo della plebe” (2,1,11). Porsenna sta preparando la guerra contro Roma; il senato è<br />

preoccupato, teme che la plebe, pur <strong>di</strong> avere la pace, accetti <strong>di</strong> nuovo i re e la servitù.<br />

Allora si mostra largo <strong>di</strong> blan<strong>di</strong>menta per la plebe: gran<strong>di</strong> rifornimenti <strong>di</strong> grano,<br />

nazionalizzazione del sale, esenzione dai dazi e dal tributo <strong>di</strong> guerra per la plebe.<br />

Naturalmente il risultato è quello voluto: “questa generosità del senato, anche più tar<strong>di</strong>,<br />

quando la città fu asse<strong>di</strong>ata e mancavano i viveri, mantenne la città così concorde che il


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 21<br />

nome <strong>di</strong> re era o<strong>di</strong>ato dai più umili non meno che dai sommi citta<strong>di</strong>ni, e in seguito<br />

nessun uomo politico <strong>di</strong>venne con cattive arti tanto popolare quanto allora il senato tutto<br />

con il suo buon governo” (2,9,7-8).<br />

La notizia della morte <strong>di</strong> Tarquinio il Superbo in esilio segna l’inizio <strong>di</strong> un periodo<br />

più <strong>di</strong>fficile: dopo aver fino a quel momento trattato con ogni riguardo la plebe, gli<br />

aristocratici iniziano a vessarla. Che cosa fecero <strong>di</strong> preciso <strong>Livio</strong> non <strong>di</strong>ce, si limita a<br />

questa in<strong>di</strong>cazione piuttosto vaga: iniuriae a primoribus fieri coeptae (2,21,76). Scoppia<br />

all’improvviso la rivolta della plebe, e le cause <strong>di</strong> essa sono appena accennate:<br />

“incombeva la minaccia della guerra contro i Volsci, e la città <strong>di</strong>scorde al suo interno<br />

ardeva per l’o<strong>di</strong>o fra patrizi e plebei, soprattutto a causa della schiavitù per debiti<br />

(maxime propter nexos ob aes alienum)” (2,23,1). Si tratta <strong>di</strong> un tema del tutto nuovo, ma<br />

<strong>Livio</strong> vi accenna brevemente come se fosse cosa già nota (forse sono queste le iniuriae dei<br />

patrizi contro la plebe?) Con una tecnica <strong>ab</strong>ituale, piuttosto che analizzare le cause della<br />

rivolta, <strong>Livio</strong> preferisce presentarle drammaticamente con un episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> grande effetto.<br />

Un vecchio trasandato, macilento, stracciato si precipita nel foro, dove molti riconoscono<br />

in lui un antico centurione che nell’esercito si era fatto onore. Radunatasi una grande<br />

folla, il vecchio spiega tra i lamenti la ragione del suo aspetto attuale: mentre prestava<br />

servizio nell’esercito, le sue terre erano state devastate, la fattoria bruciata, il bestiame<br />

rubato; ridottosi in miseria e indebitatosi, era <strong>di</strong>venuto schiavo del suo cre<strong>di</strong>tore. C’erano<br />

evidentemente molti nella con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> questo personaggio, se poco dopo la plebe si<br />

rifiuta <strong>di</strong> arruolarsi per la guerra contro i Volsci; un e<strong>di</strong>tto che impone ai cre<strong>di</strong>tori <strong>di</strong><br />

lasciar liberi i debitori perché essi possano arruolarsi risolve sul momento la situazione.<br />

Sconfitto il nemico e passato il pericolo, la situazione torna quella <strong>di</strong> prima, e <strong>di</strong> nuovo i<br />

plebei, ad una nuova minaccia <strong>di</strong> guerra (da parte <strong>di</strong> S<strong>ab</strong>ini), rifiutano l’arruolamento,<br />

opponendosi anche ai littori che hanno il compito <strong>di</strong> arrestare i ribelli. Nemmeno in<br />

questa circostanza, afferma <strong>Livio</strong>, si giunse alla violenza; l’intervento dei consoli sedò la<br />

rissa, nella quale sine lapide sine telo plus clamoris atque irarum quam iniuriae fuerat<br />

(2,29,4), “nessuno aveva messo mano a pietre o armi, e c’era stato più chiasso e r<strong>ab</strong>bia<br />

che vera violenza”.<br />

Quando per la terza volta i patrizi si rifiutano <strong>di</strong> prendere in considerazione e <strong>di</strong><br />

cercare <strong>di</strong> risolvere la questione dei debiti, si arriva alla secessione sul Monte Sacro. I<br />

patrizi sono sconfitti, ma la concor<strong>di</strong>a va rist<strong>ab</strong>ilita ad ogni costo. Queste le<br />

considerazioni che lo storico attribuisce ai patrizi: “fino a quando quella moltitu<strong>di</strong>ne che<br />

si era ritirata se ne sarebbe rimasta tranquilla? Che cosa sarebbe accaduto, se nel<br />

frattempo fosse scoppiata una guerra esterna? Certo non restava nessuna speranza, se<br />

non la concor<strong>di</strong>a fra i citta<strong>di</strong>ni. Bisognava restituirla alla città con qualsiasi mezzo,<br />

giusto o ingiusto”(2,32,6-7). Si manda così Menenio Agrippa, “uomo eloquente e caro alla


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 22<br />

plebe”, che con la nota favoletta 15 persuade i ribelli ad intavolare trattative, che<br />

porteranno ad una delle più importanti conquiste per la plebe, l’istituzione, nel 493, del<br />

tribunato della plebe (2,32,8-33,1). Pochissime parole <strong>Livio</strong> spende per spiegare le<br />

caratteristiche <strong>di</strong> questa magistratura – che certo poteva presumere sufficientemente<br />

nota ai suoi lettori -, né accenna più alla questione dei debiti, dalla quale la <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>a<br />

aveva avuto origine.<br />

In tutto il lungo racconto del primo conflitto fra patrizi e plebei è notevole<br />

l’insistenza con cui <strong>Livio</strong> ripete che non si giunse mai, da nessuna delle due parti, alla<br />

violenza aperta, pur essendo gli interessi in gioco così importanti. Questa presentazione è<br />

certo, se non proprio una falsificazione dei dati, almeno una idealizzazione. Qualche atto<br />

violento c’era stato, e risulta da <strong>Livio</strong> stesso: in un <strong>di</strong>scorso Coriolano (2,34,11) si<br />

riferisce a devastazioni e razzie che durante la secessione la plebe aveva compiuto nei<br />

campi dei patrizi.<br />

Anche a proposito delle successive conquiste della plebe – la co<strong>di</strong>ficazione delle<br />

leggi in un testo scritto (XII tavole) 16, la lex Canuleia (<strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> conubium fra patrizi e<br />

plebei) 17 , le leges Liciniae Sextiae 18 (la più importante delle quali accordava ai plebei<br />

l’accesso al consolato) – <strong>Livio</strong> rileva tutti gli esempi <strong>di</strong> moderazione, che consentirono il<br />

mantenimento della concor<strong>di</strong>a pur nel corso <strong>di</strong> questo duro conflitto. Ad es. dopo aver<br />

ottenuto che anche i plebei possano essere eletti tribuni consolari (tappa interme<strong>di</strong>a nella<br />

lotta per il consolato), la plebe elegge alla carica soltanto dei patrizi, e <strong>Livio</strong> commenta:<br />

“tale moderazione, equità e altezza d’animo che allora tutto il popolo <strong>di</strong>mostrò, dove si<br />

potrebbero trovare oggi in un uomo solo?” (4,6,12). In questo caso la moderazione<br />

consiste nel rinunciare a valersi subito del <strong>di</strong>ritto appena conquistato; la concor<strong>di</strong>a in<br />

effetti il più delle volte scaturisce dal mantenimento, spontaneamente accettato,<br />

dell’or<strong>di</strong>ne sociale esistente. L’approvazione <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> per esempi <strong>di</strong> moderazione <strong>di</strong> questo<br />

tipo in<strong>di</strong>ca chiaramente che il suo atteggiamento è fondamentalmente conservatore. Ciò è<br />

15<br />

Il racconto, con la sua morale esplicita, è questo: “Al tempo in cui nell’uomo non c’era, come ora,<br />

accordo armonioso fra tutte le sue parti, ma ciascuna <strong>di</strong> esse era dotata <strong>di</strong> pensiero e <strong>di</strong> parola<br />

autonomi, le altre parti si risentirono che il loro impegno, la loro fatica, i loro servigi andassero<br />

tutti esclusivamente a vantaggio del ventre, e che il ventre invece se ne stesse senza far nulla nel<br />

mezzo, limitandosi a godere dei piaceri che gli venivano offerti; fecero allora una congiura,<br />

concordando fra loro che le mani non portassero il cibo alla bocca, che la bocca non lo accogliesse,<br />

che i denti non lo masticassero. A causa <strong>di</strong> questa ribellione, mentre volevano soggiogare il ventre<br />

con la fame, le singole membra e il corpo tutto quanto si ridussero ad un deperimento estremo.<br />

Fu evidente allora che anche il ventre aveva una sua funzione, non passiva, e che era nutrito non<br />

più <strong>di</strong> quanto esso stesso nutrisse, <strong>di</strong>stribuendo in ogni parte del corpo, equamente <strong>di</strong>viso<br />

attraverso le vene, il sangue che ci dà vita e vigore, prodotto attraverso la <strong>di</strong>gestione del cibo.<br />

Mostrando quin<strong>di</strong>, con questo apologo, quanto la ribellione interna del corpo fosse simile al<br />

risentimento della plebe contro i patrizi, (Menenio Agrippa) riuscì a piegare l’animo dei ribelli”<br />

(2,32.9-12).<br />

16<br />

Nel 451-50 (3,32 ss.)<br />

17<br />

Nel 445 (4,2 ss,)<br />

18<br />

Nel 367 (6,36 ss,)


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 23<br />

confermato dal suo giu<strong>di</strong>zio sulle riven<strong>di</strong>cazioni popolari sostenute dai tribuni della<br />

plebe: le varie proposte sia <strong>di</strong> riforme agrarie, che in parte prefigurano le proposte dei<br />

Gracchi, sia <strong>di</strong> <strong>di</strong>stribuzioni gratuite <strong>di</strong> grano alla plebe più povera, sono considerate da<br />

<strong>Livio</strong> deleterie per lo stato; in un caso lo storico impiega ad<strong>di</strong>rittura il termine venenum19. Nel racconto <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> i tribuni della plebe sono quasi tutti dei se<strong>di</strong>ziosi, che fomentano<br />

l’o<strong>di</strong>o contro i patrizi, turbano l’or<strong>di</strong>ne pubblico, seminano <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>a e mettono in<br />

pericolo la patria; lo storico esprime persino dei dubbi sull’opportunità dell’istituzione <strong>di</strong><br />

questa magistratura20. Politica estera e guerra. La moderazione è presentata da <strong>Livio</strong> come regola <strong>di</strong><br />

condotta dei Romani anche nei confronti dei popoli soggetti o alleati; a questa virtù si<br />

aggiunge la clementia nei confronti degli sconfitti. Ci sono naturalmente episo<strong>di</strong> in cui i<br />

Romani si comportano senza alcuna moderazione né clemenza, e <strong>Livio</strong> è costretto a<br />

riconoscerlo, senza tuttavia rinunciare ad un tentativo <strong>di</strong> giustificazione. E’ il caso, ad es.,<br />

del brutale sterminio dei citta<strong>di</strong>ni inermi <strong>di</strong> Enna (durante la guerra annibalica). I<br />

Cartaginesi sono in Sicilia, molte città alleate <strong>di</strong> Roma passano dalla loro parte. Marcello<br />

allora fa porre presi<strong>di</strong> romani nelle città ancora fedeli, per costringerle a mantenersi tali.<br />

Ad Enna i maggiorenti della città protestano contro questo trattamento: sono stati privati<br />

delle chiavi della loro città, sono trattati come dei prigionieri, pretendono che i rapporti<br />

con Roma tornino ad essere quelli <strong>di</strong> alleanza. Per <strong>di</strong>scutere questa questione il generale<br />

romano fa radunare l’assemblea dei citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> Enna nell’anfiteatro; quando tutti sono<br />

ammassati inermi in un unico spazio, i soldati romani si gettano sulla folla e ne fanno<br />

strage. Il commento conclusivo <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> è: ita Henna aut malo aut necessario facinore<br />

retenta (24,39,7), “e così Enna fu conservata, con un’azione o malvagia o necessaria”. Il<br />

tentativo <strong>di</strong> giustificazione contenuto nell’aggettivo necessario è bilanciato<br />

dall’osservazione che <strong>Livio</strong> fa subito seguire. Questa azione, <strong>di</strong>chiara, non ottenne l’effetto<br />

sperato: la notizia dell’ecci<strong>di</strong>o, invece <strong>di</strong> rafforzare nella fedeltà a Roma le altre città della<br />

19 Nel 476, cessato, almeno momentaneamente, il pericolo esterno dei Veienti, tribuni plebem<br />

agitare suo veneno, agraria lege, in resistentes incitare patres (2,52,2), “i tribuni presero a sobillare<br />

la plebe con il loro solito veleno, la legge agraria, e ad aizzarla contro i patrizi”.<br />

20 Siamo nel 491, la magistratura è appena stata istituita; una grave carestia ha colpito la città;<br />

quando dalla Sicilia arriva un ingente quantitativo <strong>di</strong> grano, si apre in senato la <strong>di</strong>scussione sul<br />

prezzo cui lo si debba dare alla plebe; molti pensavano si potesse cogliere l’occasione per ricattare<br />

la plebe, e recuperare i <strong>di</strong>ritti dei patrizi, loro estorti con la secessione e la violenza. <strong>Livio</strong> riferisce<br />

il <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> Coriolano, hostis tribuniciae potestatis, che propone, in sostanza, <strong>di</strong> affamare la plebe,<br />

per ven<strong>di</strong>care le violenze della passata secessione. Lo storico invece fa questa considerazione:<br />

“Non è facile <strong>di</strong>re se i patrizi avrebbero dovuto – cosa che ritengo potessero fare – in cambio <strong>di</strong> un<br />

ribasso del prezzo del grano, liberarsi della potestà tribunizia e <strong>di</strong> tutti i <strong>di</strong>ritti che loro malgrado<br />

la plebe aveva loro estorto” (2,34,12). Anche sui Gracchi, soprattutto su Gaio, il giu<strong>di</strong>zio dello<br />

storico doveva essere molto negativo; le proposte <strong>di</strong> legge <strong>di</strong> Gaio Gracco sono definite perniciosae<br />

(per. 60).


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 24<br />

Sicilia, provocò molte defezioni, a riprova che è il governo moderato e giusto e non il<br />

terrore che mantiene gli alleati fedeli.<br />

Tipicamente liviano, e privo <strong>di</strong> ripensamenti, è il breve commento che segue alla<br />

narrazione dell’orrenda punizione che fu inflitta a Mezio Fufezio per il suo tra<strong>di</strong>mento21: “fu quello – <strong>di</strong>chiara incre<strong>di</strong>bilmente lo storico - presso i Romani il primo e ultimo<br />

supplizio <strong>di</strong> un genere poco rispettoso delle leggi umane; negli altri nessun popolo può<br />

vantarsi <strong>di</strong> aver applicato pene più miti” (1,28,11).<br />

Nei rapporti con gli altri popoli, accanto alla clementia verso i vinti, i Romani<br />

praticano la iustitia: le loro guerre non sono mai aggressioni brutali; il motivo per la<br />

<strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> guerra è sempre un motivo giusto, vale a <strong>di</strong>re rispondere ad un attacco<br />

nemico, riparare un torto subito, o, più spesso, intervenire in aiuto <strong>di</strong> alleati o <strong>di</strong> popoli<br />

più deboli, che aggre<strong>di</strong>ti hanno richiesto la protezione del popolo romano. Ovviamente<br />

<strong>Livio</strong> si rendeva conto che una simile presentazione delle ragioni <strong>di</strong> guerra romane non<br />

poteva essere cre<strong>di</strong>bilmente applicata a tutte le guerre intraprese da Roma. Fino a che si<br />

tratta <strong>di</strong> guerre <strong>di</strong> espansione in Italia, o anche dello scontro con Cartagine, questo<br />

schema interpretativo più o meno funziona. Proprio poco prima della conclusione della<br />

guerra annibalica, <strong>Livio</strong> riferisce con ampiezza <strong>di</strong> particolari un episo<strong>di</strong>o che dovrebbe<br />

riba<strong>di</strong>re il concetto che in guerra i Romani rispettano sempre la iustitia. Dopo la sconfitta<br />

del loro alleato Siface, i Cartaginesi inviano a Scipione, in Africa, trenta seniorum<br />

principes (i membri più anziani e influenti del senato) per chiedere la pace, <strong>di</strong>chiarandosi<br />

<strong>di</strong>sposti ad accettare le con<strong>di</strong>zioni che Scipione vorrà imporre: paratis oboe<strong>di</strong>enter servire<br />

imperaret quae vellet (30,16,7) “comandasse pure quel che voleva: essi erano pronti a<br />

sottomettersi alle sue con<strong>di</strong>zioni”. La risposta <strong>di</strong> Scipione è riferita così: “Scipione<br />

risponde che era venuto in Africa con la speranza, accresciuta poi dal felice successo<br />

della guerra, <strong>di</strong> riportare in patria vittoria, non pace; e tuttavia, benché <strong>ab</strong>bia già quasi in<br />

mano la vittoria, non respinge la proposta <strong>di</strong> pace, perché tutti i popoli sappiano che il<br />

popolo romano con giustizia intraprende le guerre e con giustizia le conclude” (30,16,8-9).<br />

Detta quin<strong>di</strong> le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> pace, molto severe, e pretende che il senato cartaginese<br />

decida entro tre giorni: se le con<strong>di</strong>zioni saranno accettate, i Cartaginesi dovranno<br />

stipulare una tregua con lui, e inviare ambasciatori a Roma. Il senato cartaginese accetta<br />

tutte le con<strong>di</strong>zioni, ma solo, sembra implicare lo storico, per guadagnar tempo, in attesa<br />

21 La guerra tra Roma e Alba, al tempo del re Tullo Ostiliio, è stata decisa, <strong>di</strong> comune accordo, dal<br />

duello tra Orazi e Curiazi. Dopo la vittoria romana, il capo albano Mezio Fufezio riceve l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong><br />

partecipare con i Romani alla battaglia contro Veienti e Fidenati. Il suo comportamento ambiguo<br />

durante il combattimento viene punito così: “Fatte avvicinare due quadrighe, fa legare (sc. il re<br />

Tullo) Mezio <strong>di</strong>steso ai carri; quin<strong>di</strong> i cavalli furono lanciati in <strong>di</strong>rezioni opposte, e ne trascinarono<br />

via il corpo smembrato sui due carri, là dove le membra erano state fissate con i lacci”. Il supplizio<br />

è preceduto da queste parole che il re rivolge al colpevole: “Come poco fa il tuo animo era <strong>di</strong>viso<br />

fra Fidene e Roma, così ora verrà fatto a pezzi il tuo corpo”. (1,28,9-10).


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 25<br />

che Annibale sbarchi in Africa. Quando ciò avviene la guerra riprende; ma i Romani<br />

hanno <strong>di</strong>mostrato il loro rispetto della iustitia: il solo respons<strong>ab</strong>ile della ripresa delle<br />

ostilità è Annibale.<br />

Sostenere però che Roma lottasse per la propria sopravvivenza nelle successive<br />

guerre <strong>di</strong> conquista narrate nella quarta e nella quinta decade era molto più <strong>di</strong>fficile; e<br />

non è certo un caso che proprio in questi <strong>libri</strong>, lasciata un po’ in ombra la iustitia, si<br />

moltiplichino le menzioni della straor<strong>di</strong>naria clementia dei Romani. Lo scontro con<br />

Filippo V <strong>di</strong> Macedonia è presentato come una guerra <strong>di</strong>sinteressata e generosa,<br />

intrapresa da Roma soltanto per liberare la Grecia dal suo dominio. Questo concetto<br />

viene efficacemente svolto in due <strong>di</strong>scorsi.<br />

Nel 200, davanti all’assemblea degli Etòli (<strong>di</strong> cui sia Filippo sia i Romani<br />

sollecitano l’alleanza) parlano un inviato <strong>di</strong> Filippo e un ambasciatore romano. Il <strong>di</strong>scorso<br />

del Macedone (31,29) svolge i temi antiromani classici; il legato romano, oltre a riba<strong>di</strong>re<br />

che Roma è sempre intervenuta nelle guerre perché il suo aiuto è stato richiesto, <strong>di</strong>fende<br />

la moderazione con cui sempre Roma ha trattato i popoli vinti, come <strong>di</strong>mostra l’esempio<br />

recentissimo <strong>di</strong> Cartagine (“dopo averla sconfitta <strong>ab</strong>biamo concesso a Cartagine pace e<br />

libertà” 31,31,15), e <strong>di</strong>chiara: “c’è piuttosto da temere che concedendo troppo<br />

generosamente il nostro perdono ai vinti, noi incoraggiamo un sempre maggior numero<br />

<strong>di</strong> popoli a cercare occasioni <strong>di</strong> guerra contro <strong>di</strong> noi” (31,31,16).<br />

Il secondo <strong>di</strong>scorso è quello in cui <strong>Tito</strong> Quinzio Flaminino, dopo aver sconfitto nel<br />

197 Filippo a Cinocefale, proclama solennemente, durante i giochi istmici del 196, la<br />

libertà <strong>di</strong> tutta la Grecia: “il senato romano e il generale <strong>Tito</strong> Quinzio, debellati Filippo e i<br />

Macedoni, decidono che siano liberi, esenti da tributi, retti dalle proprie leggi, i Corinzi, i<br />

Focesi, ....” (segue l’elenco <strong>di</strong> tutti i popoli che prima erano sotto il dominio <strong>di</strong> Filippo)<br />

(33,32,5). Il commento a questo incre<strong>di</strong>bile gesto <strong>di</strong> generosità è affidato da <strong>Livio</strong> alla folla<br />

presente alla <strong>di</strong>chiarazione, in forma <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorso in<strong>di</strong>retto: “c’era al mondo un popolo che<br />

a sue spese, affrontando fatiche e pericoli, faceva la guerra per la libertà altrui, e offriva<br />

questo beneficio non a popoli confinanti o vicini o della medesima terra, ma attraversava<br />

i mari, perché non esistesse sulla terra un dominio ingiusto, ma dappertutto<br />

dominassero il <strong>di</strong>ritto, la giustizia, la legge” (33,33,5). Le medesime considerazioni erano<br />

svolte dalla fonte (Polibio, 18,46), da cui certamente <strong>Livio</strong> <strong>di</strong>pende, ma che impiega con<br />

accortezza: mentre Polibio in prima persona <strong>di</strong>chiara che la gioia e l’incredulità della folla<br />

presente all’annuncio erano ben comprensibili, giacché era cosa splen<strong>di</strong>da che i Romani<br />

avessero sostenuto spese e affrontato pericoli per la libertà della Grecia, ecc., <strong>Livio</strong> non<br />

commenta l’avvenimento, ma assai più efficacemente attribuisce questo elogio della<br />

generosità romana ai popoli che ne beneficiano.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 26<br />

Se <strong>Livio</strong> evita <strong>di</strong> solito <strong>di</strong> esprimere <strong>di</strong>rettamente la sua approvazione per il<br />

comportamento romano, ancor più raramente interviene a criticarlo. Ma non ignorava<br />

certamente le accuse che venivano mosse alla politica imperialistica <strong>di</strong> Roma; in un caso<br />

in particolare dà voce a queste critiche, in modo in<strong>di</strong>retto, come nell’elogio della<br />

generosità <strong>di</strong> Flaminino. Quando Antioco III è minacciato in Asia dall’esercito guidato<br />

dagli Scipioni22, nel 190 invia una lettera al re <strong>di</strong> Bitinia Prusia, per indurlo ad allearsi<br />

con lui. Polibio (21,11,1) <strong>di</strong>ce semplicemente: “il re Antioco [...] mandò ambasciatori a<br />

Prusia, invitandolo a far alleanza con lui”; <strong>Livio</strong> aggiunge la lettera 23 , e ne rivela<br />

brevemente il contenuto: “aveva mandato (sc. Antioco) a Prusia ambasciatori, e una<br />

lettera, in cui lamentava che i Romani fossero passati in Asia: venivano – scriveva – per<br />

<strong>ab</strong>battere tutti i regni, perché su tutta la terra non esistesse altro dominio che quello<br />

romano; Filippo, N<strong>ab</strong>ide erano stati sbaragliati; ora come terzo veniva assalito lui; una<br />

sorta <strong>di</strong> inarrest<strong>ab</strong>ile incen<strong>di</strong>o si sarebbe propagato, colpendo via via tutti quelli che si<br />

trovavano più vicini al regno già sottomesso; da lui sarebbero passati in Bitinia, giacché<br />

Eumene volontariamente aveva già accettato la servitù” (37,25,4-6). Questo breve testo,<br />

tanto più se si tratta <strong>di</strong> una creazione dello storico, in<strong>di</strong>ca che anche <strong>Livio</strong> si rendeva<br />

conto che la condotta romana in politica estera e verso i popoli alleati o soggetti era<br />

andata mutando; è prob<strong>ab</strong>ile che non riuscisse né volesse più continuare a giustificare<br />

come “guerre giuste” anche i meto<strong>di</strong> dell’imperialismo romano nei tempi più recenti della<br />

repubblica. Anche se i brevi riassunti delle periǒchae non consentono <strong>di</strong> capire quali<br />

fossero l’atteggiamento e il giu<strong>di</strong>zio dello storico sulle guerre <strong>di</strong> conquista più recenti, un<br />

in<strong>di</strong>zio interessante è offerto dalle considerazioni che lo storico attribuisce ad alcuni<br />

anonimi senatori romani moris antiqui memores sull’inganno perpetrato con successo da<br />

due ambasciatori romani ai danni <strong>di</strong> Perseo (42, 47,1-4: v. testi).<br />

Sotto questo aspetto (la lealtà in guerra) l’antica repubblica è secondo <strong>Livio</strong> un<br />

modello. <strong>Gli</strong> elementi fondamentali della condotta giusta in guerra, e degli esiti positivi<br />

che questa produce (spontanea sottomissione e duratura fedeltà dei vinti) sono da <strong>Livio</strong><br />

sintetizzati, ad esempio, nel famoso episo<strong>di</strong>o del maestro <strong>di</strong> Faleri (5, 27: v. testi).<br />

Tra le virtù romane grande rilievo assume in <strong>Livio</strong> la <strong>di</strong>sciplina, sia in pace sia<br />

soprattutto in guerra, dove la pronta obbe<strong>di</strong>enza ai superiori, la docile accettazione <strong>di</strong><br />

rimproveri e punizioni riscuote a volte l’approvazione esplicita dello storico. Per es.<br />

22 Il comando supremo era affidato a Lucio Scipione; il più famoso fratello, Publio Scipione<br />

(l’Africano), lo affiancava con il semplice titolo <strong>di</strong> legato.<br />

23 Secondo Polibio (21,11) invece furono soltanto i Romani a scrivere a Prusia: una lettera inviata<br />

dai fratelli Lucio e Publio Scipione rassicurò il re, che prima temeva “che i Romani passassero in<br />

Asia e ne <strong>ab</strong>battessero tutti i regni” (il medesimo timore attribuito da <strong>Livio</strong> ad Antioco), e lo<br />

indusse ad <strong>ab</strong>bandonare la causa <strong>di</strong> Antioco. Anche <strong>Livio</strong> menziona la lettera (anzi due <strong>di</strong>stinte<br />

lettere) degli Scipioni, il cui contenuto persuase Prusia a non prendere le armi contro i Romani.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 27<br />

quando il <strong>di</strong>ttatore Cincinnato degrada il console Minucio 24 ed esclude dalla preda il suo<br />

esercito 25, <strong>Livio</strong> fa questo commento: “a tal punto allora gli animi erano <strong>di</strong>sposti ad<br />

obbe<strong>di</strong>re docilmente ad un or<strong>di</strong>ne superiore che questo esercito, tenendo conto più del<br />

beneficio ricevuto che dell’onta inflittagli [...], decretò una corona d’oro per il <strong>di</strong>ttatore”<br />

(3,29,3).<br />

Se la <strong>di</strong>sciplina è la virtù propria dei soldati, per i condottieri le doti più importanti<br />

sono prudentia e ratio. <strong>Livio</strong> mette particolarmente in evidenza queste doti nella<br />

caratterizzazione <strong>di</strong> Quinto F<strong>ab</strong>io Massimo, il Cunctator, e anche, per converso, ogni volta<br />

che rileva come sconfitte e <strong>di</strong>sastri siano stati causati dalla temeritas <strong>di</strong> un generale26. La<br />

prudentia consiste soprattutto nel non lasciare mai niente al caso, e nel posporre sempre<br />

l’ambizione a conquistarsi gloria personale ad una valutazione attenta delle circostanze.<br />

Dopo aver illustrato il nuovo corso impresso alla guerra dal Temporeggiatore, <strong>Livio</strong><br />

osserva che Annibale comprende che finalmente i Romani, ammaestrati da tanti <strong>di</strong>sastri,<br />

hanno trovato un condottiero accorto, <strong>di</strong> cui egli dovrà temere non la vis ma la prudentia.<br />

Vita privata. Nell’ambito privato, oltre alla pu<strong>di</strong>citia esemplarmente illustrata e<br />

celebrata nelle famose leggende <strong>di</strong> Lucrezia (1,58-59) e <strong>di</strong> Virginia (3,44-50), ha grande<br />

valore la frugalitas, un costume <strong>di</strong> vita semplice e austero, lontano dal lusso che<br />

corrompe e fiacca. L’occasione per esaltare in modo esplicito (e in questo caso davvero<br />

enfatico) questa virtù dei Romani antichi è offerta a <strong>Livio</strong> dalla vicenda <strong>di</strong> Cincinnato,<br />

introdotta così: “Val la pena che ascoltino coloro che <strong>di</strong>sprezzano ogni valore umano<br />

all’infuori della ricchezza, e ritengono che non vi sia posto per un grande onore o virtù se<br />

non là dove vi sia benessere sovr<strong>ab</strong>bondante. L’unica speranza del popolo romano, Lucio<br />

Quinzio, stava coltivando al <strong>di</strong> là del Tevere [...] un campo <strong>di</strong> quattro iugeri [...] Qui,<br />

mentre appoggiato alla pala scavava una fossa, o mentre stava arando, intento ad ogni<br />

modo – questo è certo – ad un lavoro agreste, fu salutato dagli inviati (sc. del senato)”<br />

(3,26,7-9). Asciugatosi il sudore e indossata la toga, Cincinnato viene salutato <strong>di</strong>ttatore, e<br />

si reca senza indugio a Roma per assumere la carica.<br />

24 Nel 458, inviato contro gli Equi, per imperizia e viltà si lascia rinchiudere ed asse<strong>di</strong>are nel suo<br />

accampamento stesso; per far fronte alla grave situazione (l’altro console accorso con le sue<br />

truppe non riesce a spezzare l’asse<strong>di</strong>o) si decide la nomina <strong>di</strong> un <strong>di</strong>ttatore, nella persona <strong>di</strong> Lucio<br />

Quinzio Cincinnato, che ottiene pieno successo, e conquista l’accampamento nemico.<br />

25 “Conquistato l’accampamento dei nemici, pieno d’ogni cosa [...], <strong>di</strong>stribuì il bottino soltanto ai<br />

suoi soldati; rimbrottando l’esercito consolare e il console stesso, <strong>di</strong>sse: ‘non avrete parte, soldati,<br />

della preda conquistata a quel nemico <strong>di</strong> cui per poco non <strong>di</strong>ventaste voi la preda. E tu, Lucio<br />

Minucio, fino a che non comincerai ad avere l’animo che si conviene ad un console, comanderai<br />

queste legioni come mio luogotenente’ ”, 3,29,1-2.<br />

26 Le sconfitte alla Trebbia e a Canne furono secondo <strong>Livio</strong> causate dalla precipitazione e<br />

dall’ambizione del generale, rispettivamente il console Sempronio, ansioso <strong>di</strong> dar battaglia e<br />

vincere prima che entrino in carica i nuovi consoli, e contro il parere del collega Scipione, che è a<br />

letto ammalato (21,53 ss.), e il console (plebeo) Terenzio Varrone (22,40-43).


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 28<br />

Complementare all’esaltazione della frugalitas è la <strong>di</strong>mostrazione che vita agiata e<br />

lusso hanno conseguenze <strong>di</strong>sastrose: è il caso dei famosi ozi <strong>di</strong> Capua <strong>di</strong> Annibale.<br />

Condotti a svernare, dopo Canne, in una città minime salubris militari <strong>di</strong>sciplinae, i<br />

soldati <strong>di</strong> Annibale si <strong>ab</strong>ituano alla pigrizia, ai banchetti, all’ubriachezza, alla compagnia<br />

<strong>di</strong> meretrici: in questo errore va in<strong>di</strong>viduata ad<strong>di</strong>rittura la causa principale della sconfitta<br />

<strong>di</strong> Annibale, che da Capua uscì con un esercito trasformato, che aveva perduto la<br />

<strong>di</strong>sciplina <strong>di</strong> un tempo27. Il pregiu<strong>di</strong>zio patriottico induce <strong>Livio</strong> a presupporre che devozione religiosa, lealtà,<br />

valore in guerra, giustizia, amor <strong>di</strong> patria, <strong>di</strong>sciplina dei soldati e saggezza <strong>di</strong> uomini<br />

politici e generali, moderazione e sobrietà nei costumi <strong>di</strong> vita privati siano doti proprie dei<br />

Romani, soprattutto <strong>di</strong> quelli antichi; ma le virtù sono esaltate come valori autonomi,<br />

non perché possedute dai Romani: lo storico non manca talvolta <strong>di</strong> biasimare quei<br />

Romani che non vi si adeguano, e <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care positivamente i non Romani che si<br />

avvicinano a questo ideale.<br />

In generale egli interpreta i fatti, i successi e gli insuccessi militari e politici,<br />

facendo sempre riferimento a qualità morali, che costituiscono il criterio <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio<br />

fondamentale.<br />

27 3,18,11-16. I periti artium militarium, sostiene <strong>Livio</strong>, ritennero che in quell’occasione Annibale<br />

avesse commesso un errore più grave <strong>di</strong> quello <strong>di</strong> non aver subito marciato su Roma dopo Canne:<br />

illa enim cunctatio <strong>di</strong>stulisse modo victoriam videri potuit, hic error vires ademisse ad vincendum. Lo<br />

storico attribuisce certo un peso eccessivo a questi famosi ozi: come infatti risulta dal suo<br />

racconto stesso, in quel medesimo inverno 216-215 i Cartaginesi asse<strong>di</strong>arono e conquistarono<br />

Casilino (23,19 e 22), e ciò avvenne prima del consolato <strong>di</strong> Gracco, che entrò in carica a marzo<br />

(23,24): la bella vita dell’esercito cartaginese a Capua non dovette dunque durare molto.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 29<br />

LA PREFAZIONE<br />

La prefazione è la sezione dell’opera storiografica in cui la persona del narratore è<br />

in primo piano, e si rivolge <strong>di</strong>rettamente al suo pubblico, <strong>di</strong>chiarando ragioni e natura del<br />

proprio lavoro, le <strong>di</strong>fficoltà incontrate, quali scopi si proponga, come sia consapevole<br />

della necessità che il resoconto storico sia veritiero e imparziale, ecc.<br />

Come si è detto, l’opera <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> conteneva <strong>di</strong>verse prefazioni, o premesse. La più<br />

importante è naturalmente la prefazione generale, che funge da presentazione dell’intera<br />

opera.<br />

Quando <strong>Livio</strong> scrive esisteva già una tra<strong>di</strong>zione antica e <strong>ab</strong>bastanza complessa<br />

sulla funzione e sui compiti <strong>di</strong> una praefatio, stu<strong>di</strong>ati, catalogati e co<strong>di</strong>ficati dai retori. In<br />

particolare, come si può dedurre dall’esame delle prefazioni delle opere storiche a noi<br />

note, si <strong>di</strong>rebbe che lo storico consideri necessario non solo e non tanto annunciare il<br />

tema che sarà trattato (questo è l’atteggiamento tipico del poeta epico), quanto<br />

soprattutto giustificare l’opera che sta per iniziare.<br />

I retori in<strong>di</strong>cavano come scopo fondamentale dell’esor<strong>di</strong>o, inteso come brano<br />

introduttivo in generale, ma in particolare <strong>di</strong> un’orazione, quello <strong>di</strong> ottenere la docilitas,<br />

l’adtentio, la benevolentia del pubblico (o del lettore), cioè la <strong>di</strong>sposizione generica ad<br />

ascoltare, la <strong>di</strong>sposizione specifica ad ascoltare quanto l’oratore (o l’autore) <strong>di</strong>rà, e un<br />

atteggiamento favorevole verso chi parla (o scrive). La docilitas si ottiene con una breve<br />

in<strong>di</strong>cazione del tema che sarà trattato, la adtentio con la <strong>di</strong>chiarazione dell’importanza o<br />

novità del tema, la benevolentia con l’elogio, ma senza arroganza, del compito che ci si è<br />

assunti, con un accenno alle <strong>di</strong>fficoltà incontrate, con la denigrazione degli avversari, con<br />

<strong>di</strong>chiarazioni che mostrino quanto chi parla stimi il suo pubblico, come consideri<br />

importante il suo giu<strong>di</strong>zio, ecc. Questi precetti, che i retori el<strong>ab</strong>orano soprattutto in<br />

relazione all’oratoria giu<strong>di</strong>ziaria, si possono trasferire anche alla prefazione dell’opera<br />

storica.<br />

In relazione specificamente ai proemi delle opere storiche <strong>ab</strong>biamo un testo<br />

interessante, <strong>di</strong> un retore anonimo tardo, che <strong>di</strong>ce:<br />

“I proemi <strong>di</strong> un’opera storica sono <strong>di</strong> tre tipi: possono riguardare la storia, la<br />

persona, la materia (de historia, de persona, de materia). Infatti o elogiamo in termini<br />

generali l’utilità della storia, come fa Catone, o in rapporto alla persona <strong>di</strong> chi scrive<br />

esponiamo il motivo per cui ha intrapreso questo compito, come Sallustio [...] oppure


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 30<br />

mostriamo che l’argomento che ci accingiamo a trattare è degno sia <strong>di</strong> essere scritto sia<br />

<strong>di</strong> essere letto, come <strong>Livio</strong> nei suoi <strong>libri</strong> dalla fondazione della città” 28.<br />

Era poi considerata tipica della prefazione <strong>di</strong> un’opera storica la professione <strong>di</strong><br />

veri<strong>di</strong>cità e <strong>di</strong> imparzialità.<br />

Tutti questi temi sono presenti nella prefazione <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>. Come vedremo infatti,<br />

anche se in essa è prevalente il tema de materia, non mancano quelli de historia e de<br />

persona, trattati non ad uno ad uno, separatamente, ma intrecciati e fusi tra loro in<br />

modo originale.<br />

§§ 1-2 Il periodo iniziale, cui la sequenza esametrica 29 delle prime parole<br />

conferisce particolare solennità, è una el<strong>ab</strong>orata captatio benevolentiae. L’autore si<br />

presenta con un atteggiamento simpaticamente modesto e sincero: vorrebbe, come è<br />

naturale, che la sua fatica avesse successo, ma <strong>di</strong>chiara subito che non è affatto certo <strong>di</strong><br />

ottenere questo risultato, e anche che, quando pure avesse soggettivamente questa<br />

certezza, avrebbe ritegno a <strong>di</strong>chiararlo. Nelle parole si a primor<strong>di</strong>o...perscripserim è già<br />

contenuta una prima sommaria in<strong>di</strong>cazione dell’argomento dell’opera, semplice e solenne<br />

insieme, per l’impiego del termine primor<strong>di</strong>um, e anche, più precisamente, del modello<br />

storiografico prescelto. Sia l’in<strong>di</strong>cazione del punto <strong>di</strong> partenza (l’origine della città) sia<br />

l’impiego <strong>di</strong> perscribo30 informano i lettori, fin dalla prima riga, che non devono aspettarsi<br />

un’opera <strong>di</strong> tipo nuovo, alla moda, come quelle <strong>di</strong> Sisenna e <strong>di</strong> Sallustio, come quella che<br />

stava scrivendo il contemporaneo Asinio Pollione 31 : opere che trattavano un periodo<br />

breve e vicino nel tempo, o, come le monografie sallustiane, un singolo episo<strong>di</strong>o della<br />

storia <strong>di</strong> Roma. Quella che inizia è invece l’intera storia <strong>di</strong> Roma, esposta secondo il<br />

28<br />

Principiorum ad historiam pertinentium species sunt tres: de historia, de persona, de materia. Aut<br />

enim historiae bonum generaliter commendamus, ut Cato, aut pro persona scribentis rationem eius<br />

quod hoc officium adsumpserit red<strong>di</strong>mus, ut Sallustius [...], aut eam rem, quam relaturi sumus,<br />

<strong>di</strong>gnam quae et scribatur et legatur osen<strong>di</strong>mus, ut Livius <strong>ab</strong> <strong>urbe</strong> <strong>con<strong>di</strong>ta</strong>., Rhet. Latini min. Halm, p.<br />

588.<br />

29<br />

Fāctūrūsn(e) ǒpěrāe prětĭūm sim: come si vede, <strong>ab</strong>biamo i primi quattro metri <strong>di</strong> un esametro.<br />

Questo or<strong>di</strong>ne delle parole non è attestato dai co<strong>di</strong>ci (tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong>retta), che hanno facturusne<br />

sim..., ma da una citazione <strong>di</strong> Quintiliano (tra<strong>di</strong>zione in<strong>di</strong>retta): tutti gli e<strong>di</strong>tori accettano questa<br />

preziosa testimonianza. Questo inizio viene citato da Quintiliano (9,4,75) come esempio <strong>di</strong> un<br />

<strong>di</strong>fetto che nella prosa va <strong>di</strong> solito evitato, e cioè iniziare un periodo con una sequenza poetica,<br />

precisamente, in questo caso, con la parte iniziale <strong>di</strong> un verso. La testimonianza <strong>di</strong> Quintiliano è<br />

davvero preziosa: non solo conserva, con ogni prob<strong>ab</strong>ilità, il testo autentico, ma attesta l’origine<br />

molto antica del <strong>di</strong>verso or<strong>di</strong>ne delle parole presente nella tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong>retta. Aggiunge infatti: nam<br />

ita e<strong>di</strong><strong>di</strong>t, estque id melius quam quo modo emendatur. La sequenza esametrica non va<br />

naturalmente considerata una svista <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>, ma un ritmo scelto <strong>di</strong> proposito per conferire<br />

solennità all’esor<strong>di</strong>o.<br />

30<br />

Il preverbo per- aggiunge al concetto <strong>di</strong> “scrivere” quello <strong>di</strong> scrivere “compiutamente, dall’inizio<br />

alla fine”, dunque anche “per or<strong>di</strong>ne”, esponendo i fatti uno dopo l’altro secondo la loro<br />

successione cronologica.<br />

31<br />

Come si apprende da Orazio, carm 2,1, l’opera <strong>di</strong> Pollione prendeva le mosse dal 60 e narrava le<br />

guerre civili.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 31<br />

tra<strong>di</strong>zionale e antico schema annalistico. Proprio a questa sua scelta prob<strong>ab</strong>ilmente lo<br />

storico lega il dubbio espresso nell’interrogativa in<strong>di</strong>retta iniziale: egli si accinge a<br />

trattare infatti una res 32 che è sia vetus sia volgata, cioè antica, perché risale molto<br />

in<strong>di</strong>etro nel tempo, e <strong>di</strong>ffusa, perché già trattata da molti autori precedenti (da F<strong>ab</strong>io<br />

Pittore in avanti il tema scelto da <strong>Livio</strong> è quello <strong>di</strong> tutte le opere <strong>di</strong> impianto annalistico).<br />

Nell’aggettivo vetus si può scorgere anche una sfumatura lievemente negativa, che<br />

qualifica il tema scelto da <strong>Livio</strong> come “sorpassato”: il modello annalistico è ormai<br />

superato, e i tempi antichi non suscitano più l’interesse del pubblico (tema<br />

esplicitamente toccato più avanti, § 4).<br />

Nella subor<strong>di</strong>nata introdotta da dum l’autore prende in considerazione, in termini<br />

generali, gli altri storici a lui contemporanei, i novi scriptores, non però per in<strong>di</strong>care,<br />

come ci si potrebbe attendere, i temi <strong>di</strong>versi, meglio rispondenti ai gusti del pubblico, che<br />

essi solitamente scelgono <strong>di</strong> trattare. Dei novi scriptores <strong>Livio</strong> menziona l’aspirazione, a<br />

tutti comune, ad una ricostruzione del vero più accurata e ad uno stile più raffinato<br />

rispetto agli antichi. Nel verbo credunt si può scorgere un piccolo accenno polemico,<br />

peraltro subito lasciato cadere. E’ implicito che le due esigenze avvertite dagli storici<br />

contemporanei sono con<strong>di</strong>vise anche da <strong>Livio</strong>. Anch’egli si propone (o crede) <strong>di</strong> accertare<br />

meglio i fatti, e <strong>di</strong> essere non un semplice narrator, ma un exornator rerum.<br />

Il senso complessivo del periodo iniziale potrebbe dunque essere questo: non so se<br />

la mia opera avrà successo (né, se lo pensassi, oserei <strong>di</strong>rlo), per questi motivi: intendo<br />

trattare una materia antica e già nota, perché trattata in passato da molti; i pregi che<br />

nonostante ciò l’opera potrebbe avere, un accertamento dei fatti più accurato e una veste<br />

letteraria più elegante rispetto ai molti che già hanno scritto delle medesime vicende, non<br />

sono tali da assicurare il successo alla mia fatica, giacché si tratta <strong>di</strong> esigenze avvertite<br />

da tutti gli storiografi contemporanei, che si stu<strong>di</strong>ano <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfarle.<br />

§ 3. Con le parole utcumque erit l’accenno polemico contenuto in credunt è messo<br />

da parte, e rimane aperta la questione iniziale. Sarà il lettore a rispondere, giu<strong>di</strong>cando se<br />

<strong>Livio</strong> sia riuscito nel suo intento. Per parte sua lo storico si limita a <strong>di</strong>chiarare che gli<br />

basta sapere <strong>di</strong> aver contribuito a tramandare le imprese del popolo princeps terrarum, e<br />

32 Questa mi sembra l’interpretazione più prob<strong>ab</strong>ile del termine res, e dell’intero periodo. Secondo<br />

un’altra interpretazione invece la res vetus e volgata è la <strong>di</strong>chiarazione, comune nelle prefazioni<br />

storiografiche, dell’importanza dell’argomento prescelto, cui è implicitamente legata l’attesa del<br />

successo dell’opera. Si vedano, per l’illustrazione sintattica delle due possibili interpretazioni<br />

dell’intero periodo iniziale, le note alla traduzione. Un atteggiamento <strong>di</strong> ritegno simile a quello <strong>di</strong><br />

<strong>Livio</strong> è presente già in Sallustio, nella prefazione al bellum Iugurthinum. Dopo aver <strong>di</strong>chiarato che<br />

la storiografia è una delle più nobili attività dello spirito, lo storico taglia corto all’elogio con queste<br />

parole: “sui pregi della storiografia non ritengo <strong>di</strong> dovermi soffermare oltre”, e ne in<strong>di</strong>ca i motivi:<br />

già molti altri lo hanno fatto, e soprattutto qualcuno potrebbe malignamente pensare che, lodando<br />

l’oggetto della propria attività, lo storico intenda in realtà lodare se stesso (Iug. 4,2 s.). Così <strong>Livio</strong><br />

non oserebbe affermare la sua certezza, ove l’avesse, perché è una consuetu<strong>di</strong>ne che può attirare<br />

critiche.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 32<br />

ostenta <strong>di</strong>sinteresse (finto) per la fama. L’idea, appena accennata nel periodo iniziale, <strong>di</strong><br />

una aemulatio con gli altri scriptores, qui viene sviluppata: nella gran turba 33 <strong>di</strong> scriptores<br />

solo quelli dotati <strong>di</strong> nobilitas e magnitudo (insomma solo quelli eccellenti, nei due aspetti<br />

che tutti si propongono <strong>di</strong> curare, l’accertamento del vero e la veste letteraria accurata)<br />

potranno, forse, oscurare la sua fama: evidentemente anch’egli vi aspira, e le sue<br />

<strong>di</strong>chiarazioni iniziali non sono così modeste e <strong>di</strong>messe come paiono a tutta prima.<br />

§ 4. La sezione si apre con un accenno al tema de materia, nei suoi due aspetti del<br />

semplice contenuto (ut quae supra septingentesimum repetatur annum) e della sua<br />

importanza (quae <strong>ab</strong> exiguis profecta initiis eo creverit...); esso è legato alle considerazioni<br />

svolte precedentemente, in cui in primo piano è la persona dello storico. La mole<br />

immensa dell’opera è un terzo (praeterea) motivo <strong>di</strong> incertezza sul risultato della fatica<br />

dello scrittore, che si aggiunge ai due già illustrati (tema non nuovo, concorrenza degli<br />

altri storici). Accennare alle <strong>di</strong>fficoltà del compito intrapreso è uno dei mo<strong>di</strong> per<br />

accattivarsi la benevolentia del pubblico. Il sostantivo res, polivalente ed indeterminato<br />

(più del suo corrispondente italiano “cosa”), è impiegato in questa frase con due<br />

significati: la materia dell’opera e lo stato che ne costituisce l’oggetto. Ad avvertire del<br />

mutamento <strong>di</strong> significato è sufficiente la ripetizione del pronome relativo (quae repetatur:<br />

la storia; quae l<strong>ab</strong>oret: lo stato, la res Romana). Con un espe<strong>di</strong>ente stilistico semplice ed<br />

efficace l’autore ottiene ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> identificare la propria opera con il popolo <strong>di</strong> cui si<br />

accinge a narrare le imprese. Inoltre viene qui già annunciato un tema nuovo, che<br />

riceverà nel seguito più ampio e compiuto sviluppo: con l<strong>ab</strong>oret per ora <strong>Livio</strong> avverte che<br />

la grandezza raggiunta comporta per il popolo romano anche qualche <strong>di</strong>fficoltà.<br />

L’attenzione si sposta quin<strong>di</strong> sul pubblico, introducendo un ulteriore elemento <strong>di</strong><br />

incertezza sulla possibilità per lo storico <strong>di</strong> conquistare la fama e la considerazione cui<br />

anch’egli, come tutti, aspira, cioè le preferenze dei lettori: lo storico sa che gran parte del<br />

pubblico si appassiona alla storia recente o contemporanea, e tuttavia non intende<br />

assecondarne le attese.<br />

.§ 5. La netta contrapposizione con quanto precede, annunciata dalle parole ego<br />

contra, ha uno sviluppo alquanto inatteso. <strong>Livio</strong> non si impegna a <strong>di</strong>mostrare come il<br />

gusto del pubblico sia corrotto, né che la storia non deve mirare come suo primo scopo<br />

alla voluptas. Il motivo per cui <strong>Livio</strong> non intende assecondare le attese del pubblico – non<br />

subito per lo meno – è molto personale, e si collega, per mezzo <strong>di</strong> quoque, al tema della<br />

fama toccato sopra. Oltre alla gloria, che forse non otterrà, oltre alla sod<strong>di</strong>sfazione <strong>di</strong> aver<br />

contribuito a tramandare le imprese del popolo più grande del mondo, un premio sicuro<br />

egli avrà dalla sua fatica: <strong>di</strong>stogliere la mente, almeno per un poco, dai mali presenti (o<br />

33 Il termine è lievemente spregiativo, poiché significa “folla” in<strong>di</strong>stinta, con annessa l’idea <strong>di</strong><br />

confusione e <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne: in questa folla non tutti gli scriptores sono eccellenti e gran<strong>di</strong>.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 33<br />

appena trascorsi, come in<strong>di</strong>ca il perfetto vi<strong>di</strong>t). Si <strong>di</strong>rebbe che <strong>Livio</strong> intenda scrivere per<br />

sé soltanto. O forse, con queste parole, vuole in<strong>di</strong>rettamente invitare i lettori a <strong>di</strong>stogliere<br />

anch’essi l’attenzione dai mala, preparando l’invito esplicito del § 9 ad illa...pro se<br />

quisque intendat animum. Il tema prevalente qui è la persona dello scrittore, che viene<br />

esponendo con semplicità le ragioni della sua opera. Accanto a questo tema ne viene<br />

introdotto anche un altro, nella seconda parte del periodo. Con le parole omnis expers<br />

curae... <strong>Livio</strong>, senza insistervi, mostra <strong>di</strong> conoscere ed accettare, come cosa ovvia, la<br />

prima legge della storia, il rispetto della verità, che deve essere ricostruita ed esposta con<br />

assoluta imparzialità. Quanto al significato complessivo della frase, essa non va intesa<br />

come una <strong>di</strong>chiarazione che chi scrive <strong>di</strong> eventi contemporanei, se non vuole mentire,<br />

deve temere per sé qualche concreto pericolo34. <strong>Livio</strong> infatti non esclude la trattazione<br />

degli eventi contemporanei; ed inoltre è il conspectus dei mali, non la loro trattazione, che<br />

fa nascere in lui la cura, cioè affanno, pena, <strong>di</strong>spiacere nel contemplarli. Questo potrebbe<br />

togliergli la serenità, cioè il premio, rendendo ingrata (non pericolosa) la sua fatica.<br />

Anche l’irreale posset conferma questa interpretazione, ed equivale all’assicurazione che<br />

<strong>Livio</strong> è consapevole che lo storico non solo deve sempre rispettare la verità, per quanto<br />

sgradevole e angosciosa essa possa essere, ma anche impe<strong>di</strong>re che la cura in qualche<br />

modo offuschi la sua libertà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio.<br />

Quanto ai mala da cui lo storico, almeno per un poco, vuole <strong>di</strong>stogliere la mente,<br />

essi sono stati già preannunciati da due accenni in quanto precede. Con un metodo che<br />

sembra caratteristico <strong>di</strong> questa prefazione, l’autore vi si accosta per approssimazioni<br />

successive. Il primo accenno è contenuto nelle parole res... quae eo creverit ut iam<br />

magnitu<strong>di</strong>ne l<strong>ab</strong>oret sua (§ 4). In quella sezione il tema principale è un altro, la vastità<br />

dell’opera, che intende ripercorrere la storia <strong>di</strong> Roma dalle origini fino alla grandezza<br />

presente. La consecutiva introduce un tema nuovo, non ancora orientato in senso<br />

chiaramente negativo. La “sofferenza” dello stato dovuta alla sua grandezza potrebbe far<br />

pensare soltanto alle oggettive <strong>di</strong>fficoltà poste dal governo e dall’organizzazione <strong>di</strong> un<br />

dominio così vasto, con tanti popoli <strong>di</strong>versi, con il problema <strong>di</strong> <strong>di</strong>fendere i confini, ecc.<br />

Poco oltre, nel medesimo § 4, con vires se ipsae conficiunt, questo stesso tema, anche qui<br />

subor<strong>di</strong>nato ad un altro prevalente (i gusti del pubblico), si precisa maggiormente: le<br />

<strong>di</strong>fficoltà che travagliano lo stato si rivelano come <strong>di</strong>fficoltà interne; le forze che si<br />

rivolgono contro se stesse sono una chiara allusione alle guerre civili, l’argomento dei<br />

34 Un’interpretazione <strong>di</strong> questo genere non è, <strong>di</strong> per sé, inverosimile. La trattazione <strong>di</strong> fatti<br />

contemporanei poteva effettivamente far temere qualche inconveniente all’autore. Per es. Orazio<br />

definisce la storia delle guerre civili in cui era impegnato Asinio Pollione periculosae plenum opus<br />

aleae, “un’opera piena <strong>di</strong> rischio pericoloso”, e aggiunge, rivolto all’autore: ...ince<strong>di</strong>s per ignes /<br />

suppositos cineri doloso, “proce<strong>di</strong> per un cammino insi<strong>di</strong>oso, sul fuoco che cova sotto la cenere”<br />

(carm 2,1,5-7).


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 34<br />

tempi recenti e recentissimi cui soprattutto è rivolta l’attesa dei lettori. Ora infine questi<br />

eventi recenti, dai quali lo storico vuole per il momento <strong>di</strong>stogliere l’attenzione, sono<br />

esplicitamente definiti mala: un termine negativo ma generico, scelto certo <strong>di</strong> proposito,<br />

perché può riferirsi sia ai fatti luttuosi cui ha accennato sopra (le forze che si rivolgono<br />

contro se stesse) sia anche a “colpe, mali morali”. In tal modo si prepara l’ulteriore<br />

sviluppo <strong>di</strong> questo tema, al § 9: sono i mores corrotti la vera causa per cui lo stato più<br />

grande e potente del mondo ha forse iniziato la sua par<strong>ab</strong>ola <strong>di</strong>scendente. Non va<br />

trascurato peraltro un piccolo segno che potremmo <strong>di</strong>re <strong>di</strong> cauto ottimismo, contenuto<br />

nel perfetto vi<strong>di</strong>t: il periodo più triste è passato; dopo Azio Augusto ha riportato la pace<br />

nello stato, ed ha messo mano ad un vasto programma <strong>di</strong> restaurazione religiosa e<br />

morale.<br />

§ 6. Dopo il tema de persona prevalente sin qui, lo storico passa a trattare<br />

compiutamente il tema de materia; il collegamento con quanto precede è offerto<br />

dall’accenno al verum: <strong>Livio</strong> vuole anzitutto chiarire quale posizione intenda assumere<br />

sulle tra<strong>di</strong>zioni relative al passato leggendario, operando una netta <strong>di</strong>stinzione fra poesia<br />

(cui è concessa una libertà assai maggiore) e storia. I perio<strong>di</strong> ai quali si applica la<br />

sospensione <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio dello storico, espressa con le parole nec adfirmare nec refellere,<br />

sono due, <strong>di</strong>stinti. Con l’espressione ante <strong>con<strong>di</strong>ta</strong>m <strong>urbe</strong>m <strong>Livio</strong> si riferisce alle vicende<br />

anteriori alla fondazione <strong>di</strong> Roma, ma ad essa connesse in quanto la preparano, cioè<br />

l’arrivo <strong>di</strong> Enea in Italia, la guerra contro i Rutuli, la fondazione <strong>di</strong> Alba Longa, la<br />

<strong>di</strong>scendenza <strong>di</strong> Enea fino a Numitore e Amulio. A queste leggende lo storico de<strong>di</strong>ca i primi<br />

tre capitoli del primo libro. Con l’espressione ante condendam <strong>urbe</strong>m rinvia invece alle<br />

leggende connesse alla fondazione: la vicenda <strong>di</strong> Rea Silvia, la nascita dei gemelli, la loro<br />

esposizione e il salvataggio, l’allevamento, il recupero del regno <strong>di</strong> Numitore, la decisione<br />

<strong>di</strong> fondare una nuova città, l’auspicio e l’uccisione <strong>di</strong> Remo. A questi fatti <strong>Livio</strong> de<strong>di</strong>ca<br />

altri tre capitoli e mezzo; il resto <strong>di</strong> 1,7 è anch’esso <strong>di</strong> carattere leggendario, con la<br />

<strong>di</strong>gressione su Ercole e Caco. La sud<strong>di</strong>visione qui in<strong>di</strong>cata con i due participi <strong>con<strong>di</strong>ta</strong>m e<br />

condendam è mantenuta puntualmente anche nel racconto: il cap. 4 si apre con le parole<br />

sed debebatur fatis origo tantae urbis, premesse al racconto della nascita dei gemelli. Di<br />

qui inizia la parte ante condendam <strong>urbe</strong>m, che si conclude, dopo l’uccisione <strong>di</strong> Remo, con<br />

le parole <strong>con<strong>di</strong>ta</strong> urbs con<strong>di</strong>toris nomine appellata (1,7,3). Da questo momento in avanti<br />

tutto il materiale tramandato è considerato storia, monumentum incorruptum. In realtà,<br />

anche nel corso della narrazione successiva a volte <strong>Livio</strong> spesso assume un<br />

atteggiamento simile a questo (nec adfirmare nec refellere), quando riferisce tra<strong>di</strong>zioni<br />

posteriori alla fondazione <strong>di</strong> Roma: a volte si impegna a fornire spiegazioni razionalistiche<br />

<strong>di</strong> alcune leggende, più spesso si limita a <strong>di</strong>ssociare elegantemente la propria<br />

respons<strong>ab</strong>ilità <strong>di</strong> storico da quanto riferisce, con formule come ut ferunt, tradunt,


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 35<br />

tra<strong>di</strong>tum est ecc. In queste <strong>di</strong>chiarazioni programmatiche della prefazione invece egli<br />

separa come leggenda poetica solo tutto ciò che precede il regno <strong>di</strong> Romolo. Non vi è<br />

contrad<strong>di</strong>zione: prima <strong>di</strong> Romolo tutto ciò che è stato tramandato va considerato poetica<br />

f<strong>ab</strong>ula; il periodo successivo presenta invece, in un tessuto <strong>di</strong> fatti storici (secondo <strong>Livio</strong>,<br />

naturalmente), alcune leggende sulle quali egli non intende pronunciarsi. A queste allude<br />

in modo generico con l’espressione his similia, all’inizio del § 8. Benché tali leggende non<br />

siano adatte alla serietà <strong>di</strong> una documentata opera storica, egli le menzionerà<br />

ugualmente, in ossequio alla tra<strong>di</strong>zione. Questo atteggiamento scettico è confermato dal<br />

paragrafo che segue.<br />

§§ 7-9. Anche Roma, come molte altre città, si conforma alla consuetu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong><br />

nobilitare le proprie origini, facendovi intervenire dèi o eroi. Da questa constatazione<br />

<strong>Livio</strong> trae uno spunto polemico: se le humanae gentes sopportano <strong>di</strong> buon grado (!) il<br />

dominio imposto loro da Roma in forza della sua superiorità militare, possono anche<br />

tollerare che Roma si sia scelto come progenitore Marte, il <strong>di</strong>o più adatto ad un popolo<br />

guerriero. Il tono è ironico, <strong>Livio</strong> sa bene che la Vestale (Rea Silvia) credette oppure finse<br />

che il padre dei gemelli fosse Marte (1,4). L’accenno polemico viene subito troncato, come<br />

al § 2, con una movenza stilistica analoga; lo storico volge invece l’attenzione a ciò cui<br />

attribuisce la massima importanza, ed espone il contenuto propriamente storico<br />

dell’opera, sviluppando più ampiamente gli accenni già <strong>di</strong>stribuiti in quanto precede.<br />

Il dativo etico mihi, insieme al cong. esortativo intendat, costituisce una esplicita e<br />

<strong>di</strong>retta sollecitazione a por mente a ciò che secondo lo storico è veramente importante,<br />

con un accento personale e commosso: dopo aver <strong>di</strong>chiarato <strong>di</strong> non essere <strong>di</strong>sposto ad<br />

assecondare i gusti del pubblico, e <strong>di</strong> esser pago <strong>di</strong> scrivere per sé solo, lo storico<br />

recupera <strong>ab</strong>ilmente l’attenzione e la simpatia dei lettori, cui intende <strong>di</strong>mostrare come una<br />

res vetus e volgata possa essere interessante e utile per ciascuno. L’espe<strong>di</strong>ente più<br />

significativo ed efficace <strong>di</strong> questa appassionata esortazione è forse da scorgere nel<br />

pronome quisque, che isola ciascuno dei lettori nella sua in<strong>di</strong>vidualità: lo storico si<br />

rivolge a ciascuno <strong>di</strong> loro, non ad una massa in<strong>di</strong>stinta; il concetto è rafforzato da pro se,<br />

cioè secondo le sue capacità e possibilità. Lo storico assume in tal modo un<br />

atteggiamento <strong>di</strong> grande rispetto per ogni singolo lettore, al quale egli non intende <strong>di</strong>re<br />

che cosa debba pensare; dalla storia ognuno, per conto proprio e con libertà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio,<br />

potrà trarre l’insegnamento che ne scaturisce. Naturalmente <strong>Livio</strong> orienta sempre il<br />

giu<strong>di</strong>zio del lettore, ma <strong>di</strong> solito senza assumere un atteggiamento <strong>di</strong>dascalico, lasciando<br />

che l’insegnamento scaturisca da sé dai fatti narrati.<br />

<strong>Gli</strong> elementi più importanti su cui lo storico vuole si concentri l’attenzione del<br />

lettore sono vita e mores (vita e costumi, s’intende, del popolo romano antico); viri e artes<br />

sono in una posizione subor<strong>di</strong>nata, in quanto sono presentati come i mezzi con cui


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 36<br />

l’imperium è stato creato ed è <strong>di</strong>ventato grande. La connotazione positiva del termine<br />

mores in questa frase è implicita, e risulta dal contrasto con la loro successiva<br />

degradazione, descritta subito dopo.<br />

Il passaggio dall’età antica, sede del bene, a quella presente, in cui largamente il<br />

male prevale, non è presentata come una contrapposizione netta, ma come un processo<br />

in più sta<strong>di</strong>, una corruzione progressiva, descritta stilisticamente per mezzo <strong>di</strong> una<br />

climax (un passaggio dal meno al più, o viceversa, in più <strong>di</strong> due tappe). Ciascuno dei tre<br />

momenti successivi, che rappresentano un progressivo peggioramento, è contrassegnato<br />

da un avverbio <strong>di</strong> tempo, primo, deinde, tum. Il culmine negativo, che coincide con l’età<br />

contemporanea, è presentato come l’ultimo sviluppo della terza fase, introdotto dalla<br />

subor<strong>di</strong>nata temporale donec...perventum est. Questo culmine negativo raggiunto nell’età<br />

contemporanea dalla decadenza dei mores è in<strong>di</strong>cato dal fatto che “non siamo in grado <strong>di</strong><br />

sopportare né i nostri vizi né i loro rime<strong>di</strong>”, immagine <strong>ab</strong>bastanza comune, <strong>di</strong> carattere<br />

me<strong>di</strong>co: i vitia sono equiparati a malattie, da curare con reme<strong>di</strong>a (me<strong>di</strong>cine). Quali sono i<br />

reme<strong>di</strong>a cui lo storico allude? La frase è molto generica, e consente due <strong>di</strong>verse<br />

interpretazioni, una politica e una morale.<br />

Secondo la prima, <strong>Livio</strong> constaterebbe che i citta<strong>di</strong>ni, pur desiderando una vita<br />

or<strong>di</strong>nata, la concor<strong>di</strong>a, la pace, non sono però <strong>di</strong>sposti a rinunciare alla libertas: i<br />

reme<strong>di</strong>a sarebbero allora i successivi provve<strong>di</strong>menti con cui Augusto andava accentrando<br />

nelle proprie mani il potere, offrendo, in cambio della libertà repubblicana, la pace,<br />

propagandata con ogni mezzo. E’ insomma la giustificazione che, molto più tar<strong>di</strong>, Tacito<br />

avrebbe el<strong>ab</strong>orato per l’istituzione del principato35. Ma Tacito scrive quando il processo <strong>di</strong><br />

trasformazione costituzionale è ormai irreversibilmente compiuto; <strong>Livio</strong>, che compone la<br />

sua prefazione fra il 27 e il 25, o pochi anni più tar<strong>di</strong>, non può ancora, forse, già<br />

el<strong>ab</strong>orare una giustificazione <strong>di</strong> questo genere <strong>di</strong> una trasformazione che era ancora in<br />

atto.<br />

Sembra dunque preferibile l’interpretazione morale: i reme<strong>di</strong>a vanno cercati in<br />

provve<strong>di</strong>menti miranti a ripristinare nella società il rispetto per i valori del tempo antico,<br />

per quelle virtù cui <strong>Livio</strong> strettamente lega la grandezza <strong>di</strong> Roma. La campagna<br />

moralizzatrice <strong>di</strong> Augusto mirò alla restaurazione degli antichi valori soprattutto in due<br />

ambiti, la famiglia e la religione. Forse la restaurazione della religione e delle cerimonie<br />

antiche36 non incontrava particolare resistenza e opposizione. Il malcontento sarà stato<br />

piuttosto per altri provve<strong>di</strong>menti, che tentavano, senza molto successo, <strong>di</strong> imporre per<br />

35<br />

Hist. 1,1,1: omnem potentiam ad unum conferri pacis interfuit ; ann. 1,9,4: non aliud <strong>di</strong>scordantis<br />

patriae reme<strong>di</strong>um quam ut <strong>ab</strong> uno regeretur<br />

36<br />

Per es. organizzò, nel 17, una celebrazione solenne dei lu<strong>di</strong> saeculares, per la quale Orazio<br />

compose il carmen saeculare. Inoltre, come ricorda Augusto stesso nelle sue res gestae (20,4), nel<br />

28 fece restaurare ben 82 templi nella città <strong>di</strong> Roma.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 37<br />

legge un costume <strong>di</strong> vita morigerato e casto. I principali provve<strong>di</strong>menti legislativi che<br />

conosciamo dalle fonti in questo campo sono: la lex Iulia de coercen<strong>di</strong>s adulteriis del 18<br />

a.C. e la successiva lex Papia Poppaea de maritan<strong>di</strong>s or<strong>di</strong>nibus del 9 d.C. 37, che, per<br />

incoraggiare il matrimonio e la procreazione <strong>di</strong> figli (contro il crescente calo demografico),<br />

istituiva lo ius trium liberorum, una serie <strong>di</strong> privilegi (sia <strong>di</strong> carattere fiscale sia negli<br />

avanzamenti <strong>di</strong> carriera) per i padri <strong>di</strong> almeno tre figli legittimi; la legge prevedeva inoltre<br />

multe per i celibi e gli sposi senza prole, e punizioni molto severe per gli adultèri. I<br />

risultati furono scarsi, e i costumi <strong>di</strong> vita della gente non mutarono sensibilmente.<br />

Provve<strong>di</strong>menti <strong>di</strong> questo tipo dovevano certo suscitare l’approvazione incon<strong>di</strong>zionata <strong>di</strong><br />

un moralista come <strong>Livio</strong>; sfortunatamente sono troppo recenti perché ad essi egli possa<br />

alludere nella sua prefazione (senza contare che l’effetto sperato non si poteva<br />

imme<strong>di</strong>atamente valutare). E’ possibile però che già <strong>di</strong>eci anni prima della lex Iulia<br />

Ottaviano avesse fatto un tentativo analogo, fallito perché la legge dovette essere<br />

<strong>ab</strong>rogata, o forse ne fu respinta la proposta stessa. A questa legge prob<strong>ab</strong>ilmente allude<br />

Properzio, in 2,7. Rivolgendosi a Cinzia il poeta <strong>di</strong>ce:<br />

Gavisa es certe sublatam, Cynthia, legem<br />

qua quondam e<strong>di</strong>cta flemus uterque <strong>di</strong>u,<br />

ni nos <strong>di</strong>videret; quamvis <strong>di</strong>ducere amantes<br />

non queat invitos Iuppiter ipse duos.<br />

At magnus Caesar. Sed magnus Caesar in armis: 5<br />

devictae gentes nil in amore valent.<br />

Nam citius paterer caput hoc <strong>di</strong>scedere collo,<br />

quam possem nuptae perdere amore faces,<br />

aut ego transirem tua limina clausa maritus,<br />

respiciens u<strong>di</strong>s pro<strong>di</strong>ta luminibus. 10<br />

[...]<br />

Unde mihi patriis natos praebere triumphis? 13<br />

Nullus de nostro sanguine miles erit.<br />

[...]<br />

Certo ti sei rallegrata, Cinzia, quando fu <strong>ab</strong>rogata* la legge<br />

che un tempo, quando fu emanata**, ci fece piangere a lungo,<br />

nel timore che potesse <strong>di</strong>viderci; per quanto, separare due<br />

amanti contro la loro volontà non potrebbe Giove stesso.<br />

Ma Cesare è grande. Sì, grande nelle armi: il fatto che<br />

<strong>ab</strong>bia sottomesso molte genti non vale nulla in amore.<br />

Mi lascerei staccare la testa dal collo piuttosto<br />

che perdere te, mia fiamma, per amore <strong>di</strong> una sposa,<br />

o passare maritato davanti alla tua porta chiusa,<br />

volgendomi a guardarla dopo averla tra<strong>di</strong>ta, con gli occhi pieni <strong>di</strong> lacrime.<br />

[...]<br />

Perché dovei fornire figli per i trionfi della patria?<br />

Nessun soldato nascerà dal mio sangue.<br />

[...]<br />

* opp. “ritirata”; ** opp. “proposta”<br />

Da questi accenni si comprende che la legge che fu <strong>ab</strong>rogata, o non entrò<br />

nemmeno in vigore, era del medesimo tipo <strong>di</strong> quelle successivamente emanate da<br />

Augusto, e prevedeva l’imposizione del matrimonio ai citta<strong>di</strong>ni e sanzioni per chi non<br />

obbe<strong>di</strong>sse38, oltre ad incoraggiare la procreazione <strong>di</strong> figli per la patria39. Se il fallimento<br />

della legge cui allude Properzio è del 28 (come è possibile, ma non certo40), può darsi che<br />

37 Preceduta prob<strong>ab</strong>ilmente da una lex Iulia sulla medesima materia, non sappiamo in quale anno:<br />

il fatto che venissero emanate successivamente leggi <strong>di</strong> contenuto simile in<strong>di</strong>ca quanto la loro<br />

effettiva applicazione fosse <strong>di</strong>fficile.<br />

38 V. Prop. 2,7,7 citius paterer caput hoc <strong>di</strong>scedere collo; naturalmente si tratta <strong>di</strong> un’iperbole.<br />

39 V. Prop. 2,7,14 nullus de nostro sanguine miles erit.<br />

40 Non si conosce con esattezza la data <strong>di</strong> composizione del secondo libro delle elegie <strong>di</strong> Properzio:<br />

dati interni sembrano però in<strong>di</strong>care un periodo fra il 28 e il 26. Inoltre Tacito, ann. 3,28,2,<br />

accenna, in modo generico, all’inizio dell’attività legislativa (de<strong>di</strong>t iura) <strong>di</strong> Augusto nel suo sesto<br />

consolato, che è appunto del 28 (quando in realtà Ottaviano non aveva ancora il titolo <strong>di</strong> Augusto).


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 38<br />

ad essa, o anche ad essa, pensi <strong>Livio</strong>, quando <strong>di</strong>ce reme<strong>di</strong>a pati non possumus. Dal<br />

fallimento <strong>di</strong> questo provve<strong>di</strong>mento (un dato <strong>di</strong> fatto singolo e oggettivo, assunto come<br />

sintomo della resistenza dei contemporanei a rime<strong>di</strong> <strong>di</strong> questo genere), <strong>Livio</strong> poteva trarre<br />

la considerazione più generale che la gente era ormai insofferente <strong>di</strong> tutto ciò che potesse<br />

contrastare la rilassatezza morale, una delle cause, nella visione <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>, che possono<br />

portare lo stato alla rovina.<br />

§ 10. In questo paragrafo <strong>Livio</strong> offre la sua personale (anche se non originale)<br />

interpretazione dell’utilità della storia. Tema topico delle prefazioni o delle sezioni<br />

programmatiche era proprio l’illustrazione dell’utilità della storia (in<strong>di</strong>cata dall’anonimo<br />

retore citato sopra 41 con l’espressione bonum historiae). <strong>Livio</strong> si conforma alla<br />

consuetu<strong>di</strong>ne, anch’egli sa che la storiografia è utile, e lo <strong>di</strong>chiara; per parte sua tiene a<br />

precisare che la famosa utilità della storia da tutti riconosciuta consiste nel suo valore<br />

para<strong>di</strong>gmatico; essa presenta infatti al lettore fatti, vicende, personaggi esemplari,<br />

modelli positivi e negativi, da cui ognuno può trarre norme <strong>di</strong> comportamento privato (tibi)<br />

e pubblico (rei publicae). Ma raccogliere esempi positivi e negativi non è sufficiente:<br />

bisogna anche porli in un inlustre monumentum. Con queste parole <strong>Livio</strong> si riferisce<br />

prob<strong>ab</strong>ilmente 42 all’opera storica, all’ideale cui aspira, all’opera insomma che intende<br />

scrivere. Al § 6 l’agg. incorruptum in<strong>di</strong>ca l’in<strong>di</strong>spens<strong>ab</strong>ile rispetto per la verità e<br />

l’imparzialità, la ricostruzione fedele e atten<strong>di</strong>bile dei fatti; ora, con l’agg. inlustre, viene<br />

definito l’aspetto formale dell’opera. Per riuscire veramente utile la narrazione veritiera e<br />

imparziale dei fatti deve essere proposta in una forma letterariamente curata e attraente.<br />

Per mezzo <strong>di</strong> questi due aggettivi che qualificano l’opera che intende scrivere, <strong>Livio</strong> fa<br />

sapere in<strong>di</strong>rettamente ai lettori che anch’egli, come i novi scriptores, si sforzerà <strong>di</strong><br />

raggiungere la certezza nelle res e la perfezione nello stile. Il fatto che le sue aspirazioni<br />

siano presentate in modo così <strong>di</strong>screto, affidate a due semplici aggettivi, è in accordo con<br />

il tono <strong>di</strong> modestia con cui la prefazione si apre; vi contribuisce anche il fatto che <strong>Livio</strong><br />

non si ponga – a <strong>di</strong>fferenza dei novi scriptores – in concorrenza o a confronto con altri;<br />

egli non mira a “maggior” certezza o a uno stile “più” elegante rispetto agli scrittori<br />

antichi; gli bastano la certezza (incorruptum) e la forma letteraria <strong>di</strong>gnitosa e chiara<br />

(inlustre).<br />

§§ 11-12. Per mezzo <strong>di</strong> ceterum, con valore restrittivo e debolmente avversativo,<br />

<strong>Livio</strong> si collega alle ultime parole del periodo precedente, all’allusione agli esempi negativi,<br />

41 V. pp. 29-30 e nota 28.<br />

42 Anche un’altra interpretazione (assai meno prob<strong>ab</strong>ile) <strong>di</strong> inlustre monumentum è possibile, a<br />

partire dal senso fondamentale <strong>di</strong> monumentum, “ciò che fa ricordare” (medesima ra<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> moneo),<br />

e cioè il “personaggio eminente”, la “vicenda famosa”, cui è affidata la funzione <strong>di</strong> exemplum.<br />

Sembra preferibile intendere il sostantivo monumentum con la medesima accezione, “opera<br />

storica”, che ha al § 6.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 39<br />

che è utile aver sotto gli occhi, per stu<strong>di</strong>arsi <strong>di</strong> evitarli. Lo storico non desidera<br />

soffermarsi molto a lungo su questo aspetto. L’analisi della decadenza morale, dei mali<br />

della società contemporanea, che pure viene svolta, è presentata sotto forma <strong>di</strong><br />

commosso elogio per la res publica che in misura maggiore e per un tempo più lungo <strong>di</strong><br />

ogni altra si è mantenuta fedele ai buoni costumi. I vitia, che infine lo storico si risolve ad<br />

in<strong>di</strong>care, avaritia e luxuria, rinviano – con una <strong>di</strong>fferenza significativa - all’analisi già<br />

svolta da Sallustio, soprattutto nella prima monografia. Dopo la prefazione vera e propria<br />

e il ritratto <strong>di</strong> Catilina, Sallustio presenta (capp. 6-13) la storia passata <strong>di</strong> Roma,<br />

sud<strong>di</strong>visa nettamente in due perio<strong>di</strong> contrapposti, l’epoca anteriore alla <strong>di</strong>struzione <strong>di</strong><br />

Cartagine e quella successiva. Il periodo anteriore al 146 è presentato come<br />

caratterizzato dalla virtus: in quest’epoca tutti i Romani in<strong>di</strong>stintamente aspirano solo a<br />

compiere splen<strong>di</strong>de imprese a vantaggio dello stato, sono <strong>di</strong>sciplinati, concor<strong>di</strong>, assetati<br />

<strong>di</strong> gloria. Caduta Cartagine, aemula imperii Romani, venuta cioè meno la minaccia<br />

esterna che manteneva efficiente l’esercito e virtuoso e concorde il corpo civico, la pace e<br />

il benessere corruppero in breve tempo i Romani, che non erano mai stati piegati prima<br />

da fatiche, <strong>di</strong>fficoltà, pericoli. Irrompono nella società avaritia e ambitio, che portano con<br />

sé la luxuria. Questa visione è ripresa, più brevemente ma senza sostanziali mo<strong>di</strong>fiche,<br />

anche nella seconda monografia (41,2-5) e, con una notevole accentuazione del giu<strong>di</strong>zio<br />

negativo, nel proemio delle historiae. Quando <strong>Livio</strong> compone la sua prefazione ha<br />

certamente ben presente l’analisi fatta dal suo illustre predecessore, come mostrano<br />

riprese <strong>di</strong> alcune parole e immagini 43 . Il quadro della corruzione, le sue cause<br />

(soprattutto le <strong>di</strong>vitiae) e i suoi effetti (la <strong>di</strong>struzione del tessuto stesso della società) si<br />

corrispondono; ma in <strong>Livio</strong> manca uno dei tre vitia menzionati da Sallustio: troviamo l’<br />

avaritia e la luxuria (o luxus), non l’ambitio, che in Sallustio è molto importante. Dopo la<br />

<strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> Cartagine, nel quadro <strong>di</strong> Sallustio, crescono insieme la cupido pecuniae e<br />

la cupido imperii, cioè la brama <strong>di</strong> denaro e quella <strong>di</strong> potere, insomma avaritia e ambitio<br />

(Cat.10). Sallustio cerca <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinguere, un po’ artificiosamente, una ambitio buona da<br />

una cattiva: <strong>di</strong> per sé l’ambizione è un vizio molto vicino alla virtù, in quanto spinge a<br />

conquistare gloria, honos, imperium, aspirazioni in sé non condann<strong>ab</strong>ili. Ma quando a<br />

questi fini buoni si cerca <strong>di</strong> arrivare con ogni mezzo, con violenza, doli e fallaciae, allora<br />

l’ambitio assume le caratteristiche <strong>di</strong> un vizio dei peggiori: ciò avviene, secondo Sallustio,<br />

quando in Roma fa il suo ingresso l’avaritia, dopo il 146.<br />

In <strong>Livio</strong> manca invece, significativamente, qualsiasi accenno all’ambitio. Se <strong>Livio</strong><br />

trae da Sallustio tutto il quadro della degenerazione dei costumi, ma omette una delle<br />

43 Si confrontino per es. con la descrizione della decadenza al § 9 Sall.Cat. 10,6: haec (sc. avaritia e<br />

ambitio) primo paulatim crescere, interdum vin<strong>di</strong>cari; post ubi contagio quasi pestilentia invasit,<br />

civitas immutata e hist. Fr. 16 M ex quo tempore maiorum mores non paulatim ut antea sed<br />

torrentis modo praecipitati.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 40<br />

cause, ciò prob<strong>ab</strong>ilmente significa che egli non con<strong>di</strong>vide del tutto l’analisi del suo<br />

predecessore. Secondo <strong>Livio</strong> infatti l’ambitio non entra in Roma insieme alle <strong>di</strong>vitiae, ma<br />

esiste fin dall’inizio della storia <strong>di</strong> Roma: la fondazione della città infatti altro non è che la<br />

conclusione della lotta per il potere fra i due fratelli. Inoltre, la visione <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> è più<br />

sfumata <strong>di</strong> quella <strong>di</strong> Sallustio, che pone tutto il bene nel passato e tutto il male nel<br />

presente o nel passato prossimo. Benché anche <strong>Livio</strong> presenti come esemplare il periodo<br />

più antico della storia <strong>di</strong> Roma, egli sa che in ogni epoca male e bene sono intrecciati. Nel<br />

complesso l’analisi delle cause della decadenza morale, salvo l’omissione dell’ambitio, non<br />

è in <strong>Livio</strong> nuova né originale; originale e caratteristico è invece il modo in cui lo storico la<br />

propone: solo con nuper si risolve a constatare e considerare la <strong>di</strong>ffusione dei vizi, prima<br />

menzionati soltanto per far rilevare quanto a lungo Roma ne sia stata immune.<br />

Prima dell’implicito confronto <strong>di</strong> Roma con ogni altro stato, confronto da cui<br />

risulta la in<strong>di</strong>scutibile superiorità <strong>di</strong> Roma, <strong>Livio</strong> ammette la possibilità che il troppo<br />

amore offuschi l’obiettività del suo giu<strong>di</strong>zio, inducendolo forse a dare <strong>di</strong> Roma un quadro<br />

troppo positivo e non del tutto veritiero. Ma si tratta <strong>di</strong> un’ammissione solo formale, come<br />

è evidente dalla sua formulazione con l’alternativa aut...aut, in cui un termine esclude<br />

l’altro. La prima alternativa è tanto assurda che la seconda ne risulta rafforzata44: poiché,<br />

come ha <strong>di</strong>chiarato in modo <strong>di</strong>screto ma chiaro, <strong>Livio</strong> è ben consapevole che nulla deve<br />

far deflettere dal vero lo storico, i lettori potranno con fiducia accogliere e con<strong>di</strong>videre il<br />

suo elogio <strong>di</strong> Roma. Con negotium <strong>Livio</strong> si riferisce all’opera che intende scrivere; ma<br />

l’amore non sarà tanto per l’opera quanto per il popolo che ne è protagonista: notiamo<br />

che <strong>di</strong> nuovo, come al § 4, opera e argomento sono quasi identificati.<br />

Infine, va rilevato che anche per il tema corruzione, come per gli altri, <strong>Livio</strong><br />

procede nel modo caratteristico <strong>di</strong> questa prefazione, consistente, come si è detto, nel<br />

trattare ogni tema per accenni successivi. Il tema dei vitia compare già al § 4 (magnitudo<br />

l<strong>ab</strong>oret sua; vires se ipsae conficiunt), si precisa al § 5 con un accenno specifico ai mala;<br />

viene più ampiamente sviluppato nella seconda parte del § 9, dove la descrizione della<br />

decadenza dei costumi chiarisce la causa morale <strong>di</strong> quei mala. E infine, al § 12 quei mala<br />

sono in<strong>di</strong>viduati: si tratta <strong>di</strong> avaritia e luxuria, che hanno provocato la decadenza morale,<br />

44 Il medesimo proce<strong>di</strong>mento stilistico, con la medesima funzione (rafforzare enfaticamente<br />

un’affermazione mettendola in alternativa con un’altra palesemente assurda) è impiegato da <strong>Livio</strong><br />

anche in altri casi. Particolarmente chiaro è un esempio in 22,39,8. Nell’esortazione rivolta al<br />

console Lucio Emilio Paolo perché controlli e freni il collega Terenzio Varrone, la cui precipitazione<br />

potrebbe causare (e in effetti causerà) un <strong>di</strong>sastro, Quinto F<strong>ab</strong>io Massimo, il Temporeggiatore,<br />

<strong>di</strong>ce: [...] si hic, quod facturum se denuntiat, extemplo pugnaverit, aut ego rem militarem, belli hoc<br />

genus, hostem hunc ignoro [alternativa evidentemente assurda] aut nobilior alius Trasumenno locus<br />

nostris cla<strong>di</strong>bus erit [...], “se costui, come <strong>di</strong>chiara <strong>di</strong> voler fare, darà subito battaglia, o io non<br />

conosco l’arte militare, il carattere <strong>di</strong> questa guerra, questo nemico, oppure un altro luogo <strong>di</strong>verrà<br />

per le nostre sconfitte ancor più famoso del Trasimeno”.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 41<br />

le <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>e interne, le <strong>di</strong>fficoltà e il malessere che travagliano lo stato romano nel tempo<br />

presente.<br />

§ 13. Messi subito da parte i rimproveri (querellae 45, appena accennate al § 12,<br />

con la frase che si apre con nuper), che sarebbero <strong>di</strong> cattivo augurio, il brano introduttivo<br />

si chiude in modo molto solenne, e originale, con una invocazione agli dèi, che lo storico<br />

stesso <strong>di</strong>chiara non appropriata ad un’opera storica. Il periodo ipotetico (si<br />

esset...inciperemus, che esprime irrealtà al presente) gli consente <strong>di</strong> non violare<br />

formalmente le regole del genere storiografico, e <strong>di</strong> porre egualmente sotto la protezione<br />

<strong>di</strong>vina l’opera che sta iniziando: <strong>ab</strong> initio tantae or<strong>di</strong>endae rei. Ma ancora una volta, con<br />

l’uso del sostantivo res, <strong>Livio</strong> lascia <strong>di</strong> proposito nell’incertezza se stia parlando dell’opera<br />

o dello stato che ne è protagonista. Anche se il rinvio esplicito è all’uso dei poeti epici (che<br />

però, come si sa, si rivolgevano alla Musa), l’invocazione richiama piuttosto quella che<br />

accompagnava il generale e l’esercito in partenza per una guerra46, rivolta genericamente<br />

a tutti gli dèi e a tutte le dee, in modo da evitare <strong>di</strong> inimicarsi la <strong>di</strong>vinità eventualmente<br />

<strong>di</strong>menticata.<br />

Infine, con l’assunzione <strong>di</strong> un inizio che <strong>di</strong>chiara proprio dei poeti, l’autore vuole<br />

forse anche mostrare che egli concepisce il suo compito come quello non solo <strong>di</strong> un<br />

ricercatore, ma anche <strong>di</strong> un artista.<br />

45 Lett. “lamenti, deplorazioni”. A chi non saranno gratae le querellae? Non tanto forse a chi dovrà<br />

ascoltarle o leggerle, quanto soprattutto all’autore. Egli cioè non vuole, proprio all’inizio dell’opera<br />

da cui si ripromette il praemium <strong>di</strong> venir <strong>di</strong>stolto dal conspectus malorum, soffermarsi sui mala più<br />

del necessario, rendere sollicitus il suo animo e ingrato il suo compito. Sarebbe inoltre fuor <strong>di</strong><br />

luogo <strong>di</strong>ffondersi già ora su temi che saranno oggetto dei <strong>libri</strong> futuri, dell’ultima parte dell’opera;<br />

ora lo storico si accinge a mostrare quae vita, qui mores fuerint ecc. La mente dello scrittore si<br />

rivolge soprattutto a quella parte della sua storia che imme<strong>di</strong>atamente sarà trattata, quella più<br />

antica, una <strong>di</strong>sposizione d’animo che domina in tutta la prefazione. In essa l’autore offre, è vero,<br />

nelle sue linee molto generali il piano <strong>di</strong> tutto il lavoro (dalle origini ai tempi presenti), ma se ne<br />

vale soprattutto per introdurre la prima parte, la storia più antica. Rinvia perciò le querellae al<br />

momento in cui non potranno essere evitate. L’avv. forsitan, più che un dubbio sull’opportunità (o<br />

la necessità) <strong>di</strong> dar voce a quei rimproveri ora ban<strong>di</strong>ti, esprime la riluttanza dell’autore a<br />

soffermarvisi fin d’ora con il pensiero.<br />

46 V. per es. <strong>Livio</strong> 45,39,10 (parla Lucio Emilio Paolo, riferendosi ai riti propiziatori prima dell’inizio<br />

<strong>di</strong> una guerra e alle cerimonie <strong>di</strong> ringraziamento dopo la sua felice conclusione): maiores vestri<br />

omnium magnarum rerum et principia exorsi a <strong>di</strong>s sunt et finem statuerunt.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 42<br />

IL PRIMO LIBRO. STORIA DELLA MONARCHIA<br />

Prob<strong>ab</strong>ilmente <strong>Livio</strong> pubblicò a sé il primo libro della sua opera. Esso ha una sua<br />

fisionomia peculiare, che lo <strong>di</strong>stingue da tutti gli altri. Abbraccia l’intero periodo regio<br />

(754-509), ed è organizzato attorno alle figure dei sette re tra<strong>di</strong>zionali. Tipico del primo<br />

libro è un interesse archeologico-antiquario quasi assente nel resto dell’opera, che certo<br />

<strong>Livio</strong> ricavava dalle sue fonti annalistiche: lo storico si adegua alla tra<strong>di</strong>zione che faceva<br />

risalire al periodo regio l’origine <strong>di</strong> istituzioni, riti, culti, molti dei quali ancora esistenti in<br />

epoca contemporanea, ma certo istituiti tutti (salvo forse qualche cerimonia religiosa) in<br />

epoca più tarda) 47. Anche le numerose spiegazioni <strong>di</strong> carattere eziologico rientrano in<br />

questo interesse <strong>di</strong> tipo antiquario: oggetti ancora visibili, nomi <strong>di</strong> luoghi, riti vengono<br />

legati a un episo<strong>di</strong>o antico, che ne spiega e nobilita l’origine. Ai brani <strong>di</strong> carattere eru<strong>di</strong>to<br />

si alternano numerose leggende: per queste vale la <strong>di</strong>chiarazione programmatica inserita<br />

dallo storico nella prefazione generale dell’opera (nec adfirmare nec refellere in animo est,<br />

§ 6). Sezioni antiquarie e leggende insieme conferiscono all’intero libro un aspetto arcaico,<br />

accentuato dall’uso frequente, nella parte narrativa, <strong>di</strong> termini e locuzioni poetiche.<br />

Pur nel suo carattere composito il primo libro ha, con ogni evidenza, un tema<br />

prevalente e unificatore: la crescita progressiva <strong>di</strong> Roma verso quella grandezza cui fin<br />

dall’inizio è destinata. Questo viene solennemente affermato dallo storico prima <strong>di</strong> riferire<br />

la leggenda dei gemelli48, è il motivo ricorrente dell’ostilità dei popoli vicini e delle guerre<br />

da essi suscitate contro Roma, è, infine, oggetto <strong>di</strong> incroll<strong>ab</strong>ile fede da parte dei Romani<br />

stessi.<br />

IL REGNO DI ROMOLO<br />

Al primo re sono de<strong>di</strong>cati i capp. 8-17 del primo libro. <strong>Livio</strong> ha già registrato, senza<br />

<strong>ab</strong>bellimenti né reticenze, la poco onorevole origine <strong>di</strong> Roma: i due gemelli, racconta,<br />

restituito il regno <strong>di</strong> Alba al nonno Numitore, decidono <strong>di</strong> fondare una nuova città, nei<br />

luoghi in cui erano stati esposti ed allevati. Accompagnati da molti Albani e Latini, scelto<br />

il luogo, si accingono alla fondazione. Tra i due fratelli, fino a quel momento<br />

perfettamente concor<strong>di</strong>, si insinuò un avitum malum, la regni cupido, e sorse una<br />

vergognosa contesa su chi dovesse essere il fondatore e il re della nuova città. Si decide<br />

<strong>di</strong> lasciare la decisione agli dèi, e ciascuno prende posto in un luogo d’osservazione,<br />

47<br />

Per es. l’istituzione del senato (Romolo), della maggior parte dei collegi sacerdotali (Numa), della<br />

sud<strong>di</strong>visione della popolazione in classi su base censitaria (Servio Tullio).<br />

48<br />

1,4,1 Sed debebatur, ut opīnor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii<br />

principium.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 43<br />

Romolo sul Palatino e Remo sull’ Aventino (1,6,4). Per primo Remo scorge il segno, sei<br />

avvoltoi; ma subito dopo Romolo annuncia <strong>di</strong> averne visti do<strong>di</strong>ci: entrambi i gemelli sono<br />

proclamati re dai rispettivi seguaci; scoppia una zuffa, e Remo resta ucciso. <strong>Livio</strong><br />

aggiunge anche la versione più nota (volgatior fama), secondo cui Remo fu ucciso dal<br />

fratello, irato per l’atto <strong>di</strong> provocazione da lui compiuto (saltò con spregio al <strong>di</strong> là del<br />

tracciato delle nuove mura). Da questo momento <strong>di</strong> Remo non si parla più: ita solus<br />

potitus imperio Romulus; <strong>con<strong>di</strong>ta</strong> urbs con<strong>di</strong>toris nomine appellata (1,7,1-3). Romolo<br />

fortifica il Palatino, e offre sacrifici agli dèi: agli altri secondo il rito albano, ad Ercole<br />

secondo quello greco, che era stato istituito da Evandro. Segue un’ampia <strong>di</strong>gressione<br />

eziologica, in cui viene narrata la leggenda <strong>di</strong> Ercole e Caco49, e la consacrazione da parte<br />

<strong>di</strong> Evandro <strong>di</strong> un’ara che – profetizza Evandro – “un giorno il popolo più potente del<br />

mondo chiamerà Massima”. Questo lungo racconto (1,7,4-14), che non ha nulla a che<br />

fare con la fondazione <strong>di</strong> Roma e con le vicende <strong>di</strong> Romolo, non ha solo lo scopo <strong>di</strong><br />

inserire la menzione dell’ Ara Maxima, al cui rinnovato culto Augusto attribuiva grande<br />

importanza; svolge anche una importante funzione all’interno del testo, separando l’inizio<br />

poco e<strong>di</strong>ficante della città dalla narrazione dei fatti del regno <strong>di</strong> Romolo.<br />

Fatti e leggende erano offerti, come si è detto, a <strong>Livio</strong> dalle sue fonti; egli impiega il<br />

suo talento <strong>di</strong> narratore soprattutto nel dare una veste letteraria accurata ed attraente<br />

ad una res, come lo storico ha esplicitamente affermato nella prefazione, vetus e volgata.<br />

In concreto, la riel<strong>ab</strong>orazione operata da <strong>Livio</strong> (sia qui sia in generale nella sua<br />

storia <strong>di</strong> Roma) consiste in primo luogo in una <strong>di</strong>sposizione della materia atta, con la sua<br />

varietà, ad evitare la monotonia, per mezzo <strong>di</strong> una frequente alternanza <strong>di</strong> temi: per<br />

Romolo, descrizione della situazione interna a Roma e delle guerre esterne, brani eru<strong>di</strong>ti<br />

o eziologici e leggende tra<strong>di</strong>zionali. Non solo: <strong>di</strong> fronte ad una materia sterminata e<br />

spesso assai ripetitiva, <strong>Livio</strong> non si limita all’alternanza dei temi; applica anche, nella sua<br />

narrazione, un fondamentale principio <strong>di</strong> selezione: pur non rinunciando ad informare il<br />

lettore <strong>di</strong> tutti i fatti storicamente rilevanti, non li racconta però tutti per esteso.<br />

Concentra la sua attenzione su alcuni eventi più significativi, o più ricchi <strong>di</strong> spunti<br />

drammatici o patetici, o ancora che si prestano meglio <strong>di</strong> altri a trarne un insegnamento<br />

morale; a molti altri episo<strong>di</strong> analoghi si limita ad accennare brevemente, senza veramente<br />

raccontarli e sfruttarne tutte le possibilità.<br />

Sul piano artistico e stilistico, a questa selezione degli argomenti corrisponde un<br />

uso moderato e sapiente delle tecniche della storiografia drammatica: ad episo<strong>di</strong> ricchi <strong>di</strong><br />

pathos, trattati in modo da coinvolgere emotivamente il lettore, e caratterizzati da uno<br />

49 In Virgilio il mito viene narrato da Evandro ad Enea (Aen. 8,185-275). Dopo aver ucciso il<br />

mostro Gerìone ed essersi impossessato dei suoi armenti, Ercole ne viene derubato da Caco, un<br />

pastore predone (secondo la versione <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>) o un mostro, figlio <strong>di</strong> Vulcano (secondo quella <strong>di</strong><br />

Virgilio). Scoperta la spelonca in cui Caco aveva nascosto le bestie, Ercole lo affronta e lo uccide.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 44<br />

stile el<strong>ab</strong>orato (perio<strong>di</strong> ampi, termini ricercati, talvolta locuzioni poetiche) sono alternati<br />

brani più prosaici, descrittivi, composti in uno stile rapido e stringato. In tal modo la<br />

tensione drammatica creata negli episo<strong>di</strong> più el<strong>ab</strong>orati (con un principio, un nucleo<br />

narrativo, lo scioglimento finale) si allenta, e nel lettore non si ingenera la sazietà.<br />

Sul regno <strong>di</strong> Romolo la tra<strong>di</strong>zione offriva a <strong>Livio</strong> questi elementi: una serrie <strong>di</strong><br />

guerre; alcune misure <strong>di</strong> politica interna; due leggende famose, connesse entrambe alla<br />

guerra contro i S<strong>ab</strong>ini, il tra<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> Tarpea e il ratto delle donne.<br />

La sezione de<strong>di</strong>cata al regno <strong>di</strong> Romolo si apre con queste parole: “Compiute<br />

secondo il rito le cerimonie religiose e riunita in assemblea la moltitu<strong>di</strong>ne che nulla se<br />

non le leggi poteva unire a formare un solo popolo, fissò le norme del <strong>di</strong>ritto (iura de<strong>di</strong>t)”<br />

(1,8,1). Una situazione, brevemente delineata, ben <strong>di</strong>versa da quella con cui si apriva il<br />

capitolo precedente: in luogo <strong>di</strong> una folla che si azzuffa, una moltitu<strong>di</strong>ne che si avvia a<br />

<strong>di</strong>ventare un popolo; al posto <strong>di</strong> un (prob<strong>ab</strong>ile) assassino, un re risoluto e saggio, che<br />

prima <strong>di</strong> tutto si preoccupa <strong>di</strong> fissare le leggi. Segue l’istituzione dei simboli del potere, i<br />

12 littori, la sella curulis, la toga praetexta, con una <strong>di</strong>scussione <strong>di</strong> carattere eru<strong>di</strong>to<br />

sull’origine etrusca <strong>di</strong> tutti e tre questi simboli.<br />

Dopo l’ampliamento della città 50, il secondo provve<strong>di</strong>mento preso da Romolo è<br />

l’istituzione dell’asilo: un luogo, posto sotto la protezione <strong>di</strong> una <strong>di</strong>vinità, che garantisce<br />

l’inviol<strong>ab</strong>ilità a chiunque vi si rifugi; a questo è collegato il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> stanziamento, per cui<br />

coloro che ottengono asilo <strong>di</strong>ventano citta<strong>di</strong>ni del luogo. Si rifugia nell’asilo aperto da<br />

Romolo ogni sorta <strong>di</strong> persone dalle popolazioni vicine, senza <strong>di</strong>stinzione fra liberi e servi.<br />

Infine Romolo istituisce il senato, con 100 membri.<br />

Il sinecismo s<strong>ab</strong>ino<br />

Prima fase: il ratto (1,9). Il racconto della fusione fra Romani e S<strong>ab</strong>ini è costruito<br />

come una sorta <strong>di</strong> dramma in più atti, con le donne s<strong>ab</strong>ine che – come il coro nelle<br />

trage<strong>di</strong>e – fanno da sfondo e collegano fra loro le parti del dramma, e accompagnano con<br />

il graduale mutamento dei loro sentimenti lo sviluppo della vicenda, fino alla<br />

riconciliazione finale, in cui assumono il ruolo <strong>di</strong> protagoniste.<br />

La storia era notissima; il confronto con le versioni che possiamo leggere in<br />

Cicerone 51 , in Plutarco 52 e in Dionigi <strong>di</strong> Alicarnasso 53 mostra che l’el<strong>ab</strong>orazione del<br />

racconto è opera <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>, non gli deriva dalla tra<strong>di</strong>zione.<br />

50<br />

“Cresceva frattanto la città, includendo nella cerchia delle sue mura sempre nuovi territori,<br />

giacché quelle fortificazioni venivano costruite più nell’attesa della popolazione futura che non per<br />

il numero effettivo degli <strong>ab</strong>itanti <strong>di</strong> allora” (1,8,4).<br />

51<br />

de rep. 2,7<br />

52<br />

Romolo, 14 ss.,


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 45<br />

<strong>Livio</strong> el<strong>ab</strong>ora un antefatto della vicenda (9,2-5), che non si trova in nessuna delle<br />

fonti parallele, evidentemente allo scopo <strong>di</strong> far apparire meno gravi, se non proprio <strong>di</strong><br />

giustificarli, l’inganno e la violenza cui i Romani ricorsero. Romolo infatti manda<br />

ambasciatori a chiedere ai popoli vicini <strong>di</strong> concedere ai Romani il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> conubium, e<br />

solo dopo aver ricevuto da tutti un rifiuto, e da molti anche un oltraggio, decide il ricorso<br />

alla violenza. La vis annunciata, e attesa dal lettore, è alquanto rimandata, per<br />

accrescere la tensione; viene infatti descritta, assai più ampiamente del ratto vero e<br />

proprio, la preparazione della festa, organizzata appositamente (ex industria) per attirare<br />

nell’agguato i popoli vicini. Il racconto procede poi lentamente, con la registrazione del<br />

successo del piano: gli ospiti arrivano numerosi, sono accolti amichevolmente e condotti<br />

in giro a visitare la città, ammirati e stupiti (9,6-9).<br />

Quando finalmente giunge il momento tanto atteso dal lettore, tutto si compie in<br />

fretta, con or<strong>di</strong>ne, quasi come un’azione militare, registrata con una sola frase (9,10). La<br />

tensione si allenta subito, nella descrizione dell’or<strong>di</strong>nata <strong>di</strong>stribuzione delle rapite (9,11):<br />

non sono registrati strilli, né confusione, né, soprattutto, risse fra i rapitori; l’ultimo<br />

accenno (le più belle sono destinate ai primi della città) fa capire che tutto era stato<br />

perfettamente organizzato in anticipo. Segue infine una notazione eru<strong>di</strong>ta, <strong>di</strong> carattere<br />

eziologico, sull’origine dell’Invocazione a Talassio, tra<strong>di</strong>zionale nelle cerimonie nuziali<br />

(9,12); essa ha anche una importante funzione all’interno del racconto, in quanto la<br />

menzione della nuptialis vox fa comprendere che tutta l’impresa non è una brutale<br />

aggressione, ma prelude a nozze regolari.<br />

L’attenzione del narratore si sposta quin<strong>di</strong> (9, 13-16) sulla parte offesa, soprattutto<br />

sulle donne. Il <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> Romolo (in o.o.) conclude la prima fase dell’episo<strong>di</strong>o, che si era<br />

anch’essa aperta con un <strong>di</strong>scorso (anche questo in o.o.), quello dei legati ai popoli vicini.<br />

L’unità tematica <strong>di</strong> questa prima fase, la cui scena è costantemente in Roma, è<br />

sottolineata dalla ripresa, nelle parole <strong>di</strong> Romolo, del motivo iniziale del rifiuto del<br />

conubium.<br />

Seconda fase. Il tempio <strong>di</strong> Giove Feretrio. (1,10-11,4). L’unità della sezione<br />

anche in questo caso è sottolineata dal fatto che il narratore la racchiude fra due<br />

menzioni dei parentes raptarum, all’inizio irati e in<strong>di</strong>gnati, e alla fine riconciliati con<br />

Roma al punto <strong>di</strong> trasferirsi ad<strong>di</strong>rittura in quella città cui in passato avevano rifiutato<br />

societas e conubium. La scena è per lo più fuori Roma, salvo che per la cerimonia della<br />

de<strong>di</strong>ca delle spoglie opime, il vero centro <strong>di</strong> interesse <strong>di</strong> questa fase della vicenda. In<br />

contrasto con la prima sezione (e soprattutto con l’ultima), questa è caratterizzata da<br />

53 Ant. Rom. 2,30,1


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 46<br />

estrema concisione: essa è una sorta <strong>di</strong> pausa, prima della guerra con i S<strong>ab</strong>ini, con la<br />

sua inattesa conclusione. La coalizione dei popoli offesi attorno al re dei S<strong>ab</strong>ini <strong>Tito</strong> Tazio<br />

si scioglie ancor prima che un’azione comune possa essere progettata e adeguatamente<br />

preparata, e ciascuno dei popoli attacca Roma da solo, in momenti successivi. Si<br />

presentavano dunque allo storico quattro <strong>di</strong>stinte campagne militari: egli sceglie <strong>di</strong><br />

concentrarsi su una soltanto <strong>di</strong> esse, naturalmente quella contro i S<strong>ab</strong>ini. Delle altre tre<br />

offre un resoconto molto stringato.<br />

I più impazienti <strong>di</strong> ven<strong>di</strong>care l’offesa sono i Ceninesi. La guerra contro <strong>di</strong> loro è la<br />

prima impresa bellica in cui è impegnata la nuova città, che era, come lo storico ha<br />

asserito (1,9,1), cuilibet finitimarum civitatium bello par, e l’esito vittorioso lo <strong>di</strong>mostra. Lo<br />

scontro non è affatto memor<strong>ab</strong>ile (leve certamen), salvo che per l’uccisione da parte <strong>di</strong><br />

Romolo del re dei nemici. E’ proprio questa circostanza che offre al re l’occasione per<br />

immortalare l’evento, con la solenne istituzione della cerimonia dell’offerta delle spoglie<br />

opime e la promessa del tempio; e allo storico <strong>di</strong> inserire la sua notazione eziologica ed<br />

eru<strong>di</strong>ta. Questa ha anche la funzione narrativa <strong>di</strong> interporre una pausa dopo la prima<br />

guerra vittoriosa della storia <strong>di</strong> Roma, che per quanto insignificante andava solennizzata<br />

in qualche modo. I medesimi “fatti” (guerra contro Cenina e offerta delle spoglie) sono<br />

el<strong>ab</strong>orati in modo molto <strong>di</strong>verso da Properzio, nella sezione iniziale dell’elegia eziologica<br />

sul tempio <strong>di</strong> Giove Feretrio54. In essa il poeta presenta compiutamente il re nemico,<br />

Acrone <strong>di</strong>scendente <strong>di</strong> Ercole, lo descrive mentre assale minaccioso le porte <strong>di</strong> Roma, e<br />

accenna anche al duello da cui Romolo uscì vittorioso. <strong>Livio</strong> invece insiste sulla facilità<br />

della vittoria, e del re ucciso non <strong>di</strong>ce neppure il nome. Ogni particolare superfluo viene<br />

eliminato: centro <strong>di</strong> interesse non è l’ucciso, ma l’uccisore, e la tra<strong>di</strong>zione da lui<br />

inaugurata; per questo, pur in un resoconto molto conciso, l’uccisione del re è<br />

menzionata due volte (regem obtruncat; duce hostium occiso 55 ): occorreva mettere in<br />

rilievo la qualifica dell’ucciso, non chi egli fosse. In tal modo risulta chiaro che spolia<br />

opima sono soltanto quelle offerte dal condottiero dotato <strong>di</strong> imperium supremo che <strong>ab</strong>bia<br />

54<br />

4,10,5-18: Imbuis exemplum primae tu, Romule, palmae / huius, et exuvio plenus <strong>ab</strong> hoste re<strong>di</strong>s,<br />

/ tempore quo portas Caeninum Acrona petentem / victor in eversum cuspide fun<strong>di</strong>s equum. / Acron<br />

Herculeus Caenina ductor <strong>ab</strong> arce, / Roma, tuis quondam finibus horror erat. / Hic spolia ex umeris<br />

ausus sperare Quirini / ipse de<strong>di</strong>t, sed non sanguine sicca suo. / Hunc videt ante cavas librantem<br />

spicula turres / Romulus et votis occupat ante ratis: / 'Iuppiter, haec ho<strong>di</strong>e tibi victima corruet<br />

Acron.' / Voverat, et spolium corruit ille Iovi., “Tu per primo, Romolo, inauguri l’esempio <strong>di</strong> questo<br />

trofeo, e torni carico <strong>di</strong> spoglie dal nemico, al tempo in cui con la tua lancia vittorioso <strong>ab</strong>batti sul<br />

cavallo riverso il ceninese Acrone che assale le porte. Acrone, condottiero <strong>di</strong>scendente da Ercole,<br />

dalla rocca <strong>di</strong> Cenina minacciava un tempo, o Roma, i tuoi territori. Egli, che aveva osato sperare<br />

le spoglie tolte dagli omeri <strong>di</strong> Quirino, le offrì egli stesso, ma bagnate del suo sangue. Romolo lo<br />

vede scagliare dar<strong>di</strong> davanti alle cave torri, e lo previene formulando un voto, che fu esau<strong>di</strong>to:<br />

‘Giove, per te oggi cadrà questa vittima, Acrone’. Così aveva promesso, e quello cadde, spoglia per<br />

Giove”.<br />

55<br />

Al tempo <strong>di</strong> Romolo la medesima persona assomma in sé la carica politica più alta (rex) e il<br />

supremo comando militare (dux).


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 47<br />

ucciso in battaglia il suo pari grado dell’esercito nemico. Questo è riba<strong>di</strong>to nella solenne,<br />

orgogliosa formula della de<strong>di</strong>ca <strong>di</strong> Romolo: victor Romulus rex regia arma fero... regibus<br />

ducibusque hostium caesis.<br />

Le altre due campagne, contro Antemnati (11,1-2) e Crustumini (11, 3) si svolgono<br />

nel medesimo modo, e vengono registrate con concisione crescente. Lo svolgimento della<br />

guerra contro gli Antemnati è analogo a quello della guerra contro i Ceninesi: attacco del<br />

nemico, reazione <strong>di</strong> Romolo, vittoria e conquista della città. Qui però sono omessi<br />

inseguimento e fuga del nemico sconfitto. Alla <strong>di</strong>gressione su Giove Feretrio corrisponde,<br />

in certo modo, la pausa costituita dall’intercessione <strong>di</strong> Ersilia, la moglie <strong>di</strong> Romolo, a<br />

favore degli sconfitti, che prefigura già (come il <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> Romolo alle ragazze rapite) lo<br />

scioglimento finale della guerra contro i S<strong>ab</strong>ini, ed è riferito, come le imprese militari, con<br />

stile assai conciso: due participi congiunti (ovantem e fatigata) delineano brevemente le<br />

con<strong>di</strong>zioni che preparano e favoriscono la richiesta; i due congiuntivi introdotti da ut (det<br />

e accipiat) ne espongono il contenuto; non manca (in stile in<strong>di</strong>retto) anche una succinta<br />

valutazione politica sull’utilità <strong>di</strong> accogliere la richiesta, che ben si adatta alla moglie del<br />

re.<br />

Per la terza guerra, contro i Crustumini, <strong>Livio</strong> non <strong>di</strong>ce neppure se vi sia stata una<br />

vera e propria battaglia, o se la città si sia subito arresa. Invece <strong>di</strong> ripetere per la terza<br />

volta la medesima successione <strong>di</strong> azioni, lo storico registra il comune risultato <strong>di</strong><br />

entrambe le vittorie (utroque coloniae missae, 11, 4).<br />

Terza fase. La guerra contro i S<strong>ab</strong>ini (1, 11,5-13). Dopo aver con estrema<br />

facilità vinto tre guerre, Roma può senza <strong>di</strong>sonore apparire in <strong>di</strong>fficoltà: il nemico in<br />

questo caso si è preparato seriamente e in segreto alla guerra, e riesce a cogliere <strong>di</strong><br />

sorpresa i Romani.<br />

A questo punto del racconto <strong>Livio</strong> introduce la nota leggenda <strong>di</strong> Tarpea (11,6-7).<br />

La vicenda non viene riel<strong>ab</strong>orata come nel caso del ratto: questo mito, <strong>di</strong> cui esistevano<br />

<strong>di</strong>verse varianti, è esposto con tono <strong>di</strong>staccato e un poco scettico, da eru<strong>di</strong>to più che da<br />

narratore. Non vi è tensione drammatica, il racconto è quanto mai scarno e scolorito, e<br />

gli elementi più pittoreschi, che facevano parte tra<strong>di</strong>zionalmente della versione scelta da<br />

<strong>Livio</strong>, non vengono sfruttati per costruire il racconto, ma sono relegati nel commento<br />

eru<strong>di</strong>to finale.<br />

La leggenda era nata evidentemente per spiegare l’origine del nome del Tarpeius<br />

mons, la rupe Tarpea, una roccia sul colle del Campidoglio, dalla quale venivano nei<br />

tempi antichi precipitati i tra<strong>di</strong>tori della patria: questo fece nascere la leggenda <strong>di</strong> un eroe<br />

eponimo, Tarpea appunto. Di questo mito erano note al tempo <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> almeno tre<br />

versioni:


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 48<br />

a) Tarpea tra<strong>di</strong>sce per avi<strong>di</strong>tà, per brama dell’oro da lei chiesto ai S<strong>ab</strong>ini o promesso da<br />

loro; i nemici stessi la puniscono uccidendola. Questa era prob<strong>ab</strong>ilmente la versione più<br />

antica, e certo la più <strong>di</strong>ffusa; si trovava già in F<strong>ab</strong>io Pittore e Cincio Alimento 56, ed è<br />

quella accolta da <strong>Livio</strong> stesso.<br />

b) Tarpea tra<strong>di</strong>sce per amore: è la versione famosa <strong>di</strong> Properzio (4,4), la più originale 57.<br />

<strong>Livio</strong> non mostra <strong>di</strong> conoscere questa versione, che adatta alla leggenda romana un<br />

motivo frequente nei racconti ellenistici.<br />

c) Una versione patriottica era stata el<strong>ab</strong>orata dall’annalista Pisone, ed è menzionata<br />

anche da <strong>Livio</strong>: Tarpea non intendeva tra<strong>di</strong>re, finse solo <strong>di</strong> volersi accordare con i nemici;<br />

chiedendo loro le armi come ricompensa del suo (finto) tra<strong>di</strong>mento intendeva in realtà<br />

consegnarli <strong>di</strong>sarmati ai Romani. L’inganno però non riesce, e Tarpea viene uccisa.<br />

Questa versione forse nacque, più che per motivi patriottici, per una esigenza <strong>di</strong><br />

razionalizzazione: poiché la tomba <strong>di</strong> Tarpea era oggetto <strong>di</strong> culto, evidentemente essa non<br />

poteva essersi resa colpevole <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>mento.<br />

Sono evidenti la semplicità e la concisione del racconto <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>, concentrato sul<br />

dolus: lo storico <strong>di</strong> proposito elimina, nel racconto principale, l’elemento fondamentale<br />

dell’ambiguità della richiesta <strong>di</strong> Tarpea, sulla quale era costruita la versione più nota del<br />

mito: Tarpea non chiese l’oro né chiese gli scu<strong>di</strong>, ma “ciò che portavano nella mano<br />

sinistra”, e i S<strong>ab</strong>ini non la ingannarono. Rinunciando a questo elemento, <strong>Livio</strong><br />

razionalizza e banalizza il racconto: lo confermano le due spiegazioni proposte del<br />

comportamento dei soldati s<strong>ab</strong>ini, che invece <strong>di</strong> compensare Tarpea la uccidono (o per<br />

dar l’impressione <strong>di</strong> aver conquistato la rocca, o per rivolgere un avvertimento<br />

minaccioso a tutti i possibili tra<strong>di</strong>tori).<br />

Anche i particolari relativi al personaggio <strong>di</strong> Tarpea sono lasciati ai margini: ciò<br />

che a <strong>Livio</strong> importa sottolineare è che fu un dolus a consegnare la rocca ai S<strong>ab</strong>ini. Il dato<br />

tra<strong>di</strong>zionale (e anacronistico) secondo cui Tarpea era una Vestale, è implicito nel termine<br />

virgo e nell’accenno ai sacra, ma per la storia del tra<strong>di</strong>mento è superfluo. L’espressione<br />

forte ierat (si noti soprattutto l’uso del piuccheperfetto) permette allo scrittore <strong>di</strong> non<br />

soffermarsi su particolari <strong>di</strong> minor conto anteriori al fatto centrale su cui è concentrata<br />

l’attenzione (il dolus), relegando in un momento precedente le circostanze che lo hanno<br />

determinato. Il lettore poteva legittimamente chiedersi come Tazio si fosse potuto<br />

accordare con Tarpea, che viveva dentro la rocca, all’interno delle mura: la frase<br />

aquam...petitum ierat fornisce, in forma quasi parentetica, la necessaria spiegazione; il<br />

racconto principale riprende subito, con la medesima parola con cui si era interrotto:<br />

56<br />

Come attesta Dionigi <strong>di</strong> Alicarnasso, Ant. rom 1,38<br />

57<br />

Non inventata prob<strong>ab</strong>ilmente da Properzio, giacché era narrata già da un certo Similo,<br />

menzionato da Plutarco, Romolo, 18.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 49<br />

accipiat ... accepti. Omessi tutti i particolari relativi all’accordo, dopo la parentesi il<br />

tra<strong>di</strong>mento è già consumato, e la tra<strong>di</strong>trice punita. Con ad<strong>di</strong>tur f<strong>ab</strong>ula inizia il commento<br />

<strong>di</strong> carattere eru<strong>di</strong>to; solo qui, a racconto principale già concluso, sono infine forniti i<br />

particolari relativi al patto e all’oro; e poi è aggiunta ancora l’altra versione.<br />

Con le parole tenuere tamen arcem S<strong>ab</strong>ini riprende il racconto storico: tamen lascia<br />

implicito un enunciato <strong>di</strong> questo genere: benché la storia del tra<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> Tarpea non<br />

sia certa, né tramandata in modo concorde58, è certo però che i S<strong>ab</strong>ini occuparono la<br />

rocca del Campidoglio. Di qui <strong>Livio</strong> si impegna nella prima descrizione particolareggiata<br />

<strong>di</strong> una battaglia, che occupa per intero il capitolo 12.<br />

Esso si apre con un ampio periodo (12,1) che fornisce il quadro del luogo in cui lo<br />

scontro avverrà (la pianura fra i colli Palatino e Capitolino), descrive la rispettiva<br />

posizione dei due eserciti (in cima al pen<strong>di</strong>o i S<strong>ab</strong>ini, nella pianura i Romani), i<br />

sentimenti che animano i Romani (ira e cupi<strong>di</strong>tas reciperandae arcis), e infine il primo<br />

movimento dei due schieramenti, che si corrono incontro (in <strong>di</strong>scesa i S<strong>ab</strong>ini, in salita i<br />

Romani, dunque in situazione <strong>di</strong> svantaggio). Anche il secondo paragrafo <strong>ab</strong>braccia ad<br />

un tempo entrambi gli schieramenti. Poi la descrizione si sud<strong>di</strong>vide, e tratta<br />

separatamente prima le azioni dei Romani (12,3-7) e poi quelle dei S<strong>ab</strong>ini (12,8), con un<br />

ritorno, segnalato dall’uso dei piuccheperfetti decucurrerat, egerat, al momento iniziale<br />

dello scontro: l’azione dei S<strong>ab</strong>ini viene seguita fino al momento in cui Romolo e Mezio si<br />

trovano l’uno <strong>di</strong> fronte all’altro, accanto alla porta del Palatino; <strong>di</strong> qui inizia la ripresa dei<br />

Romani59, introdotta e propiziata dalla preghiera <strong>di</strong> Romolo.<br />

La preghiera vera e propria è costituita dai tre imperativi arce, deme, siste. Ma<br />

prima <strong>di</strong> rivolgere la supplica a Giove, Romolo riassume la situazione, per mettere, se<br />

così si può <strong>di</strong>re, rispettosamente il <strong>di</strong>o davanti alle sue respons<strong>ab</strong>ilità: tu hai voluto che<br />

io fondassi questa città; ora ve<strong>di</strong> quale pericolo essa corre; dunque salvala. I <strong>di</strong>versi<br />

momenti <strong>di</strong> questo accorato ragionamento sono scan<strong>di</strong>ti – con lo stile tipico, per l’impiego<br />

dell’anafora, delle preghiere – dalla ripetizione dell’avv. <strong>di</strong> luogo: hic...huc...hinc...hic. Altri<br />

elementi che conferiscono solennità alla preghiera sono in<strong>di</strong>vidu<strong>ab</strong>ili nell’uso del verbo<br />

58 Di questa cautela sull’incertezza della tra<strong>di</strong>zione, implicita in tamen, <strong>Livio</strong> non tiene più conto<br />

nel seguito del racconto, quando fa <strong>di</strong>re a Romolo, nella sua preghiera a Giove: arcem scelere<br />

emptam S<strong>ab</strong>ini h<strong>ab</strong>ent, 1,12,4.<br />

59 Curiosamente pare che non sia il re a guidare fin dall’inizio l’esercito romano, ma il valoroso<br />

Osto Ostilio, che però esce subito <strong>di</strong> scena. Il personaggio fu prob<strong>ab</strong>ilmente inventato dalla<br />

tra<strong>di</strong>zione annalistica per fornire al terzo re <strong>di</strong> Roma un antenato prestigioso (cf. <strong>Livio</strong> 1,22,1: ...<br />

Tullum Hostilium, nepotem Hostilii, cuius in infima arce clara pugna adversus S<strong>ab</strong>inos fuerat, regem<br />

populus iussit.). Dopo la sua prova <strong>di</strong> valore Osto Ostilio lascia infatti opportunamente il posto a<br />

Romolo. Dalla parte dei S<strong>ab</strong>ini invece il comandante è dall’inizio alla fine Mezio Curzio; il re <strong>Tito</strong><br />

Tazio (figura molto evanescente) non compare mai nella battaglia; soltanto a conflitto felicemente<br />

concluso <strong>Livio</strong> lo nomina (13,8); anche il regno in comune con Romolo dura poco: il re <strong>Tito</strong> Tazio<br />

viene ucciso, per un colpa commessa da lui solo, dalla folla inferocita <strong>di</strong> Lavinio. L’incidente non<br />

ha conseguenze per Roma; Romolo non si affligge troppo per l’accaduto, e torna a regnare da solo<br />

(1,14,1-3).


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 50<br />

arceo, termine tecnico del linguaggio sacrale 60, il chiasmo in deme terrorem ...fugamque<br />

foedam (con allitterazione) siste; l’aggettivo praesens (praesenti ope), che riferito ad una<br />

<strong>di</strong>vinità o al suo aiuto in<strong>di</strong>ca un intervento sia pronto sia efficace.<br />

Come per il tempio <strong>di</strong> Giove Feretrio, insieme alla promessa Romolo assegna un<br />

epiteto al <strong>di</strong>o connesso con la competenza che gli viene assegnata: stator, sostantivo che<br />

mostra la medesima ra<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> sisto. Il commento <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> (la comparativa ipotetica veluti<br />

si sensisset) è un po’ scettico; ma l’effetto psicologico delle parole <strong>di</strong> Romolo sui soldati è<br />

reale: lo storico lo sottolinea con la ripresa del medesimo verbo: resistere ...iubet.<br />

Restitere<br />

Terminata la descrizione della battaglia dal punto <strong>di</strong> vista romano<br />

(<strong>di</strong>sorientamento, fuga, rapida ripresa), il narratore, come si è detto, fa un passo in<strong>di</strong>etro,<br />

e torna a descriverla dal punto <strong>di</strong> vista dei S<strong>ab</strong>ini. Le parole attribuite a Mezio<br />

corrispondono alla preghiera <strong>di</strong> Romolo, e nel medesimo tempo creano con essa un<br />

contrasto: troppo presto il condottiero s<strong>ab</strong>ino crede <strong>di</strong> avere ormai vinto, e usa un<br />

linguaggio tracotante. Da notare la paronomasia hospites-hostes; il parallelismo nella<br />

prima parte del periodo (agg. sost., con gli aggettivi che sono in contrasto con i sostantivi)<br />

e il chiasmo nella seconda (oggetto verbo – verbo complemento). Proprio da questo<br />

momento invece i S<strong>ab</strong>ini vengono respinti.<br />

La descrizione della battaglia si chiude, provvisoriamente, con la “peripezia” <strong>di</strong><br />

Mezio: trascinato dal cavallo nella palude – incidente che <strong>di</strong>stoglie i suoi dal<br />

combattimento61 – sembra perduto, e la situazione si fa <strong>di</strong>sperata per i S<strong>ab</strong>ini; ma il<br />

generale riesce a salvarsi, e il combattimento riprende: sed res Romana erat superior.<br />

L’imperfetto erat in<strong>di</strong>ca che il combattimento è ben lontano dall’essere concluso, quando<br />

si verifica l’evento inatteso.<br />

Questo è naturalmente l’improvviso e imprevisto irrompere delle donne s<strong>ab</strong>ine<br />

nella battaglia. Con indubbia efficacia drammatica, questa “peripezia” è collocata nel<br />

momento in cui il combattimento è ripreso con nuovo vigore, e in con<strong>di</strong>zioni quasi <strong>di</strong><br />

parità: entrambi gli eserciti sono ora nella pianura; l’esito finale dello scontro è ancora<br />

incerto, anche se <strong>Livio</strong> non rinuncia a dare ai Romani un lieve vantaggio. Le donne<br />

intervengono ora per imporre la pace, non per chiedere clemenza per i vinti, come Ersilia<br />

in 11,2.<br />

60<br />

Propriamente impiegato per in<strong>di</strong>care la necessaria esclusione dei profani da un luogo consacrato,<br />

o in cui si sta celebrando un rito.<br />

61<br />

Va rilevato che il piuccheperfetto averterat non è impiegato per riportare la descrizione ad un<br />

momento precedente (come invece decucurrerat ed egerat a 12,8), ma ha valore aspettuale (azione<br />

conchiusa): in<strong>di</strong>ca cioè la rapi<strong>di</strong>tà del processo verbale, presentandolo come già compiuto. Mezio<br />

cade nella palude, ed ecco che i suoi (prima quelli che gli stanno intorno, e poi tutti gli altri) sono<br />

già <strong>di</strong>stolti dal combattere, e seguono con trepidazione, e con le manifestazioni tipiche (gesti, grida,<br />

favor) degli spettatori ai giochi del circo, il suo tentativo <strong>di</strong> uscire dalla palude.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 51<br />

L’episo<strong>di</strong>o conclusivo è messo in scena da <strong>Livio</strong> con mezzi stilistici adeguati al<br />

rilievo che intende conferirgli. L’intera descrizione dell’intervento delle S<strong>ab</strong>ine è racchiusa<br />

in un unico periodo <strong>di</strong> notevole ampiezza, privo <strong>di</strong> pause marcate, retto da un unico<br />

verbo principale ripetuto 62 , l’infinito storico <strong>di</strong>rimere...<strong>di</strong>rimere, posposto a numerosi<br />

elementi subor<strong>di</strong>nati. Il narratore apre il periodo con la presentazione del soggettoprotagonista<br />

(con la funzione quasi <strong>di</strong> un titolo), S<strong>ab</strong>inae mulieres, e ritarda il pre<strong>di</strong>cato,<br />

un espe<strong>di</strong>ente dei più comuni, mirante ad accrescere la tensione nel lettore, che fino a<br />

<strong>di</strong>rimere non sa ancora a che cosa miri o che cosa ottenga il comportamento insolito e<br />

temerario delle S<strong>ab</strong>ine. <strong>Gli</strong> elementi interposti sono:<br />

a) la relativa quarum ex iniuria bellum ortum erat, che in tono pacato e oggettivo richiama<br />

l’origine della guerra; questo stesso fatto (l’iniuria patita) nel brano in <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>retto<br />

<strong>di</strong>venta un patetico atto d’accusa delle donne contro se stesse (nos causa belli)<br />

b) la descrizione del loro aspetto, crinibus passis scissaque veste. Non si tratta <strong>di</strong> un<br />

elemento puramente esornativo, esso al contrario mette in rilievo un ben determinato<br />

stato d’animo; i capelli sciolti sono infatti un segno esteriore <strong>di</strong> agitazione e <strong>di</strong> dolore, e in<br />

particolare denotano un atteggiamento <strong>di</strong> supplica 63 ; le vesti strappate sono la<br />

manifestazione del lutto. L’uno e l’altro inoltre sono atteggiamenti tipicamente femminili.<br />

c) l’<strong>ab</strong>l. ass. victo pavore. Con il termine pavor, più descrittivo <strong>di</strong> timor, in quanto in<strong>di</strong>ca<br />

propriamente il tremare, la manifestazione esteriore e visibile della paura, l’autore non si<br />

riferisce alla paura della battaglia in corso, ma ad una caratteristica propria dell’essere<br />

femminile, la cui indole è naturalmente paurosa.<br />

d) il part. congiunto ausae: accostato <strong>di</strong>rettamente a pavore per accentuare il contrasto,<br />

ne <strong>di</strong>pende l’infinitiva se inferre, locuzione tipicamente militare, che, insieme alla<br />

sequenza <strong>di</strong> ritmo epico īntēr tēlă vǒlāntĭă, mette in rilievo quanto sia inconsueto e<br />

stupefacente il comportamento <strong>di</strong> queste donne.<br />

e) l’<strong>ab</strong>l. ass. impetu facto (altra espressione del lessico militare): completa la descrizione,<br />

in<strong>di</strong>cando il modo in cui le donne improvvisamente entrano nel campo <strong>di</strong> battaglia.<br />

La principale ripetuta <strong>di</strong>rimere presenta, per la prima volta dall’inizio dell’episo<strong>di</strong>o<br />

della battaglia fra Romani e S<strong>ab</strong>ini, l’infinito storico (o descrittivo o narrativo64). In latino<br />

esso è frequentemente impiegato per introdurre un elemento nuovo, violento o inatteso<br />

nella rappresentazione <strong>di</strong> un fatto, e conferisce alla descrizione un carattere <strong>di</strong> vivacità,<br />

62<br />

Il periodo ammette due interpretazioni sintattiche (v. note alla traduzione): qui si considera solo<br />

quella che pare più prob<strong>ab</strong>ile.<br />

63<br />

V. per es. Virgilio, Aen. 1,479-480: Interea ad templum non aequae Palla<strong>di</strong>s ibant / crinibus<br />

Iliades passis peplumque ferebant ; v. anche 2,404.<br />

64<br />

Si tratta <strong>di</strong> un uso latino originale, che non ha equivalenti in greco; sfruttando il valore<br />

nominale dell’infinito, esso presenta il processo verbale in sé, come pura durata, prescindendo da<br />

ogni altra determinazione grammaticale (tempo, modo, persona). Si presta particolarmente ad<br />

essere usato in serie.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 52<br />

imme<strong>di</strong>atezza, drammaticità maggiori <strong>di</strong> quelli espressi dal perfetto, o anche<br />

dall’imperfetto o dal presente storico. A <strong>di</strong>rimere è legato il part. orantes, da cui<br />

<strong>di</strong>pendono le due completive ne...respergerent e ne...macularent che espongono il<br />

contenuto della preghiera, e le conseguenze che la guerra avrà per i contendenti e i loro<br />

<strong>di</strong>scendenti comuni. Alle donne stesse è riservata in questa sezione solo una menzione<br />

in<strong>di</strong>retta, anche se molto commossa e patetica, nelle parole partus suos. Le conseguenze<br />

della guerra in relazione alle donne chiudono invece la sezione in <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>retto (viduae<br />

aut orbae). L’argomento su cui si fonda la preghiera è la parentela ormai instauratasi tra<br />

i due popoli, tra i quali dunque la guerra è sacrilega. Il parrici<strong>di</strong>um evocato dalle donne è<br />

propriamente l’uccisione <strong>di</strong> un parente prossimo, soprattutto <strong>di</strong> un consanguineo: fra<br />

coloro che si combattono non esiste nessun legame <strong>di</strong> sangue, ma il termine viene<br />

impiegato perché qui si fa riferimento ai <strong>di</strong>scendenti, consanguinei degli uni e degli altri.<br />

Senza alcun verbo introduttivo – proce<strong>di</strong>mento spesso impiegato da <strong>Livio</strong> per<br />

segnare il culmine emotivo <strong>di</strong> un episo<strong>di</strong>o – si passa infine ad una breve sezione in<br />

<strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>retto, cui è affidata la mozione degli affetti: <strong>di</strong>chiarandosi <strong>di</strong>sposte a subire<br />

esse sole, le uniche in realtà non colpevoli <strong>di</strong> nulla, tutte le conseguenze della guerra, le<br />

donne fanno appello all’affetto che lega a loro sia i padri sia i mariti. Non vi è più alcuna<br />

menzione dei figli, e l’attenzione è concentrata <strong>di</strong> nuovo, come all’inizio dell’episo<strong>di</strong>o, sulle<br />

S<strong>ab</strong>inae mulieres.<br />

Un proce<strong>di</strong>mento stilistico evidente infine, impiegato con insistenza in tutto il<br />

brano, è l’anafora: <strong>di</strong>rimere...<strong>di</strong>rimere; hinc...hinc (con il valore <strong>di</strong> hinc...illinc); ne...ne;<br />

si...si; nos...nos.<br />

Molto efficace – e caro a <strong>Livio</strong>, che lo impiega molto spesso per sottolineare il<br />

culmine drammatico <strong>di</strong> un episo<strong>di</strong>o – è il silenzio che segue alla preghiera, e crea un<br />

momento <strong>di</strong> sospensione e pausa prima della felice conclusione della vicenda.<br />

<strong>Gli</strong> effetti pratici e politici della pace ottenuta dalle donne sono esposti in uno stile<br />

conciso, con frasi brevi e scarne, che contrastano notevolmente con l’impegno stilistico<br />

profuso dal narratore nei paragrafi precedenti.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 53<br />

MARCO FURIO CAMILLO<br />

Il personaggio <strong>di</strong> Camillo è la figura <strong>di</strong> maggior spicco nella prima decade: <strong>Livio</strong> lo<br />

caratterizza in primo luogo come estremamente rispettoso degli dèi, e delle<br />

manifestazioni (presagi, pro<strong>di</strong>gi) della loro volontà (<strong>di</strong>ligentissimus religionum cultor è<br />

definito in 5,50,1); egli è, soprattutto, il fatalis dux ad exci<strong>di</strong>um illius urbis servandaeque<br />

patriae (5,19,2), predestinato a <strong>di</strong>struggere la città nemica <strong>di</strong> Veio e a salvare la patria:<br />

l’allusione rinvia, in particolar modo, alla vittoria sui Galli, e alla ferma opposizione, alla<br />

fine vincente, ai progetti <strong>di</strong> <strong>ab</strong>bandonare Roma, incen<strong>di</strong>ata e <strong>di</strong>strutta dai Galli, per<br />

trasferire tutta la popolazione in massa a Veio; ma anche alle molte altre vittorie contro i<br />

nemici <strong>di</strong> Roma, narrate nel libro VI. Come generale, Camillo ha tutte le doti necessarie:<br />

ripristina con severità la <strong>di</strong>sciplina militare fra i soldati impegnati nell’asse<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Veio; è<br />

dotato <strong>di</strong> prudentia (ratio, consilium), <strong>di</strong> fides65, <strong>di</strong> fortuna. Ma ha anche dei nemici, nei<br />

tribuni della plebe, che sobillano sia il popolo sia i soldati contro <strong>di</strong> lui. Dopo la<br />

conquista <strong>di</strong> Veio, e del suo immenso bottino, è costretto ad andare in esilio, con l’accusa,<br />

o il pretesto, <strong>di</strong> una ingiusta sud<strong>di</strong>visione della preda catturata a Veio. Così lo storico<br />

commenta il suo forzato allontanamento da Roma: Expulso cive quo manente, si quicquam<br />

humanorum certi est, capi Roma non potuerat, adventante fatali urbi clade legati <strong>ab</strong><br />

Clusinis veniunt auxilium adversus Gallos petentes (5,33,1), “dopo che da Roma era stato<br />

scacciato il citta<strong>di</strong>no presente il quale, se c’è qualcosa <strong>di</strong> certo nelle cose umane, Roma<br />

non avrebbe potuto essere conquistata, mentre la rovina decretata dal fato si stava<br />

avvicinando alla città, giunsero da Chiusi ambasciatori a chiedere aiuto contro i Galli”.<br />

Segue il racconto della colpa dei legati romani66, e dei molteplici errori che condurranno<br />

alla sconfitta dell’Allia e alla conquista <strong>di</strong> Roma da parte dei Galli. Camillo si trova in<br />

esilio ad Ardea, e quando una schiera <strong>di</strong> Galli attacca la città, gli Ardeati si affidano a<br />

Camillo, che ottiene uno splen<strong>di</strong>do successo. I Romani intanto, a Veio, si organizzano per<br />

riconquistare la loro città, e decidono <strong>di</strong> richiamare da Ardea Camillo, perché quello era il<br />

capo che mancava loro, il solo in grado <strong>di</strong> guidare le forze raccolte contro i Galli.<br />

Nominato <strong>di</strong>ttatore in assenza, Camillo viene condotto a Veio, organizza le truppe, cui si<br />

aggiungono reparti <strong>di</strong> Ardeati, e accorre a salvare i Romani dall’indegno riscatto che<br />

stavano trattando con i Galli. Sconfitti e messi in fuga i nemici, Camillo salva una<br />

seconda volta la città, impedendo che venga <strong>ab</strong>bandonata: <strong>Livio</strong> el<strong>ab</strong>ora per il suo<br />

personaggio un ampio, appassionato <strong>di</strong>scorso (5,51-54) contro l’empio progetto. La città<br />

viene ricostruita in pochissimo tempo.<br />

65<br />

Esemplarmente illustrata nell’episo<strong>di</strong>o del maestro <strong>di</strong> Faleri, in 5,27 (v. testi)<br />

66<br />

V. sopra, pp. 17-18


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 54<br />

Asse<strong>di</strong>o e resa <strong>di</strong> Faleri (5,26,9-27)<br />

<strong>Gli</strong> episo<strong>di</strong> proposti dal libro V 67 hanno entrambi come protagonista il personaggio <strong>di</strong><br />

Camillo. Il primo (conquista <strong>di</strong> Faleri) si colloca poco dopo l’espugnazione <strong>di</strong> Veio, e la<br />

capitolazione, senza combattimenti, <strong>di</strong> Capena. Nel 394 Camillo viene eletto tribunus<br />

militum consulari potestate, grazie all’appoggio dei patrizi, che vedono in lui, non a torto,<br />

un oppositore deciso e sicuro alle iniziative dei tribuni della plebe. Ufficialmente però a<br />

Camillo viene affidata la guerra contro Faleri, e in attesa che egli parta per questa guerra<br />

i tribuni della plebe rimangono tranquilli.<br />

Dopo aver ricacciato i Falisci che hanno attaccato l’accampamento romano,<br />

Camillo cinge d’asse<strong>di</strong>o la città, un asse<strong>di</strong>o che si prospetta lungo e <strong>di</strong>fficile, come <strong>Livio</strong><br />

ha cura <strong>di</strong> illustrare. Il raccontino sul maestro tra<strong>di</strong>tore, narrato da molti altri autori<br />

antichi, è un exemplum, che illustra il comportamento corretto in guerra, quello che –<br />

nella visione idealizzata <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> – è proprio in generale dei Romani. L’episo<strong>di</strong>o ha il<br />

medesimo significato <strong>di</strong> quello, altrettanto o forse più famoso, del console F<strong>ab</strong>rizio e del<br />

me<strong>di</strong>co <strong>di</strong> Pirro, che certamente anche <strong>Livio</strong> narrava, nella prima decade (perduta) della<br />

sua opera. Il valore esemplare della vicenda viene in<strong>di</strong>cato esplicitamente dallo storico<br />

nella parte conclusiva del cap. 5,26 (§§ 9-10), che funge da introduzione al racconto.<br />

Questo, che occupa l’intero cap. 27, come per lo più avviene in <strong>Livio</strong>, non è interrotto né<br />

<strong>di</strong>sturbato da commenti del narratore, che lascia che siano i personaggi ad illustrare – in<br />

modo assai chiaro ed esauriente – la morale dell’episo<strong>di</strong>o. Lo scrittore anticipa, in queste<br />

frasi introduttive, l’esito della vicenda (la rapida vittoria del generale romano), ma il modo<br />

in cui egli giunse a tale felice conclusione si rivela solo nel corso del racconto.<br />

L’introduzione dello storico accenna solo, in termini generali, alla virtus rebus bellicis<br />

cognita <strong>di</strong> Camillo: si tratta, certo non a caso, <strong>di</strong> una in<strong>di</strong>cazione un poco fuorviante per<br />

il lettore, che certo si attende una impresa militare straor<strong>di</strong>naria, come quella che portò<br />

alla conquista <strong>di</strong> Veio, ma molto più rapida <strong>di</strong> quella. Il racconto che segue invece illustra<br />

un aspetto nuovo e ancora ine<strong>di</strong>to della virtus <strong>di</strong> Camillo, la lealtà nella condotta <strong>di</strong><br />

guerra.<br />

La storia si apre con l’antefatto, una spiegazione necessaria per la piena<br />

comprensione del successivo svolgimento della vicenda; l’esposizione comprende brevi<br />

brani in <strong>di</strong>scorso in<strong>di</strong>retto (l’indegna proposta del maestro) e in <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>retto (la<br />

risposta <strong>di</strong> Camillo e le parole degli ambasciatori <strong>di</strong> Faleri al senato romano). Con il<br />

67 Il quinto libro contiene la narrazione degli anni 403-390: la guerra contro Veio, iniziata nel 405,<br />

si conclude, dopo <strong>di</strong>eci anni <strong>di</strong> asse<strong>di</strong>o, nel 395, grazie al <strong>di</strong>ttatore Marco Furio Camillo, che la<br />

espugna operibus, non vi (5,22,8): <strong>Livio</strong> si riferisce con queste parole alla galleria (cuniculus) che<br />

Camillo fa scavare in segreto, e permette ai soldati <strong>di</strong> sbucare <strong>di</strong>rettamente sulla rocca della città,<br />

mentre gli asse<strong>di</strong>anti la attaccano da ogni parte.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 55<br />

<strong>di</strong>scorso degli ambasciatori in senato (§14) l’episo<strong>di</strong>o è concluso. L’ultimo paragrafo<br />

registra rapidamente, in stile semplice e conciso, le conseguenze pratiche della resa <strong>di</strong><br />

Faleri.<br />

L’intero episo<strong>di</strong>o è certamente leggendario: in realtà i rapporti fra Roma e Faleri<br />

non furono in seguito così armoniosi e pacifici come indurrebbe a credere la storiella, e in<br />

particolare la solenne <strong>di</strong>chiarazione finale degli ambasciatori. I fatti successivi, registrati<br />

da <strong>Livio</strong> stesso, <strong>di</strong>mostrano che prob<strong>ab</strong>ilmente sia i Falisci ebbero a lamentarsi del<br />

dominio romano sia i Romani della lealtà dei Falisci. O piuttosto, ottenuta la vittoria in<br />

quell’occasione grazie al comportamento corretto e leale <strong>di</strong> Camillo, i Romani non<br />

imposero il loro dominio alla città <strong>di</strong> Faleri, che non rinunciò alla sua autonomia: il solo<br />

risultato pratico sarà stato verosimilmente il pagamento <strong>di</strong> una indennità <strong>di</strong> guerra (cui<br />

<strong>Livio</strong> allude brevemente nella conclusione del capitolo). Non solo infatti, pochi anni dopo<br />

questo episo<strong>di</strong>o, nel 357, Roma è <strong>di</strong> nuovo in guerra con i Falisci, ma ancora nel 293, un<br />

secolo più tar<strong>di</strong>, i Falisci sono schierati al fianco degli Etruschi contro Roma: fatti riferiti<br />

da <strong>Livio</strong> stesso (in 7,16-22 e 10,45s.): la città poté ancora opporre le sue armi a Roma, e<br />

ciò smentisce la notizia della sua sottomissione definitiva.<br />

Il contrasto, che <strong>Livio</strong> non spiega, <strong>di</strong>pende dalla <strong>di</strong>fficoltà per lo storico <strong>di</strong><br />

concepire un tipo <strong>di</strong> guerra <strong>di</strong>verso da quello ormai consueto per Roma da alcuni secoli<br />

quando <strong>Livio</strong> scrive: la guerra <strong>di</strong> conquista, che ha come scopo l’annessione del territorio<br />

del vinto, l’annullamento della sua in<strong>di</strong>vidualità e in<strong>di</strong>pendenza, attraverso l’imposizione<br />

delle leggi del vincitore, e <strong>di</strong> un tributo st<strong>ab</strong>ile.<br />

Nei secoli più antichi le guerre dovevano essere semplici scorrerie, scontri con<br />

popoli confinanti <strong>di</strong> portata assai limitata, nel tempo, nello spazio e negli scopi. Si<br />

trattava ad esempio <strong>di</strong> decidere con le armi il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> accesso a fonti o a pascoli, o <strong>di</strong><br />

recuperare il maltolto (greggi o raccolti razziati): questi conflitti non mettevano in<br />

<strong>di</strong>scussione né l’esistenza delle comunità coinvolte né la loro in<strong>di</strong>pendenza. Nell’età regia<br />

e nei primi due secoli almeno della repubblica la guerra era una sorta <strong>di</strong> competizione tra<br />

pari, che obbe<strong>di</strong>va a regole precise, non imposte unilateralmente da Roma, ma accettate<br />

e con<strong>di</strong>vise da popoli partecipi della medesima cultura religiosa e politica (Latini, S<strong>ab</strong>ini,<br />

Sanniti, Falisci ecc.). In quest’epoca il bellum iustum et pium era considerato quello<br />

indetto e <strong>di</strong>chiarato secondo il cerimoniale dei Feziali, solo dopo che il nemico avesse<br />

opposto un rifiuto alla legittima richiesta <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfazione, e dopo che l’assemblea<br />

popolare avesse votato per la guerra. Questa procedura rituale e piuttosto complessa è<br />

descritta da <strong>Livio</strong> in 1,32, e fu mantenuta in vigore, in modo simbolico, per un certo<br />

tempo, anche dopo che natura e scopi della guerra erano profondamente mutati. A<br />

partire dalla fine del IV secolo, con la <strong>di</strong>ssoluzione della lega latina, a poco a poco la<br />

guerra <strong>di</strong>venta per Roma il mezzo per espandersi territorialmente, assoggettando


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 56<br />

politicamente i popoli vinti. Parallelamente si el<strong>ab</strong>orano giustificazioni teoriche (sostenute<br />

anche da dottrine filosofiche greche) per <strong>di</strong>mostrare il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> Roma <strong>di</strong> imporre le sue<br />

leggi al mondo intero: accanto alla guerra <strong>di</strong>fensiva e preventiva, per respingere attacchi<br />

e scongiurare pericoli, sono considerate giuste la guerra pro sociis e quella de imperio (per<br />

<strong>di</strong>fendere gli alleati e per affermare e conservare la supremazia raggiunta). Soprattutto<br />

per legittimare quest’ultimo tipo <strong>di</strong> guerra si ricorre all’esaltazione dei numerosi benefici<br />

<strong>di</strong> cui godono i popoli sottomessi all’imperium <strong>di</strong> Roma (civiltà, benessere, pace, giustizia<br />

ecc.), un imperium che va considerato, secondo la nota formulazione ciceroniana, non<br />

dominio ma “protettorato del mondo” (patrocinium orbis terrae, de off. 2,27) 68.<br />

Camillo e i Galli (5,47-49)<br />

Il personaggio <strong>di</strong> Camillo riconferma le sue doti, già ampiamente <strong>di</strong>mostrate nelle<br />

imprese precedenti, con il suo intervento in extremis nella vicenda forse più famosa della<br />

storia romana arcaica. Vicenda che <strong>Livio</strong> el<strong>ab</strong>ora accuratamente, inserendovi anche<br />

leggende, motivi offerti dalla tra<strong>di</strong>zione, notazioni eru<strong>di</strong>te, in un tutto unitario e<br />

altamente drammatico.<br />

Mentre Camillo è in esilio ad Ardea, maestior fortuna publica quam sua (5,43,7),<br />

pochi superstiti della sconfitta dell’Allia tornano a Roma, la maggior parte si <strong>di</strong>rige a Veio.<br />

Comprendendo che la città non può essere <strong>di</strong>fesa con forze così scarse, si decide che gli<br />

uomini vali<strong>di</strong> si ritirino in Campidoglio con le scorte <strong>di</strong> viveri <strong>di</strong>sponibili, che le Vestali e<br />

gli oggetti sacri siano messi in salvo fuori <strong>di</strong> Roma, e che si <strong>ab</strong>bandonino al loro destino,<br />

con il loro consenso e anzi il loro incoraggiamento, i vecchi, che si votano alla morte, con<br />

la cerimonia della devotio, per la salvezza della patria. I Galli entrano nella città quasi<br />

deserta, uccidono i vecchi, saccheggiano e danno alle fiamme le case. Dopo un tentativo<br />

fallito <strong>di</strong> conquistare con un assalto la rocca, i Galli sud<strong>di</strong>vidono le loro forze: una parte<br />

inizia l’asse<strong>di</strong>o del Campidoglio, l’altra è inviata a fare razzie nei campi. Contro questa<br />

parte dell’esercito nemico Camillo ottiene uno splen<strong>di</strong>do successo.<br />

I Romani che si erano rifugiati a Veio capiscono che occorre affidarsi <strong>di</strong> nuovo a<br />

Camillo; dopo una non facile consultazione del senato (che si trovava a Roma sul<br />

Campidoglio), Camillo viene nominato <strong>di</strong>ttatore in <strong>ab</strong>sentia.<br />

A Roma intanto prosegue l’asse<strong>di</strong>o. La prima “peripezia” è quella famosa che vede<br />

protagonisti a pari merito Marco Manlio (detto poi Capitolino) e le oche sacre. Il tentativo<br />

dei Galli <strong>di</strong> cogliere <strong>di</strong> sorpresa gli asse<strong>di</strong>ati, scalando <strong>di</strong> notte la rocca, fallisce: le oche<br />

danno l’allarme, i Romani reagiscono spronati da Manlio, la rocca è salva. (5,47) Ma la<br />

fame alla fine sta per sconfiggere i valorosi <strong>di</strong>fensori della rocca, anche se sembra che<br />

68 Si veda, per una trattazione un poco più ampia <strong>di</strong> questo tema, la scheda La guerra giusta e<br />

l’imperialismo romano, in Garbarino, pp. 276-277.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 57<br />

siano i Galli a patire i <strong>di</strong>sagi peggiori (5,48,2-3). Si st<strong>ab</strong>ilisce una tregua, ma senza<br />

risultati: i Galli non se ne vanno e i Romani non si arrendono. In questo intervallo è<br />

collocata la notizia, tipica dei racconti <strong>di</strong> asse<strong>di</strong>o, del pane gettato dalle mura per far<br />

credere agli asse<strong>di</strong>anti che gli asse<strong>di</strong>ati hanno viveri per resistere ancora a lungo. La<br />

seconda “peripezia”, famosissima questa, conduce i Romani alla resa e quasi all’onta del<br />

riscatto: conferisce drammaticità al racconto la contemporaneità degli alacri preparativi<br />

<strong>di</strong> Camillo e della per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> forze e <strong>di</strong> speranza degli asse<strong>di</strong>ati (con la nota patetica dei<br />

soldati che quasi stramazzano per la debolezza sotto il peso delle armi), e, soprattutto,<br />

l’arrivo <strong>di</strong> Camillo all’ultimo momento utile per capovolgere la situazione. Il tono dello<br />

scrittore si fa a questo punto commosso, enfatico e solenne: “a mille libbre d’oro fu<br />

fissato il prezzo del popolo che presto doveva dominare tutto il mondo” (5,48,8); e ancora:<br />

“Ma dèi e uomini impe<strong>di</strong>rono che i Romani vivessero da riscattati” (5,49,1). L’intervento<br />

<strong>di</strong>vino si scorge nella tempestività dell’arrivo <strong>di</strong> Camillo (forte quadam...<strong>di</strong>ctator intervenit);<br />

gli uomini fanno il resto, infliggendo due sconfitte in rapida successione ai Galli.<br />

Il personaggio <strong>di</strong> Camillo in questo episo<strong>di</strong>o è veramente il fatalis dux cui sono<br />

legate le sorti <strong>di</strong> Roma; ma è anche il nemico corretto e leale che già i lettori conoscono<br />

dall’episo<strong>di</strong>o del maestro <strong>di</strong> Faleri. Invece infatti <strong>di</strong> assalire senz’altro i Galli intenti a<br />

pesare l’oro e a litigare con il tribuno Sulpicio, si sofferma a spiegare perché il patto non<br />

è valido: “Per un caso fortunato, prima che lo scellerato pagamento si concludesse, non<br />

essendo stato ancora pesato tutto l’oro per via del litigio, sopraggiunge il <strong>di</strong>ttatore e<br />

or<strong>di</strong>na che l’oro sia tolto <strong>di</strong> mezzo e i Galli si allontanino”. Un atteggiamento deciso, un<br />

secco or<strong>di</strong>ne (iubet) rivolto a Romani e Galli senza <strong>di</strong>stinzione, ma nessuna aggressione.<br />

Anzi, Camillo si preoccupa <strong>di</strong> illustrare la situazione ai nemici: “Poichè quelli,<br />

protestando, <strong>di</strong>cevano <strong>di</strong> aver fatto un patto, <strong>di</strong>chiara che quel patto non è valido, perché<br />

è stato stipulato dopo la sua nomina a <strong>di</strong>ttatore, senza suo or<strong>di</strong>ne, da un magistrato <strong>di</strong><br />

grado inferiore”. Ragionamento perfettamente valido: il <strong>di</strong>ttatore è dotato <strong>di</strong> imperium<br />

superiore a quello <strong>di</strong> ogni altro magistrato, dunque ogni decisione presa iniussu suo è<br />

nulla. Solo dopo aver spiegato ai Galli il suo <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> riprendere le ostilità, si pre<strong>di</strong>spone<br />

alla battaglia. Anche questo con or<strong>di</strong>ne e con rispetto delle regole; infatti “intima ai Galli<br />

<strong>di</strong> prepararsi alla battaglia”, dà cioè modo al nemico <strong>di</strong> armarsi e provvedere allo<br />

schieramento delle truppe. Quin<strong>di</strong> prepara anche i suoi, non senza una breve allocuzione<br />

per richiamarli al comportamento che solo si ad<strong>di</strong>ce ai Romani, e per infondere loro<br />

coraggio: “Or<strong>di</strong>na ai suoi <strong>di</strong> radunare in un mucchio i bagagli e <strong>di</strong> preparare le armi, e <strong>di</strong><br />

riconquistare la patria con il ferro e non con l’oro, avendo davanti agli occhi i templi degli<br />

dèi, le spose, i figli e il suolo della patria sfigurato dai mali della guerra e tutto ciò che è<br />

sacro dovere <strong>di</strong>fendere, riconquistare e ven<strong>di</strong>care” (da notare la climax). Quin<strong>di</strong> lo<br />

schieramento delle truppe: “Schiera quin<strong>di</strong> l’esercito, come lo consentiva la natura del


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 58<br />

luogo, sul terreno della città semi<strong>di</strong>strutta, naturalmente accidentato, e provvide a tutto<br />

ciò che, grazie alla sua perizia bellica, si poteva scegliere e preparare a favore dei suoi”.<br />

Molto più breve <strong>di</strong> tutti i preamboli è lo svolgimento dello scontro: “I Galli, agitati per quel<br />

fatto inatteso, afferrano le armi e si gettano sui Romani con ira più che con ponderazione.<br />

Già la fortuna era mutata, già l’aiuto <strong>di</strong>vino e le decisioni umane favorivano la parte<br />

romana. E dunque al primo assalto i Galli furono sbaragliati, con la medesima facilità<br />

con cui all’Allia avevano vinto”. La menzione della precedente vittoria dei Galli non ha<br />

solo la funzione <strong>di</strong> illustrare la facilità con cui i Romani ebbero la meglio, mira<br />

soprattutto a mostrare che l’onta <strong>di</strong> quella battaglia è stata riscattata. Segue un secondo<br />

combattimento “più regolare”, sotto la guida e gli auspici <strong>di</strong> Camillo, che si conclude con<br />

una strage completa, tanto che non resta nemmeno chi possa portare agli altri Galli la<br />

notizia della sconfitta.<br />

Un ultimo particolare completa il ritratto <strong>di</strong> Camillo: conclusa nel migliore dei<br />

mo<strong>di</strong> (con il trionfo in cui gli fu assegnato dai soldati l’appellativo onorifico <strong>di</strong> parens<br />

patriae, e anche <strong>di</strong> Romolo e <strong>di</strong> secondo fondatore) l’impresa per la quale era stato<br />

nominato <strong>di</strong>ttatore, avrebbe dovuto secondo le leggi romane deporre la carica. Se non lo<br />

fece, si preoccupa <strong>di</strong> rilevare lo storico, fu per le insistenti preghiere del senato: c’è<br />

ancora bisogno <strong>di</strong> lui, per sventare il pericolo che i citta<strong>di</strong>ni <strong>ab</strong>bandonino Roma. E anche<br />

in questo nuovo, <strong>di</strong>fficile incarico, Camillo ottiene il successo.<br />

NOVA AC NIMIS CALLIDA SAPIENTIA (42,47)<br />

Con il procedere della storia <strong>di</strong> Roma, i meto<strong>di</strong> della guerra cambiano. <strong>Livio</strong> lo<br />

rileva in un passo molto significativo <strong>di</strong> uno degli ultimi <strong>libri</strong> conservati, che si presta<br />

anche ad essere accostato a quello in cui è descritta la riscossa vittoriosa <strong>di</strong> Camillo<br />

contro i Galli; è evidente che lo storico non ignora che questo mutamento era stato<br />

inevit<strong>ab</strong>ile, e tuttavia non rinuncia a manifestare, nel modo in<strong>di</strong>retto che gli è più<br />

consueto, il proprio giu<strong>di</strong>zio, e anche una evidente nostalgia per un’epoca in cui vigevano<br />

i valori e le virtù che avevano reso grande Roma.<br />

I Romani (siamo nel 171 a.C., alla vigilia della guerra contro Perseo <strong>di</strong> Macedonia)<br />

hanno già collocato in Grecia e in Epiro presi<strong>di</strong> e reparti armati, ma con Perseo ancora<br />

non c’è guerra aperta. Mentre avvengono scambi inconcludenti <strong>di</strong> ambascerie, sia i<br />

Romani sia Perseo si preparano in realtà alla guerra. I Romani però non sono ancora<br />

pronti; gli inviati Marcio e Atilio fanno credere a Perseo che Roma sia <strong>di</strong>sposta alla pace e<br />

al rinnovo dell’alleanza, e ottengono da lui una tregua ufficiale, per poter tornare a Roma<br />

in sicurezza. Giunti a Roma riferiscono il risultato della loro missione. <strong>Livio</strong> presenta


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 59<br />

l’episo<strong>di</strong>o con queste parole: “ Giunti a Roma, Marcio e Atilio riferirono in Campidoglio<br />

della loro missione: <strong>di</strong> nulla si vantarono più che <strong>di</strong> essere riusciti ad ingannare il re,<br />

ottenendone una tregua e facendogli balenare la speranza della pace” (42,47,1).<br />

Il primo risultato <strong>di</strong> cui gli inviati menano vanto è costituito dalle indutiae; come<br />

spiegano più chiaramente nel <strong>di</strong>scorso che segue, si tratta <strong>di</strong> un rinvio dell’inizio della<br />

guerra <strong>di</strong> vitale importanza per Roma, non <strong>di</strong> una vera tregua, come il re ha creduto. E<br />

questo è il primo inganno. Il secondo consiste nell’esser riusciti a convincere il re<br />

dell’autentica intenzione <strong>di</strong> Roma <strong>di</strong> mantenere o rist<strong>ab</strong>ilire con Perseo rapporti <strong>di</strong> pace.<br />

In forma <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorso in<strong>di</strong>retto i due inviati illustrano le ragioni per cui ritengono <strong>di</strong><br />

aver compiuto una missione importante e utile per Roma (42,47,2-3), che in realtà non<br />

aveva mai avuto intenzione <strong>di</strong> rist<strong>ab</strong>ilire con Perseo rapporti <strong>di</strong> pace: durante le false<br />

indutiae pattuite con Perseo i Romani potranno prepararsi alla guerra; inoltre, l’aver<br />

gettato la <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>a fra i membri della lega beotica ha tolto al nemico molti potenziali<br />

alleati. All’approvazione per l’operato dei legati espressa dalla maggioranza dei senatori si<br />

contrappone il biasimo espresso dai pochi moris antiqui memores. Le loro considerazioni,<br />

esposte anch’esse in forma <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorso in<strong>di</strong>retto, illustrano compiutamente le Romanae<br />

artes nella condotta <strong>di</strong> guerra, che si possono compen<strong>di</strong>are nella regola della guerra<br />

<strong>di</strong>chiarata e lealmente combattuta in campo aperto, e nel rifiuto <strong>di</strong> ogni stratagemma,<br />

astuzia, inganno. Non mancano, nel <strong>di</strong>scorso dei seniores, la contrapposizione dei<br />

Romani con popoli, i Punici e i Greci, tra<strong>di</strong>zionalmente considerati infi<strong>di</strong> e sleali, né gli<br />

esempi classici della fides propria dei maiores (la denuncia del me<strong>di</strong>co <strong>di</strong> Pirro, la<br />

consegna del maestro <strong>di</strong> Faleri). A conclusione del <strong>di</strong>scorso dei seniores c’è la<br />

considerazione più significativa, quella che spesso accompagna, <strong>di</strong> solito espressa dai<br />

personaggi, episo<strong>di</strong> e<strong>di</strong>ficanti <strong>di</strong> questo genere: la lealtà in guerra ottiene anche risultati<br />

concreti vantaggiosi per chi vi si attiene.<br />

Nel racconto <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> non sempre in realtà i maiores si comportano come sembrano<br />

credere questi senatori69; ma Camillo incarna perfettamente70 questo tipo <strong>di</strong> Romano<br />

antico. Nel brano conclusivo del passo de<strong>di</strong>cato alla sua rivincita contro i Galli egli, come<br />

si è visto, si preoccupa <strong>di</strong> spiegare la piena legittimità della ripresa delle ostilità (questo<br />

equivale a in<strong>di</strong>cere prius quam gerere bellum), e ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> denuntiare pugnam<br />

(denuntiatque Gallis ut se ad proelium expe<strong>di</strong>ant, 5,49,2)<br />

69 Ad esempio già un romano antichissimo, il re Tullo Ostilio, era ricorso all’astuzia e all’inganno<br />

per dar inizio alla guerra con Alba, come lo storico narra in 1,22.<br />

70 O quasi: Veio infatti, dopo il decennale asse<strong>di</strong>o, era stata conquistata operibus...non vi.<br />

Nell’epitafio che lo storico de<strong>di</strong>ca alla città si può scorgere forse un accenno <strong>di</strong> biasimo per il<br />

mezzo (il cuniculus) cui Camillo ricorse: Hic Veiorum occasus fuit, urbis opulentissimae Etrusci<br />

nominis, magnitu<strong>di</strong>nem suam vel ultima clade in<strong>di</strong>cantis, quod decem aestates hiemesque continuas<br />

circumsessa, cum plus aliquanto cla<strong>di</strong>um intulisset quam accepisset, postremo, iam fato quoque<br />

urgentce, operibus tamen, non vi expugnata est (5,22,8).


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 60<br />

Alle parole dei senatori nostalgici del mos maiorum in guerra <strong>Livio</strong> fa seguire il suo<br />

commento, realistico e un po’ sconsolato: vicit tamen ea pars senatus cui potior utilis<br />

quam honesti cura erat (42,47,9), e pertanto non solo il comportamento sleale del<br />

rappresentante <strong>di</strong> Roma invece che sanzionato viene approvato, ma gli viene confermata<br />

piena fiducia, per proseguire la sua precedente missione guidato dalla nova sapientia <strong>di</strong><br />

cui aveva dato prova.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 61<br />

DUELLI<br />

Al motivo del duello fra campioni delle due parti in lotta <strong>Livio</strong> ricorre, nei <strong>libri</strong><br />

rimasti, sei volte 71: si tratta <strong>di</strong> un elemento atto a variare e soprattutto ad arricchire<br />

drammaticamente il resoconto <strong>di</strong> una guerra o <strong>di</strong> una campagna militare. Non si tratta<br />

naturalmente <strong>di</strong> episo<strong>di</strong> inventati da <strong>Livio</strong>: egli li trae certamente dalle sue fonti,<br />

arricchendoli però, prob<strong>ab</strong>ilmente, <strong>di</strong> un significato più vasto, come si può constatare in<br />

un caso, per il quale <strong>di</strong>sponiamo della fonte impiegata dallo storico.<br />

Il duello più antico e più famoso è quello fra gli Orazi e i Curiazi: nec ferme res<br />

antiqua alia est nobilior (1,24,1), <strong>di</strong>chiara <strong>Livio</strong> apprestandosi a descriverlo. In questo<br />

caso il duello è molto importante perché, per concorde decisione del capo albano, che<br />

avanza la proposta, e del re Tullo Ostilio, che la accetta, si decide <strong>di</strong> affidare al duello fra<br />

i campioni (tre per parte, un elemento che <strong>di</strong>stingue questo da tutti gli altri duelli) la<br />

decisione sull’esito della guerra, per st<strong>ab</strong>ilire utri utris imperent: il popolo i cui campioni<br />

si <strong>di</strong>mostreranno più valorosi acquisirà il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> dominare sull’altro, perché i campioni<br />

sono l’espressione delle virtù guerresche dell’intero popolo. La situazione richiama, ma<br />

solo superficialmente ed esteriormente, il famoso duello epico fra Paride e Menelao<br />

nell’Iliade, cui si vorrebbe affidare la definitiva soluzione della guerra; ma i combattenti<br />

in Omero sono gli eroi <strong>di</strong>rettamente interessati alla contesa, non i rappresentanti dei due<br />

popoli. In entrambi i casi lo scopo del duello non viene raggiunto, e la guerra riprende.<br />

Nessuno degli altri duelli descritti da <strong>Livio</strong> è preceduto, come nel caso degli Orazi e<br />

dei Curiazi, da un accordo preventivo ufficiale; ma lo storico li arricchisce <strong>di</strong> un analogo<br />

valore simbolico, poiché i combattenti incarnano le qualità (e i <strong>di</strong>fetti) dei rispettivi popoli.<br />

Tutti gli episo<strong>di</strong> <strong>di</strong> questo tipo hanno caratteristiche ricorrenti, anche se ciascuno ha<br />

naturalmente uno svolgimento suo proprio. Il primo elemento che li accomuna tutti è,<br />

<strong>ab</strong>bastanza preve<strong>di</strong>bilmente, la vittoria del campione romano; il secondo il fatto che la<br />

sfida è sempre lanciata dal nemico (salvo ovviamente che nel primo duello); il terzo è<br />

71 E cioè: 1,24-25 (Orazi e Curiazi); 7,9,8-10 (<strong>Tito</strong> Manlio Torquato e un Gallo); 7,26,1-10 (Marco<br />

Valerio Corvo e un Gallo); 8,7 (<strong>Tito</strong> Manlio il Giovane e Gèmino Mecio, comandante dei cavalieri <strong>di</strong><br />

Tuscolo, sconfitto e ucciso); 23,46,12-47 (Clau<strong>di</strong>o Asello e Cerrino Vibellio Taurea, cavaliere<br />

campano); 25,18 (<strong>Tito</strong> Quinzio Crispino e Ba<strong>di</strong>o, cavaliere campano). Questo elenco comprende<br />

soltanto i combattimenti extra or<strong>di</strong>nem, cioè quelli in cui due guerrieri si affrontano dopo un<br />

accordo preventivo – sempre, tranne che nel caso degli Orazi e Curiazi, la sfida lanciata da uno e<br />

accolta dall’altro - , in una pausa delle ostilità, e senza che altri intervengano; non gli scontri<br />

singoli nel corso <strong>di</strong> una battagliia, che sono più numerosi, ma hanno caratteristiche <strong>di</strong>verse (per<br />

es. 2,6 Arrunte e Bruto; 2,19-20 vari scontri singoli; 4,19 Cornelio Cosso e Tolumnio re dei Veienti;<br />

5,36 l’ambasciatore Quinto F<strong>ab</strong>io e il comandante dei Galli; 9,22 il magister equitum Aulio<br />

Cerretano e il generale dei Sanniti; 22,6 il cavaliere insubro Ducario e il console Flaminio, batt.<br />

del Trasimeno; ecc.). A tutti i combattimenti singoli è de<strong>di</strong>cato il libro <strong>di</strong> J.FRIES, Der Zweikampf.<br />

Historische und literarische Aspekte seiner Darstellung, Hain, 1985, che contiene molte<br />

interessanti considerazioni, ma non <strong>di</strong>stingue sufficientemente i “duelli” dagli scontri fra due<br />

guerrieri nel corso <strong>di</strong> una mischia.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 62<br />

costituito dal comportamento <strong>di</strong>sciplinato del guerriero romano, che chiede al suo<br />

comandante il permesso <strong>di</strong> accogliere la sfida, salvo che in un solo caso (8,7). Questo<br />

episo<strong>di</strong>o però rende ancora più evidente il valore assoluto della <strong>di</strong>sciplina, riba<strong>di</strong>to dalla<br />

sua terribile conclusione: il guerriero romano vittorioso è condannato a morte, benché il<br />

comandante, il Manlio Torquato vincitore del Gallo, sia suo padre. Infine, il campione<br />

romano è sempre in<strong>di</strong>viduato con precisione, con l’in<strong>di</strong>cazione del suo nome, e in qualche<br />

caso con il richiamo a vicende precedenti ricordate dallo storico; dell’avversario invece<br />

non sempre è ricordato il nome: più precisamente, lo sfidante non ha nome nei due casi<br />

in cui si tratta <strong>di</strong> un Gallo, sufficientemente caratterizzato dall’etnico (i barbari sono<br />

evidentemente considerati una massa in<strong>di</strong>stinta <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidui tutti uguali). Anche la<br />

conclusione dei singoli duelli è <strong>di</strong>versa: fatta eccezione per l’impresa <strong>di</strong> Manlio il giovane,<br />

che si <strong>di</strong>stingue da tutte le altre anche per il comportamento in<strong>di</strong>sciplinato del guerriero<br />

romano, negli altri casi il duello si conclude con l’uccisione dello sfidante solo quando<br />

questi è un barbaro72. Il duello <strong>di</strong> <strong>Tito</strong> Manlio Torquato contro un Gallo (7,9 – 11,1)<br />

Del primo duello fra un Romano, <strong>Tito</strong> Manlio, e un guerriero gallo, <strong>ab</strong>biamo grazie<br />

a Gellio anche la versione dell’annalista Clau<strong>di</strong>o Quadrigario, che fu certamente la fonte<br />

<strong>di</strong> <strong>Livio</strong> per questo episo<strong>di</strong>o.<br />

In 9,13, 1-7 Gellio scrive:<br />

<strong>Tito</strong> Manlio <strong>di</strong>scendeva da famiglia ragguardevolissima e fu un nobile fra i primi. A questo Manlio fu dato il<br />

soprannome <strong>di</strong> Torquato. La ragione <strong>di</strong> questo soprannome, come <strong>ab</strong>biamo appreso, fu la spoglia<br />

consistente in una collana d’oro, che egli tolse al nemico che aveva ucciso e indossò. Ma chi fosse questo<br />

nemico, <strong>di</strong> che razza, e quanto gigantesca e temibile la sua corporatura, e quanto insolente la sua sfida, e<br />

come si svolse il combattimento, tutto questo è stato narrato da Quinto Clau<strong>di</strong>o nel primo libro dei suoi<br />

annali, in uno stile sommamente puro e splen<strong>di</strong>do, con la dolcezza semplice e <strong>di</strong>sadorna dell’eloquio antico.<br />

Ho trascritto qui le parole con cui Quinto Clau<strong>di</strong>o descrisse codesto duello.<br />

L’ultima frase assicura che il brano citato è la trascrizione letterale del testo <strong>di</strong><br />

Quadrigario. Che proprio questo sia la fonte <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> si può considerare certo, anche se lo<br />

storico non lo in<strong>di</strong>ca esplicitamente, cosa che del resto <strong>di</strong> norma non fa, se non quando<br />

vuole rilevare una <strong>di</strong>scordanza tra più fonti, o aggiungere una versione <strong>di</strong>versa da quella<br />

accolta come principale73. Dimostra la <strong>di</strong>pendenza <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> da Quadrigario la coincidenza<br />

dei due testi su alcuni particolari (le armi del soldato romano, il gesto <strong>di</strong> scherno del<br />

Gallo), oltre che lo svolgimento complessivo del duello. Il confronto dei due testi permette<br />

<strong>di</strong> constatare alcune mo<strong>di</strong>fiche significative introdotte da <strong>Livio</strong> nel racconto della fonte.<br />

72 Mentre i due Galli si battono, e trovano con onore la morte nel duello, i due Campani, tracotanti<br />

a parole, nel combattimento si rivelano vili e si salvano con la fuga.<br />

73 Il capitolo in realtà registra, nei paragrafi iniziali, un <strong>di</strong>saccordo tra le fonti, che non riguarda<br />

però l’episo<strong>di</strong>o del duello, ma la ragione per cui in quell’anno (363) fu nominato un <strong>di</strong>ttatore.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 63<br />

In primo luogo, <strong>Livio</strong> elimina l’interruzione inverosimile <strong>di</strong> una battaglia in corso<br />

da parte dello sfidante, scegliendo invece per il duello un momento <strong>di</strong> pausa nei frequenti<br />

scontri fra Galli e Romani per impadronirsi del ponte 74. Trasforma poi in <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>retto<br />

l’enunciazione della sfida e, soprattutto, ne muta sensibilmente il tenore: il Gallo <strong>di</strong><br />

Quadrigario invita al duello uno dei nemici, uno qualsiasi (si quis vellet); quello <strong>di</strong> <strong>Livio</strong><br />

invece vuole misurarsi con il guerriero più forte, e <strong>di</strong>chiara che l’esito del duello mostrerà<br />

il valore dell’intero popolo cui il combattente appartiene. In entrambi gli storici nessuno<br />

dei Romani accoglie subito la sfida. Ma i due testi solo apparentemente si corrispondono:<br />

mentre nell’autore più antico i Romani semplicemente e comprensibilmente hanno paura<br />

(per la corporatura gigantesca e l’aspetto feroce del barbaro), in <strong>Livio</strong> essi prob<strong>ab</strong>ilmente<br />

valutano in silenzio la terribile respons<strong>ab</strong>ilità che chi accetterà <strong>di</strong> misurarsi con il Gallo<br />

si deve assumere (<strong>di</strong>mostrare quanto valga tutto il suo popolo). È questo il periculum che<br />

ognuno esita ad affrontare, non il rischio <strong>di</strong> perdere la vita. Ma infine <strong>Tito</strong> Manlio decide<br />

<strong>di</strong> affrontare la prova. Il personaggio è già noto al lettore, e lo storico lo rileva con le<br />

parole “...figlio <strong>di</strong> Lucio, quello che aveva riscattato suo padre dalla persecuzione <strong>di</strong> un<br />

tribuno75” (7,10,1). Del solenne, cerimonioso scambio <strong>di</strong> battute in <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>retto fra<br />

<strong>Tito</strong> Manlio e il <strong>di</strong>ttatore (7,10,2-3) non c’è traccia in Quadrigario: sono una inserzione <strong>di</strong><br />

<strong>Livio</strong>, che tiene molto, come si è detto, a sottolineare la <strong>di</strong>sciplina dei soldati romani. Per<br />

contro, al posto del gesto <strong>di</strong> scherno del Gallo, che, quando nessuno si fa avanti, tira<br />

fuori la lingua, in <strong>Livio</strong> troviamo soltanto un laconico tum (tum Titus Manlius... 7,10,2).<br />

Vinto il momento <strong>di</strong> esitazione che accomuna tutti, Manlio accetta la sfida: ma invece <strong>di</strong><br />

farsi avanti e iniziare senz’altro lo scontro, ne chiede licenza al comandante. Nelle parole<br />

<strong>di</strong> Manlio c’è una presentazione del Gallo (aspetto selvaggio e tracotanza) negativa e<br />

denigratoria, in accordo con quella fatta subito dopo <strong>di</strong>rettamente dallo scrittore.<br />

Le armi <strong>di</strong> cui i compagni dotano Manlio corrispondono esattamente a quelle<br />

menzionate da Quadrigario. <strong>Livio</strong> non si cura <strong>di</strong> correggere, o non rileva, l’anacronismo<br />

costituito dalla spada spagnola, che – almeno secondo Polibio (fr. 179) - entrò in uso<br />

nell’esercito romano solo più tar<strong>di</strong>, durante la guerra annibalica; aggiunge invece la<br />

piccola chiosa esplicativa ad propiorem h<strong>ab</strong>ili pugnam, una spada da duello. Solo quando<br />

il duello sta per iniziare <strong>Livio</strong>, ostentando il suo biasimo per chi ha ritenuto <strong>di</strong> dover<br />

tramandare questo particolare sor<strong>di</strong>do e futile, recupera il gesto <strong>di</strong> scherno del Gallo che<br />

tira fuori la lingua. Ma trasferito a questo punto il gesto muta anche significato: non una<br />

manifestazione <strong>di</strong> <strong>di</strong>sprezzo per la paura che paralizza i Romani, nessuno dei quali osa<br />

accogliere la sfida, ma un gesto immotivato e volgare, accostato alla stolida esultanza.<br />

74<br />

Lo in<strong>di</strong>ca il fatto che <strong>Livio</strong> fa avanzare il Gallo in vacuum pontem<br />

75<br />

Episo<strong>di</strong>o narrato in 7,5


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 64<br />

Le parole della fonte metu magno...utroque exercitu inspectante (Gellio 9,13,15)<br />

vengono da <strong>Livio</strong> sviluppate, con l’assimilazione esplicita dei due eserciti che assistono al<br />

duello agli spettatori <strong>di</strong> una gara; il metus degli uni e degli altri, accoppiato alla spes,<br />

viene registrato solo più avanti, quando il duello sta per iniziare (§ 9 animis spe metuque<br />

pendentibus). Mentre infatti la fonte registra soltanto il fronteggiarsi dei due avversari<br />

nell’imminenza dello scontro - il Gallo avanza cantando, Manlio subito attacca -, <strong>Livio</strong><br />

interpone una pausa piuttosto lunga, che contribuisce a tener ben desta l’attenzione del<br />

lettore, prima <strong>di</strong> far iniziare lo scontro, per mettere complessivamente a confronto i due<br />

guerrieri.<br />

In Quadrigario il Gallo, anonimo come in <strong>Livio</strong>, è compiutamente presentato fin<br />

dall’inizio: <strong>ab</strong>bigliamento, o meglio mancanza dello stesso, armi, ornamenti, aspetto, doti,<br />

voce. In <strong>Livio</strong> invece la presentazione è graduale: la prima notazione è riservata alla<br />

corporatura gigantesca, elemento sul quale torna più volte con insistenza, e alla voce<br />

(7,9,8 eximia corporis magnitu<strong>di</strong>ne... quantum maxima voce potuit). Abbigliamento e armi<br />

sono descritti solo nell’imminenza dello scontro, e sono funzionali alla contrapposizione<br />

dei due contendenti. All’aspetto comune e per nulla appariscente della persona (<strong>di</strong><br />

statura assai inferiore a quella dell’avversario), delle armi, dell’atteggiamento del Romano<br />

sono accostati l’aspetto sgargiante e l’atteggiamento baldanzoso del Gallo. A quest’ultimo<br />

<strong>Livio</strong> si riferisce per via negativa, mettendo in rilievo ciò che il Romano non faceva: canto,<br />

esultanza, agitar d’armi. Per contro, all’aspetto modesto del Romano si accompagnano<br />

coraggio, ira e fierezza; il Gallo invece, così spaventoso a vedersi, darà nel combattimento<br />

una prova me<strong>di</strong>ocre. Anche la trasformazione dell’<strong>ab</strong>bigliamento del Gallo ha la<br />

medesima funzione: <strong>Livio</strong> riveste la semplice nu<strong>di</strong>tà del guerriero <strong>di</strong> Quadrigario <strong>di</strong> un<br />

<strong>ab</strong>ito variopinto; lo scudo e le due spade, menzionati da Quadrigario senza qualificanti,<br />

<strong>di</strong>ventano in <strong>Livio</strong> genericamente “armi” 76, però preziose e <strong>di</strong>pinte. Collana e braccialetti<br />

sono in questa descrizione del tutto omessi da <strong>Livio</strong>, che solo alla fine menziona la<br />

collana, il trofeo strappato dal Romano al corpo del nemico ucciso.<br />

In Quadrigario – altra <strong>di</strong>fferenza significativa – il Gallo non è solo gigantesco, ha<br />

anche molte qualità, che <strong>Livio</strong> non menziona affatto: è dotato <strong>di</strong> vires, <strong>di</strong> adulescentia, <strong>di</strong><br />

virtus; insomma la caratterizzazione liviana del barbaro è esclusivamente negativa. Viene<br />

anche omessa l’osservazione contenuta nelle parole della fonte sua <strong>di</strong>sciplina (Gellio<br />

9,13,16) riferite al canto: in tal modo esso <strong>di</strong>venta, da uso proprio del modo <strong>di</strong><br />

combattere dei Galli, solo una delle tante manifestazioni <strong>di</strong> sciocca esultanza .<br />

Lo svolgimento del duello è riprodotto da <strong>Livio</strong> <strong>ab</strong>bastanza fedelmente, salvo il<br />

primo attacco, assegnato al Gallo, mentre in Quadrigario lo sfidante subisce solo colpi,<br />

76<br />

Il termine arma si riferisce soprattutto alle armi per la <strong>di</strong>fesa: ed è prob<strong>ab</strong>ile che sia proprio lo<br />

scudo che <strong>Livio</strong> immagina decorato e <strong>di</strong>pinto.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 65<br />

non ne assesta mai. In <strong>Livio</strong> il Gallo incombe con la sua mole sul Romano e sferra un<br />

gran fendente sullo scudo <strong>di</strong> Manlio, ma senza conseguenze; Manlio colpisce una sola<br />

volta (non due) lo scudo del Gallo, prima <strong>di</strong> insinuarsi fra lo scudo e il corpo del nemico e<br />

infliggergli, come in Quadrigario, le due ferite mortali in rapida successione.<br />

Però <strong>Livio</strong>, avendo tanto insistito sulla corporatura gigantesca del Gallo, sulla<br />

sproporzione <strong>di</strong> statura fra i due combattenti, mo<strong>di</strong>fica sia il cozzo degli scu<strong>di</strong>, sia le parti<br />

del corpo del nemico ferite dalla spada <strong>di</strong> Manlio: mentre Quadrigario <strong>di</strong>ce semplicemente,<br />

due volte, scuto scutum percussit, <strong>Livio</strong> precisa scuto scutum imum; e le ferite non sono al<br />

petto e alla spalla destra, ma alle parti del corpo alla portata della sua modesta statura, e<br />

colpite per <strong>di</strong> più tenendo la spada alzata in alto. Di sapore epico è l’immagine finale del<br />

Gallo ucciso, il cui corpo <strong>di</strong>steso va ad occupare spatium ingens (del resto il lettore ha già<br />

capito che il Gallo era gigantesco...).<br />

Un ultimo particolare della fonte viene da <strong>Livio</strong> mo<strong>di</strong>ficato, o meglio negato:<br />

“Quin<strong>di</strong>, senza infierire in nessun modo sul corpo del nemico caduto, lo spogliò solo della<br />

collana, che si mise al collo intrisa <strong>di</strong> sangue” (7,10,11).<br />

Come si vede, il particolare della decapitazione del cadavere non è solo omesso, ma<br />

esplicitamente escluso: forse <strong>Livio</strong> considerava il gesto barbarico, selvaggio e incivile.<br />

Conserva però, un po’ incongruamente, essendo le ferite del suo Gallo ben lontane dal<br />

petto e dal collo, la collana insanguinata (senza contare la <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> sfilarla dal collo<br />

del cadavere con la testa attaccata).<br />

Molto importante, tipica <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>, è la preoccupazione dello storico <strong>di</strong> non lasciare<br />

che il duello appaia un isolato atto <strong>di</strong> valore, fine a se stesso, ma <strong>di</strong> raccordarlo al<br />

contesto più ampio, mostrando che ebbe conseguenze positive sul prosieguo della guerra<br />

(7,11,1)<br />

Cenni ad altri duelli.<br />

A poca <strong>di</strong>stanza dalla descrizione dell’impresa <strong>di</strong> <strong>Tito</strong> Manlio Torquato, <strong>Livio</strong><br />

inserisce la narrazione <strong>di</strong> un secondo duello tra un Gallo e un Romano (7,26, anno 349<br />

a.C.). In questo caso l’elemento <strong>di</strong> spicco dell’episo<strong>di</strong>o è il verificarsi <strong>di</strong> un pro<strong>di</strong>gio, dal<br />

quale il combattente vittorioso trae il suo cognomen. L’episo<strong>di</strong>o è narrato assai più<br />

brevemente, ma la struttura fondamentale è la medesima. Un particolare interessante,<br />

assente nel duello <strong>di</strong> Manlio, è la presenza <strong>di</strong> un interprete per lanciare la sfida: “dopo<br />

aver imposto il silenzio percuotendo lo scudo con l’asta, sfida (sc. il Gallo) per mezzo <strong>di</strong><br />

un interprete uno dei Romani a misurarsi con lui” (7,26,1). Non ci sono scherni né frasi<br />

offensive; il duello non assume in questo caso, almeno non in modo esplicito, quel valore<br />

generale e altamente simbolico chiaro invece in 7,9-10. Da parte dei Romani non ci sono<br />

esitazioni, e la sfida è raccolta imme<strong>di</strong>atamente da Marco Valerio, impaziente <strong>di</strong> emulare


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 66<br />

l’impresa <strong>di</strong> Torquato. Naturalmente il Romano si batte prius sciscitatus consulis<br />

voluntatem; l’assenso del comandante questa volta è implicito. L’attenzione del narratore<br />

in questo caso è concentrata soprattutto sull’elemento nuovo, presentato come<br />

“l’interporsi della volontà <strong>di</strong>vina”. Fin dall’inizio dello scontro infatti un corvo si posa<br />

sull’elmo del Romano, e coll<strong>ab</strong>ora con lui alla vittoria, colpendo più volte il nemico al<br />

collo e al volto con il becco e con le unghie. Solo dopo che Valerio ha ucciso il Gallo il<br />

corvo vola via, verso oriente, lasciando al guerriero il soprannome <strong>di</strong> Corvo. In questo<br />

caso l’esito del duello viene interpretato come chiaro presagio della vittoria nella battaglia<br />

che subito dopo viene ingaggiata.<br />

Negli altri due duelli, che si svolgono entrambi nel corso della seconda guerra<br />

punica, la caratterizzazione dell’avversario del Romano è <strong>di</strong>versa: non si tratta <strong>di</strong> un<br />

barbaro, cioè <strong>di</strong> un nemico per natura e definizione, ma <strong>di</strong> un Campano, <strong>di</strong> un socius<br />

<strong>di</strong>venuto hostis. Il dato è sfruttato da <strong>Livio</strong> per far scontrare, in entrambi i casi,<br />

personaggi tra loro già reciprocamente noti. Nel primo duello (23,46-47) si tratta <strong>di</strong> ex<br />

commilitoni, nel secondo (25,18) i due avversari sono legati ad<strong>di</strong>rittura da amicizia<br />

personale. E’ evidente dunque che colui che lancia la sfida non può essere un anonimo<br />

qualsiasi: è un ben preciso in<strong>di</strong>viduo, non un tipo. Entrambi i Campani tuttavia sono<br />

dotati da <strong>Livio</strong> <strong>di</strong> una caratteristica presentata come propria in generale <strong>di</strong> tutto il loro<br />

popolo, proprio come la prestanza fisica e la sciocca tracotanza sono i tratti tipici dei<br />

Galli. Tale caratteristica è la superbia, un <strong>di</strong>fetto del carattere che assume però anche<br />

una chiara valenza politica. Dal punto <strong>di</strong> vista romano, superbi sono coloro che non<br />

accettano <strong>di</strong> sottomettersi, che oppongono resistenza alla evidente superiorità, non solo<br />

militare, dei Romani. I Campani ribelli, passati dalla parte <strong>di</strong> Annibale, sono certamente<br />

superbi anche in questo senso. La vittoria del Romano e il comportamento vile del<br />

Campano mostrano che schiacciare la superbia è possibile, giusto e doveroso.<br />

Il duello fra il campano Taurea e il romano Asello (23,46-47) non avviene neppure:<br />

dopo qualche schermaglia non dei guerrieri ma dei loro cavalli, il Campano ne ha<br />

<strong>ab</strong>bastanza, e fugge prima <strong>di</strong> essere costretto in un luogo delimitato, che renderebbe<br />

inevit<strong>ab</strong>ile il combattimento corpo a corpo.<br />

I protagonisti <strong>di</strong> 25,18, il campano Ba<strong>di</strong>o e il romano Crispino sono legati dal<br />

sacro vincolo dell’ospitalità. <strong>Livio</strong> ha cura <strong>di</strong> connettere preventivamente il duello alla<br />

narrazione principale: il lettore non deve pensare si tratti <strong>di</strong> un <strong>di</strong>versivo emozionante<br />

offerto al suo <strong>di</strong>letto; l’episo<strong>di</strong>o è al contrario la <strong>di</strong>mostrazione pratica che in guerra<br />

anche fatti <strong>di</strong> poco conto possono rivestire grande importanza. I Romani hanno subìto un<br />

rovescio, perdendo, senza quasi combattere, 1500 uomini. Il duello, esplicitamente


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 67<br />

definito parva res, contribuì a restituire loro fiducia. <strong>Livio</strong> el<strong>ab</strong>ora con cura l’antefatto,<br />

illustrando i precedenti rapporti intercorsi fra i due protagonisti: il Campano era stato<br />

ospitato e curato, durante una malattia, a Roma, a casa del Romano. Proprio con lui ora<br />

Ba<strong>di</strong>o vuole misurarsi in duello; non lancia la sfida ad un Romano qualsiasi, ma fa<br />

chiamare precisamente Crispino. Questi rifiuta con orrore <strong>di</strong> scontrarsi con il suo antico<br />

amico e ospite, e sopporta persino senza reagire i pesanti oltraggi verbali del Campano:<br />

questo per un Romano è davvero molto, ma in Crispino prevale ora la virtù della pietas77. I compagni devono a lungo insistere perché Crispino, pubblicamente oltraggiato, accetti<br />

la sfida. Dopo la solita cerimonia della richiesta, naturalmente accolta, al comandante<br />

del permesso <strong>di</strong> combattere extra or<strong>di</strong>nem, il duello ha inizio. I due sono a cavallo: al<br />

primo assalto Crispino ferisce Ba<strong>di</strong>o alla spalla e lo fa cadere, ma velocemente il<br />

Campano si rialza, si sottrae al colpo <strong>di</strong> grazia e fugge, parma atque equo relicto. Nella<br />

vergognosa fuga <strong>di</strong> Ba<strong>di</strong>o <strong>Livio</strong> si compiace <strong>di</strong> inserire un particolare <strong>di</strong> antica e nobile<br />

tra<strong>di</strong>zione letteraria, l’<strong>ab</strong>bandono dello scudo 78 . La medesima <strong>di</strong>savventura era stata<br />

narrata, con noncurante baldanza, già da Archiloco79 e da Alceo80, e con fine autoironia<br />

(forse) da Orazio81. 77<br />

Non, è importante sottolinearlo, il sentimento privato dell’affetto per l’amico <strong>di</strong> un tempo.<br />

78<br />

Lo scudo sarebbe naturalmente d’impaccio, impedendo una fuga veloce: <strong>ab</strong>bandonare lo scudo<br />

equivale dunque, tra<strong>di</strong>zionalmente, al fuggire, sottraendosi al combattimento.<br />

79<br />

Fr. 6 Diehl “Del mio scudo mena vanto uno dei Sai, arma eccellente che <strong>ab</strong>bandonai presso un<br />

cespuglio, e non avrei voluto. Ma ho salvato la vita. Che mi importa <strong>di</strong> quello scudo? Vada in<br />

malora: me ne comprerò un altro, non peggiore”.<br />

80<br />

Fr. 401 b Voigt “Alceo è salvo, ma il suo scudo appesero gli Attici nel tempio della Glaucopide”<br />

81<br />

Carm. 2,7,9-12: tecum Philippos et celerem fugam / sensi relicta non bene parmula, / cum fracta<br />

virtus et minaces / turpe solum tetigere mento.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 68<br />

L’ INIZIO DELLA TERZA DECADE<br />

<strong>Livio</strong> de<strong>di</strong>ca per intero <strong>di</strong>eci <strong>libri</strong> (21-30) alla seconda guerra punica, un tema<br />

importante e unitario, la cui narrazione complessiva viene accuratamente organizzata. La<br />

decade è spartita in due metà <strong>di</strong> eguale ampiezza, corrispondenti alle due fondamentali<br />

fasi della guerra: i <strong>libri</strong> 21-25, dalla caduta <strong>di</strong> Sagunto all’asse<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Siracusa (219-212),<br />

espongono successi e vittorie dei Cartaginesi; i <strong>libri</strong> 26-30, dalla conquista <strong>di</strong> Siracusa<br />

alla battaglia c.d. <strong>di</strong> Zama (212-202), sono de<strong>di</strong>cati alla lenta ma sicura ripresa romana<br />

fino alla vittoria finale. Naturalmente lo svolgimento della guerra fu proprio questo, e allo<br />

storico basta esporre i fatti nella loro successione cronologica: la contrapposizione fra le<br />

due metà della decade è certamente insita nei fatti stessi che in esse vengono narrati,<br />

non <strong>di</strong>pende da una particolare <strong>ab</strong>ilità del narratore. In realtà tuttavia le cose non stanno<br />

semplicemente così: il contrasto offerto dai fatti è accentuato e messo in rilievo, con<br />

svariati mezzi, dallo storico. In primo luogo, la sud<strong>di</strong>visione scelta dall’autore, che riserva<br />

5 <strong>libri</strong> ai successi <strong>di</strong> Annibale e 5 a quelli dei Romani, è cronologicamente asimmetrica,<br />

poiché i primi cinque <strong>libri</strong> <strong>ab</strong>bracciano sette anni e un<strong>di</strong>ci gli altri cinque. In secondo<br />

luogo, la prima pentade è dominata dalla figura <strong>di</strong> Annibale e la seconda da quella <strong>di</strong><br />

Scipione (Africano). Ma soprattutto, l’intento <strong>di</strong> sottolineare queste bipartizione della<br />

decade è rivelato da una serie <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>ati parallelismi. Ciascuna delle due metà inizia con<br />

la narrazione <strong>di</strong> un asse<strong>di</strong>o, rispettivamente quello cartaginese <strong>di</strong> Sagunto (21,6-15) e<br />

quello romano <strong>di</strong> Capua (26,4-14), che occupano uno spazio all’incirca eguale. L’asse<strong>di</strong>o<br />

<strong>di</strong> Capua segna, con la riconquista <strong>di</strong> una delle più importanti fra le città che erano<br />

passate al nemico, l’inizio della ripresa romana. E ancora: ogni libro nella prima pentade<br />

si apre con la descrizione delle attività dei Cartaginesi (quattro su cinque hanno<br />

ad<strong>di</strong>rittura il nome <strong>di</strong> Annibale nelle prime righe 82 ); quasi tutti i <strong>libri</strong> della seconda<br />

pentade riservano invece ai Romani la prima menzione 83. Difficilmente tutto ciò può<br />

essere casuale. A volte poi è possibile che <strong>Livio</strong> <strong>ab</strong>bia <strong>di</strong> proposito alterato un poco la<br />

cronologia, per far meglio rientrare tutti i fatti della guerra in questa stu<strong>di</strong>ata e artificiosa<br />

sud<strong>di</strong>visione della decade, che oppone i successi cartaginesi nella prima metà a quelli<br />

romani nella seconda. Ad esempio, rispetto alla cronologia <strong>di</strong> Polibio, <strong>Livio</strong> anticipa <strong>di</strong> un<br />

anno, ponendolo nel 212 invece che nel 211, l’evento sfortunato della morte dei due<br />

82 21,1,1: ...bellum ...quod Hannibale duce Carthaginienses cum populo Romano gessere; 22,1,1:<br />

Iam ver appetebat cum Hannibal ex hibernis movit; 23,1,1 Hannibal post Cannensem pugnam...;<br />

25,1,1 Dum haec in Africa et in Hispania geruntur, Hannibal in agro Sallentino aestatem consumpsit.<br />

Il libro 24 si apre anch’esso con le operazioni dei Cartaginesi, guidate da Annone: Ut ex Campania<br />

in Bruttios re<strong>di</strong>tum est, Hanno a<strong>di</strong>utoribus et ducibus Bruttiis Graecas <strong>urbe</strong>s temptavit<br />

83 26,1,1,: Cn. Fulvius Centumalus P. Sulpicius Galba consules...; 27,1,1: Hic status rerum in<br />

Hispania erat. In Italia consul Marcellus...; 29,1,1: Scipio postquam in Siciliam venit; 30,1,1: Cn.<br />

Servilius et C. Servilius consules... Il libro 28 si apre invece con l’illustrazione della situazione in<br />

Spagna, e delle rispettive zone controllate in quel momento da Romani e Cartaginesi.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 69<br />

Scipioni, padre e zio dell’Africano, in Spagna (25,34 e 36); e posticipa <strong>di</strong> un anno, al 211<br />

invece che al 212, l’alleanza <strong>di</strong> Roma con gli Etòli (26,24), che bilancia quella <strong>di</strong> Annibale<br />

con Filippo V (23,33).<br />

Prefazione. Il giuramento <strong>di</strong> Annibale (21,1). Il rilievo che lo storico vuole<br />

conferire alla figura <strong>di</strong> Annibale nella prima metà della terza decade è evidente fin dalla<br />

prefazione. La frase con cui il libro 21 si apre, che annuncia il tema complessivo della<br />

decade, si può considerare una sorta <strong>di</strong> titolo: in essa la menzione del condottiero<br />

cartaginese (Hannibale duce) è anteposta a quella del popolo che fece guerra ai Romani.<br />

Enunciato chiaramente il tema, lo storico elenca i motivi che fanno della guerra<br />

annibalica un evento importante e memor<strong>ab</strong>ile. I quattro motivi in<strong>di</strong>cati, ma soprattutto<br />

l’ultimo, attengono all’aspetto propriamente narrativo della sezione che sta per iniziare.<br />

L’andamento mutevole e l’esito inatteso <strong>di</strong> una guerra fra popoli non solo molto potenti,<br />

ma entrambi all’apice della loro potenza, e già reciprocamente noti, prospetta un<br />

racconto particolarmente avvincente e ricco <strong>di</strong> peripezie. La menzione dell’o<strong>di</strong>o fra i due<br />

popoli (§3) serve a creare il passaggio al racconto del giuramento <strong>di</strong> Annibale bambino<br />

(§4): non un episo<strong>di</strong>o curioso o pittoresco, ma un evento che segna per sempre il futuro<br />

condottiero, e anche un mezzo che consente allo storico <strong>di</strong> porre imme<strong>di</strong>atamente la<br />

decade che inizia sotto il segno, per così <strong>di</strong>re, <strong>di</strong> Annibale, in accordo con le parole<br />

Hannibale duce. Il protagonista cartaginese della guerra, e il principale protagonista del<br />

racconto nei primi cinque <strong>libri</strong>, non può attendere, per entrare in scena, che lo storico<br />

<strong>ab</strong>bia terminato <strong>di</strong> riepilogare sommariamente i principali avvenimenti fra la fine della<br />

prima guerra punica e i progetti <strong>di</strong> riscossa <strong>di</strong> Amilcare, e poi fra la morte <strong>di</strong> Amilcare e<br />

la st<strong>ab</strong>ile assunzione del comando da parte <strong>di</strong> Annibale.<br />

Formalmente la scena del giuramento è un’aggiunta, che mostra quanto antico<br />

fosse l’o<strong>di</strong>o concepito contro i Romani dal loro futuro nemico; l’espressione hostem fore<br />

non vuol <strong>di</strong>re “che avrebbe nutrito sentimenti <strong>di</strong> ostilità” (cosa che Annibale potrebbe ben<br />

fare subito), ma, all’incirca, “che avrebbe fatto guerra ai Romani”, come mostra la<br />

precisazione cum primum posset. La scena del giuramento è presentata in <strong>di</strong>pendenza da<br />

fama est, una <strong>di</strong> quelle formule cui <strong>Livio</strong> <strong>ab</strong>itualmente ricorre o per introdurre leggende<br />

<strong>di</strong> cui si sa bene che non sono vere alla lettera, o per riferire tra<strong>di</strong>zioni delle quali come<br />

storico non può rendersi garante, ma che ritiene comunque opportuno non passare sotto<br />

silenzio.<br />

Ma il giuramento <strong>di</strong> Annibale non è una leggenda, e neppure una tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong><br />

origine dubbia; al contrario la fonte <strong>di</strong> questo racconto è quanto mai atten<strong>di</strong>bile, dal<br />

momento che si tratta <strong>di</strong> Annibale in persona. Molti anni più tar<strong>di</strong>, dopo esser stato<br />

sconfitto da Scipione e cacciato dalla sua patria, Annibale trova ospitalità e rifugio presso


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 70<br />

Antioco III il Grande, re <strong>di</strong> Siria, e mette a sua <strong>di</strong>sposizione la sua grande esperienza<br />

militare. Quando ingiustamente viene sospettato <strong>di</strong> segrete intese con i Romani, contro i<br />

quali Antioco si stava preparando a fare la guerra, Annibale riconquista la piena fiducia<br />

del re narrandogli del giuramento prestato da bambino. Il contenuto <strong>di</strong> quel giuramento<br />

era stato <strong>di</strong>verso da quello riferito da <strong>Livio</strong> all’inizio della terza decade. Lo si apprende<br />

dalle testimonianze concor<strong>di</strong> <strong>di</strong> Polibio, <strong>di</strong> Cornelio Nepote, e <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> stesso, quando il<br />

suo racconto giunge a quei fatti (35,19: v. testi).<br />

Accingendosi a narrare dall’inizio la seconda guerra punica, Polibio anticipa il<br />

colloquio <strong>di</strong> Annibale con Antioco, e scrive:<br />

Al tempo in cui, sconfitto dai Romani e alla fine scacciato dalla patria, Annibale soggiornava presso<br />

Antioco [...] gli ambasciatori romani, trattandolo con ogni riguardo, cercavano <strong>di</strong> renderlo sospetto al re. E<br />

questo in effetti accadde. [...] Dopo aver fatto ricorso a svariati argomenti <strong>di</strong> <strong>di</strong>fesa, alla fine Annibale, non<br />

trovando più argomenti, fece al re questo racconto. Disse che quando suo padre, in procinto <strong>di</strong> partire per la<br />

Spagna, stava sacrificando [...] lo prese per mano e gli ingiunse <strong>di</strong> giurare che non sarebbe mai stato amico<br />

dei Romani (Polibio 3,11)<br />

Anche Cornelio Nepote ricorda il colloquio con Antioco, e la rievocazione del<br />

giuramento prestato da bambino, con cui Annibale si riconquistò la fiducia del re; anche<br />

in Nepote la formula del giuramento è iurare iussit numquam me in amicitia cum Romanis<br />

fore (Hann. 2,5).<br />

Esisteva evidentemente una tra<strong>di</strong>zione consolidata, che si faceva risalire ad<br />

Annibale stesso, che sapeva che Annibale bambino aveva giurato “che non sarebbe mai<br />

<strong>di</strong>ventato amico dei Romani”; richiamare questo giuramento nel contesto del malinteso<br />

con Antioco è opportuno, e appropriato alla situazione: Annibale è stato nemico dei<br />

Romani, ma ora ha bisogno <strong>di</strong> convincere Antioco che lo sarà sempre.<br />

Collocata invece molto prima che la guerra con i Romani effettivamente <strong>ab</strong>bia<br />

inizio, ad apertura della terza decade, quella promessa non sarebbe stata egualmente<br />

efficace: un impegno troppo generico, e soprattutto troppo a lunga scadenza, se la<br />

funzione <strong>di</strong> questo episo<strong>di</strong>o è, come sembra evidente, quella <strong>di</strong> presentare subito il dux<br />

che farà guerra ai Romani, quella guerra che Amilcare non ebbe tempo <strong>di</strong> iniziare, e che<br />

la politica <strong>di</strong> Asdrubale, volta a mantenere la pace, sembrava rinviare indefinitamente.<br />

<strong>Livio</strong> allora svincola l’episo<strong>di</strong>o dalla testimonianza del protagonista Annibale (fama est), e<br />

può quin<strong>di</strong> anche prendersi la libertà <strong>di</strong> mo<strong>di</strong>ficare leggermente, ma in modo significativo,<br />

il contenuto <strong>di</strong> quella promessa, in modo che si accor<strong>di</strong> meglio con l’impostazione<br />

generale della prima metà della decade, e con l’argomento annunciato, una guerra <strong>di</strong> cui<br />

Annibale fu il dux.<br />

Presentato così il protagonista principale della sezione che sta iniziando, lo storico<br />

recupera ed espone per sommi capi (21,1,5 – 3) le vicende cartaginesi del periodo, non<br />

breve, che separa la conclusione della prima punica dall’inizio della seconda (241-218).


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 71<br />

Non si tratta <strong>di</strong> una vera e propria esposizione narrativa, ma solo <strong>di</strong> una succinta<br />

presentazione delle iniziative e delle attività cartaginesi, considerate come preparazione<br />

(con Amilcare) o come rinvio (con Asdrubale) della ripresa delle ostilità con Roma. La<br />

considerazione che conclude la sezione de<strong>di</strong>cata ad Amilcare (21,1,5 – 2,2), ...ut<br />

appareret [...] si <strong>di</strong>utius vixisset, Hamilcare duce Poenos arma inlaturos fuisse quae<br />

Hannibalis ductu intulerunt, non risponde tanto ad una esigenza <strong>di</strong> informazione – lo<br />

storico ha appena detto che la guerra si svolse Hannibale duce – quanto al desiderio <strong>di</strong><br />

non relegare in secondo piano il protagonista cartaginese della guerra, nemmeno nel<br />

periodo in cui egli non ha nessuna parte nei fatti che lo storico sta esponendo.<br />

A <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> Amilcare, Asdrubale non mostra alcuna fretta <strong>di</strong> iniziare la guerra<br />

contro Roma: si impegna invece, con un’<strong>ab</strong>ile attività <strong>di</strong>plomatica, a consolidare il potere<br />

cartaginese in Spagna; e stipula, o meglio rinnova, con Roma il famoso patto dell’Ebro,<br />

che in seguito darà origine a <strong>di</strong>scussioni sulla sua corretta interpretazione, e poi agli<br />

incidenti che porteranno, dopo la caduta <strong>di</strong> Sagunto, alla guerra. Morto Asdrubale, viene<br />

finalmente per Annibale il momento <strong>di</strong> assumere il comando: “Non vi furono dubbi su chi<br />

dovesse prendere il posto <strong>di</strong> Asdrubale: alla scelta preliminare dei soldati [...] teneva<br />

<strong>di</strong>etro anche il favore popolare” (21,3,1). Registrato così il passaggio dell’imperium<br />

militare ad Annibale, lo storico de<strong>di</strong>ca i due capitoli successivi all’esposizione <strong>di</strong> fatti<br />

precedenti e non ancora trattati, posti fra la morte <strong>di</strong> Amilcare e quella <strong>di</strong> Asdrubale, cioè<br />

i contrasti interni allo stato cartaginese, dove non tutti erano favorevoli alla politica <strong>di</strong><br />

espansione attuata e sostenuta dalla potente fazione dei Barca, e il tirocinio militare <strong>di</strong><br />

Annibale in Spagna. Si tratta <strong>di</strong> un tema accessorio rispetto a quello annunciato all’inizio<br />

del libro, e per questo lo storico ne rinvia l’esposizione. Registrato e fissato il dato<br />

essenziale, il passaggio ad Annibale del comando dell’esercito, lo storico fa un passo<br />

in<strong>di</strong>etro84, e spiega come Annibale fosse giunto ad esser scelto come generale alla morte<br />

<strong>di</strong> Asdrubale. A conclusione <strong>di</strong> questa sezione è collocato il ritratto <strong>di</strong> Annibale (21,4).<br />

Questa collocazione non è certo casuale: da un lato il ritratto si inserisce naturalmente in<br />

quella sorta <strong>di</strong> breve <strong>di</strong>gressione dal filo principale del racconto (passaggio del comando<br />

militare da Amilcare ad Asdrubale e poi ad Annibale), che spiega come Annibale si fosse<br />

conquistato il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> occupare il posto che era stato <strong>di</strong> suo padre85, dall’altro presenta<br />

compiutamente, prima che la guerra inizi, il personaggio del dux con il quale i Romani<br />

dovranno ben presto confrontarsi.<br />

84 Segnalato dalle forme verbali al piuccheperfetto accersierat e acta fuerat (= acta erat) <strong>di</strong> 21,3,2.<br />

85 Non per <strong>di</strong>ritto ere<strong>di</strong>tario, come sarcasticamente aveva insinuato Annone nel suo <strong>di</strong>scorso in<br />

senato, ma grazie alle eccellenti doti militari <strong>di</strong> cui dà prova nel tirocinio alle <strong>di</strong>pendenze <strong>di</strong><br />

Asdrubale.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 72<br />

Con il cap. 21,5 riprende il racconto principale, e viene registrata la decisione <strong>di</strong><br />

far guerra ai Saguntini, presa da Annibale allo scopo <strong>di</strong> creare un incidente che provochi<br />

la reazione romana: “Del resto, dal giorno in cui fu proclamato comandante, come se<br />

l’Italia fosse la provincia che gli era stata assegnata, e la guerra contro Roma l’incarico <strong>di</strong><br />

cui era stato investito, ritenendo <strong>di</strong> non dover tardare, perché, mentre indugiava, un<br />

qualche evento sfortunato non cogliesse anche lui, come suo padre Amilcare e poi<br />

Asdrubale, decise <strong>di</strong> far guerra ai Saguntini” (21,5,1).<br />

Si può <strong>di</strong>re che a questo punto il personaggio ha già onorato il giuramento fattogli<br />

prestare dal padre (così come <strong>Livio</strong> lo ha trasformato): davvero “al più presto possibile”<br />

Annibale sta iniziando la guerra contro Roma.<br />

Ritratto <strong>di</strong> Annibale (21,4). Nel corso dell’opera <strong>Livio</strong> cura in svariati mo<strong>di</strong> la<br />

caratterizzazione dei viri sui quali, secondo la <strong>di</strong>chiarazione della prefazione (v. § 9 ...per<br />

quos viros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium sit), desidera<br />

che il lettore concentri la sua attenzione; non manca neppure quella, come nel caso <strong>di</strong><br />

Annibale, <strong>di</strong> alcuni insigni nemici <strong>di</strong> Roma. Molto frequente è il ritratto – epitafio: in<br />

occasione della notizia della morte <strong>di</strong> un grande personaggio lo storico ne offre una<br />

succinta biografia, in cui traccia un breve bilancio delle sue azioni più significative ed<br />

esprime il proprio giu<strong>di</strong>zio complessivo86, un congedo dal personaggio <strong>di</strong> cui, nel corso<br />

della narrazione, è stato già offerto il ritratto in<strong>di</strong>retto, attraverso le sue azioni e, talvolta,<br />

le sue parole. Meno frequenti sono i ritratti <strong>di</strong> tipo statico, quale, almeno in parte, quello<br />

<strong>di</strong> Annibale87. 86 Qualche esempio. “In quel medesimo anno [203] morì Quinto F<strong>ab</strong>io Massimo in età assai<br />

avanzata, se è vero che fu augure per 62 anni, come sostengono alcuni autori. Fu uomo certo<br />

degno <strong>di</strong> un così grande cognomen, se pure non fu lui il primo a portarlo. Superò le cariche del<br />

padre, eguagliò quelle degli antenati. Il suo avo Rullo ottenne più vittorie, e in battaglie più<br />

importanti, ma il solo fatto <strong>di</strong> aver avuto come nemico Annibale può eguagliare ogni altra impresa.<br />

Fu tuttavia ritenuto prudente più che deciso; e se può darsi che egli sia stato temporeggiatore più<br />

per indole che non perché così richiedeva la guerra che allora si combatteva, è però certo che,<br />

come <strong>di</strong>ce Ennio, fu proprio lui l’uomo che temporeggiando salvò lo stato” (30,26,7-10). Il tono<br />

generale, e alcuni temi – il confronto con gli antenati e l’affermazione che il defunto se ne mostrò<br />

degno – ricordano gli elogi funebri. Altri epitafi sono meno convenzionali, ad es. quello famoso <strong>di</strong><br />

Cicerone, conservatoci da Seneca Padre, suas.22-24 (v. Garbarino p. 456).<br />

87 Anche per Annibale naturalmente c’è quello che si è in<strong>di</strong>cato come “ritratto in<strong>di</strong>retto”, la<br />

costruzione graduale della figura del personaggio attraverso il suo agire, seguito dallo storico ben<br />

oltre la conclusione della guerra contro Roma. Ad esempio il brano, citato qui sopra, de<strong>di</strong>cato al<br />

colloquio con il re Antioco (35,19, v. testi) ne mette in luce il carattere fiero e schietto; drammatico<br />

e commosso è il racconto della sua morte (39,51): tra<strong>di</strong>to dal re <strong>di</strong> Bitinia Prusia, Annibale si<br />

sottrae con il veleno ai soldati romani <strong>di</strong> Flaminino che circondano la sua <strong>di</strong>mora, pronunciando<br />

queste nobili parole: “Liberiamo il popolo romano da una preoccupazione che dura da tanto tempo,<br />

giacché ritengono troppo lungo attendere la morte <strong>di</strong> un vecchio. Non grande né memor<strong>ab</strong>ile sarà<br />

la vittoria <strong>di</strong> Flaminino su un uomo inerme e tra<strong>di</strong>to. Questo solo giorno basterà a provare quanto<br />

siano mutati i costumi del popolo romano. <strong>Gli</strong> antenati <strong>di</strong> costoro misero in guar<strong>di</strong>a contro il<br />

veleno il re Pirro, un nemico armato, che era in Italia con l’esercito; questi hanno mandato un ex<br />

console con l’incarico <strong>di</strong> indurre Prusia ad uccidere a tra<strong>di</strong>mento un ospite” (39,51, 9-11). Il


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 73<br />

Il suo infatti è, nel medesimo tempo, un ritratto statico, alla maniera sallustiana 88<br />

(aspetto, carattere, vizi e virtù), svincolato cioè da qualsiasi contesto storicamente<br />

determinato, e una descrizione, inserita invece in un momento storico preciso, del<br />

tirocinio militare del giovane Annibale.<br />

La notazione relativa ai veterani (§1), colpiti dalla somiglianza <strong>di</strong> Annibale con il<br />

padre introduce un elemento <strong>di</strong> originalità nel ritratto fisico <strong>di</strong> tipo tra<strong>di</strong>zionale: le<br />

fattezze del personaggio sono presentate in modo in<strong>di</strong>retto, attraverso gli occhi dei<br />

veteres milites, che imme<strong>di</strong>atamente riconoscono in lui i tratti <strong>di</strong> Amilcare; solo il termine<br />

liniamenta, che conclude l’elenco, si riferisce in realtà alle vere e proprie fattezze fisiche;<br />

tutti gli altri (vigor, vis, h<strong>ab</strong>itus oris) rinviano piuttosto a qualità del carattere (energia,<br />

vigore) che traspaiono dall’espressione complessiva del volto. In effetti, la somiglianza con<br />

il padre non è limitata all’aspetto fisico; le doti che Annibale ben presto mostra <strong>di</strong><br />

possedere non deludono le aspettative suscitate dalla sua straor<strong>di</strong>naria somiglianza con<br />

il padre. Si tratta <strong>di</strong> doti propriamente militari, che fanno sì che i soldati apprezzino<br />

Annibale in<strong>di</strong>pendentemente dall’immagine vivente del padre che scorgono in lui (§2).<br />

Appropriata alla descrizione del tirocinio militare del giovane Annibale è la<br />

menzione della sua attitu<strong>di</strong>ne tanto ad parendum quanto ad imperandum (§3), giacché<br />

per la caratterizzazione <strong>di</strong> Annibale comandante supremo sarebbe fuor <strong>di</strong> luogo ricordare<br />

la <strong>di</strong>sposizione ad obbe<strong>di</strong>re; e così l’accenno alle imprese a lui affidate (neque Hasdrubal<br />

alium quemquam praeficere malle... §4) rinvia, anch’esso, a quel periodo. La frase è però<br />

molto generica; l’ampliamento ottenuto con le iterazioni sinonimiche (fortiter ac strenue;<br />

confidere aut audere) sembra miri a compensare, in certo modo, la mancanza <strong>di</strong><br />

riferimenti precisi a fatti specifici. Lo storico è interessato a presentare le doti del<br />

personaggio, più che a ricordare qualche impresa da lui compiuta quando militava alle<br />

<strong>di</strong>pendenze <strong>di</strong> Asdrubale; ed è prob<strong>ab</strong>ile del resto che nelle sue fonti non trovasse alcuna<br />

menzione <strong>di</strong> azioni militari degne <strong>di</strong> memoria. Sappiamo infatti 89 che il periodo <strong>di</strong><br />

comando supremo <strong>di</strong> Asdrubale era stato caratterizzato da pax, da azioni <strong>di</strong>plomatiche<br />

volte ad allargare le alleanze cartaginesi con altri popoli. Soprattutto per questo<br />

prob<strong>ab</strong>ilmente l’illustrazione delle doti militari <strong>di</strong> Annibale, necessaria nel ritratto del<br />

futuro grande generale, si mantiene piuttosto generica, e anche molto convenzionale.<br />

<strong>Livio</strong> assegna infatti al suo giovane Annibale tutte le doti che secondo la tra<strong>di</strong>zione<br />

romana il buon soldato doveva possedere: dopo la <strong>di</strong>sciplina, il coraggio, l’accortezza, gli<br />

attribuisce anche resistenza fisica, temperanza, aspirazione a primeggiare nelle battaglie.<br />

racconto della morte <strong>di</strong> Annibale è preceduto da un lusinghiero, brevissimo epitafio: morirono nel<br />

medesimo anno (183) Scipione e Annibale, “i due più gran<strong>di</strong> generali dei due popoli più potenti”<br />

(39,50,11).<br />

88<br />

Cat., 5 (Catilina); 25 (Sempronia); Iug., 63 (Mario); 95 (Silla).<br />

89<br />

V. 21,2,5-6.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 74<br />

Subito dopo, con brusco contrasto, Annibale viene dotato anche <strong>di</strong> una nutrita<br />

serie <strong>di</strong> vitia. Questi, assai più che le virtù, prescindono completamente dalla situazione<br />

specifica in cui il ritratto <strong>di</strong> Annibale è inserito. Quelli che lo storico elenca sono infatti i<br />

vitia del generale cartaginese nemico dei Romani, non quelli del giovane impegnato nel<br />

tirocinio militare, non dotato <strong>di</strong> potere autonomo e <strong>di</strong>fficilmente quin<strong>di</strong> in grado <strong>di</strong> venir<br />

meno a patti o giuramenti, che non spettava certo a lui concludere o prestare. Si tratta <strong>di</strong><br />

un elenco molto scarno, anch’esso privo <strong>di</strong> esempi concreti, ma molto più schematico<br />

della descrizione delle doti positive, non altrettanto statiche. Ponendo tuttavia a<br />

conclusione del ritratto la serie dei vitia, certo lo scrittore mira a far sì che essi si<br />

imprimano nella mente del lettore con forza particolare.<br />

La maggior parte dei vitia <strong>di</strong> Annibale è presentata per via negativa, con l’anafora<br />

<strong>di</strong> nihil e <strong>di</strong> nullus; egli è insomma la vivente negazione <strong>di</strong> tutte le più importanti virtù<br />

romane. L’elenco è peraltro sia ridondante sia convenzionale: ridondante, perché la<br />

perfi<strong>di</strong>a (violazione della fides) comprende e implica quasi tutti i vizi introdotti in forma<br />

negativa, precisando i campi in cui la perfi<strong>di</strong>a può manifestarsi; convenzionale, perché<br />

nel corso del racconto Annibale non appare particolarmente perfidus, empio o crudele.<br />

Anzi, a volte lo storico registra comportamenti che smentiscono qualcuno <strong>di</strong> questi vitia.<br />

In primo luogo, il rispetto per il giuramento fatto all’età <strong>di</strong> nove anni, che tanta<br />

importanza riveste proprio nel racconto <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>, mette evidentemente in dubbio il nullum<br />

ius iurandum.<br />

Smentisce poi il nullus deum metus, mostrando invece la pietas religiosa del<br />

generale cartaginese, il viaggio che, prima <strong>di</strong> partire per l’Italia, egli compì a Ca<strong>di</strong>ce, per<br />

sciogliere un voto fatto ad Ercole e invocarne la protezione per l’impresa che si accingeva<br />

ad iniziare (21,21,9).<br />

Quanto alla crudeltà e alla slealtà nella condotta <strong>di</strong> guerra, queste non appaiono<br />

prerogative del solo Annibale, o dei soli Cartaginesi. Anche i Romani vi ricorrono spesso,<br />

come lo storico onestamente riferisce. Per i Romani tuttavia tenta <strong>di</strong> el<strong>ab</strong>orare<br />

giustificazioni che invece per i Cartaginesi non cerca mai. Si è già ricordato90 il massacro<br />

a tra<strong>di</strong>mento dei citta<strong>di</strong>ni inermi <strong>di</strong> Enna progettato ed eseguito dai Romani senza un<br />

ripensamento (24,39), e la considerazione conclusiva dello storico: ita Henna aut malo aut<br />

necessario facinore retenta (24,39,7). Questa non è una vera e propria giustificazione <strong>di</strong><br />

un atto che lo storico certo <strong>di</strong>sapprova, ma le assomiglia molto. Un comportamento<br />

analogo, anzi meno crudele, dei Cartaginesi è invece condannato senza esitazioni dallo<br />

storico. Dopo la sconfitta del Trasimeno, seimila soldati romani scampati al massacro si<br />

arrendono, dopo una fuga durata una intera notte, al generale cartaginese Maarbale,<br />

90 V. p. 23.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 75<br />

fidando nella sua promessa che, se avessero consegnato tutte le armi, li avrebbe lasciati<br />

liberi. Annibale però non mantiene la promessa fatta dal suo luogotenente: “questa<br />

parola – commenta lo storico – fu rispettata da Annibale con lo scrupolo proprio dei<br />

Cartaginesi, e tutti furono fatti prigionieri” (22,6,12).<br />

Il ritratto si conclude con una considerazione riassuntiva, che prepara e precede la<br />

ripresa del racconto, chiudendo la breve <strong>di</strong>gressione aperta al cap. 3: “Con questa indole<br />

in cui si mescolavano virtù e vizi, prestò servizio per tre anni sotto il comando <strong>di</strong><br />

Asdrubale, senza trascurare niente <strong>di</strong> ciò che un uomo destinato a <strong>di</strong>ventare un grande<br />

generale doveva compiere e conoscere” (21,4,10).<br />

Con 21, 5 riprende il filo principale del racconto, che ricorda ancora una volta la<br />

successione Amilcare, Asdrubale, Annibale. Il giuramento e il ritratto preparano<br />

efficacemente questo inizio della guerra: il lettore a questo punto conosce quel dux<br />

annunciato fin dall’introduzione alla decade91. 91 Fra gli altri ritratti presenti nell’opera <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> si propone alla lettura quello de<strong>di</strong>cato a Papirio<br />

Cursore (9,16, v. testi). Mentre quello <strong>di</strong> Annibale ne precede l’effettiva comparsa in scena come<br />

protagonista, quello <strong>di</strong> Papirio suggella la sua impresa più gloriosa, la vittoria sui Sanniti, che<br />

riscatta l’onta delle Forche Cau<strong>di</strong>ne. A questo punto del racconto il lettore conosce già bene il<br />

personaggio e alcune delle sue caratteristiche, richiamate nel ritratto da due piccoli aneddoti<br />

caratterizzanti (cosa <strong>ab</strong>bastanza inconsueta in <strong>Livio</strong>), entrambi arricchiti da una battuta in<br />

<strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>retto. <strong>Livio</strong> rende a Papirio un onore gran<strong>di</strong>ssimo, affermando che era opinione comune<br />

che egli sarebbe stato in grado <strong>di</strong> tener testa ad Alessandro Magno; con Alessandro Papirio<br />

con<strong>di</strong>vide una caratteristica certo biasimevole (la tendenza al bere), che <strong>Livio</strong> trasforma, senza<br />

mettere le due figure <strong>di</strong>rettamente a confronto, in un segno del suo straor<strong>di</strong>nario vigore fisico:<br />

fuisse ferunt cibi vinique eundem capacissimum. Come si è visto invece la frugalità nel mangiare e<br />

nel bere è una delle virtù <strong>di</strong> Annibale.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 76<br />

DISCORSO DI CATONE CONTRO L’ABROGAZIONE DELLA LEX OPPIA (34,1-4)<br />

Il brano è un interessante esempio <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>retto, <strong>di</strong> genere deliberativo. Al<br />

<strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> Catone è fatto seguire imme<strong>di</strong>atamente quello <strong>di</strong> un avversario, secondo la<br />

tecnica dei <strong>di</strong>scorsi a coppie inaugurata da Tuci<strong>di</strong>de, cui <strong>Livio</strong> ricorre <strong>ab</strong>bastanza spesso.<br />

Oltre che ad esporre, con maggiore o minore fedeltà, ciò che fu detto effettivamente, i<br />

<strong>di</strong>scorsi contrapposti adempiono alla funzione <strong>di</strong> illustrare con imme<strong>di</strong>atezza, dando la<br />

parola ai protagonisti stessi, la situazione e i termini del problema, accostando<br />

<strong>di</strong>rettamente i due <strong>di</strong>versi punti <strong>di</strong> vista.<br />

Il libro 34 è de<strong>di</strong>cato ad un periodo <strong>di</strong> circa tre anni (195-193): il racconto relativo<br />

all’anno 195 inizia già nel libro precedente; il primo fatto preso in considerazione nel<br />

libro 34 è la proposta dell’<strong>ab</strong>rogazione della lex Oppia. Le vicende militari riguardano tre<br />

<strong>di</strong>stinti teatri <strong>di</strong> guerra: la Spagna, dove il console Catone guida una spe<strong>di</strong>zione vittoriosa<br />

ma non risolutiva contro alcune popolazioni in<strong>di</strong>gene che si erano ribellate; la Gallia,<br />

dove viene inviato l’altro console, Valerio Flacco, contro i Galli Boi; e infine la Grecia,<br />

dove <strong>Tito</strong> Quinzio Flaminino, dopo la vittoria su Filippo, affronta e sconfigge N<strong>ab</strong>ide <strong>di</strong><br />

Sparta, con il quale Roma stipula un trattato <strong>di</strong> pace. Il libro si conclude con le prime<br />

avvisaglie della guerra contro Antioco III , presso il quale ha trovato rifugio Annibale<br />

esule dalla patria.<br />

Lo spazio de<strong>di</strong>cato alla questione <strong>di</strong> politica interna costituita dalla proposta <strong>di</strong><br />

<strong>ab</strong>rogazione della lex Oppia è considerevole (otto capitoli su 62 complessivi), forse<br />

sproporzionato all’effettiva rilevanza dell’argomento, definito dallo storico stesso res parva.<br />

Il primo capitolo illustra con chiarezza la questione: una legge suntuaria, proposta<br />

e promulgata nel periodo più duro della guerra annibalica, imponeva restrizioni alle<br />

donne nel vestiario, nei gioielli e nell’uso <strong>di</strong> carrozze; passato ormai da tempo quel<br />

pericolo, tornate la prosperità e <strong>di</strong> pace, sembrava a molti che la legge potesse essere<br />

cancellata. Si fecero promotori dell’<strong>ab</strong>rogazione due tribuni della plebe; altri si opposero<br />

alla proposta: gli oratori dell’una e dell’altra opinione si alternavano alla tribuna per<br />

illustrare al popolo che avrebbe votato le ragioni a favore o contro la proposta. <strong>Livio</strong><br />

sceglie <strong>di</strong> riferire il <strong>di</strong>scorso del più illustre degli oppositori della proposta, Catone, che<br />

nel 195 era console; e poi quello <strong>di</strong> uno dei due tribuni proponenti, Lucio Valerio. Di<br />

quest’ultimo il lettore non sa nulla se non ciò che si può trarre dal <strong>di</strong>scorso che lo storico<br />

gli attribuisce: le sue parole, in contrasto con il piglio battagliero <strong>di</strong> Catone, sono<br />

ragionevoli e calme, a tratti anche finemente ironiche; la sua <strong>di</strong>fesa delle donne è efficace,<br />

ed è persuasiva la <strong>di</strong>mostrazione che l’<strong>ab</strong>olizione <strong>di</strong> pochi e ormai assur<strong>di</strong> <strong>di</strong>vieti non<br />

avrebbe certo messo a repentaglio né l’integrità dei costumi né la saldezza dello stato<br />

romano.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 77<br />

Di Catone invece sappiamo che fu oratore, e che nel corso della sua lunghissima<br />

carriera politica pronunciò parecchi <strong>di</strong>scorsi, <strong>di</strong> cui curò personalmente la pubblicazione,<br />

e che al tempo <strong>di</strong> <strong>Livio</strong> si leggevano ancora in gran numero. Si potrebbe dunque pensare<br />

che, a <strong>di</strong>fferenza del <strong>di</strong>scorso del tribuno, quello attribuito a Catone sia la riel<strong>ab</strong>orazione<br />

del <strong>di</strong>scorso effettivamente pronunciato in quell’occasione. Prob<strong>ab</strong>ilmente non è così.<br />

<strong>Livio</strong> ricorda altri <strong>di</strong>scorsi pronunciati da Catone92, ma ne riferisce solo genericamente il<br />

contenuto, senza trascriverli né riscriverli (con la motivazione che il <strong>di</strong>scorso exstat93). Questo è il solo <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>retto che il personaggio <strong>di</strong> Catone pronuncia nella sua opera94: prob<strong>ab</strong>ilmente non ne esisteva più (o non era mai esistito) il testo originale. Questo non<br />

significa che <strong>Livio</strong> <strong>ab</strong>bia inventato l’intervento <strong>di</strong> Catone in <strong>di</strong>fesa della legge:<br />

prob<strong>ab</strong>ilmente nelle sue fonti trovava la notizia del <strong>di</strong>battito e della partecipazione ad<br />

esso <strong>di</strong> Catone. Poiché, supponiamo, nella raccolta <strong>di</strong>sponibile delle orazioni <strong>di</strong> Catone<br />

quel <strong>di</strong>scorso non c’era (nemmeno a noi sono giunti frammenti <strong>di</strong> un <strong>di</strong>scorso pro lege<br />

Oppia), <strong>Livio</strong> sfrutta l’occasione per assegnare un ampio <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>retto al personaggio,<br />

alla sua prima comparsa significativa nel racconto95. Le caratteristiche più note <strong>di</strong> Catone, inflessibile, autoritario, ostinatamente fedele<br />

alle sue idee <strong>di</strong> uomo all’antica, <strong>di</strong> moralista severo e un po’ misogino, sono delineate<br />

molto felicemente attraverso il <strong>di</strong>scorso che lo storico ricostruisce per lui.<br />

All’avversario <strong>Livio</strong> assegna un <strong>di</strong>scorso in totale contrasto con quello <strong>di</strong> Catone,<br />

non per gli argomenti (questo è ovvio), ma per il tono, garbato, ragionevole, conciliante<br />

quanto invece è aggressivo, categorico e aspro quello <strong>di</strong> Catone: il suo accanimento<br />

92<br />

In 38,54,11 lo storico ricorda il <strong>di</strong>scorso de pecunia regis Antiochi, pronunciato da Catone per<br />

sollecitare l’apertura <strong>di</strong> un’inchiesta sulla questione del denaro <strong>di</strong> Antioco. Sconfitto nel 189 a<br />

Magnesia sul Sipilo da Lucio Scipione, fratello dell’Africano che lo affiancava con il titolo <strong>di</strong> legatus,<br />

Antioco aveva accettato la pace <strong>di</strong> Apamea (188). Si sospettava che il re avesse versato agli<br />

Scipioni e ad altri personaggi politici romani ingenti somme <strong>di</strong> denaro per ottenere con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong><br />

pace vantaggiose, o anche solo che una parte dell’indennità <strong>di</strong> guerra imposta ad Antioco non<br />

fosse stata versata all’erario, ma trattenuta dagli Scipioni. In 39,42,5 lo storico menziona l’oratio<br />

molto severa pronunciata da Catone nell’esercizio della sua censura (184) contro Lucio Quinzio<br />

per espellerlo dal numero dei senatori durante la lectio senatus. Infine, in 45,25,2-4 si riferisce al<br />

<strong>di</strong>scorso pro Rho<strong>di</strong>ensibus pronunciato da Catone in senato contro la proposta <strong>di</strong> <strong>di</strong>chiarar guerra<br />

ai Ro<strong>di</strong>esi sulla base del semplice sospetto che essi avessero avuto intenzione <strong>di</strong> aiutare Perseo in<br />

guerra contro i Romani.<br />

93<br />

A proposito del <strong>di</strong>scorso pro Rho<strong>di</strong>ensibus <strong>Livio</strong> si esprime così: Non inseram simulacrum viri<br />

copiosi, quae <strong>di</strong>xerit referendo: ipsius oratio scripta exstat, Originum quinto libro inclusa (45,15,3),<br />

“non introdurrò qui una pallida immagine <strong>di</strong> quell’uomo facondo riferendo ciò che <strong>di</strong>sse: il suo<br />

<strong>di</strong>scorso si conserva scritto, inserito nel quinto libro delle Origines”; si deduce da ciò che anche<br />

l’opera storica <strong>di</strong> Catone era conservata e <strong>di</strong>sponibile al tempo <strong>di</strong> <strong>Livio</strong>.<br />

94<br />

Fatta eccezione per una breve allocuzione alle truppe assegnata a Catone in 34,13,5-9,<br />

nell’imminenza <strong>di</strong> un combattimento durante la campagna militare in Spagna, un brano<br />

convenzionale, prob<strong>ab</strong>ile creazione dello storico, come segnalano le parole che seguono in hunc<br />

modum [...]adhortatus...<br />

95<br />

Prima del suo consolato <strong>Livio</strong> lo menziona solo incidentalmente, in seguito invece segue con<br />

attenzione la sua carriera sia militare sia politica.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 78<br />

finisce per apparire sproporzionato alla reale importanza della questione per la quale si<br />

batte.<br />

Come in tutti i <strong>di</strong>scorsi <strong>di</strong> maggior estensione inseriti nell’opera, anche questo<br />

presenta la struttura canonica prevista dalle norme della retorica: a) exor<strong>di</strong>um (2,1-3); b)<br />

tractatio (2,5-4,18), che svolge nell’or<strong>di</strong>ne questi temi: il comportamento delle donne<br />

costituisce una minaccia per lo stato; la legge <strong>di</strong> cui si propone l’<strong>ab</strong>rogazione è utile allo<br />

stato; i motivi delle donne sono cattivi; se la legge verrà <strong>ab</strong>rogata lo stato ne sarà<br />

danneggiato; c) conclusio o peroratio (4,19-21).<br />

Come lo storico riferisce in 34,1,5, le matronae, <strong>di</strong>rettamente interessate alla<br />

proposta, non rimasero <strong>di</strong>sciplinatamente in casa ad attendere l’esito della votazione (che<br />

vide la sconfitta <strong>di</strong> Catone), ma si riversarono in folla nelle strade, facendo vive pressioni<br />

sugli uomini perché la legge che ingiustamente le danneggiava venisse <strong>ab</strong>rogata.<br />

Esor<strong>di</strong>o (2,1-3). Normalmente con l’esor<strong>di</strong>o l’oratore mira ad ottenere attenzione e<br />

soprattutto benevolenza dal pubblico. Catone invece rinuncia quasi del tutto a cercare <strong>di</strong><br />

ingraziarsi l’u<strong>di</strong>torio, scegliendo un esor<strong>di</strong>o severo e aggressivo. Il punto <strong>di</strong> partenza non<br />

è la legge <strong>di</strong> cui si propone l’<strong>ab</strong>rogazione, ma il comportamento intoller<strong>ab</strong>ilmente<br />

in<strong>di</strong>sciplinato e scandaloso delle donne, segno preoccupante <strong>di</strong> un generale<br />

allontanamento dai mores antiqui: i Romani non sono più in grado <strong>di</strong> comandare alle loro<br />

donne. E’ questo il rimprovero che l’oratore rivolge agli ascoltatori, appena attenuato dal<br />

fatto che egli vi comprenda anche se stesso (quisque nostrum... sustinere non potuimus).<br />

Questo non implica l’ammissione da parte dell’oratore che anch’egli <strong>ab</strong>bia <strong>di</strong>fficoltà a<br />

controllare la sua mater familiae, è soltanto una concessione generica alla norma retorica<br />

che prescrive <strong>di</strong> non irritare fin dall’esor<strong>di</strong>o l’u<strong>di</strong>torio che si vuole persuadere.<br />

Catone ricorre quin<strong>di</strong> ad un exemplum, un elemento efficace per delineare il<br />

personaggio, che anche nel seguito del <strong>di</strong>scorso inserisce exempla e massime sentenziose<br />

<strong>di</strong> carattere generale96. L’exemplum mitico cui Catone allude con ostentato scetticismo97 conferisce efficacia alla massima <strong>di</strong> carattere generale che segue imme<strong>di</strong>atamente, che<br />

conferma invece la piena plausibilità della leggenda: non c’è categoria che non possa<br />

costituire un grave pericolo.<br />

96 Appellandosi ad un bagaglio comune <strong>di</strong> esperienze e <strong>di</strong> conoscenze, o al valore universale e<br />

in<strong>di</strong>scutibile <strong>di</strong> una massima o <strong>di</strong> un proverbio, l’oratore conferisce autorevolezza alle proprie<br />

argomentazioni, a patto naturalmente che sappia presentare il caso specifico che gli sta a cuore<br />

come rientrante nella norma generale enunciata.<br />

97 Si noti in aliqua insula, come se l’oratore non sapesse <strong>di</strong> quale isola si tratta, o non ritenesse<br />

importante precisarlo, trattandosi <strong>di</strong> una res ficta. La leggenda narrava che a Lemno tutte le<br />

donne, per aver trascurato il culto <strong>di</strong> Afro<strong>di</strong>te, erano state punite dalla dea con una puzza<br />

repellente, che non lasciava mai i loro corpi. Trascurate dai mariti, che avevano preferito loro delle<br />

donne <strong>di</strong> Tracia, si erano ven<strong>di</strong>cate sterminando tutti gli uomini; si salvò solo Toante, grazie alla<br />

figlia Issìpile.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 79<br />

Tractatio 1 La consternatio muliebris (2,4-3,2). Il primo argomento svolto<br />

dall’oratore è un ampio, prolisso sviluppo del concetto enunciato nella massima generale<br />

che chiude l’esor<strong>di</strong>o. Il dubbio con cui la tractatio si apre (atque ego vix statuere possum<br />

utrum...) è retorico: l’oratore considera gravi sia la res, cioè il vero oggetto della contesa,<br />

la proposta <strong>di</strong> <strong>ab</strong>rogazione, sia l’exemplum, il precedente pericoloso che si creerebbe, se si<br />

cedesse alle pressioni delle donne. Questi due aspetti vengono ripresi due volte con<br />

<strong>di</strong>sposizione chiastica da alterum ad nos (l’exemplum) e alterum ad vos (la res), e da<br />

vestra existimatio est (la res) e da consternatio muliebris...ad culpam magistratuum<br />

pertinens (l’exemplum). L’ultima considerazione dà luogo ad un’altra struttura a due<br />

elementi, vobis...an consulibus, ripresa e sviluppata con struttura questa volta parallela<br />

(vobis...nobis).<br />

Ancora prima <strong>di</strong> <strong>di</strong>scutere dell’opportunità <strong>di</strong> mantenere in vigore la legge,<br />

<strong>ab</strong>ilmente subor<strong>di</strong>nando la questione specifica ad un problema d’or<strong>di</strong>ne generale e più<br />

importante, Catone cerca <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrare che la proposta va respinta in primo luogo per<br />

rist<strong>ab</strong>ilire l’or<strong>di</strong>ne interno, per punire la sollevazione delle donne e per prevenire altre<br />

situazioni <strong>di</strong>s<strong>di</strong>cevoli e pericolose come quella che si è creata. L’argomentazione è<br />

fortemente tendenziosa, basata su un uso accorto dei termini, e sull’insinuazione che il<br />

tumulto sia stato ad<strong>di</strong>rittura organizzato dai tribuni. I sostantivi usati per definire la<br />

protesta delle donne sono via via più specifici e più gravi, e anche via via più lontani<br />

dalla realtà. Consternatio descrive il fatto in modo <strong>ab</strong>bastanza obiettivo: in<strong>di</strong>ca una<br />

agitazione <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>nata e <strong>di</strong>sorganizzata, determinata per lo più da una forte emozione<br />

(panico, r<strong>ab</strong>bia). Se<strong>di</strong>tio si applica invece ad una agitazione finalizzata ad uno scopo: è la<br />

rivolta <strong>di</strong> una parte del corpo civico, o, in ambito militare, dei soldati, contro il potere<br />

costituito, contro l’autorità; implica il concetto politico <strong>di</strong> <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>a. Secessio infine – il<br />

ritirarsi dal resto della popolazione in segno <strong>di</strong> protesta, come aveva fatto la plebe<br />

rifiutando <strong>di</strong> arruolarsi – è il termine più grave e più improprio per descrivere la<br />

consternatio muliebris. Le donne non fanno, né minacciano <strong>di</strong> fare, perché non<br />

potrebbero, una secessio. Impiegando termini che sono sì sinonimi, ma non del tutto<br />

equivalenti, l’oratore cerca <strong>di</strong> evocare il pericolo della <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>a civile. La famosa<br />

secessione della plebe sul Monte Sacro aveva ottenuto come risultato l’istituzione del<br />

tribunato della plebe; ora, insinua l’oratore, proprio i tribuni hanno forse istigato le<br />

donne: la questione in <strong>di</strong>scussione potrebbe essere soltanto un pretesto, per chissà quali<br />

oscuri e minacciosi fini 98 . La tendenziosità insita nei termini usati da Catone per<br />

98 E’ vero, come osservano i commentatori (v. Briscoe, Commentary on Livy books 34-37, Oxford,<br />

1981, p. 47), che non è verosimile che Catone, homo novus e plebeo, ricorra ad un argomento che<br />

presuppone <strong>di</strong>sapprovazione per le lotte con cui la plebe era giunta all’eguaglianza civile e politica<br />

con i patrizi, costringendoli, con secessiones, ad accipere leges. <strong>Livio</strong> avrebbe cioè attribuito al suo<br />

personaggio, facendogli alludere con <strong>di</strong>sapprovazione alle “se<strong>di</strong>zioni tribunizie” e alle secessiones,


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 80<br />

descrivere il comportamento delle donne verrà denunciata, con garbata ironia, dal<br />

tribuno Valerio 99: “ha definito coetus 100 e se<strong>di</strong>tio, e talvolta secessio delle donne il fatto<br />

che le matrone vi <strong>ab</strong>biano chiesto <strong>di</strong> <strong>ab</strong>rogare una legge, promulgata contro <strong>di</strong> loro in<br />

tempi duri, durante la guerra, ora che siamo in tempo <strong>di</strong> pace, e lo stato è prospero e<br />

fiorente. Queste e altre sono parole altisonanti, quelle che si ricercano, lo so bene, per<br />

esagerare l’importanza della questione: e che Catone sia un oratore non solo potente ma<br />

talvolta anche violento, benché per indole sia mite, lo sappiamo tutti” (34,5,5-6).<br />

Passando a descrivere la reazione <strong>di</strong> uno dei consoli, Catone stesso, allo<br />

sconveniente tumulto <strong>di</strong> donne, l’oratore <strong>di</strong>chiara <strong>di</strong> aver provato vergogna:<br />

prob<strong>ab</strong>ilmente prima <strong>di</strong> tutto come supremo magistrato, che si sente in certo modo<br />

respons<strong>ab</strong>ile <strong>di</strong> quella deplorevole situazione, e poi forse anche come vir, uomo e marito,<br />

rappresentante dell’intera categoria maschile. Il <strong>di</strong>scorsetto, che avrebbe voluto rivolgere<br />

alle donne, viene ora impiegato come un nuovo e più aspro rimprovero ai viri, dopo quello<br />

dell’esor<strong>di</strong>o 101 . Le parole sono deliberatamente offensive. La domanda (retorica) an<br />

blan<strong>di</strong>ores...estis? trasforma una riven<strong>di</strong>cazione collettiva in nulla più che un capriccio,<br />

per sod<strong>di</strong>sfare il quale le donne possono solo ricorrere alle blan<strong>di</strong>tiae, lecite però<br />

unicamente nell’intimità della propria casa, con il proprio marito, non in pubblico e con i<br />

mariti altrui: un comportamento che trasforma le rispett<strong>ab</strong>ili matrone in cortigiane.<br />

Anche questa parziale concessione viene però spazzata via, con il quamquam correttivo:<br />

le donne per bene non devono occuparsi <strong>di</strong> politica.<br />

Il solenne richiamo ai maiores, contrapposti a nos che apre il periodo seguente<br />

(§11), illustra quali siano i fines entro i quali le matrone devono restare, o meglio esser<br />

prontamente fatte rientrare. Il riferimento è confuso e impreciso. L’oratore sovrappone<br />

due <strong>di</strong>versi tipi <strong>di</strong> controllo, quello del tutor e quello dei parenti, come se le donne fossero<br />

contemporaneamente sottoposte ad entrambi. Invece le donne <strong>di</strong> con<strong>di</strong>zione libera, sia<br />

all’epoca cui Catone si riferisce sia all’epoca stessa <strong>di</strong> Catone, erano soggette, come i figli<br />

maschi, alla potestas del pater familias; quando si sposavano, entravano a far parte della<br />

famiglia del marito, cadendo sotto la potestas del pater familias <strong>di</strong> quella (non<br />

necessariamente il marito). Solo quando non era sotto la potestas <strong>di</strong> nessuno la donna<br />

veniva giuri<strong>di</strong>camente sottoposta, per tutta la vita, ad un tutor, del cui consenso aveva<br />

un argomento del tutto inadatto al Catone reale. Si può osservare invece che non è affatto<br />

inverosimile che l’oratore, per ottenere lo scopo che si prefigge e trarre dalla sua parte anche la<br />

componente più conservatrice del pubblico, faccia ricorso ad argomenti in contrasto con le sue<br />

personali convinzioni.<br />

99 Come anche la scarsa pertinenza <strong>di</strong> tutta la parte del <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> Catone non de<strong>di</strong>cata alla<br />

confutazione della proposta: plura verba – osserva Valerio – in castigan<strong>di</strong>s matronis quam in<br />

rogatione nostra <strong>di</strong>ssuadenda consumpsit (34,5,3), “ha speso più parole a biasimare le matrone<br />

che a combattere la nostra proposta”.<br />

100 Il termine compare in 2,3, alla fine dell’esor<strong>di</strong>o, non ancora in riferimento <strong>di</strong>retto alle donne.<br />

101 Anche la contrapposizione singulae / universae rinvia a quella con cui si apre il <strong>di</strong>scorso.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 81<br />

bisogno per tutti gli atti più importanti 102, soprattutto quelli riguardanti il patrimonio<br />

(ven<strong>di</strong>te, acquisti, donazioni, ere<strong>di</strong>tà). Inoltre, la potestas era esercitata sulla donna dal<br />

padre o dal marito (se questi era il pater familias), non mai però – per quanto sappiamo –<br />

dai fratelli. Elencando tutti insieme i <strong>di</strong>versi tipi <strong>di</strong> controllo esercitati dai maiores sulle<br />

donne, e aggiungendone uno inesistente, Catone crea l’impressione che vi fosse una<br />

quantità più grande del vero <strong>di</strong> ostacoli e cautele saggiamente frapposti dagli antichi alle<br />

iniziative delle donne: ciò conferisce risalto alla scandalosa situazione attuale, in cui esse<br />

invece pretendono <strong>di</strong> partecipare a contiones e comitia 103, e gli uomini glielo concedono.<br />

Catone parla come se si fosse deciso non solo <strong>di</strong> ammettere le donne alla contio, ma<br />

anche <strong>di</strong> farle partecipare al voto. Ciò è ovviamente paradossale, in armonia con il tono<br />

generale <strong>di</strong> questa sezione del <strong>di</strong>scorso. Con suadent e censent <strong>di</strong> proposito l’oratore<br />

ricorre a verbi tecnici del linguaggio politico: suadeo (e <strong>di</strong>ssuadeo) in<strong>di</strong>cano l’intervento<br />

pubblico in appoggio a (o contro) una proposta; censeo, seguito dalla perifrastica passiva,<br />

costituisce la formula ufficiale con cui si esprime il proprio parere sulla proposta104, o, in<br />

senato, il proprio voto. Dopo aver detto che si permette alle donne <strong>di</strong> capessere rem<br />

publicam, Catone le descrive come intente ad esercitare i loro nuovi <strong>di</strong>ritti: con suadent le<br />

donne salgono sulla tribuna a parlare davanti alla contio, con censent sono forse<br />

ammesse ad<strong>di</strong>rittura in senato. La descrizione è ovviamente derisoria, e il bersaglio sono<br />

ancora una volta i viri, cui l’oratore rivolge un altro rimprovero, questa volta <strong>di</strong>rettamente<br />

(2,13-3,2), rudemente esortandoli a riprendere, finché sono in tempo, il controllo <strong>di</strong> esseri<br />

irrazionali e ribelli105, che, una volta strappata questa sola concessione, arriveranno a<br />

dominare gli uomini106. L’insistenza, davvero eccessiva, sul pericolo rappresentato dalle<br />

donne mira a far passare in secondo piano la questione specifica in <strong>di</strong>scussione, come se<br />

essa fosse secondaria rispetto alla necessità <strong>di</strong> recuperare prima che sia troppo tar<strong>di</strong> il<br />

102<br />

Tutti naturalmente <strong>di</strong> carattere privato; l’espressione nullam ne privatam quidem rem, cui si<br />

contrappone rem publicam capessere in riferimento alla situazione attuale, amplifica<br />

retoricamente il rigore del controllo esercitato dagli antichi sulle donne, in quanto i soli atti che<br />

esse potevano compiere erano appunto <strong>di</strong> carattere privato. E’ noto che le donne erano<br />

completamente escluse da qualsiasi partecipazione ufficiale alla vita pubblica.<br />

103<br />

La contio è l’assemblea ufficiale del popolo o dell’esercito, convocata per essere informata <strong>di</strong><br />

qualcosa; il comitium è la parte del foro riservata alle adunanze ufficiali, e anche l’adunanza stessa,<br />

investita <strong>di</strong> competenze elettorali, legislative e giu<strong>di</strong>ziarie, convocata da un magistrato in carica e<br />

sud<strong>di</strong>visa per tribù, curie o centurie, a seconda <strong>di</strong> ciò su cui si deve votare. Quella davanti alla<br />

quale Catone tiene il suo <strong>di</strong>scorso è una contio; la votazione che seguirà il giorno successivo<br />

(cf.34,8,1) vedrà il popolo sud<strong>di</strong>viso per tribù, sarà cioè una riunione dei comitia tributa.<br />

104<br />

Si veda la conclusione del <strong>di</strong>scorso: ego nullo modo <strong>ab</strong>rogandam legem Oppiam censeo, 34,4,21.<br />

105<br />

Il quadro delle donne offerto in questa sezione è fatto in termini generali, non riguarda quelle<br />

che si sono radunate nelle vie, ma la natura femminile in quanto tale. I due sostantivi natura e<br />

animal (“essere vivente”, non si tratta <strong>di</strong> un insulto) sono equivalenti; gli aggettivi che li<br />

qualificano contrappongono invece il dominio esercitato su se stessi (impotens, che può però<br />

significare anche “prepotente”), <strong>di</strong> cui le donne sono incapaci, a quello imposto da altri (indomitus),<br />

cui le donne tendono a ribellarsi.<br />

106<br />

Si noti la correctio in omnium rerum libertatem, immo licentiam, giacché il termine libertas ha<br />

una connotazione generalmente positiva.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 82<br />

predominio maschile. In realtà Catone non <strong>di</strong>spone <strong>di</strong> argomenti veramente persuasivi<br />

contro la proposta <strong>di</strong> <strong>ab</strong>rogazione.<br />

Tractatio 2. La legge è utile allo stato (3,3-5). La sezione, assai più breve,<br />

de<strong>di</strong>cata alla lex Oppia si apre con la figura retorica dell’occupatio: la frase at<br />

hercule...deprecantur espone il punto <strong>di</strong> vista dei sostenitori dell’<strong>ab</strong>rogazione e dei <strong>di</strong>ritti<br />

delle donne, contrapponendo iniuria a ius. La risposta dell’oratore è sostenuta e solenne.<br />

Notiamo l’anafora <strong>di</strong> quam, la ripetizione <strong>di</strong> legem, e soprattutto il nesso asindetico<br />

accepistis iussistis, che richiama la formula con cui il magistrato che presiedeva<br />

l’assemblea invitava il popolo a votare: velitis iubeatis –sc. rogo - , cui seguiva il testo<br />

della proposta oggetto della votazione 107. Il passaggio dalla singola legge, che il popolo ha<br />

votato e che non deve essere cancellata, alle considerazioni <strong>di</strong> carattere generale avviene<br />

per mezzo <strong>di</strong> una massima: nulla lex satis commoda omnibus est (§5). Lo stile dell’oratore<br />

prosegue enfatico e solenne; si noti l’interrogatio retorica quid attinebit...?, l’allitterazione<br />

in destruet ac demolietur, che, insieme al significato dei verbi, che evocano scene <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>struzione e rovina, concorre a sottolineare l’inau<strong>di</strong>ta gravità del principio che, a <strong>di</strong>re<br />

dell’oratore, si rischierebbe <strong>di</strong> introdurre, minando la saldezza dell’intera legislazione. Il<br />

tribuno Valerio (34,6,4 ss.) confuta questo argomento tracciando una <strong>di</strong>stinzione fra le<br />

leges che non in tempus aliquod sed perpetuae utilitatis causa in aeternum latae sunt e<br />

quelle che, richieste da circostanze particolari, si possono definire mortales, e possono e<br />

107 V. Gellio, 5,19,9. La formula in questo caso sottopone all’approvazione del popolo il passaggio<br />

<strong>di</strong> una persona dalla propria ad un’altra familia, con l’adozione detta adrogatio (quella, appunto,<br />

che avviene per populi rogationem): Eius rogationis verba haec sunt: 'Velitis iubeatis, uti L. Valerius<br />

L. Titio tam iure legeque filius siet [=sit], quam si ex eo patre matreque familias eius natus esset,<br />

utique ei vitae necisque in eum potestas siet, uti patri endo [=in] filio est. Haec ita, uti <strong>di</strong>xi, ita vos,<br />

Quirites, rogo.', “Le parole <strong>di</strong> questa consultazione sono le seguenti: ‘Se vogliate e or<strong>di</strong>niate che<br />

Lucio Valerio <strong>di</strong>venti figlio <strong>di</strong> Lucio Tizio per <strong>di</strong>ritto e secondo la legge, come se fosse nato da quel<br />

padre e dalla moglie <strong>di</strong> lui, e che egli (sc. Lucio Tizio) <strong>ab</strong>bia su <strong>di</strong> lui <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> vita e <strong>di</strong> morte, come<br />

lo ha un padre sul proprio figlio. Questo, Quiriti, così come ho detto, chiedo a voi’ ”. Identica è la<br />

formula ricordata da <strong>Livio</strong> per la rogatio relativa all’inchiesta sulla pecunia regis Antiochi, in 38,54,<br />

3-4: Fuit autem rogatio talis: 'Velitis iubeatis, Quirites, quae pecunia capta <strong>ab</strong>lata coacta <strong>ab</strong> rege<br />

Antiocho est quique sub imperio eius fuerunt, quod eius in publicum relatum non est, uti de ea re Ser.<br />

Sulpicius praetor urbanus ad senatum referat, quem eam rem velit senatus quaerere de iis, qui<br />

praetores nunc sunt.' , “La consultazione fu <strong>di</strong> questo tenore: ‘Se vogliate e or<strong>di</strong>niate, Quiriti, che<br />

del denaro preso, sottratto, ricavato dal re Antioco e da quanti erano sotto il suo dominio, per<br />

quella parte <strong>di</strong> esso che non è stata versata all’erario, il pretore urbano Servio Sulpicio riferisca al<br />

senato, perché il senato decida a quale dei pretori in carica assegnare l’inchiesta’ ”. La formula<br />

velitis iubeatis si conserva anche nella interrogativa <strong>di</strong>retta, v. <strong>Livio</strong> 22,10,2 (dopo la sconfitta del<br />

Trasimeno): Rogatus in haec verba populus: ‘Velitis iubeatisne haec sic fieri? Si res publica populi<br />

Romani Quiritium ad quinquennium proximum [...] salva servata erit ...’, “Il popolo fu consultato<br />

con queste parole: ‘Volete e or<strong>di</strong>nate che si faccia così? Se lo stato del popolo romano dei Quiriti<br />

per i prossimi cinque anni [...] si manterrà sano e salvo...’ ”. Si tratta della promessa in voto <strong>di</strong> un<br />

ver sacrum, cioè del sacrificio delle primizie <strong>di</strong> tutte le greggi: la formulazione del voto è molto<br />

lunga, per questo prob<strong>ab</strong>ilmente viene sintatticamente svincolata dalla <strong>di</strong>pendenza da velitis<br />

iubeatis.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 83<br />

debbono essere <strong>ab</strong>rogate, quando non sussistono più i motivi contingenti che le hanno<br />

causate; la lex Oppia, sostiene persuasivamente, fa parte <strong>di</strong> questa seconda categoria <strong>di</strong><br />

leggi.<br />

Tractatio 3. I motivi delle donne sono cattivi (3,6-9). Con finta<br />

con<strong>di</strong>scendenza, con un atteggiamento ostentatamente aperto e tollerante (volo tamen<br />

au<strong>di</strong>re...), Catone prende ora in considerazione le ragioni <strong>di</strong> quella parte della popolazione<br />

cui la legge reca danno, per <strong>di</strong>mostrare che tali ragioni – che non devono in ogni caso mai<br />

prevalere sull’interesse della maggioranza e dello stato nel suo complesso, come l’oratore<br />

ha appena detto – non sono né valide né serie. Per <strong>di</strong>mostrare quanto scandalosamente<br />

frivoli e biasimevoli siano i motivi che hanno indotto le matrone ad uscire per le strade,<br />

Catone ricorre ad exempla storici. Ricorda, nella forma enfatica della interrogatio retorica,<br />

altre due occasioni, risalenti entrambe alla seconda guerra punica, in cui le donne<br />

avevano <strong>ab</strong>bandonato, come ora, il loro consueto riserbo, per scopi tuttavia ben più seri.<br />

Il primo, narrato da <strong>Livio</strong> in 22, 58-61, riguarda il riscatto dei prigionieri catturati<br />

da Annibale dopo la battaglia <strong>di</strong> Canne. E’ vero che in quella circostanza feminas quoque<br />

metus ac necessitas in foro turbae virorum miscuerat (22,60,1); ma anche la turba virorum,<br />

costituita dai parenti dei prigionieri, non <strong>di</strong>versamente dalle feminae, aveva fatto<br />

pressioni sul senato perché accettasse la proposta <strong>di</strong> Annibale. La decisione presa infine<br />

dal senato, <strong>di</strong> non pagare il riscatto, era stata molto sofferta, e preceduta da una lunga<br />

<strong>di</strong>scussione. La versione che Catone offre <strong>di</strong> quella vicenda contrappone invece le donne<br />

a tutti gli altri, come se esse soltanto avessero avuto a cuore il riscatto dei loro congiunti.<br />

Con negastis poi egli si rivolge a tutto il popolo presente, con una duplice alterazione dei<br />

fatti: non solo molti, come si è detto, avevano appoggiato e con<strong>di</strong>viso le preghiere delle<br />

donne, ma la decisione era stata presa dal solo senato, non era stata sottoposta al voto<br />

popolare.<br />

Il secondo episo<strong>di</strong>o, che non necessita <strong>di</strong> essere alterato agli scopi dell’oratore,<br />

corrisponde nella sostanza al racconto che <strong>Livio</strong> ne fa in prima persona108: nel 204, per<br />

propiziare la vittoria, in ossequio ad una in<strong>di</strong>cazione tratta dai Libri Sibillini e confermata<br />

e precisata dal responso dell’oracolo <strong>di</strong> Delfi, il simulacro della Magna Mater Cìbele era<br />

stato solennemente trasportato, per concessione del re Attalo <strong>di</strong> Pergamo, a Roma da<br />

Pessinunte in Frigia, dove sorgeva un importante tempio della dea ed era conservata la<br />

pietra sacra che la rappresentava. Il compito <strong>di</strong> accogliere degnamente e custo<strong>di</strong>re la dea<br />

108 In 29,10,4-11,8 e 14, 5-14


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 84<br />

in forma <strong>di</strong> pietra era stato assegnato, secondo la prescrizione dell’oracolo 109, a Scipione,<br />

accompagnato da tutte le matrone fin sul lido <strong>di</strong> Ostia. Il breve riferimento che Catone fa<br />

alla vicenda è limitato alla partecipazione delle matrone, ma è corretto.<br />

Nel <strong>di</strong>scorso attribuito al tribuno Valerio <strong>Livio</strong> inserisce un numero maggiore <strong>di</strong><br />

exempla <strong>di</strong> questo tipo. Che cosa c’è <strong>di</strong> inconsueto, argomenta persuasivamente il<br />

tribuno, se le donne si sono mostrate in pubblico, per una questione che <strong>di</strong>rettamente le<br />

riguarda? Lo hanno fatto spesso in passato, e sempre nell’interesse dello stato (34,5,7); il<br />

tribuno passa quin<strong>di</strong> in rassegne altre occasioni in cui le matrone in publico<br />

apparuerunt 110 . Fingendo <strong>di</strong> ricavare gli esempi proprio dalle Origines <strong>di</strong> Catone 111 ,<br />

Valerio ne trae una conclusione opposta: “Ciò che nessuno si è scandalizzato le donne<br />

facessero a vantaggio <strong>di</strong> tutti, ora ci scandalizziamo lo facciano per una cosa che le<br />

riguarda? [...] I padroni ascoltano le preghiere dei loro servi, e noi ci in<strong>di</strong>gniamo che<br />

donne rispett<strong>ab</strong>ili ci rivolgano una richiesta?” (34,5,12-13)<br />

Catone invece, ovviamente, sfrutta ai propri fini il contrasto fra l’importanza delle<br />

occasioni che ha ricordato e i motivi biasimevoli che ora animano la rivolta delle donne112, mettendo in bocca a loro stesse una <strong>di</strong>chiarazione sfacciata e arrogante. Esse sono<br />

rappresentate come intente a celebrare il trionfo sulla legge <strong>ab</strong>rogata: quella carrozza il<br />

cui uso la legge aveva loro vietato equivale al carro del generale vittorioso; l’oro e la<br />

porpora sono i medesimi che adornano il mantello del generale che celebra il trionfo. La<br />

coppia “oro e porpora” compare due volte nei frammenti <strong>di</strong> Catone113, e ben tre114 nel<br />

<strong>di</strong>scorso el<strong>ab</strong>orato da <strong>Livio</strong> per il suo personaggio: è prob<strong>ab</strong>ile che lo storico tragga il<br />

nesso dalle opere <strong>di</strong> Catone, e lo impieghi per echeggiare il suo stile, il suo modo <strong>di</strong><br />

tuonare contro il lusso. Le rovinose conseguenze dell’<strong>ab</strong>rogazione della legge, fatte<br />

esprimere dalle donne stesse (ne ullus modus sumptibus, ne luxuriae sit, § 9), offrono il<br />

109<br />

Naturalmente l’oracolo, secondo le sue consuetu<strong>di</strong>ni, non aveva in<strong>di</strong>cato Scipione per nome, ma<br />

aveva prescritto che a prendersi cura della dea fosse il vir optimus <strong>di</strong> cui Roma <strong>di</strong>sponeva; e i<br />

senatori Publium Scipionem [...] iu<strong>di</strong>caverunt in tota civitate virum bonorum optimum esse, 39,14,8.<br />

110<br />

In 34,5,8-10 sono ricordati, oltre al secondo degli exempla <strong>di</strong> Catone, questi episo<strong>di</strong>: l’intervento<br />

durante il proelium fra Romani e S<strong>ab</strong>ini, intercursu matronarum [...] sedatum (in questo caso in<br />

verità le donne erano s<strong>ab</strong>ine e non romane); quello per <strong>di</strong>stogliere Coriolano dal proposito <strong>di</strong><br />

marciare contro Roma alla testa dei Volsci; l’offerta dell’oro allo stato per riscattare la città<br />

conquistata dai Galli (evidentemente anche Valerio sapeva che il riscatto era stato pagato); l’aiuto<br />

offerto durante la seconda punica all’erario esausto dalle vedove che offrirono il loro denaro.<br />

111<br />

Tuas adversus te Origines revolvam, <strong>di</strong>chiara Valerio (34,5,7). L’espe<strong>di</strong>ente è felice e molto<br />

efficace, ma cronologicamente errato: nell’anno del suo consolato Catone non aveva ancora<br />

composto, e forse neppure progettato, la sua opera storica, cui si de<strong>di</strong>cò nella vecchiaia, come si<br />

apprende da Cornelio Nepote (Senex historias scribere instituit, Cato, 3,3): dunque dopo il 174,<br />

poiché gli antichi facevano generalmente iniziare la senectus a 60 anni.<br />

112<br />

Contrasto sottolineato dall’impiego dal medesimo tipo <strong>di</strong> proposizione: ut [...] fulgamus e ut [..]<br />

vectemur , come sopra ut captivi...re<strong>di</strong>mantur.<br />

113<br />

Origines, fr. 113 Peter: mulieres opertae auro purpuraque; orat.rel fr. 172 Sblendorio Cugusi (=<br />

224 Malcovati): fures privatorum furtorum in nervo atque in compe<strong>di</strong>bus aetatem agunt, fures<br />

publici in auro atque in purpura.<br />

114<br />

34,3,9; 4,10 e 14.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 85<br />

passaggio al punto successivo, in cui il <strong>di</strong>scorso si allontana alquanto dal tema specifico,<br />

per trattare, in una sorta <strong>di</strong> <strong>di</strong>gressione, della generale corruzione dei mores, provocata e<br />

favorita dall’accresciuto benessere materiale, uno dei temi cari al Catone reale.<br />

Tractatio 4. Digressione (4,1-11) <strong>Livio</strong> attribuisce al suo personaggio un<br />

richiamo, molto verosimile, alle molte occasioni in cui già i Romani avevano avuto<br />

occasione <strong>di</strong> u<strong>di</strong>re <strong>di</strong>scorsi <strong>di</strong> Catone in deplorazione <strong>di</strong> avaritia e luxus, capaci <strong>di</strong><br />

mandare in rovina omnia magna imperia (un’altra massima sentenziosa), e introdotti in<br />

Roma dalle inlecebrae e dalle gazae <strong>di</strong> Grecia e d’Asia. In realtà, nel momento in cui<br />

Catone parla, l’Asia non era respons<strong>ab</strong>ile <strong>di</strong> nessuno dei mali lamentati dall’oratore:<br />

nessun esercito romano aveva ancora messo le mani sui tesori orientali, giacché la prima<br />

spe<strong>di</strong>zione in Asia, quella contro Antioco, avvenne soltanto cinque anni più tar<strong>di</strong>. <strong>Livio</strong><br />

non si cura tanto dell’esattezza cronologica, quanto piuttosto <strong>di</strong> assegnare al suo<br />

personaggio un argomento topico ben appropriato a questo contesto. L’Asia era da<br />

sempre considerata – già dai Greci – il luogo della vita molle e <strong>di</strong>ssoluta, corrotta e<br />

corruttrice; e un luogo comune della storiografia romana consisteva nell’in<strong>di</strong>care il<br />

momento preciso in cui la corruzione era entrata in Roma, minando con l’avaritia e la<br />

luxuria 115 la compatta saldezza dei mores antiqui. La data varia sensibilmente da un<br />

autore all’altro116, ma è significativo che un ruolo importante nel processo <strong>di</strong> corruzione<br />

sia sempre attribuito all’Asia, che fa conoscere ai rozzi e virtuosi Romani un sistema <strong>di</strong><br />

vita più piacevole, rendendoli sensibili e soggetti al fascino pericoloso delle raffinatezze,<br />

degli oggetti preziosi, delle opere d’arte. Quest’ultimo tema (le opere d’arte) viene svolto<br />

da Catone in riferimento ad un’epoca più antica, quella della conquista <strong>di</strong> Siracusa nel<br />

212, quando Marcello fece portare a Roma da quella città molte statue <strong>di</strong> dèi, togliendole<br />

sacrilegamente dai loro templi. La vendetta degli dèi ostili consisterebbe, secondo<br />

l’oratore, nell’aver ispirato ai Romani <strong>di</strong>sprezzo per le antiche immagini in terracotta (o in<br />

115 Si veda, per l’accostamento dei due concetti, l’analoga formulazione <strong>di</strong> Sallustio, Cat. 5,8:<br />

pessuma ac <strong>di</strong>vorsa inter se mala, luxuria atque avaritia; anche <strong>Livio</strong>, in praef. 12 menziona questi<br />

due vizi, ma per rilevare quanto a lungo Roma ne fu immune.<br />

116 Una parte della tra<strong>di</strong>zione annalistica, e <strong>Livio</strong> stesso (39,6,7) in<strong>di</strong>cano il ritorno dell’esercito<br />

romano dalla spe<strong>di</strong>zione vittoriosa contro Antioco III <strong>di</strong> Siria come la causa dell’aumento della<br />

luxuria. Sallustio (Cat. 10,1-6) in<strong>di</strong>vidua il punto <strong>di</strong> partenza del processo <strong>di</strong> corruzione nella<br />

<strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> Cartagine, nel 146, e il punto d’arrivo nel ritorno dall’Asia dell’esercito <strong>di</strong> Silla,<br />

nell’88, dopo la vittoria su Mitridate (Cat. 11,5-6). Così Sallustio descrive la perniciosa influenza<br />

esercitata dai luoghi sui soldati, già guastati dall’allentamento della <strong>di</strong>sciplina permesso da Silla<br />

per legare a sè l’esercito: “I luoghi attraenti e ricchi <strong>di</strong> allettamenti facilmente avevano<br />

nell’inattività reso fiacchi gli animi fieri dei soldati: qui per la prima volta l’esercito romano si<br />

avvezzò alla compagnia <strong>di</strong> concubine e alle gozzoviglie, imparò ad ammirare statue, quadri, vasi<br />

cesellati, e a farne razzìa in luoghi privati e pubblici, e a spogliare i santuari, e a contaminare ogni<br />

cosa, sacra e profana”.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 86<br />

legno) delle <strong>di</strong>vinità, primo segno <strong>di</strong> ce<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> fronte alla luxuria, che porterà con sé<br />

anche l’ammirazione per gli ornamenta <strong>di</strong> Corinto e <strong>di</strong> Atene 117.<br />

Ad un’epoca ancora più antica (280) riporta la menzione <strong>di</strong> Pirro: dopo la battaglia<br />

<strong>di</strong> Eraclea egli tentò <strong>di</strong> intavolare con il senato trattative <strong>di</strong> pace; i doni offerti erano un<br />

tentativo <strong>di</strong> far pressione perché il senato accogliesse la proposta <strong>di</strong> pace, e furono<br />

effettivamente offerti anche alle donne, come riferiscono altre fonti 118 , e tutti<br />

in<strong>di</strong>stintamente, uomini e donne, li rifiutarono. Catone ovviamente ha interesse a<br />

prendere in considerazione solo il rifiuto delle donne <strong>di</strong> allora, per contrapporlo più<br />

avanti (4,11) all’opposto comportamento attuale (solo immaginato). Il confronto, molto<br />

tendenzioso, è posto a conclusione <strong>di</strong> una analisi delle ragioni della incorruttibilità delle<br />

donne romane <strong>di</strong> un tempo, corredata da un paragone <strong>di</strong> tono sentenzioso (sicut ante<br />

morbos...§ 8) e da due nuovi exempla storici, che tendono a presentare tutte le<br />

<strong>di</strong>sposizioni <strong>di</strong> legge (dunque anche la lex Oppia) come introdotte per frenare pericolose e<br />

già <strong>di</strong>laganti deviazioni dal retto comportamento119. Tractatio 5 Conseguenze dell’<strong>ab</strong>rogazione della legge (4,12-18). Dopo la<br />

parentesi costituita dalla deplorazione moralistica della corruzione dei costumi, Catone<br />

torna a considerare la situazione presente, per mostrare quanto siano meschini i motivi<br />

veri e taciuti della richiesta delle donne. Per la prima volta l’oratore non le considera più<br />

tutte insieme, come ostinatamente concor<strong>di</strong> nella biasimevole richiesta, ma da questo<br />

punto in avanti le sud<strong>di</strong>vide in due gruppi: le povere (invi<strong>di</strong>ose e sciocche) e le ricche<br />

(superbe). Alla dubbia consolazione che può offrire alle povere (la legge vi vieta <strong>di</strong> avere<br />

ciò che non potreste comunque avere, e dunque non avete motivo <strong>di</strong> protestare), Catone<br />

premette un severo richiamo ai valori positivi della parsimonia e della paupertas120, <strong>di</strong> cui<br />

nessuno deve provar vergogna. Ben comprensibile è invece la protesta delle ricche, che<br />

vorrebbero finalmente tornare a <strong>di</strong>stinguersi dalle povere; Catone fa esprimere questa<br />

117<br />

Non ancora conquistate nel 195, ma conosciute dai Romani durante la seconda guerra<br />

macedonica.<br />

118<br />

Plutarco, Pirro, 18,4; Valerio Massimo 4,3,14.<br />

119<br />

Entrambe le leggi menzionate venivano spesso aggirate. La lex Licinia (una delle leggi Licinie-<br />

Sestie del 367) fissava un limite all’estensione degli appezzamenti <strong>di</strong> ager publicus che ogni privato<br />

poteva occupare; la cifra <strong>di</strong> 500 iugeri è però da riferire certamente ad un’epoca successiva,<br />

poiché nel 367 Roma non <strong>di</strong>sponeva ancora <strong>di</strong> terra conquistata <strong>di</strong> estensione compatibile con tale<br />

cifra. La lex Cincia, proposta da Marco Cincio Alimento, tribuno della plebe, e approvata nel 205,<br />

vietava agli avvocati <strong>di</strong> percepire compensi per <strong>di</strong>fendere un imputato in un processo o assistere<br />

un cliente in una causa civile, e forse anche semplicemente per dare consigli legali: sembra poco<br />

verosimile infatti che i plebei dovessero ricorrere così spesso alle prestazioni <strong>di</strong> un avvocato in<br />

tribunale da <strong>di</strong>ventare “tributari fissi” del senato. Erano naturalmente solo i senatori, oratori ed<br />

esperti <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto, a poter offrire queste prestazioni. La lex Cincia fu <strong>ab</strong>rogata solo nel 47 d.C.,<br />

dall’imperatore Clau<strong>di</strong>o (Tacito, ann.11,5-7).<br />

120<br />

Il termine in<strong>di</strong>che la modestia <strong>di</strong> mezzi, non la povertà, l’in<strong>di</strong>genza (egestas).


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 87<br />

meschina e malevola motivazione <strong>di</strong>rettamente da una rappresentante della categoria,<br />

con un altro breve brano in <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>retto.<br />

Avviandosi a concludere il suo <strong>di</strong>scorso, l’oratore torna a rivolgersi ai viri che si<br />

apprestano ad andare a votare, con l’appellativo ufficiale <strong>di</strong> Quirites, e prospetta loro le<br />

conseguenze rovinose che l’<strong>ab</strong>rogazione della legge produrrebbe: liti domestiche e la<br />

rovina economica. Ritorna in questa sezione finale l’espressione ambigua alieni viri<br />

(“uomini estranei” e “mariti altrui”) già usata in 2,9, che implicitamente equiparava le<br />

matrone scese in piazza a cortigiane: essa funge da rinvio al tema della prima parte del<br />

<strong>di</strong>scorso, il biasimo per i viri che non impe<strong>di</strong>scono alle loro donne <strong>di</strong> tenere un<br />

comportamento tanto sconveniente. Ma il tema principale della sezione finale è un altro,<br />

e l’oratore si impegna a <strong>di</strong>mostrare che, una volta cancellata la legge, sia cedere ai<br />

capricci delle donne sia non cedere sarà egualmente rovinoso. Molto efficace è, alla fine<br />

del § 4,18, il passaggio ai verbi al singolare (es; facies), come se l’oratore volesse rivolgersi<br />

personalmente a ciascuno degli ascoltatori.<br />

Conclusio (4,19-21). Un breve riepilogo degli argomenti principali e la mozione<br />

degli affetti dovevano, secondo le norme dei retori, concludere il <strong>di</strong>scorso. La piana<br />

asserzione che l’<strong>ab</strong>rogazione della legge non riporterà la situazione nelle con<strong>di</strong>zioni<br />

precedenti (che vale come succinto riepilogo dei temi svolti, soprattutto nell’ampia<br />

<strong>di</strong>gressione sulla corruzione dei mores) è rafforzata da due massime <strong>di</strong> tono sentenzioso,<br />

ben adatte a caratterizzare l’oratore. La mozione degli affetti è affidata invece alla<br />

personificazione della luxuria, che si scatenerà come una bestia feroce non appena sarà<br />

liberata dai vincula della legge.<br />

La formulazione ufficiale della proposta dell’oratore, e il convenzionale, solenne<br />

richiamo agli dèi chiudono il <strong>di</strong>scorso.


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 88<br />

Bibl. consultata<br />

R.M. OGILVIE, A Commentary on Livy. Books I-V, Oxford, 1965<br />

S.P. OAKLEY, A Commentary on Livy. Books I-X: vol I, Oxford, 1997 (VI); vol. II 1998 (VII-<br />

VIII); vol. III 2005 (IX).<br />

J. BRISCOE, A Commentary on Livy, Oxford, 1973 (XXXI-XXXIII); 1981 (XXXIV-XXXVII);<br />

2008 (XXXVIII-XL)<br />

M. MAZZA, Storia e ideologia in <strong>Livio</strong>, Catania, 1966<br />

M.A.S. ROBBINS, Heroes and Man in Livy 1-10, Ann Arbor (Michigan), 1968<br />

P.G. WALSH, Livy. His Historical Aims and Methods, Cambridge, 1970<br />

G. CIPRIANI, L’epifania <strong>di</strong> Annibale, Adriatica ed., 1984<br />

J. FRIES, Der Zweikampf. Historische und literarische Aspekte seiner Darstellung bei T.<br />

Livius, Hain, 1985<br />

T.J. MOORE, Artistry and Ideology: Livy’s Voc<strong>ab</strong>ulary of Virtue, Frankfurt am Main, 1989<br />

D.S. LEVENE, Religion in Livy, Leiden, 1993<br />

R. CHEVALLIER et R. POIGNAULT (a cura <strong>di</strong>), Presence de Tite-Live. Hommage au<br />

Professeur P. Jal, Tours, 1994.<br />

G.B. MILES, Livy. Reconstructing Early Rome, Ithaca and London, 1995<br />

G.FORSYTHE, Livy and Early Rome, Stuttgart, 1999


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 89<br />

INDICE<br />

NOTIZIE SULL’AUTORE. ATTIVITÀ LETTERARIA p. 2<br />

Data <strong>di</strong> nascita p. 2<br />

Morte p. 3<br />

Opere filosofiche p. 3<br />

Opinioni sullo stile p. 3<br />

Rapporti con Augusto p. 5<br />

Con<strong>di</strong>zione sociale ed educazione p. 6<br />

Patavinitas p. 6<br />

Composizione dell’opera storica p. 6<br />

Libri conservati e periǒchae p. 7<br />

GLI AB URBE CONDITA LIBRI p. 9<br />

<strong>Tito</strong>lo p. 9<br />

Fonti documentarie p. 9<br />

Fonti letterarie e metodo del loro impiego p. 12<br />

CARATTERI IDEOLOGICI DELLA STORIA DI LIVIO p. 14<br />

Religione: pietas e fides p. 14<br />

Politica interna p. 19<br />

Politica estera e guerra p. 23<br />

Vita privata p. 27<br />

LA PREFAZIONE p. 29<br />

§§ 1-2 p. 30<br />

§ 3 p. 31<br />

§ 4 p. 32<br />

§ 5 p. 32<br />

§ 6 p. 34<br />

§§ 7-9 p. 35<br />

§ 10 p. 38<br />

§§ 11-12 p. 38<br />

§ 13 p. 41<br />

IL PRIMO LIBRO. STORIA DELLA MONARCHIA p. 42<br />

IL REGNO DI ROMOLO p. 42<br />

Il sinecismo s<strong>ab</strong>ino. Prima fase: il ratto (1,9) p. 44<br />

Seconda fase. Il tempio <strong>di</strong> Giove Feretrio. (1,10-11,4) p. 45<br />

Terza fase. La guerra contro i S<strong>ab</strong>ini (1, 11,5-13) p. 47<br />

MARCO FURIO CAMILLO p. 53<br />

Asse<strong>di</strong>o e resa <strong>di</strong> Faleri (5,26,9-27) p. 54<br />

Camillo e i Galli (5,47-49) p. 56<br />

NOVA AC NIMIS CALLIDA SAPIENTIA (42,47) p. 58<br />

DUELLI p. 61<br />

Il duello <strong>di</strong> <strong>Tito</strong> Manlio Torquato contro un Gallo (7,9-11,1) p. 62<br />

Cenni ad altri duelli p. 65


Letteratura latina B a.a. 2008-2009 mod. 2. Appunti delle lezioni 90<br />

L’ INIZIO DELLA TERZA DECADE p. 68<br />

Prefazione. Il giuramento <strong>di</strong> Annibale (21,1) p. 69<br />

Ritratto <strong>di</strong> Annibale (21,4) p. 72<br />

DISCORSO DI CATONE CONTRO L’ABROGAZIONE DELLA LEX OPPIA (34,2-4) p. 76<br />

Esor<strong>di</strong>o (2,1-3) p. 78<br />

Tractatio 1 La consternatio muliebris (2,4-3,2) p. 79<br />

Tractatio 2. La legge è utile allo stato (3,3-5) p. 82<br />

Tractatio 3. I motivi delle donne sono cattivi (3,6-9) p. 83<br />

Tractatio 4. Digressione (4,1-11) p. 85<br />

Tractatio 5 Conseguenze dell’<strong>ab</strong>rogazione della legge (4,12-18) p. 86<br />

Conclusio (4,19-21) p. 87<br />

Bibliografia consultata p. 88

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