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Archivio civile - La Tribuna

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giate in cui è insita o delle caratteristiche dei mezzi adoperati.<br />

Il criterio suindicato trova per il DI MARTINO (Responsabilità<br />

<strong>civile</strong> per l’esercizio di attività pericolosa, Giuffrè<br />

1979, p. 94) piena e sufficiente giustificazione dal momento<br />

che «ove il giudice valuti adeguatamente una attività per la<br />

sua natura e le sue componenti modali, la qualificazione<br />

stessa, ai fini dell’art. 2050 c.c., non potrà che risultare corretta<br />

indipendentemente dall’utilizzo di schemi fissi di riferimento<br />

quali quelli stabiliti da normative particolari».<br />

Il GERACI (Premessa allo studio per un inquadramento<br />

della responsabilità <strong>civile</strong> per esercizio di attività pericolosa,<br />

in Arch. resp. civ. 1972, p. 31), invece, è alquanto scettico<br />

circa l’importanza dei due parametri cui frequentemente<br />

si fa riferimento – pericolosità intrinseca o relativa ai<br />

mezzi di lavoro impiegati – poiché ritiene che la casistica<br />

non possa fare a meno di offrire spunti per considerazioni<br />

frammentarie e per cogliere dissonanze a volte interessanti<br />

fra decisioni su situazioni analoghe, di talché non possono<br />

trarsi al definitivo principi fissi validi per ogni tempo.<br />

Né si può guardare all’evento dannoso per dedurne la pericolosità<br />

della attività in occasione della quale si è verificato<br />

il sinistro, atteso che esso non può essere indice di per<br />

sé di pericolosità della attività poiché ci troveremmo di<br />

fronte ad un giudizio a posteriori: la pericolosità deve cioè<br />

essere insita nella attività e non essere desunta dal risultato<br />

dannoso, poiché la «potenzialità di danno» – e cioè la notevole<br />

possibilità del verificarsi di un evento dannoso – non<br />

è certamente un giudizio a posteriori desumbile dai risultati,<br />

ma una valutazione del tutto preventiva, oltre la quale,<br />

comunque, riteniamo di poter andare, come in appresso vedremo.<br />

D’altronde è la stessa Corte di cassazione ad affermare<br />

che «ai fini dell’accertamento della responsabilità di cui<br />

all’art. 2050 c.c., il giudizio sulla pericolosità della attività<br />

– ossia su quella attività che, per sua natura o per i mezzi<br />

impiegati, renda probabile, e non semplicemente possibile,<br />

il verificarsi dell’evento dannoso, distinguendosi, così,<br />

dall’attività normalmente innocua, che diventi pericolosa<br />

per la condotta di chi la eserciti, comportando la responsabilità<br />

secondo la regola generale di cui all’art. 2043 c.c. –<br />

va espresso non sulla base dell’evento dannoso effettivamente<br />

verificatosi, bensì, attraverso una prognosi postuma,<br />

sulla base delle circostanze di fatto che si presentavano al<br />

momento stesso dell’esercizio dell’attività ed erano riconoscibili<br />

dall’uomo medio o, comunque, dovevano essere conosciute<br />

dall’agente in considerazione del tipo di attività<br />

esercitata; tale valutazione, nel caso in cui non sia stata<br />

compiuta direttamente dal legislatore, è rimessa all’apprezzamento<br />

del giudice del merito ed è insindacabile in sede di<br />

legittimità se adeguatamente e logicamente motivata»<br />

(Cass. civ., sez. III, 30 agosto 1995, n. 9205).<br />

E ad una valutazione preventiva guardava pure a suo<br />

tempo il DI MARTINO (Responsabilità per danno da attività<br />

pericolosa e responsabilità per danni nell’esercizio di attività<br />

pericolose, Giuffrè 1979, p. 973), ma da una diversa angolatura.<br />

Invero, questo Autore, sia per giungere ad una precisa<br />

definizione di attività pericolosa sia per motivare l’impostazione<br />

data dal nostro legislatore con l’art. 2050 c.c. ai criteri<br />

che debbono presiedere al risarcimento dei danni prodotti<br />

dall’esercizio di una attività pericolosa, finiva col<br />

sostenere che l’attività, in quanto pericolosa sembra possedere<br />

per sé stessa una intrinseca energia, un’autonoma po-<br />

DOTTRINA 5<br />

tenzialità dannosa, preventivamente ineliminabile da parte<br />

del soggetto che esercita l’attività stessa, al pari delle entità<br />

autonomamente agenti in senso materiale. Ma per questo<br />

percorso il danno derivante in via diretta dalla pericolosità<br />

dell’attività svolta – ineliminabile da parte del soggetto che<br />

la esercita – non sarebbe necessariamente mai legato in<br />

qualsiasi caso ad una negligenza del medesimo soggetto, e<br />

sarebbe normalmente una conseguenza materiale oggettiva<br />

della stessa pericolosità: con il che si dovrebbe concludere<br />

che la pericolosità di una attività sia l’attitudine della attività<br />

stessa a produrre danni.<br />

Viene spontanea allora una domanda: se la pericolosità<br />

di una certa attività è ineliminabile che senso pratico ha la<br />

previsione normativa di una possibile prova «di avere adottato<br />

tutte le misure idonee ad evitare il danno» (art. 2050<br />

c.c.).<br />

Dato interessante, però, in questa impostazione, l’implicito<br />

ritorno ad un concetto di potenzialità di danno dal quale<br />

partiremo per arrivare a quello di probabilità di danno, e<br />

cioè di alea.<br />

Ma, al di là di questo, non vediamo come si possa affermare<br />

che la pericolosità sta ad indicare la impossibilità di<br />

adottare misure preventive tali da escludere del tutto l’evenienza<br />

di danno o in buona misura la possibilità di danno:<br />

le misure cautelative potrebbero riuscire soltanto, secondo<br />

questa teoria, ad attenuare la pericolosità, ma non ad escludere<br />

del tutto il rischio.<br />

Il che ci lascia perplessi.<br />

Che una misura preventiva non sia tale da escludere matematicamente<br />

sempre al cento per cento in determinate situazioni<br />

la possibilità del verificarsi di un evento dannoso<br />

appare pure a noi concretamente una affermazione fondata<br />

poiché anche le tecniche più collaudate e sofisticate lasciano<br />

pur sempre un margine modesto all’imponderabilità;<br />

ma da qui ad affermare che la pericolosità di una attività<br />

corrisponde solo e sempre alla impossibilità di adottare misure<br />

preventive tali da escludere del tutto – o almeno in<br />

buona misura di probabilità – l’evenienza di un evento dannoso<br />

il passo ci appare notevole.<br />

Arriveremmo infatti allora ad un risultato aberrante riconoscendo<br />

che mai si può avere la certezza matematica<br />

dell’efficacia integrale delle misure preventive: saremmo di<br />

fronte sempre e soltanto ad attività pericolose senza possibilità<br />

alcuna di rimedio o cautela preventiva. Se poi per converso<br />

uno volesse sostenere – guardando solo all’affidabilità<br />

di queste misure preventive – che ve ne sono di quelle<br />

capaci di escludere del tutto (arrivando cioè all’estremo opposto<br />

del ragionamento) un evento dannoso – ma non siamo<br />

convinti, per parte nostra, comunque della possibile esistenza<br />

di questa certezza assoluta – finiremmo col restringere<br />

il campo di applicazione dell’art. 2050 c.c.<br />

Quindi, tutto ben considerato, più appagante appare limitarsi<br />

a sostenere soltanto, come fa il GERACI (ibid., p. 40),<br />

in questa fase di approccio al nocciolo del problema, che la<br />

pericolosità deve essere insita nell’attività e non nel risultato.<br />

E su questa linea si è ritrovata anche la giurisprudenza<br />

della Cassazione per affermare – in un ulteriore passaggio<br />

– che la caratteristica della pericolosità – da apprezzarsi<br />

come particolare – deve essere intrinseca alla attività presa<br />

in esame e non può quindi dipendere neppure dall’intervento<br />

di cause esterne quali errori, colpe, iniziative anomale<br />

o avventate dell’utente del servizio prestato o del bene fornito:<br />

non può cioè una anomala, imprudente modalità su-

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