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drammaturgia N 2-2007 - Titivillus Mostre Editoria

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agioni per credere che il grado di consapevolezza del lavoro scenico e della sua<br />

organizzazione, e l’originalità di una prassi poetica o interpretativa in esso manifestata<br />

da parte di un uomo di teatro, possano qualificare il lavoro di questi come<br />

lavoro di regia, e in conseguenza obbligarci a spostare i termini di una supposta<br />

nascita od origine del fenomeno. In fondo sappiamo tanto poco del teatro passato<br />

che possiamo ragionevolmente supporre che molti aspetti delle pratiche teatrali<br />

non siano emersi e forse, dato il loro carattere effimero e la nostra pigrizia di storici,<br />

nemmeno emergeranno mai. Quindi non conosciamo che una parte della realtà<br />

teatrale del passato assoggettabile alla definizione storica di regia.<br />

Dall’altro punto di vista, con la concezione wagneriana dell’ “opera d’arte totale”<br />

noi non definiamo tanto l’essenza originaria della regia, quanto piuttosto, e non è<br />

poco, la cesura rispetto alla prassi scenica dell’800 e all’autonomia che in essa avevano<br />

preso le singole componenti del teatro l’una rispetto all’altra. Infatti se andiamo<br />

indietro nel tempo, al teatro greco, al dramma liturgico, o verso le supposte<br />

“origini” del teatro moderno nel ‘500 e ‘600, si deve pensare che questa totalità,<br />

indipendentemente dalla presenza consapevole di un regista (variamente denominato<br />

didaskalos, meneur de jeu, coràgo ecc.) fosse perseguita con successo: solo<br />

parzialmente delegata a una figura particolare, essa era infatti già presente nella<br />

cultura, e cioè nella coesione della produzione e della comunicazione simbolica<br />

che era a fondamento del teatro e/o dello spettacolo.<br />

Questa coesione aveva le sue radici nell’istituzione politico religiosa della polis,<br />

nella natura teocentrica della chiesa e della monarchia medievali, e infine nella<br />

semiosi umanistico-rinascimentale che aveva forgiato l’autocrazia principesca e<br />

ne veicolava senso e contenuti.<br />

Wagner non ha inventato qualcosa di nuovo con la totalità dell’opera d’arte e con<br />

il teatro come opera d’arte totale, ma ha stabilito piuttosto che questa totalità e la<br />

coesione simbolica che essa implica, era diventata un problema con l’era dell’individualismo<br />

borghese, cosa di cui peraltro si erano accorti prima di lui, e con esiti<br />

diversi ma altrettanto specifici, Rousseau, Diderot e Lessing, considerabili il primo<br />

come profeta della performance collettiva a sfondo rituale e gli altri due come<br />

gli antesignani della regia. In una società dominata dalle merci la coerenza comunicativa<br />

non poggia su alcuna totalità simbolica ma sulla disponibilità potenzialmente<br />

infinita allo scambio dei significanti da parte dei singoli, e su una perversa<br />

e sempre più compulsiva smania di essere comunicati più che di comunicare.<br />

Questo ci induce per inciso a riflettere sul modo in cui il mondo, ridotto a un<br />

unico grande mercato, stia ora ritrovando ben lungi dal teatro, nella comunicazione<br />

globalizzata e multimediale, una nuova coesione simbolica intrinsecamente<br />

virtuale.<br />

Il teatro prodotto nella cultura borghese, a partire dal Settecento, è stato progressivamente<br />

caratterizzato da una perdita di coesione simbolica, con una distinzione<br />

sempre più marcata tra chi lo produceva e chi ne fruiva, e da una perdita altrettanto<br />

progressiva di coerenza, poiché ognuno dei linguaggi che ne componevano<br />

la semiosi andava aspirando per conto proprio a una qualche forma di specificità<br />

o di completezza significante. In quanto risultato di questo processo il pubblico<br />

borghese è per eccellenza inconsapevole, incapace di cogliere nel suo insieme la<br />

semiosi teatrale e spettacolare ed estraneo a uno o anche a più linguaggi che ne<br />

fanno parte. Tutti i movimenti della cultura teatrale ottocentesca (compreso il Romanticismo,<br />

la cosiddetta reazione idealista o simbolista e il naturalismo) che si<br />

sono opposti a questo stato delle cose, esotericamente o essotericamente, hanno<br />

contribuito alla nascita di quella che ci siamo intesi di chiamare la regia storica, e<br />

che da questo generale punto di vista appare una consapevole reazione alla<br />

prevaricante cultura della inconsapevolezza borghese. Il termine Awareness è pienamente<br />

assunto nella sua portata rivoluzionaria nella teoria e nella pratica di<br />

Grotowski, che non a caso appare a molti di noi come l’ultimo dei registi. Ancora<br />

devo rimandare allo studio citato di Mango che sottolinea più volte la portata di<br />

questo concetto.<br />

Quale è dunque, date le premesse qui un po’ rozzamente tracciate, la specificità<br />

della regia novecentesca che permette di isolare alcune ben note esperienze e di<br />

definirle come esperienze fondanti? Proverò a delineare una linea di interpretazione<br />

che comprende alcune di queste esperienze. Ciò non significa che non ne<br />

ritenga importanti altre ai fini di una definizione della regia, ma piuttosto che<br />

quelle esperienze contengono una acuta consapevolezza della temperie storica<br />

che le ha attraversate e che vi si trova per sempre depositata in quanto eredità<br />

permanente della regia e del suo vissuto novecentesco. Per esse possiamo dire che<br />

la regia è stata la nostra regia. La specificità, o meglio la diversità, di cui alcune di<br />

queste esperienze fondanti si fanno portatrici è la consapevolezza di appartenere<br />

a due tempi: un tempo storico e un tempo originario, la ricerca della coerenza<br />

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