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drammaturgia N 2-2007 - Titivillus Mostre Editoria

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difendersi dai disciplinatori o dalla banalizzazione solo con una difficile<br />

autodisciplina. Molti dei cosiddetti “patiti del teatro” lo facevano oggetto d’amoretti<br />

ancillari, scrivevano ilari e svagati, si seccavano del rigore. A quali condizioni avrebbe<br />

potuto, la minorità, rovesciarsi in minoranza? Il grande esempio era – e rimane<br />

– il cantiere dell’Enciclopedia dello Spettacolo. S’era fondato su un’oltranza culturale:<br />

affrontare teatro e spettacolo come qualcosa di molto ma molto serio, d’autonoma<br />

dignità, con precisioni paragonabili a quelle che si esigevano per la grande<br />

erudizione delle arti più legittimate e delle più impegnative storiografie. Niente a<br />

che vedere, lì, con specialistiche provincie o graziosi recinti per decreto. Poiché<br />

“regia” di tale investimento di rigore effettivamente soffriva e in esso s’ingarbugliava,<br />

il miraggio si dissipò, come doveva. Lasciandosi dietro qualche disappunto:<br />

sarebbe stato comodo se si fosse prestata. Perché torna a sembrar comodo?<br />

Probabilmente perché la promozione di regia a “unitario personaggio storiografico”<br />

può oggi dar luogo ad una di quelle pacifiche procedure curiali che in genere si<br />

abbreviano nella locuzione latina promoveatur ut amoveatur. Esce, nel 2006, Il romanzo<br />

della regia di Luigi Squarzina, 554 pagine, in una collana ritirata, non specialistica<br />

e di buon prestigio. Se ne discute quasi niente. Nella peggiore delle ipotesi,<br />

per presunzione (certe sue regie di routine, più accomodate che accomodanti, ci<br />

hanno forse fatto credere che l’autore fosse “superato”? Han fatto dimenticare il<br />

suo rango intellettuale e di testimone di prim’ordine? È la stessa presunzione che<br />

accantona la memoria d’un intellettuale come Orazio Costa?).<br />

Nella migliore delle ipotesi, la disattenzione nasce dal disappunto. Perché in quel<br />

libro il miraggio regia viene destrutturato senza darsi neppure la pena di discuterne<br />

la destrutturazione. Da questo punto di vista, i due libri Il romanzo della regia e<br />

La nascita della regia hanno una speculare noncuranza nei confronti della promozione<br />

dell’argomento a “personaggio storiografico”. Il primo tratta “regia” come<br />

una personalissima (in parte generazionale) stella per la navigazione, il contrario<br />

d’un contornato territorio. Conia persino la costellazione immaginaria e orientante<br />

della “registica”. Il secondo, usa il termine per antonomasia. E infischiandosene,<br />

pare, dei disappunti, ripete a non finire la locuzione “padri fondatori” solo profittando,<br />

si direbbe, d’un’etichetta, che appena può rovescia in una stupefatta e quasi<br />

beffarda antifrasi: visto che padri – afferma - non vollero proprio esserlo, e che,<br />

come fondatori, dissero meno di quanto tacquero (anche i più facondi); mangiandosi<br />

vivi, quando poterono, i potenziali eredi, o lasciandoli soli (anche i più vocati<br />

ad una dilagante pedagogia). Il disappunto per la tranquilla destrutturazione del<br />

“personaggio storiografico” evidenzia un disagio: ostacola la distrazione. La quale<br />

distrazione è il tacito patto col lettore dei manuali prontuarii e delle loro<br />

malaugurate chiarezze. Si sa perché son fatti: per esser facilmente chiari; per rispondere<br />

alle curiosità e suscitarle; oggi soprattutto per interrogare correttamente<br />

gli allievi e attribuire loro un giusto voto fra il diciotto e la lode (gli editori lo<br />

sanno, ed esprimono tacitamente il dispregio per libri che ritengono destinati alla<br />

diffusione forzosa chiedendo in anticipo formali promesse d’adozione). Sono molte<br />

le distratte chiarezze che la similstoria della cosiddetta regia ci regala. Riesce a<br />

pulire ombre lunghe e pertinaci silenzi; pompa facilmente alcuni piccoli e lancinanti<br />

segreti visualizzandoli come gnosi; erige fantastiche miniature d’utopie, che<br />

senza volerlo si accostano a quelle vere, ardue, filosofiche, sovente insanguinate;<br />

scavalca certi vivi contrasti, quali gli impeti rivoluzionari ritirati in piccoli laghi.<br />

La stonata caterva delle anomalie, delle fughe in avanti, dei fallimenti più voluti<br />

che subiti, dei patimenti, noi specialisti la ridisegnamo come una catena di belli<br />

spettacoli, o di teoresi, poetiche o estetiche – e queste irrimediabilmente di “serie<br />

C”. Sicché i nostri nobili intenti son contraddetti dai risultati. Riusciamo a far risuonare<br />

grandi echi nel recinto del teatro. Ma non appena il punto di vista si rovescia,<br />

e il recinto vien visto in campo lungo, da fuori, il teatro torna ad essere quel<br />

che è stato sempre considerato: un quasi niente con tanti effimeri critici o<br />

dragomanni. Trascurabili puntini. Eppure laggiù c’è davvero una grandezza di<br />

storie, un grandioso e dimesso Dramma della Soglia. Laggiù si isola, si condensa e<br />

si socializza, in un multiforme andirivieni d’illusioni e disillusioni, la dialettica<br />

del rinchiudersi e del riuscire. Che è commercio, indipendenza, spiritualità, politica<br />

e conoscenza, finché non si gonfia, non si solennizza, e riesce nella difficile<br />

impresa di aprire porte, fendere veli, fermandosi – quando si ferma – senza finire,<br />

senza pretendere di scoprire niente di niente. Come se fosse l’atto fuggevole della<br />

liberazione a illuminare, senza consolanti illusioni di libertà.<br />

Ho usato il termine “libertà” come avei potuto usare “verità”, “bellezza”,<br />

“trascendenza”, “presenza”, “ribellione”, o un altro fra i nomina qualitatis che rischiano<br />

sempre di riempirci la bocca. Un’illusione vale l’altra (probabilmente ci<br />

sono solo verbi ed aggettivi, e i sostantivi son specchietti per l’allodola due volte<br />

sapiens). Non se ne può fare a meno. Si rischia sempre d’esserne posseduti. Ma le<br />

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