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di dieci anni fa, in ritardo rispetto a esempi televisivi e della moda<br />

presi stupidamente a modello.<br />

L’appello provocatorio da fare mira a “contenuti” che abbiano<br />

almeno il peso specifico sufficiente per trattenere un teatro che, nella<br />

sua leggerezza, perde spesso ogni tipo di consistenza. Contenuti<br />

che siano certo lo spessore dell’immagine e che ovviamente rappresentino<br />

l’imprescindibile necessità rispetto ai nodi, alle figure, alle<br />

domande del contemporaneo.<br />

Madre e Assassina e L’ospite sono lavori “pesantissimi” e ambiziosi,<br />

segnati dall’utilizzo di varie tecnologie, che non appaiono posticce<br />

perché rispondono a un’estetica e a un chiaro progetto di poetica<br />

e perché sono pienamente inserite nella genesi e nella formazione di<br />

entrambi i gruppi. Due compagnie esemplari dell’ondata degli anni<br />

novanta, che guardano, da sempre, più al cinema, alle arti visive, alla<br />

musica, al fumetto che non al teatro stesso (se non quello dei “compagni<br />

di viaggio” o di qualche esperienza precedente, almeno per alcune<br />

dichiarazioni teoriche: Carmelo Bene, Samuel Beckett, i primi<br />

Magazzini...).<br />

Entrambi i lavori partono da alcune riflessioni di Pier Paolo Pasolini,<br />

Teatrino Clandestino scava negli anni cinquanta soffermandosi<br />

all’inizio del boom economico e a una minacciosa e selvaggia industrializzazione,<br />

i Motus guardano alla fine dei sessanta, alle famiglie<br />

di ricchi industriali, arroganti e razzisti ma profondamente piccoloborghesi<br />

nei desideri e nelle nevrosi.<br />

Appaiono come due bestemmie esplosive e provocatorie, spettacoli<br />

frontali che inchiodano il pubblico spalle al muro, solo in<br />

apparenza didascalici, e che si prendono il rischio costante di implodere,<br />

di collassare su se stessi. Entrambi i lavori sono profondamente<br />

cinematografici, anche se le finestre virtuali non vogliono<br />

mai fuggire la scena, piuttosto scelgono di minarla alle basi, di sfasciarla,<br />

di portare avanti una loro personale rivoluzione. Teatrino<br />

Clandestino – prima con Si prega di non discutere di Casa di bambola<br />

(1999) poi con Otello (2000), Hedda Gabler (2000) e Iliade<br />

(2002) – ha sperimentato a lungo le possibilità del “linguaggio cinema”<br />

sulla scena del teatro. La ricerca verte soprattutto sul meccanismo<br />

visivo che un diaframma posto tra scena e pubblico può<br />

innescare. L’inquadratura della scena, la cornice dell’immagine –<br />

costitutiva di ogni tipo di visione –, la prospettiva e le profondità<br />

sono i campi che il gruppo bolognese ha indagato, guardando<br />

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