00 - Copertina n. 9-2009.indd - Centro Studi Lavoro e Previdenza
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il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />
M e n s i l e d i a p p r o f o n d i m e n t o g i u r i d i c o , f i s c a l e , p r e v i d e n z i a l e e a s s i c u r a t i v o i n m a t e r i a d i l a v o r o<br />
Sommario<br />
9 2<br />
0 0 9<br />
Contenuti e riflessi dell’intervento<br />
della Corte Costituzionale<br />
sulle novità introdotte in<br />
materia di contratto a tempo<br />
determinato<br />
di Luigi Pelliccia 2<br />
Ancora sull’accesso alle dichiarazioni<br />
rese dai lavoratori nelle<br />
ispezioni<br />
di Pietro Scudeller 13<br />
Ripartizione dell’onere della<br />
prova nelle opposizioni a cartelle<br />
di pagamento dell’Inps in relazione<br />
a pretese contributive<br />
di Elia Notarangelo 20<br />
Passaggio di lavoratori in mobilità<br />
tra aziende collegate<br />
di Paolo Cuzzelli 31<br />
Giudice ordinario o tributario<br />
per le controversie tra il sostituto<br />
d’imposta e il sostituito?<br />
di Sergio Mogorovich 34<br />
Osservatorio Giurisprudenziale<br />
Approfondimenti su sentenze di particolare<br />
interesse<br />
a cura di Romina Dalzini 37<br />
Ultime dalla Cassazione<br />
Rapida panoramica delle ultime pronunce<br />
della Suprema Corte<br />
a cura di Romina Dalzini 42
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Approfondimenti<br />
Contenuti e riflessi dell’intervento della<br />
Corte Costituzionale sulle novità introdotte<br />
in materia di contratto a tempo determinato<br />
1. Premessa<br />
Com’era più che prevedibile, la Corte Costituzionale,<br />
chiamata insistentemente in causa in tal senso 1 ,<br />
ha censurato, seppur in modo parziale, ancorchè<br />
significativo, le novelle introdotte nel 2<strong>00</strong>8 alla<br />
normativa in tema di lavoro a tempo determinato.<br />
Infatti, la immediatamente definita norma antiprecari,<br />
non ha retto interamente il vaglio di<br />
costituzionalità.<br />
Con la corposa sentenza n. 214 del 14 luglio 2<strong>00</strong>9,<br />
la Consulta, chiamata come vedremo ad uno<br />
scrutinio più ampio del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1,<br />
ha emesso una decisione in parte oltremodo scon-<br />
(1) Anche al di fuori del tradizionale canale istituzionale.<br />
LUIGI PELLICCIA<br />
tata, quanto meno con riguardo al maggiormente<br />
incriminato art. 4-bis di detto decreto, inserito nel<br />
2<strong>00</strong>8 con il D.L. n. 112 e rubricato Disposizione<br />
transitoria concernente l’indennizzo per la violazione<br />
delle norme in materia di apposizione e di<br />
proroga del termine.<br />
Più nell’insieme, i richiesti giudizi di legittimità<br />
costituzionale 2 riguardavano gli artt. 1, comma 1,<br />
2, comma 1-bis, 4-bis e 11 del D.Lgs. 6 settembre<br />
2<strong>00</strong>1 n. 368, così come novellato dal D.L. 25 giugno<br />
2<strong>00</strong>8, n. 112, convertito, con modificazioni,<br />
dalla legge 6 agosto 2<strong>00</strong>8, n. 133 3 .<br />
Del resto, uno degli istituti contrattuali rivisitato<br />
dalla c.d. manovra d’estate 2<strong>00</strong>8, segnatamente<br />
(2) Più nel dettaglio, si trattava di ben 19 ordinanze emesse da numerosi tribunali e corti d’appello. Si è trattato di una fattispecie di forte evidenza<br />
critica da parte della magistratura di merito, avente scarsi precedenti in detti termini dimensionali.<br />
(3) Art. 1 (Apposizione del termine) (...) 1. È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di<br />
ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro. 2. L’apposizione del<br />
termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1.(…)<br />
Art. 2 (Disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali) (…) 1-bis. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche quando<br />
l’assunzione sia effettuata da imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra<br />
aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell’organico<br />
aziendale, riferito al 1º gennaio dell’anno cui le assunzioni si riferiscono. Le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione<br />
delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente comma. Art. 4-bis (Disposizione transitoria concernente l’indennizzo per la<br />
violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine) 1. Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore<br />
della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore<br />
di lavoro è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di<br />
sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive<br />
modificazioni. Art. 11 (Abrogazioni e disciplina transitoria) 1. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo sono abrogate la legge<br />
18 aprile 1962, n. 230, e successive modificazioni, l’articolo 8-bis della legge 25 marzo 1983, n. 79, l’articolo 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56,<br />
nonché tutte le disposizioni di legge che sono comunque incompatibili e non sono espressamente richiamate nel presente decreto legislativo. 2. In<br />
relazione agli effetti derivanti dalla abrogazione delle disposizioni di cui al comma 1, le clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulate<br />
ai sensi dell’articolo 23 della citata legge n. 56 del 1987 e vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, manterranno, in via<br />
transitoria e salve diverse intese, la loro efficacia fino alla data di scadenza dei contratti collettivi nazionali di lavoro. 3. I contratti individuali definiti<br />
in attuazione della normativa previgente, continuano a dispiegare i loro effetti fino alla scadenza. 4. Al personale artistico e tecnico delle fondazioni<br />
di produzione musicale previste dal decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367, non si applicano le norme di cui agli articoli 4 e 5.<br />
2
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
dal D.L. 25 giugno 2<strong>00</strong>8, n. 11, poi convertito<br />
nella legge n. 133, è stato appunto il contratto a<br />
tempo determinato.<br />
Per poter fare questo nel migliore dei modi, riteniamo<br />
però opportuno riassumere le disposizioni<br />
della legge n. 133/2<strong>00</strong>8 che qui interessano.<br />
2. Le sottostanti previsioni di legge<br />
Come certamente si ricorderà, nella fase parlamentare<br />
di approvazione del D.L. n. 112/2<strong>00</strong>8 sono<br />
state introdotte alcune novità su iniziativa governativa<br />
che inizialmente avevano però determinato<br />
una sorta di levata di scudi da più parti; da qui,<br />
pertanto, la scelta di una linea più “morbida” che,<br />
non è però bastata per mettere in risalto alcune<br />
criticità delle sottostanti disposizioni normative.<br />
Le conferme sono state le seguenti:<br />
l’apposizione di un termine al contratto di lavoro<br />
è consentita per ragioni tecniche, produttive,<br />
organizzative e sostitutive, anche se riferibili<br />
all’ordinaria attività del datore di lavoro;<br />
i contratti collettivi di lavoro, compresi quelli di<br />
secondo livello, sottoscritti dalle organizzazioni<br />
sindacali comparativamente più rappresentative<br />
a livello nazionale potranno derogare alla disciplina<br />
della successione dei contratti a tempo<br />
determinato conclusi per mansioni equivalenti,<br />
consentendo così di stabilire un diverso limite ai<br />
36 mesi complessivamente previsti dalla legge;<br />
i contratti collettivi di lavoro, compresi quelli di<br />
secondo livello, sottoscritti dalle organizzazioni<br />
sindacali comparativamente più rappresentative<br />
a livello nazionale potranno derogare alla<br />
disciplina del diritto di precedenza del lavoratore<br />
e tempo determinato.<br />
Decorsi 24 mesi dalla data di entrata in vigore del<br />
decreto legge, il Ministro del <strong>Lavoro</strong> procederà ad<br />
(4) Quindi dal 21 agosto 2<strong>00</strong>8.<br />
Approfondimenti<br />
una verifica, con le organizzazioni sindacali dei<br />
datori e dei prestatori di lavoro comparativamente<br />
più rappresentative sul piano nazionale, degli<br />
effetti delle disposizioni contenute nei commi<br />
che precedono, riferendone anche al Parlamento<br />
entro tre mesi ai fini della valutazione della sua<br />
ulteriore vigenza.<br />
Le modifiche che il D.L. n. 112/2<strong>00</strong>8 ha apportato<br />
al D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1 hanno nei fatti provato a<br />
riportare indietro le disposizioni normative di riferimento<br />
rispetto alle novità che la legge n. 247<br />
del 2<strong>00</strong>7 aveva successivamente introdotto.<br />
La sostanziale novità è stata certamente quella<br />
riferita all’introduzione di una disposizione transitoria<br />
concernente l’indennizzo per la violazione<br />
delle norme in materia di apposizione e di proroga<br />
del termine al contratto di lavoro.<br />
Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di<br />
entrata in vigore della legge n. 133/2<strong>00</strong>8 4 e fatte<br />
salve le sentenze passate in giudicato, in caso di<br />
violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2 e 4<br />
del D.Lgs. n. 368del 2<strong>00</strong>1 5 , il datore è (retcte, era)<br />
tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di<br />
lavoro con un’indennità di importo compreso tra<br />
un minimo di 2,5 e un massimo di sei mensilità<br />
dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto<br />
riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della legge 15<br />
luglio 1966, n. 604 e successive modificazioni 6 .<br />
L’impostazione data dal primo maxi emendamento<br />
governativo era invece molto più ampia e consentiva<br />
una sorta di sanatoria generalizzata, fatta comunque<br />
salva l’ipotesi dei casi giudizialmente definiti.<br />
3. Le sollevate questioni di legittimità costituzionale<br />
Punctum pruriens della problematica sollevata<br />
a più voci, compresa anche in ampia parte la<br />
dottrina, era quindi (principalmente) la norma<br />
transitoria inserita in sede di conversione del D.L.<br />
(5) Ovverosia in tema di apposizione del termine, di disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali e di proroga.<br />
(6) Art. 8 della legge n. 604/1966. Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il<br />
datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità<br />
di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti<br />
occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura<br />
massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14<br />
mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.<br />
3
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
n. 112/2<strong>00</strong>8 ed apparsa immediatamente “fragile”<br />
dal punto di vista ermeneutico.<br />
Come avremo modo di vedere più avanti, la<br />
sentenza che ci accingiamo a commentare ha (paradossalmente)<br />
fatto rilevare come sarebbe stata<br />
invece costituzionalmente orientata la versione<br />
originaria della norma.<br />
Come detto, diverse sono state le ordinanze che<br />
la magistratura di merito, tanto di primo che di<br />
secondo grado, aveva rimesso alla Consulta.<br />
Più nel dettaglio, si tratta dei giudizi promossi:<br />
dal Tribunale di Roma, con ordinanze del 26<br />
febbraio 2<strong>00</strong>8 e del 26 settembre 2<strong>00</strong>8,<br />
dalla Corte d’Appello di Torino con ordinanza<br />
del 2 ottobre 2<strong>00</strong>8,<br />
dal Tribunale di Trani con ordinanza del 21<br />
aprile 2<strong>00</strong>8,<br />
dalla Corte d’Appello di Genova con ordinanza<br />
del 26 settembre 2<strong>00</strong>8,<br />
dal Tribunale di Ascoli Piceno con due ordinanze<br />
del 30 settembre 2<strong>00</strong>8,<br />
dal Tribunale di Trieste con ordinanza del 16<br />
ottobre 2<strong>00</strong>8,<br />
dalla Corte d’Appello di Bari con ordinanza del<br />
22 settembre 2<strong>00</strong>8,<br />
dal Tribunale di Viterbo con ordinanza del 10<br />
ottobre 2<strong>00</strong>8,<br />
dal Tribunale di Milano con quattro ordinanze<br />
del 19 novembre 2<strong>00</strong>8,<br />
dalla Corte d’Appello di Caltanissetta con<br />
ordinanza del 12 novembre 2<strong>00</strong>8,<br />
dal Tribunale di Teramo con ordinanza del 17<br />
ottobre 2<strong>00</strong>8,<br />
dal Tribunale di Milano con due ordinanze del<br />
24 dicembre 2<strong>00</strong>8,<br />
dalla Corte d’Appello di Venezia con ordinanza<br />
del 10 dicembre 2<strong>00</strong>8,<br />
dalla Corte d’Appello di L’Aquila con ordinanza<br />
del 14 gennaio 2<strong>00</strong>9,<br />
Approfondimenti<br />
dalla Corte d’Appello di Roma con ordinanza<br />
del 21 ottobre 2<strong>00</strong>8.<br />
Anche a ragione delle ordinanze di rimessione,<br />
erano diverse le questioni di legittimità costituzionale<br />
sollevate dai giudici a quem.<br />
Vediamone i profili più significativi.<br />
3.1 L’art. 2, comma 1-bis<br />
Nel corso di un giudizio civile promosso contro la<br />
Poste Italiane S.p.A. attivato perché fosse dichiarata<br />
l’invalidità del termine apposto al contratto<br />
di lavoro sottoscritto tra le parti ai sensi dell’art.<br />
2, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1, come<br />
aggiunto dall’art. 1, comma 558, della legge 23<br />
dicembre 2<strong>00</strong>5, n. 266, il Tribunale di Roma ha<br />
osservato che la norma censurata ha introdotto<br />
per le aziende concessionarie del servizio postale<br />
la possibilità, entro determinati limiti temporali 7<br />
e quantitativi 8 di procedere ad assunzioni a tempo<br />
determinato senza l’obbligo di indicazione scritta<br />
della causale, come invece previsto in generale<br />
dall’art. 1 del D.Lgs. n. 368.<br />
Inoltre, anche la disciplina sanzionatoria sarebbe<br />
più lieve rispetto a quella prevista per i contratti<br />
stipulati ai sensi di quest’ultimo articolo, perché<br />
l’art. 5, comma 3, del medesimo decreto del<br />
2<strong>00</strong>1, richiamando esclusivamente l’ipotesi della<br />
successione dei contratti stipulati ex art. 1, non<br />
prevederebbe la conversione in contratto a tempo<br />
indeterminato in caso di successione di contratti<br />
regolati dall’art. 2.<br />
Ad avviso del giudice a quo, tale disciplina<br />
comportava una disparità di trattamento tra i<br />
lavoratori in generale e quelli addetti al servizio<br />
postale, per i quali non opera necessariamente<br />
la disciplina - anche sanzionatoria - di carattere<br />
generale.<br />
Difettando, nel settore postale, quelle peculiarità<br />
che possano giustificare deroghe alla disciplina<br />
generale, l’art. 2, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 368<br />
del 2<strong>00</strong>1 non risponderebbe a criteri di ragionevolezza<br />
o di razionalità e pertanto sarebbe lesivo<br />
dell’art. 3 della Costituzione.<br />
(7) Sei mesi nel periodo compreso tra aprile ed ottobre di ogni anno e quattro mesi per periodi diversamente distribuiti.<br />
(8) 15% dell’organico aziendale.<br />
4
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Quanto agli altri parametri costituzionali invocati 9 ,<br />
il rimettente affermava che l’introduzione di una<br />
acausalità per le assunzioni a termine nel settore<br />
postale sottrae in maniera ingiustificata al giudice<br />
ordinario il potere di verifica delle effettive<br />
ragioni oggettive e temporanee poste alla base di<br />
dette assunzioni con conseguente lesione delle<br />
prerogative del potere giudiziario.<br />
3.2 L’art. 1 e l’art. 11<br />
Nel corso del giudizio di appello proposto dalla<br />
Compagnia Internazionale delle Carrozze Letti e<br />
del Turismo avverso la sentenza del Tribunale di<br />
Torino del 5 febbraio 2<strong>00</strong>8, che aveva accolto la<br />
domanda di alcuni lavoratori tesa ad ottenere la<br />
declaratoria di nullità del termine apposto al loro<br />
contratto di lavoro, in violazione dell’art. 1 del<br />
D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1, la Corte d’Appello di Torino<br />
ha sollevato questione di legittimità costituzionale<br />
dell’art. 4-bis dello stesso decreto per contrasto<br />
con gli artt. 3 e 24 cost., nella parte in cui dispone<br />
che, per i giudizi in corso alla data della sua entrata<br />
in vigore, in caso di violazione degli artt. 1, 2 e 4<br />
del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, il datore di lavoro è<br />
tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore<br />
di lavoro secondo predeterminati criteri di calcolo<br />
dell’indennità.<br />
Ad avviso del collegio a quo, la norma censurata<br />
contrastava con il principio di uguaglianza sancito<br />
dall’art. 3 Cost., poiché prevede una tutela attenuata<br />
per i lavoratori a termine che siano parti in<br />
un giudizio in corso, rispetto a tutti gli altri lavoratori<br />
a tempo determinato, e con l’art. 24 Cost.,<br />
perché un intervento legislativo che, come nella<br />
specie, riguarda solo un certo tipo di controversie<br />
pendenti ad una certa data sarebbe privo del carattere<br />
di astrattezza proprio della legislazione ed<br />
assumerebbe carattere provvedimentale generale<br />
con riguardo ai giudizi in corso, invadendo così<br />
l’area riservata al potere giudiziario.<br />
Con la conseguenza che ne sarebbero pregiudicati<br />
i soli ricorrenti che, per ragioni assolutamente<br />
casuali, abbiano introdotto la causa<br />
prima dell’entrata in vigore della legge censurata<br />
(9) Artt. 101, 102 e 104 Cost.<br />
(10) Attività del sindacato o del legale, durata dei processi.<br />
Approfondimenti<br />
e la stessa non fosse stata definita prima della<br />
medesima data.<br />
Il medesimo collegio di merito precisava poi che la<br />
norma censurata appariva tanto più irragionevole,<br />
perché distingue tra coloro che per motivi indipendenti<br />
dalla loro volontà 10 hanno ottenuto una<br />
sentenza non più impugnabile e coloro che hanno<br />
ancora un giudizio in corso, pur avendo ipoteticamente<br />
stipulato un contratto a termine con lo<br />
stesso datore di lavoro e nello stesso periodo; e,<br />
ancora, tra coloro che hanno depositato il ricorso<br />
introduttivo del giudizio il giorno prima della pubblicazione<br />
della legge e coloro che lo depositano<br />
il giorno dopo la sua entrata in vigore.<br />
3.3 L’art 4-bis<br />
Nel corso di due giudizi promossi da altrettanti<br />
lavoratori al fine di ottenere, previo accertamento<br />
dell’illegittimità del termine apposto ai rispettivi<br />
contratti di lavoro e delle relative proroghe, la<br />
condanna del datore di lavoro al ripristino dei rapporti<br />
di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni<br />
nel frattempo maturate, il Tribunale di Ascoli<br />
Piceno, con due distinte ordinanze, ha sollevato<br />
questione di legittimità costituzionale dell’art. 4bis<br />
del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, per contrasto con<br />
gli artt. 3, 11 e 117, comma 1, della Costituzione.<br />
Secondo il rimettente, i contratti oggetto dei<br />
giudizi principali erano privi di idonea indicazione<br />
delle ragioni della apposizione del termine e delle<br />
relative proroghe.<br />
Quindi, applicando la legge vigente al momento<br />
della instaurazione del rapporto e della introduzione<br />
del giudizio, si sarebbe dovuto dichiarare la<br />
conversione del primo dei contratti a termine in<br />
contratto a tempo indeterminato e condannare<br />
il convenuto al ripristino del rapporto. L’entrata<br />
in vigore dell’art. 4-bis del D.Lgs. n. 368 del<br />
2<strong>00</strong>1 precluderebbe, tuttavia, una pronuncia in<br />
tal senso, ma la norma sarebbe lesiva del canone<br />
di ragionevolezza desumibile dall’art. 3, primo<br />
comma, Cost., e non ispirata da preminenti ed<br />
eccezionali ragioni di interesse generale.<br />
5
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Inoltre essa colliderebbe anche con il principio<br />
di uguaglianza enunciato dall’art. 3 cost., perché<br />
introduce un’evidente disparità di trattamento<br />
fra i lavoratori assunti a tempo determinato in<br />
violazione delle condizioni previste dagli artt.<br />
1, 2 e 4, del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1 che abbiano<br />
avviato una controversia prima del 23 agosto 2<strong>00</strong>8<br />
e non l’abbiano vista ancora definita con sentenza<br />
passata in giudicato, ed i lavoratori che, versando<br />
nella identica situazione, abbiano promosso la<br />
controversia successivamente alla suddetta data.<br />
Infine, il medesimo tribunale sosteneva che l’art.<br />
4-bis del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1 avrebbe leso gli<br />
artt. 11, secondo periodo, e 117, primo comma,<br />
cost., perché esso, riducendo la tutela accordata in<br />
precedenza dall’ordinamento ai lavoratori assunti<br />
con contratto a tempo determinato, violava la<br />
clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro sul lavoro<br />
a tempo determinato recepito dalla direttiva<br />
1999/70/CE e, conseguentemente, l’obbligo del<br />
legislatore interno di rispettare i vincoli derivanti<br />
dall’ordinamento comunitario ed internazionale.<br />
3.4 Ancora sull’art. 4-bis<br />
Nel corso del giudizio d’appello proposto da un<br />
lavoratore contro la sentenza con la quale il Tribunale<br />
di Trani aveva respinto il suo ricorso diretto<br />
ad ottenere, previa declaratoria della nullità del<br />
termine apposto al contratto in questione, fosse dichiarato<br />
che fra le parti si era instaurato ab origine<br />
un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato<br />
e che la società convenuta fosse condannata<br />
a riammetterla in servizio ed al pagamento<br />
di tutte le retribuzioni maturate dal momento<br />
in cui aveva posto le proprie attività a disposizione<br />
del datore di lavoro, la corte d’appello di Bari ha<br />
sollevato questione di legittimità costituzionale<br />
dell’art. 4-bis del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, per contrasto<br />
con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost.<br />
La corte rimettente premetteva che, ove dovesse<br />
ritenersi fondata la tesi del lavoratore appellante<br />
circa la genericità della formula adottata nel<br />
contratto di lavoro stipulato dalle parti al fine di<br />
indicare le ragioni sostitutive poste a giustificazione<br />
dell’apposizione del termine, quest’ultima<br />
(11) Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.<br />
Approfondimenti<br />
clausola dovrebbe ritenersi nulla; pertanto, in<br />
ipotesi, il contratto di lavoro dedotto nel giudizio<br />
principale dovrebbe essere considerato a tempo<br />
indeterminato sin dall’inizio.<br />
Una simile conseguenza era tuttavia impedita dall’art.<br />
4-bis del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, norma che<br />
però, ad avviso del giudice a quo, appariva contraria<br />
al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.<br />
Infatti, ove mai altro lavoratore nelle stesse<br />
identiche condizioni dell’appellante nel giudizio<br />
principale facesse valere le stesse ragioni di<br />
illegittimità con un giudizio introdotto successivamente<br />
alla data di entrata in vigore dell’art.<br />
4-bis, del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, avrebbe diritto<br />
alla riassunzione, non essendo a lui applicabile<br />
l’art. 4-bis medesimo.<br />
Con sei ordinanze di identico contenuto, pronunciate<br />
in altrettanti giudizi promossi contro la<br />
Poste Italiane S.p.A. aventi ad oggetto la legittimità<br />
dell’apposizione del termine ai contratti di<br />
lavoro stipulati dai lavoratori attori, il Tribunale<br />
di Milano ha anch’esso sollevato questione di<br />
legittimità costituzionale dell’art. 4-bis del D.Lgs.<br />
n. 368 del 2<strong>00</strong>1.<br />
Il rimettente deduceva la violazione:<br />
a) dell’art. 3 Cost., per la disparità di trattamento<br />
tra coloro che hanno già ottenuto una sentenza<br />
passata in giudicato o che promuoveranno un<br />
giudizio dopo l’entrata in vigore della nuova<br />
disposizione e coloro che, invece, anche a parità<br />
assoluta di situazioni di fatto, si trovano compresi<br />
in tale forbice temporale;<br />
b) dell’art. 10 Cost., poiché il principio di parità di<br />
trattamento è principio generale del diritto internazionale<br />
che gli stati membri si sono obbligati a rispettare,<br />
con conseguente violazione dell’art. 117 Cost.;<br />
c) del divieto di non regresso posto dalla direttiva<br />
1999/70/CE, atteso che la norma censurata,<br />
emanata in esecuzione di tale direttiva, costituisce<br />
un evidente arretramento di tutela dei lavoratori,<br />
rispetto allo standard comunitario;<br />
d) dell’art. 6 della CEDU 11 , il quale, nell’affermare<br />
che ogni persona ha diritto ad un giusto processo<br />
6
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
dinanzi ad un tribunale indipendente e imparziale,<br />
vieta al potere legislativo di intromettersi<br />
nell’amministrazione della giustizia allo scopo di<br />
influire nella risoluzione di una controversia o di<br />
una determinata categoria;<br />
e) dell’art. 24 Cost., avendo la norma censurata<br />
compromesso il diritto di difesa dei ricorrenti,<br />
sottraendo loro la possibilità di ottenere il vantaggio<br />
della conversione del contratto irregolare, la<br />
cui prospettiva aveva direttamente condizionato<br />
l’esercizio del loro diritto di azione.<br />
Nel corso di un giudizio di appello, proposto da Poste<br />
Italiane s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale<br />
di Verona che aveva accertato l’illegittimità del<br />
termine apposto al contratto di lavoro stipulato<br />
con un lavoratore e condannato la società al ripristino<br />
del rapporto di lavoro ed al pagamento delle<br />
retribuzioni maturate dal giorno della messa in<br />
mora, la Corte d’Appello di Venezia ha sollevato<br />
questione di legittimità costituzionale dell’art. 4bis<br />
del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, per contrasto con<br />
gli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost.<br />
La Corte rimettente, premesso che il termine<br />
apposto al contratto di lavoro dedotto nel giudizio<br />
principale è nullo per contrasto con l’art. 1<br />
del D.Lgs. n. 368 e che dunque, nella fattispecie<br />
occorreva far applicazione al successivo art. 4-bis,<br />
sosteneva che quest’ultima disposizione violasse:<br />
a) l’art. 3 Cost., poiché è introduttiva di irragionevoli<br />
disparità di trattamento tra lavoratori che hanno<br />
stipulato un contratto a termine in pari data;<br />
b) l’art. 24 Cost., perché lede il diritto all’azione proprio<br />
nei confronti dei più solleciti nell’esercitarlo;<br />
c) l’art. 111 Cost., per aver, nel corso del procedimento<br />
giudiziario, modificato la tutela sostanziale<br />
accordabile al diritto azionato, in assenza di motivi<br />
oggettivi o di imperiose ragioni di interesse generale;<br />
d) l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione<br />
all’art. 6 della CEDU, il quale impedisce al legislatore<br />
di intervenire con norme ad hoc per la<br />
risoluzione di controversie in corso.<br />
4. La posizione della Corte Costituzionale<br />
Approfondimenti<br />
Come premesso, dunque, con la sentenza n. 214<br />
del 14 luglio 2<strong>00</strong>9, la Corte Costituzionale, riuniti<br />
tutti i proposti giudizi, ha dichiarato:<br />
l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis del<br />
D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1, introdotto dall’art. 21,<br />
comma 1-bis, del D.L. n. 112/2<strong>00</strong>8, convertito,<br />
con modificazioni, dalla legge n. 133/2<strong>00</strong>8;<br />
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale<br />
del medesimo art. 4-bis, sollevate in<br />
riferimento agli artt. 3, 10, 11, 24, 111, 117,<br />
primo comma, della Costituzione 12 ;<br />
non fondate le questioni di legittimità costituzionale<br />
degli artt. 1, comma 1, e 11 del<br />
D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, sollevate in riferimento<br />
agli artt. 76, 77 e 117, primo comma, della<br />
Costituzione 13 ;<br />
non fondata la questione di legittimità costituzionale<br />
dell’art. 2, comma 1-bis, del D.Lgs.<br />
n. 368 del 2<strong>00</strong>1, sollevata in riferimento agli<br />
artt. 3, primo comma, 101, 102 e 104 della<br />
Costituzione 14 .<br />
La decisione di che trattasi è molto articolata e<br />
frutto di un più che ampiamente argomentato percorso<br />
logico-interpretativo da parte della Consulta.<br />
Orbene, con separate ordinanze, le corti di appello<br />
di Torino, Genova, Bari, Caltanissetta, Venezia,<br />
L’Aquila e Roma ed i tribunali di Roma, Trani,<br />
Ascoli Piceno, Trieste, Viterbo, Milano e Teramo<br />
hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10,<br />
11, 24, 76, 77, 101, 102, 104, 111 e 117, primo<br />
comma, della Costituzione, questioni di legittimità<br />
costituzionale degli già ampiamente indicati<br />
articoli del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1.<br />
Alla luce della parziale identità di molte delle<br />
questioni proposte e l’appartenenza di tutte le<br />
norme censurate allo stesso testo normativo, la<br />
Consulta ha ritenuto opportuna la riunione dei<br />
giudizi al fine della loro decisione con un’unica<br />
sentenza.<br />
(12) Dalle Corti di Appello di Torino, Bari, Caltanissetta, Venezia e L’Aquila e dai Tribunali di Milano e Teramo.<br />
(13) Dal Tribunale di Roma e dal Tribunale di Trani.<br />
(14) Dal Tribunale di Roma.<br />
7
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
4.1 Sulla legittimità degli artt. 1, comma 1, e 11<br />
Con riguardo alla legittimità degli artt. 1, comma 1,<br />
e 11, ad avviso dei rimettenti, le norme censurate,<br />
nel sopprimere l’art. 1, secondo comma, lettera<br />
b), della legge n. 230 del 1962 e, quindi, nell’abolire<br />
l’onere dell’indicazione del nominativo<br />
del lavoratore sostituito quale condizione<br />
di liceità dell’assunzione a tempo determinato<br />
di altro dipendente,<br />
violerebbero l’art. 77 Cost., poiché la legge di<br />
delega 29 dicembre 2<strong>00</strong>0, n. 422 15 , in esecuzione<br />
della quale è stato emanato il D.Lgs. n. 368<br />
del 2<strong>00</strong>1, attribuiva al Governo esclusivamente<br />
il potere di attuare la direttiva 1999/70/CE,<br />
la quale non conteneva alcuna disposizione<br />
in tema di presupposti per l’apposizione delle<br />
clausole del termine.<br />
Sussisterebbe contrasto, poi, con l’art. 76 Cost.,<br />
poiché la menzionata legge n. 422 del 2<strong>00</strong>0 non<br />
prevedeva principi direttivi ulteriori rispetto all’attuazione<br />
della direttiva 1999/70/CE la quale, alla<br />
clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro da essa<br />
recepito, dispone che l’applicazione dell’accordo<br />
non può costituire un motivo per ridurre il livello<br />
generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito<br />
coperto dall’accordo stesso, mentre le disposizioni<br />
censurate, eliminando la necessità dell’indicazione<br />
del nominativo del lavoratore sostituito,<br />
determinerebbero un arretramento della tutela<br />
garantita ai lavoratori dal precedente regime.<br />
Infine, sarebbe leso anche l’art. 117, primo comma,<br />
Cost., per violazione dei vincoli derivanti<br />
dall’ordinamento comunitario.<br />
Secondo la sentenza n. 214/09, la questione non<br />
è fondata per i seguenti motivi.<br />
1. I giudici rimettenti hanno omesso di considerare<br />
adeguatamente che l’art. 1 del D.Lgs. n. 368<br />
del 2<strong>00</strong>1, dopo aver stabilito, al comma 1, che<br />
l’apposizione del termine al contratto di lavoro<br />
è consentita a fronte di ragioni di carattere<br />
(oltre che tecnico, produttivo e organizzativo,<br />
anche) sostitutivo, aggiunge, al comma 2, che<br />
Approfondimenti<br />
«l’apposizione del termine è priva di effetto se<br />
non risulta, direttamente o indirettamente, da<br />
atto scritto nel quale sono specificate le ragioni<br />
di cui al comma 1».<br />
L’onere di specificazione previsto da quest’ultima<br />
disposizione impone che, tutte le volte in<br />
cui l’assunzione a tempo determinato avvenga<br />
per soddisfare ragioni di carattere sostitutivo,<br />
risulti per iscritto anche il nome del lavoratore<br />
sostituito e la causa della sua sostituzione.<br />
Infatti, considerato che per ragioni sostitutive<br />
si debbono intendere motivi connessi con<br />
l’esigenza di sostituire uno o più lavoratori, la<br />
specificazione di tali motivi implica necessariamente<br />
anche l’indicazione del lavoratore o<br />
dei lavoratori da sostituire e delle cause della<br />
loro sostituzione; solamente in questa maniera,<br />
infatti, l’onere che l’art. 1, comma 2, del D.Lgs.<br />
n. 368 del 2<strong>00</strong>1 impone alle parti che intendano<br />
stipulare un contratto di lavoro subordinato a<br />
tempo determinato può realizzare la propria<br />
finalità, che è quella di assicurare la trasparenza<br />
e la veridicità della causa dell’apposizione del<br />
termine e l’immodificabilità della stessa nel<br />
corso del rapporto.<br />
2. Non avendo gli impugnati artt. 1, comma 1,<br />
ed 11 del D.Lgs. n. 368 innovato, sotto questo<br />
profilo, rispetto alla disciplina contenuta nella<br />
legge n. 230 del 1962, non sussiste la denunciata<br />
violazione dell’art. 77 della Costituzione.<br />
Invero, l’art. 2, comma 1, lettera b), della<br />
legge di delega n. 422 del 2<strong>00</strong>0 consentiva al<br />
Governo di apportare modifiche o integrazioni<br />
alle discipline vigenti nei singoli settori interessati<br />
dalla normativa da attuare e ciò al fine di<br />
evitare disarmonie tra le norme introdotte in<br />
sede di attuazione delle direttive comunitarie<br />
e, appunto, quelle già vigenti. In base a tale<br />
principio direttivo generale, il Governo era autorizzato<br />
a riprodurre, nel decreto legislativo di<br />
attuazione della direttiva 1999/70/CE, precetti<br />
già contenuti nella previgente disciplina del<br />
settore interessato dalla direttiva medesima 16 .<br />
(15) Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee - Legge comunitaria 2<strong>00</strong>0.<br />
(16) Il contratto di lavoro a tempo determinato.<br />
8
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Infatti, inserendo in un unico testo normativo<br />
sia le innovazioni introdotte al fine di attuare la<br />
direttiva comunitaria, sia le disposizioni previgenti<br />
che, attenendo alla medesima fattispecie<br />
contrattuale, erano alle prime intimamente<br />
connesse, si sarebbe garantita la piena coerenza<br />
della nuova disciplina anche sotto il profilo<br />
sistematico, in conformità con quanto richiesto<br />
dal citato art. 2, comma 1, lettera b), della legge<br />
di delega.<br />
3. Non sussiste neppure la denunciata lesione<br />
dell’art. 76 Cost., poiché le norme censurate,<br />
limitandosi a riprodurre la disciplina previgente,<br />
non determinano alcuna diminuzione della<br />
tutela già garantita ai lavoratori dal precedente<br />
regime e, pertanto, non si pongono in contrasto<br />
con la clausola n. 8.3 dell’accordo-quadro<br />
recepito dalla direttiva 1999/70/CE, secondo la<br />
quale l’applicazione dell’accordo non avrebbe<br />
potuto costituire un motivo per ridurre il livello<br />
generale di tutela già goduto dai lavoratori.<br />
4. Per la medesima ragione 17 , è infondata la censura<br />
formulata in riferimento all’art. 117, primo<br />
comma, Cost., il quale impone al legislatore di<br />
rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento<br />
comunitario e dagli obblighi internazionali.<br />
4.2 Sulla legittimità dell’art. 2, comma 1-bis<br />
Con riguardo al dubbio della legittimità costituzionale<br />
dell’art. 2, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 368, la<br />
sentenza in esame ha dichiarato la questione non<br />
fondata, precisando che, innanzitutto, non è ravvisabile<br />
alcuna lesione dell’art. 3 della Costituzione.<br />
La norma censurata costituisce la tipizzazione<br />
legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del<br />
termine.<br />
Del resto, il legislatore, in base ad una valutazione<br />
- operata una volta per tutte in via generale e<br />
astratta - delle esigenze delle imprese concessionarie<br />
di servizi postali di disporre di una quota<br />
(15%) di organico flessibile, ha previsto che tali<br />
imprese possano appunto stipulare contratti di<br />
(17) Insussistenza, sotto il profilo in esame, di un contrasto con la normativa comunitaria.<br />
Approfondimenti<br />
lavoro a tempo determinato senza necessità della<br />
puntuale indicazione, volta per volta, delle ragioni<br />
giustificatrici del termine.<br />
Si tratta di una valutazione preventiva ed astratta<br />
operata dal legislatore non manifestamente irragionevole,<br />
posto che la garanzia alle imprese in<br />
questione, nei limiti indicati, di una sicura flessibilità<br />
dell’organico, è direttamente funzionale<br />
all’onere gravante su tali imprese di assicurare<br />
lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta,<br />
allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione<br />
degli invii postali, nonché la realizzazione<br />
e l’esercizio della rete postale pubblica i quali<br />
«costituiscono attività di preminente interesse<br />
generale», ai sensi dell’art. 1, comma 1, del D.Lgs.<br />
22 luglio 1999, n. 261 18 .<br />
Più nel dettaglio, peraltro, in esecuzione degli<br />
obblighi di fonte comunitaria derivanti dalla<br />
direttiva n. 1997/67/CE, l’Italia è tenuta ad<br />
assicurare lo svolgimento del c.d. “servizio universale”<br />
(ovverosia la raccolta, il trasporto, lo<br />
smistamento e la distribuzione degli invii postali<br />
fino a 2 kg; la raccolta, il trasporto, lo smistamento<br />
e la distribuzione dei pacchi postali fino a 20 kg; i<br />
servizi relativi agli invii raccomandati ed agli invii<br />
assicurati: art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 261 del<br />
1999). Tale servizio universale, ai sensi dell’art. 3,<br />
comma 4, del citato decreto «assicura le prestazioni<br />
in esso ricomprese, di qualità determinata, da<br />
fornire permanentemente in tutti i punti del territorio<br />
nazionale, incluse le situazioni particolari<br />
delle isole minori e delle zone rurali e montane,<br />
a prezzi accessibili a tutti gli utenti»; inoltre, l’impresa<br />
fornitrice del servizio deve garantire tutti i<br />
giorni lavorativi, e come minimo cinque giorni a<br />
settimana, salvo circostanze eccezionali valutate<br />
dall’autorità di regolamentazione, una raccolta<br />
ed una distribuzione al domicilio di ogni persona<br />
fisica o giuridica ed il servizio deve esser prestato in<br />
via continuativa per tutta la durata dell’anno.<br />
Di conseguenza, non è manifestamente irragionevole<br />
che ad imprese tenute per legge all’adempimento<br />
di simili oneri sia riconosciuta una certa<br />
(18) Attuazione della direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per<br />
il miglioramento della qualità del servizio.<br />
9
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
flessibilità nel ricorso allo strumento del contratto<br />
a tempo determinato 19 .<br />
Senza poi sottacere che l’art. 2, comma 1-bis,<br />
del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1 impone alle aziende di<br />
comunicare ai sindacati le richieste di assunzioni<br />
a termine, prevedendo così un meccanismo di<br />
trasparenza che agevola il controllo circa l’effettiva<br />
osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti<br />
dalla norma.<br />
Ad avviso della Corte Costituzionale, la sollevata<br />
questione in parte qua non è fondata neppure<br />
sotto il profilo della pretesa violazione degli artt.<br />
101, 102 e 104 della Costituzione.<br />
Infatti, la norma censurata, per la stipula di contratti<br />
a termine da parte delle imprese concessionarie<br />
di servizi nei settori delle poste, si limita a<br />
richiedere requisiti diversi rispetto a quelli valevoli<br />
in generale e, quindi, non già l’indicazione<br />
di specifiche ragioni temporali, bensì il rispetto di<br />
una durata massima e di una quota percentuale<br />
dell’organico complessivo.<br />
Conseguentemente, il giudice ben può esercitare il<br />
proprio potere giurisdizionale al fine di verificare<br />
la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi di<br />
tale dettagliata fattispecie legale.<br />
4.3 Sulla legittimità dell’art. 4-bis<br />
Sulla discutibile legittimità dell’art. 4-bis del<br />
D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1, i giudici rimettenti,<br />
nel premettere che, secondo il diritto vivente, in<br />
caso di violazione delle prescrizioni contenute<br />
nell’art. 1 del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1, può essere<br />
disposta la conversione del contratto in rapporto<br />
di lavoro a tempo indeterminato e riconosciuta<br />
al lavoratore una tutela risarcitoria piena,<br />
sono giunti ad affermare che l’art. 4-bis dello<br />
stesso violerebbe: l’art. 3 cost., posto che è<br />
fonte di irragionevole disparità di trattamento,<br />
collegata al solo dato temporale del momento<br />
di proposizione del ricorso giudiziale, tra lavoratori<br />
che si trovano nella identica situazione<br />
di fatto.<br />
(19) Entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore.<br />
Approfondimenti<br />
Nel merito le questioni così sollevate, riferite però<br />
solamente però quelle delle Corti d’Appello di<br />
Genova e di Roma e dei Tribunali di Roma, Ascoli<br />
Piceno, Trieste e Viterbo, sono state dichiarate<br />
invece fondate 20 .<br />
Ad avviso del giudice delle leggi, infatti, “In<br />
effetti, situazioni di fatto identiche (contratti di<br />
lavoro a tempo determinato stipulati nello stesso<br />
periodo, per la stessa durata, per le medesime<br />
ragioni ed affetti dai medesimi vizi) risultano<br />
destinatarie di discipline sostanziali diverse (da<br />
un lato, secondo il diritto vivente, conversione<br />
del rapporto in rapporto a tempo indeterminato<br />
e risarcimento del danno; dall’altro, erogazione di<br />
una modesta indennità economica), per la mera e<br />
del tutto casuale circostanza della pendenza di un<br />
giudizio alla data (anch’essa sganciata da qualsiasi<br />
ragione giustificatrice) del 22 agosto 2<strong>00</strong>8 (giorno<br />
di entrata in vigore dell’art. 4-bis del d.lgs. n. 368<br />
del 2<strong>00</strong>1, introdotto dall’art. 21, comma 1-bis, del<br />
decreto-legge 25 giugno 2<strong>00</strong>8, n. 112).”<br />
Secondo la sentenza in commento, una siffatta<br />
discriminazione è priva di ragionevolezza, né è<br />
collegata alla necessità di accompagnare il passaggio<br />
da un certo regime normativo ad un altro.<br />
Infatti, l’intervento del legislatore<br />
non ha toccato la disciplina relativa alle condizioni<br />
per l’apposizione del termine o per la<br />
proroga dei contratti a tempo determinato,<br />
ma ha semplicemente mutato le conseguenze<br />
della violazione delle previgenti regole limitatamente<br />
ad un gruppo di fattispecie selezionate<br />
in base alla circostanza, del tutto accidentale,<br />
della pendenza di una lite giudiziaria tra le parti<br />
del rapporto di lavoro.<br />
Da qui, pertanto, l'illegittimità costituzionale<br />
dell’art. 4-bis del D.Lgs. n. 368 del 2<strong>00</strong>1.<br />
5. Osservazioni conclusive<br />
Come appena visto, quindi, nell’accogliere la più<br />
“lineare” ed obiettivamente valida lettura costituzionale<br />
delle norme censurate da un significa-<br />
(20) Sono rimaste assorbite in detta declaratoria le questioni sollevate in riferimento ad altri parametri costituzionali dalle Corti d’Appello di<br />
Genova e di Roma e dai Tribunali di Roma, Ascoli Piceno, Trieste e Viterbo.<br />
10
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
tivamente ampio numero di giudici di merito, la<br />
Corte Costituzionale, con la sentenza n. 214 del<br />
14 luglio 2<strong>00</strong>9, diversamente però dal complesso<br />
delle sollevate questioni, ha dichiarato costituzionalmente<br />
illegittimo il solo art. 4-bis del D.Lgs.<br />
n. 368 del 2<strong>00</strong>1, nel testo novellato dal D.L. n.<br />
112 del 2<strong>00</strong>8.<br />
La motivazione alla base della censura di che<br />
trattasi è stata, e non poteva essere diversamente,<br />
il contrasto con l’art. 3 della costituzione, posto<br />
che, secondo il sotteso principio di uguaglianza,<br />
a situazioni identiche (id est, contratti a termine<br />
illegittimi), erano state previste diverse discipline<br />
sostanziali.<br />
Non può infatti ritenersi costituzionalmente<br />
orientato in tal senso un meccanismo nel quale,<br />
a parità appunto di situazione di illegittimità, una<br />
parte di lavoratori potevano ottenere solamente<br />
una indennità economica in via risarcitoria, mentre<br />
un’altra parte poteva ex adverso ottenere la<br />
conversione del contratto a termine in contratto<br />
a tempo indeterminato.<br />
Il tutto, peraltro, in presenza di la circostanza<br />
causale di una pendenza o meno 21 , alla data del<br />
22 agosto 2<strong>00</strong>8, dies a quo individuato dalla legge<br />
di conversione del D.L. n. 112/2<strong>00</strong>8.<br />
Conseguentemente, la necessità di espungere dall’ordinamento<br />
positivo la ribattezzata c.d. norma<br />
antiprecari.<br />
Stando all’impostazione ermeneutica seguita dalla<br />
Corte Costituzionale nella sentenza n. 214/09, la<br />
norma oggetto di censura avrebbe (paradossalmente)<br />
superato il vaglio di costituzionalità nella<br />
versione ante emendamento presentato in sede di<br />
conversione del D.L. n. 112.<br />
Come infatti certamente si ricorderà, la originaria<br />
disposizione di legge era tesa non ad introdurre<br />
una (sorta di) sanatoria, ma principalmente un<br />
principio in ragione del quale si potesse arrivare<br />
alla eliminazione della sanzione della conversione<br />
del contratto a tempo determinato in contratto<br />
a tempo indeterminato dei contratti a termine<br />
illegittimi, sanzione questa, elaborata dalla giuri-<br />
(21) Rispettivamente con riguardo alla prima ed alla seconda categoria di lavoratori appena indicata.<br />
(22) E non solamente quindi quelli oggetto di remissione degli atti alla Consulta.<br />
Approfondimenti<br />
sprudenza in assenza di una sua espressa previsione<br />
nel D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1.<br />
Così ragionando, la disposizione di legge poi non<br />
confermata in sede di conversione del D.L. n.<br />
112/2<strong>00</strong>8, prevedeva un risarcimento legato ad<br />
un’indennità tra le 2,5 e le 6 mensilità dell’ultima<br />
retribuzione, in stretta analogia a quanto previsto<br />
dalla legge n. 108 del 1990 per i licenziamenti illegittimi<br />
nell’ambito della c.d. tutela obbligatoria.<br />
Per dovere di logica, appare però necessario<br />
chiarire che in tale eventualità non era pacifico<br />
attendersi la possibilità di richiedere l’intervento<br />
della Corte Costituzionale.<br />
La decisione della Consulta, nella parte in cui<br />
ha dichiarato l’incostituzionalità della norma<br />
sottoposta al relativo vaglio, assumendo valore<br />
erga omnes, andrà conseguentemente a vincolare<br />
tutti i giudizi di merito nei quali sono state sollevate<br />
le note criticità 22 nonché quelli che saranno<br />
instaurati successivamente.<br />
La medesima pronuncia, ex adverso, non potrà<br />
invece avere alcuna incidenza sulle situazioni<br />
giuridiche oramai consolidate, quali le sentenze<br />
passate in giudicato ovvero fattispecie conclusesi<br />
con atti conciliativi e/o transattivi.<br />
Più in generale, significativa appare invece la posizione<br />
della Consulta riguardo agli altri sollevati<br />
profili di legittimità costituzionale del D.Lgs. n.<br />
368/2<strong>00</strong>1, specie quelli afferenti all’art. 2, aventi un<br />
impatto di ordine organizzativo, nonché numerico.<br />
Sotto un profilo più eminentemente pratico,<br />
ovviamente con riguardo al profilo censurato, la<br />
decisione della Consulta riporterà le disposizioni<br />
di legge di che trattasi alla loro versione originaria<br />
(id est, 2<strong>00</strong>1) lasciando quindi immutato il quadro<br />
dei precetti e delle sottese garanzie.<br />
Interessante e significativo, specie sotto il profilo<br />
eminentemente pratico, appare il principio contenuto<br />
nella sentenza di che trattasi relativamente<br />
all’obbligo di cui all’art. 1, comma 1, del D.Lgs.<br />
n. 36872<strong>00</strong>1 di specificare le ragioni del ricorso<br />
al contratto a termine.<br />
11
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Come visto, detto articolo dispone che è consentita<br />
l’apposizione di un termine alla durata del<br />
contratto di lavoro subordinato esclusivamente a<br />
fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo,<br />
organizzativo e sostitutivo.<br />
Con l’abrogazione delle legge n. 230 del 1962 23<br />
è venuta meno l’espressa previsione secondo la<br />
quale l’apposizione di un termine al contratto di<br />
lavoro subordinato era possibile quando l’assunzione<br />
aveva luogo per la sostituzione di lavoratori<br />
assenti con diritto alla conservazione del posto<br />
di lavoro, sempreché nel relativo contratto fosse<br />
indicato il nominativo del lavoratore da sostituire<br />
e la causa della sua sostituzione.<br />
Nel ritenere come visto infondata la sollevata<br />
questione di legittimità costituzionale in parte<br />
qua, i giudici delle leggi hanno ritenuto che<br />
detto obbligo non sia venuto comunque meno<br />
nonostante l’espressa abrogazione della legge<br />
n. 230/1962 operata dall’art. 11, comma 1, del<br />
Sanatoria del contratto a<br />
termine<br />
Disciplina speciale per il<br />
settore postale<br />
Causali sostitutive<br />
Conseguenze sui giudizi<br />
in corso<br />
Conseguenze sui contratti<br />
sottoscritti per ragioni<br />
sostitutive<br />
(23) Che disciplinava il contratto di lavoro di che trattasi ed operata dall’art. 11 del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1.<br />
Approfondimenti<br />
D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1 e la mancata riproposizione<br />
nello stesso di un inciso di identico contenuto<br />
precettivo.<br />
Infatti, la sentenza n. 214/09 mette in risalto<br />
come un tale obbligo sia contemplato dall’art. 1<br />
del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1 dal momento che è espressamente<br />
disposto che “l’apposizione del termine<br />
è priva di effetto se non risulta, direttamente o<br />
indirettamente, da atto scritto nel quale sono<br />
specificate le ragioni di cui al comma 1” 24 .<br />
Da qui, pertanto, la necessità che nei casi in cui<br />
venga sottoscritto un contratto a tempo determinato<br />
per ragioni sostitutive, a pena di nullità dello<br />
stesso, sia espressamente indicato il nominativo<br />
del lavoratore sostituito e la ragione di una tale<br />
sostituzione.<br />
Volendo riassumere in sintesi le linee direttrici<br />
della sentenza della Corte Costituzionale n.<br />
214/09 e le relative conseguenze, possiamo avere<br />
il seguente quadro.<br />
Appare priva di ragionevolezza la discriminazione prevista<br />
dall’art. 4-bis del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1 con riguardo alla “sanatoria”<br />
prevista per le controversie in corso al 22 agosto 2<strong>00</strong>8, atteso<br />
che, così come impostata la norma di riferimento, venivano<br />
disposte discipline sostanzialmente diverse per situazioni nei<br />
fatti identiche.<br />
Legittimità costituzionale dell’art. 2-bis del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1,<br />
relativo alla disciplina speciale per il settore postale, atteso<br />
che con la stessa è stata operata dal legislatore una valutazione<br />
preventiva ed astratta in alcun modo irragionevole.<br />
Legittimità costituzionale dell’art. 11 del D.Lgs. n. 368/2<strong>00</strong>1 atteso<br />
che non è risultato abrogato l’obbligo di indicare il nominativo<br />
del lavoratore sostituito e le ragioni della sostituzione.<br />
I giudizi pendenti alla data del 22 agosto 2<strong>00</strong>8 andranno decisi sulla<br />
base della disciplina applicabile a tutte le controversie in tema<br />
di contratto di lavoro a determinato. Di conseguenza, la nullità<br />
del (l’apposizione del) termine determinerà la trasformazione del<br />
rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato.<br />
I contratti a tempo determinato sottoscritti per ragioni sostitutive<br />
dovranno inderogabilmente contenere sia il nominativo del<br />
lavoratore sostituito che il motivo della necessità di sostituzione.<br />
(24) Ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro.<br />
12
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Approfondimenti<br />
Ancora sull’accesso alle dichiarazioni<br />
rese dai lavoratori nelle ispezioni<br />
PIETRO SCUDELLER<br />
Sentenza n. 736 del 9 febbraio 2<strong>00</strong>9, VI Sezione, Consiglio di Stato<br />
Ai sensi degli artt. 22, c. 1, lett. c), e 24, c. 6, punto d), legge 7.8.1990 n. 241, e 2 e 3 Dm<br />
4.11.1994 n. 757, non sussiste il diritto di accesso, da parte di un’impresa che abbia subito<br />
un’ispezione degli Ispettori del lavoro, alla documentazione allegata al verbale ispettivo, e in<br />
particolare alle dichiarazioni rese dai dipendenti dell’impresa stessa, in relazione all’esigenza<br />
di salvaguardare la vita privata e la riservatezza dei dipendenti stessi, tenendo presente che se<br />
è vero che, in via generale, le necessità difensive - riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24<br />
Cost. - sono ritenute prioritarie rispetto alla riservatezza di soggetti terzi, non bastano all’uopo<br />
esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo<br />
corrispondere a una effettiva necessità di tutela di interessi che si assumono lesi ed ammettendosi<br />
solo nei limiti in cui sia «strettamente indispensabile» la conoscenza di documenti,<br />
contenenti «dati sensibili e giudiziari»; pertanto, ferma restando una possibilità di valutazione<br />
«caso per caso», che potrebbe talvolta consentire di ritenere prevalenti le esigenze difensive<br />
in questione, non può tuttavia dirsi esistente una generalizzata soccombenza dell’interesse<br />
pubblico all’acquisizione di ogni possibile informazione, per finalità di controllo della regolare<br />
gestione dei rapporti di lavoro, rispetto al diritto di difesa delle società o imprese sottoposte<br />
ad ispezione: il primo di tali interessi, infatti, non potrebbe non essere compromesso dalla<br />
comprensibile reticenza di lavoratori, cui non si accordasse la tutela di cui si discute, mentre<br />
il secondo risulta comunque garantito dall’obbligo di motivazione per eventuali contestazioni,<br />
dalla documentazione che ogni datore di lavoro è tenuto a possedere, nonché dalla possibilità<br />
di ottenere accertamenti istruttori in sede giudiziaria.”<br />
Sentenza n. 1842 del 29 gennaio 2<strong>00</strong>8, IV Sezione, Consiglio di Stato<br />
L’esigenza di riservatezza di chi abbia reso dichiarazioni, riguardanti se stesso od anche altri<br />
soggetti, agli ispettori del Ministero del <strong>Lavoro</strong>, senza autorizzarne la divulgazione, non viene<br />
meno neanche a seguito dell’avvenuta cessazione del rapporto di lavoro, non attenendo la<br />
sfera di interessi in questione alla sola tutela delle posizioni del lavoratore ed essendo queste<br />
ultime, comunque, rilevanti anche in rapporto all’ambiente professionale di appartenenza,<br />
più largamente inteso 1 .<br />
(1) La sentenza è riportata per esteso in Informaz. prev. n. 3/2<strong>00</strong>8, p. 706.<br />
13
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Come noto agli operatori del settore, le ispezioni<br />
sul lavoro, siano esse condotte da ispettori della<br />
Direzione Provinciale del <strong>Lavoro</strong> o da ispettori<br />
degli Istituti previdenziali, spesso si basano sulle<br />
dichiarazioni che gli ispettori stessi raccolgono tra<br />
i lavoratori presenti in azienda, le quali vengono<br />
trascritte in appositi verbali.<br />
È altresì nota l’importanza che spesso tali dichiarazioni<br />
acquistano per il sostegno del verbale di<br />
accertamento di violazioni commesse dal datore<br />
di lavoro e quindi l’importanza per quest’ultimo,<br />
qualora intenda contestare il verbale o gli atti<br />
irrogatori di sanzioni conseguenti, di poter leggere<br />
tali dichiarazioni per poter capire su cosa si fondano<br />
le contestazioni mosse e per poter decidere<br />
come articolare la propria difesa, sia nella fase di<br />
contenzioso amministrativo, che nell’eventuale<br />
fase di contenzioso giudiziario.<br />
È altresì noto che la giurisprudenza amministrativa<br />
sul punto è stata alquanto oscillante ed incerta: a<br />
pronunce favorevoli ai datori di lavoro, si sono infatti<br />
contrapposte anche pronunce che approvavano<br />
l’operato delle amministrazioni che negavano<br />
ai datori di lavoro richiedenti l’accesso alle stesse.<br />
Sulla disciplina legislativa e sulla giurisprudenza<br />
precedente, basterà quindi rinviare ai numerosi<br />
scritti già intervenuti nel più recente passato,<br />
anche su questa stessa rivista 2 .<br />
Certo è che ad un orientamento, che si poteva ritenere<br />
prevalente, di sentenze favorevoli ai datori<br />
di lavoro negli anni passati, si contrappongono<br />
ora le due sentenze in commento, che rafforzano<br />
l’orientamento opposto ed introducono vincoli di<br />
rigidità che appaiono inaccettabili, anche perché<br />
basati su motivazioni non condivisibili ed anzi<br />
censurabili.<br />
Le motivazioni - la sentenza del 2<strong>00</strong>9 richiama<br />
espressamente il proprio precedente del 29.1.2<strong>00</strong>8<br />
- si basano sul disposto del Regolamento n. 757<br />
Approfondimenti<br />
del 4.11.1994 - che il Ministero del <strong>Lavoro</strong> si è<br />
dato in virtù dell’art. 24, quarto comma, della L.<br />
241/1990 - il quale, all’art. 2, elenca i tipi di atti<br />
che sono sottratti al diritto di accesso: tra di essi<br />
“i documenti contenenti notizie acquisite nel<br />
corso dell’attività ispettiva, quando dalla loro<br />
divulgazione possano derivare azioni discriminatorie<br />
o indebite pressioni o pregiudizi a carico dei<br />
lavoratori o di terzi, finché perdura il rapporto di<br />
lavoro (salvo il segreto istruttorio ex art. 329 del<br />
codice di procedura penale)” 3 .<br />
La sentenza 1842 del 2<strong>00</strong>8, infatti, richiamata<br />
tale normativa ed i propri precedenti, nel senso<br />
del diniego all’accesso, del 27.1.1999 n. 65 e del<br />
19.11.1996 n. 1604, afferma che nessuna ragione<br />
vi sarebbe per discostarsi da tale orientamento e<br />
che persino nel caso di avvenuta cessazione del<br />
rapporto lavorativo con il dichiarante, l’esigenza<br />
di riservatezza di quest’ultimo non verrebbe meno,<br />
“non attenendo la sfera di interessi in questione<br />
alla sola tutela delle posizioni del lavoratore ed<br />
essendo queste ultime, comunque, rilevanti anche<br />
in rapporto all’ambiente professionale di appartenenza,<br />
più largamente inteso.<br />
Sembra appena il caso di sottolineare, al riguardo,<br />
la prevalenza dell’interesse pubblico all’acquisizione<br />
di ogni possibile informazione, a tutela<br />
della sicurezza e della regolarità dei rapporti di<br />
lavoro, rispetto al diritto di difesa delle società o<br />
imprese sottoposte ad ispezione: il primo, infatti,<br />
non potrebbe non essere compromesso dalla<br />
comprensibile reticenza di lavoratori, cui non<br />
si accordasse la tutela di cui si discute, mentre il<br />
secondo risulta comunque garantito dall’obbligo<br />
di motivazione per eventuali contestazioni e<br />
dalla documentazione che ogni datore di lavoro<br />
è tenuto a possedere.”<br />
Nell’approvare tale motivazione, una commentatrice<br />
4 s’è spinta addirittura a scrivere: “l’eventuale<br />
conoscenza delle dichiarazioni rese dagli<br />
(2) In particolare pare opportuno rinviare a: PIERO GUALTIEROTTI, Il datore di lavoro ha diritto alla copia delle dichiarazioni rilasciate agli ispettori<br />
dai lavoratori (a meno che…), in questa Rivista n. 2/2<strong>00</strong>7, pag. 2; PIERLUIGI RAUSEI, Accesso agli atti d’ispezione. Una questione ancora aperta, in D.P.L.<br />
n. 31/2<strong>00</strong>7 (Inserto); ALESSANDRA MILLO, L’accesso agli atti dell’ispezione del lavoro, in La circolare di lavoro e previdenza n. 2/2<strong>00</strong>9, pag. 2.<br />
(3) La parentesi è del sottoscritto, per intendere che dei casi in cui gli atti siano rilevanti anche ai fini di un’indagine penale non ci si occupa,<br />
essendo in effetti pacifico (su ciò nulla questio) che quando nel corso dell’ispezione emergano fatti anche penalmente rilevanti, da un lato gli ispettori<br />
hanno l’obbligo di procedere con le cautele di cui all’art. 220 disp. att. c.p.p., dall’altro essi devono riferire al P. M. competente, scattando quindi su<br />
tali atti il segreto istruttorio di cui all’articolo citato, fino a chiusura delle indagini preliminari.<br />
(4) L’avvocato dell’INPS Francesca Ferrazzoli, in Informaz. prev. n. 3/2<strong>00</strong>8, pagg. 712-713.<br />
14
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
ispettori da parte dei datori di lavoro potrebbe<br />
comportare conseguenze pregiudizievoli per i<br />
dipendenti… in quanto il lavoratore potrebbe<br />
subire ripercussioni sia relativamente alla propria<br />
posizione all’interno dell’azienda che in rapporto<br />
all’ambiente professionale largamente inteso. In<br />
questo senso, il diniego all’accesso si propone di<br />
prevenire discriminazioni, pressioni o ritorsioni ai<br />
danni del dipendente, che potrebbero essere poste<br />
in essere non solo da parte del datore di lavoro ma<br />
anche da terzi…”.<br />
La mentalità che traspare dalla motivazione della<br />
sentenza e dal commento richiamato, è gravemente<br />
censurabile per la semplice ragione che finisce<br />
per attribuire ai datori di lavoro, come scontati e<br />
necessari, o quantomeno probabili, comportamenti<br />
altamente scorretti e addirittura delinquenziali<br />
(gli atti discriminatori sono puniti penalmente<br />
per effetto degli artt. 15 e 38 St. Lav.; le pressioni<br />
si può ben immaginare che finiscano perloppiù<br />
per tradursi in minacce, punite ex art. 612 c.p.; le<br />
ritorsioni possono essere di vario genere, ma anch’esse<br />
difficilmente sono immaginabili quali atti<br />
leciti e per i quali non sussista una tutela dell’ordinamento<br />
a favore del lavoratore, nella disciplina<br />
del mobbing, in quella limitativa dei licenziamenti,<br />
o nelle altre numerosissime norme generali che<br />
disciplinano i rapporti di lavoro subordinato).<br />
È mai possibile dunque motivare un provvedimento<br />
giudiziale dando per scontato o comunque<br />
presupponendo come probabile un comportamento<br />
del datore di lavoro illecito o addirittura<br />
delinquenziale? Evidentemente no: si tratta di<br />
argomenti che cozzano con la realtà di molti one-<br />
Approfondimenti<br />
stissimi datori di lavoro esistenti e che risultano<br />
persino offensivi nei loro confronti.<br />
Quando la norma regolamentare, invero, fa riferimento<br />
al diniego di accesso “quando” [cioè “nei<br />
(soli) casi in cui”] “dalla loro divulgazione possano<br />
derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni<br />
o pregiudizi a carico dei lavoratori o di terzi”,<br />
è evidente che richiede una valutazione caso per<br />
caso nella quale non si potrà dare per scontato<br />
che tale rischio sussista per definizione, sempre<br />
ed immancabilmente, per il fatto stesso che esiste<br />
un lavoratore ed un datore di lavoro, pena<br />
l’inaccettabile equiparazione offensiva “datore di<br />
lavoro = delinquente” suddetta. Occorre invece<br />
un’analisi del caso specifico e, in caso di diniego,<br />
una motivazione dell’atto ben dettagliata e specifica<br />
che indichi le ragioni per cui l’amministrazione<br />
ritiene ricorrere quel tipo di rischio nel caso<br />
concreto. Motivazione che poi potrà, se del caso,<br />
essere portata al vaglio dei giudici amministrativi.<br />
In mancanza di una siffatta, articolata sul caso<br />
specifico, motivazione, il diniego all’accesso,<br />
dovrebbe essere sempre censurato dai giudici,<br />
proprio perché non rispondente ai requisiti del<br />
regolamento della stessa amministrazione 5 .<br />
Ma la motivazione in commento è censurabile<br />
poi anche nel passo ove afferma: “Sembra appena<br />
il caso di sottolineare, al riguardo, la prevalenza<br />
dell’interesse pubblico all’acquisizione di ogni<br />
possibile informazione, a tutela della sicurezza e<br />
della regolarità dei rapporti di lavoro, rispetto al<br />
diritto di difesa delle società o imprese sottoposte<br />
ad ispezione”.<br />
(5) Del tutto analogo è anche il parere, che, dopo aver formulato le suddette riflessioni, s’è reperito, del Collega ANDREA STANCHI, in Guida al<br />
lavoro n. 11 del 13 marzo 2<strong>00</strong>9, p. 40, nel commento a Cons. di Stato n. 736/2<strong>00</strong>9. L’Autore ivi, molto condivisibilmente, afferma: “…Non appare<br />
invece motivata in alcun modo la sussistenza della potenzialità del pregiudizio. Tale elemento causale infatti, a parere di chi scrive, non può leggersi,<br />
nel sistema della disciplina del diritto di accesso come sopra ricostruito e qual è la funzione che gli si assegna nell’Ordinamento, come potenzialità<br />
astratta in relazione alla posizione soggettiva di «lavoratore». Perché ciò sarebbe privo di ogni ragione giustificante la disciplina della previsione<br />
e normativa: se l’accesso alle dichiarazioni del lavoratore in quanto tale determinano il rischio di compromissione della sua posizione debole, non<br />
ha senso prevedere una specifica valutazione al riguardo, come fa la norma; l’unica soluzione è vietarlo. Tale lettura sarebbe contraria ai principi<br />
anche costituzionali (artt. 2 e 3 e 41 Cost. in particolare), perché finirebbe per individuare - per posizione nell’Ordinamento - il datore di lavoro<br />
come un soggetto sia pure astrattamente potenzialmente uso a pressioni e ritorsioni. Il che è - culturalmente prima che civilmente e giuridicamente<br />
- lettura squalificante e non degna di un ordinamento democratico. La potenzialità va quindi letta come una potenzialità concreta di rischio della<br />
sussistenza di pregiudizi per quel lavoratore dichiarante, che vanno motivati e non possono essere apodittici. La regola allora è che il diritto di accesso<br />
è un diritto che prevale su quello dell’Amministrazione, che è tenuta ad operare con trasparenza e quindi deve consentire all’impresa di verificare<br />
gli atti sui quali procede, assumendo le idonee garanzie per i dichiaranti. L’Amministrazione dunque, rispetto alla fattispecie, non ha un diritto<br />
proprio di rifiutare l’accesso, salvo il rischio del pregiudizio causalmente qualificato alla riservatezza del lavoratore dichiarante. Che come tale deve<br />
essere rischio concreto di pregiudizio, ossia motivato e poi provato nel procedimento, perché deve essere verificabile dal giudice e - in ossequio al<br />
contraddittorio - controbattibile dal datore di lavoro che assume l’esigenza di accesso, il quale può offrire - ritengo - garanzie idonee ad assicurare il<br />
ripristino dell’equilibrio nel bilanciamento. Se questa lettura, sinteticamente esposta e quindi con tutte le pecche del caso, fosse condivisibile, sotto<br />
questo ultimo profilo la decisione apparirebbe non adeguatamente motivata e difforme dal sistema.”<br />
15
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
In effetti qui i due interessi contrapposti, pubblico<br />
e privato, vengono sbilanciati a favore di quello<br />
pubblico, con una motivazione apodittica e tautologica:<br />
si dà per scontato, cioè, che l’interesse<br />
pubblico debba prevalere, in quanto tale, su quello<br />
privato; ma non è così: nel nostro ordinamento, e<br />
segnatamente nella nostra Carta Costituzionale,<br />
vi è un’ispirazione liberale, per la quale l’interesse<br />
privato prevale su quello pubblico, che emerge<br />
ripetutamente, sia nell’affermazione dell’inviolabilità<br />
assoluta dei diritti fondamentali dell’individuo,<br />
sia in principi successivi che ne costituiscono<br />
varie attuazioni, come quello della presunzione di<br />
innocenza (art. 27, 2° comma, Cost.) o in quello<br />
della limitazione alle entrate dello Stato sulla base<br />
della capacità contributiva dell’individuo (art. 53<br />
Cost.), ecc.<br />
Come si può quindi dare per scontata, senza bisogno<br />
di motivazione, una prevalenza dell’interesse<br />
pubblico su quello privato? Sarebbe semmai legittimo<br />
asserire il contrario.<br />
Ciò va affermato con particolare forza, perché,<br />
purtroppo, non è raro cogliere questa supposta,<br />
ma invero inesistente, mentalità di una prevalenza<br />
del pubblico sul privato, in ragionamenti giuridici,<br />
sentenze, commenti, ecc.<br />
Purtroppo si fa poca attenzione, in questi casi, al<br />
fatto che le Carte Costituzionali sono sempre nate,<br />
storicamente, per opporsi agli abusi di Stati dittatoriali<br />
ed agli ingiusti sacrifici di diritti individuali;<br />
dare per scontata una prevalenza degli interessi<br />
pubblici su quelli del singolo privato equivale a<br />
porsi proprio in quella prospettiva autoritaria che<br />
anche la nostra Costituzione vuole combattere.<br />
Infine la motivazione del Consiglio di Stato è<br />
censurabile anche nella parte in cui estende la<br />
tutela della riservatezza anche al periodo in cui<br />
il rapporto di lavoro è già cessato, in quanto si<br />
spinge così al di là della stessa lettera del regolamento<br />
richiamato: “finché perdura il rapporto<br />
di lavoro”.<br />
L’estensione in via interpretativa del divieto di accesso<br />
anche al periodo in cui il rapporto di lavoro è<br />
cessato viene giustificata con l’esigenza di tutelare<br />
il lavoratore nell’ambiente di lavoro e da possibili<br />
ripercussioni da parte di terzi: si vuol far credere<br />
dunque che si sospettano, senza giustificazione, di<br />
Approfondimenti<br />
probabili nefandezze non solo il datore di lavoro<br />
interessato, ma addirittura anche i possibili datori<br />
di lavoro successivi! Il che risulta, per i motivi<br />
sopra esposti, davvero eccessivo e fuori luogo.<br />
Non si vuol certo negare o disconoscere che esistano<br />
in Italia realtà di datori di lavoro tutt’altro<br />
che corretti e magari anche in grado di influenzare<br />
negativamente tutto un certo ambiente di<br />
lavoro (basti pensare alle zone controllate dalle<br />
note organizzazioni criminali di mafia, camorra,<br />
‘ndrangheta, sacra corona unita, ecc.), tuttavia se<br />
il datore di lavoro appartiene a siffatte cerchie, la<br />
sentenza dovrà indicare le ragioni, quantomeno<br />
indiziarie, per potergli imputare comportamenti<br />
a rischio di discriminazioni, pressioni e ritorsioni.<br />
E tali sentenze non potranno mai, rimanendo immotivate,<br />
come pure se così motivate, costituire<br />
precedente applicabile immotivatamente anche<br />
a qualsiasi altro datore di lavoro d’Italia.<br />
Si consideri poi che persino nel procedimento<br />
penale - nella situazione analoga in cui deve<br />
essere tutelata la libertà di testimoni che devono<br />
essere sentiti in contraddittorio, per la necessità<br />
del formarsi della prova nel dibattimento -, una<br />
volta chiuse le indagini preliminari, avviene la<br />
così detta discovery con la quale il pubblico ministero<br />
mette a disposizione dell’imputato, anche<br />
se si tratta di sospettato dei più gravi reati, tutti<br />
gli elementi di prova a propria disposizione, al<br />
fine di garantirgli un puntuale e specifico potere<br />
di contestazione e controdeduzione (qui non c’è<br />
rischio di inquinamento che tenga!).<br />
Come si potrebbe negare, dunque, una siffatta<br />
garanzia di discovery, che si attua nel nostro caso<br />
solo con la possibilità di accedere alle dichiarazioni<br />
rilasciate agli ispettori, al “povero” datore<br />
di lavoro, in circostanze molto meno gravi, quali<br />
quelle di possibili illeciti amministrativi (sia pur,<br />
ovviamente, una volta conclusa e chiusa l’indagine<br />
ispettiva)? Non dovrebbe godere egli di una<br />
sorta di analoga presunzione di innocenza anche<br />
in relazione ad eventuali illeciti amministrativi<br />
(id est lavoristici e/o previdenziali)?<br />
Neppure convince la tesi secondo la quale il<br />
diritto di difesa del datore di lavoro sarebbe<br />
ugualmente garantito dal contenuto del verbale<br />
di accertamento e dalla documentazione obbligatoria<br />
in suo possesso.<br />
16
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Innanzitutto si deve considerare che sul datore di<br />
lavoro che agisca in giudizio gravano gli obblighi<br />
di completa indicazione dei mezzi di prova fin dal<br />
ricorso introduttivo, ex artt. 414, 1° comma, n.<br />
5, e 442, c.p.c. Egli deve quindi poter conoscere<br />
tutti i dettagli della controversia fin da prima di<br />
iniziare l’eventuale causa: cosa che non può dirsi<br />
avverrebbe, se egli dovesse limitarsi a conoscere<br />
delle accuse che gli sono rivolte dal solo verbale,<br />
senza conoscere gli elementi sui quali esso si basa.<br />
L’insufficienza, poi, dei verbali è dimostrabile con<br />
molti e facili esempi: se nel verbale si sostiene,<br />
ad esempio, che un lavoratore sarebbe stato “in<br />
nero” per i primi sei mesi del suo rapporto, il<br />
datore di lavoro, per contestare efficacemente<br />
tale circostanza, in ipotesi falsamente riferita<br />
agli ispettori o erroneamente dedotta dagli stessi,<br />
deve poter sapere se tale periodo è stato indicato<br />
da uno o più testimoni o se è stato desunto dalla<br />
data della fine del rapporto precedente del lavoratore,<br />
ovvero ancora magari dalla data di inizio<br />
del cantiere cui era addetto; perché a seconda<br />
di come la circostanza è stata riferita o dedotta,<br />
diverse, singole o molteplici, potranno essere le<br />
prove contrarie ch’egli potrà scegliere di indicare<br />
a propria discolpa.<br />
Ancora: se un rapporto di lavoro viene considerato<br />
subordinato anziché autonomo, spesso i verbali<br />
non indicano tutte le circostanze specifiche sulle<br />
quali tale conclusione si basa; come potrà quindi<br />
difendersi il datore di lavoro? Contestando che<br />
cosa?<br />
Ancora: se una certa dichiarazione proviene da un<br />
lavoratore che è appena stato licenziato, oppure da<br />
lavoratore che ha grave procedimento disciplinare<br />
in corso o invece da lavoratore sul quale nulla<br />
di tutto ciò grava, la loro credibilità sarà sempre<br />
la stessa? O piuttosto si dovrà pur permettere al<br />
datore di lavoro di sapere chi ha dichiarato che<br />
cosa, al fine di controdedurre sulla attendibilità<br />
del testimone?<br />
D’altronde sarebbe come, mutuando ancora dal<br />
penale, se si dicesse all’imputato ch’egli può ben<br />
difendersi anche conoscendo solo le accuse con-<br />
Approfondimenti<br />
tenute nel decreto di citazione a giudizio, senza<br />
consentirgli di vedere su quali prove il Pubblico<br />
Ministero formula le accuse.<br />
Infine, se si considera che ad una discovery che<br />
non avvenga in fase stragiudiziale consegue sempre<br />
necessariamente una pari discovery in sede<br />
giudiziale, poiché le dichiarazioni dei lavoratori<br />
vengono sempre necessariamente prodotte in<br />
giudizio, nel caso di promovimento di esso da<br />
parte del datore di lavoro, tutta questa resistenza<br />
a fornirle un po’ prima, motivata sulle esigenze di<br />
riservatezza del lavoratore, che senso ha, quando<br />
comunque, poco più tardi, tali esigenze finiscono<br />
necessariamente per dover essere poi del tutto<br />
trascurate?<br />
Né è accettabile il ragionamento fatto dal Consiglio<br />
di Stato nella prima sentenza in commento,<br />
laddove afferma che le ragioni del datore di lavoro<br />
sarebbero comunque tutelate anche “dalla possibilità<br />
di ottenere accertamenti istruttori in sede giudiziaria”:<br />
in questo modo infatti si costringerebbe<br />
il datore di lavoro ad agire in giudizio in ogni caso<br />
ed al buio, con il rischio sia di dover soccombere<br />
e pagare le spese, sia magari di dover rinunciare<br />
a benefici e disposizioni premiali che riducono le<br />
sanzioni in caso di mancata opposizione; in altre<br />
parole il diritto di difesa si assicura garantendo<br />
anche la possibilità di scelta tra l’agire in giudizio<br />
ed il non agire.<br />
Tutto ciò, dunque, si è osservato alla luce del<br />
regolamento citato, dal quale le sentenze stesse<br />
in commento prendono le mosse.<br />
Ma quel che è ancor più grave, è che il Regolamento<br />
757 del 1994 risulta essere in palese contrasto<br />
con le norme di rango gerarchico superiore<br />
contenute nella Legge 241/1990 e successive modifiche<br />
(in particolare con la Legge 11 febbraio<br />
2<strong>00</strong>5 n. 15 e, di recente, ulteriormente con la L.<br />
18 giugno 2<strong>00</strong>9 n. 69). Sicché sia il testo previgente<br />
al 2<strong>00</strong>5 sia l’attuale testo di legge, come già<br />
rilevato dalla dottrina citata e da altre sentenze<br />
dello stesso Consiglio di Stato 6 , consentono ed<br />
obbligano a disapplicare il Regolamento citato,<br />
per contrasto con la fonte legislativa da cui esso<br />
(6) PIERO GUALTIEROTTI, citato alla nota 2, ed, ivi, Cons. di Stato, Sez. VI, 3 maggio 2<strong>00</strong>2 n. 2366, Cons. di Stato, Sez. VI, 10 aprile 2<strong>00</strong>3, n.<br />
1923, TAR Piemonte 4021/2<strong>00</strong>5, TAR Veneto 18 gennaio 2<strong>00</strong>6.<br />
17
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
promana 7 . Le sentenze in commento non spiegano<br />
affatto, sotto tale profilo, il revirement interpretativo,<br />
anzi sembrano aver proprio dimenticato<br />
ovvero trascurato tale aspetto.<br />
In effetti sia il nuovo testo dell’art. 24 della<br />
L. 241/1990, che il vecchio 8 , autorizzano le<br />
singole pubbliche amministrazioni all’emanazione<br />
di regolamenti disciplinanti i casi di<br />
esclusione del diritto d’accesso, ma entrambi<br />
i testi prevedevano e prevedono che il diritto<br />
alla riservatezza e quindi l’esclusione dal diritto<br />
di accesso cedano di fronte al superiore diritto<br />
dei richiedenti, nei casi di richiesta motivata da<br />
Approfondimenti<br />
necessità di curare o difendere i propri diritti o<br />
interessi giuridici.<br />
Sicchè qualsiasi divieto o limite al diritto di<br />
accesso, motivato da regolamenti che facciano<br />
prevalere il diritto alla riservatezza degli interessati<br />
rispetto al diritto di difesa dei richiedenti,<br />
ancorché motivato dalla previsione del caso in<br />
cui la divulgazione delle notizie possa far derivare<br />
discriminazioni, pressioni o pregiudizi a carico di<br />
lavoratori, risulta illegittimo e va disapplicato dal<br />
giudice per contrarietà alla legge (cioè, ora, al<br />
disposto della prima parte del comma 7 dell’art.<br />
24 L. 241/’90).<br />
(7) Anche nel testo precedente (2° e 4° comma dell’art. 24) l’esclusione dell’accesso alle dichiarazioni dei lavoratori effettuata tramite il disposto<br />
regolamentare era fondata sulla previsione di legge che attribuiva il potere alle pubbliche amminisatrazioni di escludere il diritto d’accesso quando<br />
necessario a tutelare “la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, garantendo peraltro agli interessati la visione degli atti relativi ai procedimenti<br />
amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro interessi giuridici”. Nel testo attuale, invece, il fondamento si<br />
può individuare, per le pubbliche amministrazioni in genere, a mio parere, nel combinato disposto del comma 1, lett. a), ultima parte, e del comma<br />
2, mentre, per il Governo, starebbe nella previsione dell’art. 24, comma 6, lett. d (“quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza<br />
di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi…”). Invero il comma 6 è tuttora in attesa di applicazione, mancando il regolamento di definitiva<br />
attuazione: infatti il D.P.R. 184/2<strong>00</strong>6 che ha dettato le regole specifiche circa l’esercizio del diritto di accesso alla luce delle novità normative introdotte<br />
dalla legge n. 15/2<strong>00</strong>5, ha transitoriamente mantenuto in vigore, fino appunto all’emanazione del predetto regolamento, a tutt’oggi ancora<br />
mancante, l’art. 8 del D.P.R. n. 352/1992, che contiene dicitura identica, quanto al caso della tutela della riservatezza delle persone, a quella di cui<br />
al nuovo testo dell’art. 24, comma 6, lett. d).<br />
(8) “1. Il diritto di accesso è escluso:<br />
a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24 ottobre 1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di<br />
divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi<br />
del comma 2 del presente articolo;<br />
b) nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano;<br />
c) nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione<br />
e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione;<br />
d) nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi.<br />
2. Le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità<br />
sottratti all’accesso ai sensi del comma 1.<br />
3.<br />
4. L’accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento.<br />
5. I documenti contenenti informazioni connesse agli interessi di cui al comma 1 sono considerati segreti solo nell’ambito e nei limiti di tale<br />
connessione. A tale fine le pubbliche amministrazioni fissano, per ogni categoria di documenti, anche l’eventuale periodo di tempo per il quale essi<br />
sono sottratti all’accesso.<br />
6. Con regolamento, adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 4<strong>00</strong>, il Governo può prevedere casi di sottrazione<br />
all’accesso di documenti amministrativi:<br />
a) quando, al di fuori delle ipotesi disciplinate dall’articolo 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, dalla loro divulgazione possa derivare una<br />
lesione, specifica e individuata, alla sicurezza e alla difesa nazionale, all’esercizio della sovranità nazionale e alla continuità e alla correttezza delle<br />
relazioni internazionali, con particolare riferimento alle ipotesi previste dai trattati e dalle relative leggi di attuazione;<br />
b) quando l’access<br />
c) quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le azioni strettamente strumentali alla tutela dell’ordine pubblico,<br />
alla prevenzione e alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle fonti di informazione<br />
e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte, all’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini;<br />
d) quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare<br />
riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché<br />
i relativi dati siano forniti all’amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono;<br />
e) quando i documenti riguardino l’attività in corso di contrattazione collettiva nazionale di lavoro e gli atti interni connessi all’espletamento<br />
del relativo mandato.<br />
7. Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere<br />
i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente<br />
indispensabile e nei termini previsti dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2<strong>00</strong>3, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute<br />
e la vita sessuale.”<br />
18
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Il diritto di difesa, dunque, nell’ordinamento<br />
attuale, prevale a tal punto su ogni altro diritto<br />
(compreso quello alla riservatezza dei lavoratori<br />
e quello pubblico ad una raccolta delle informazioni<br />
da parte degli ispettori esente da rischi di<br />
inquinamento o distorsioni per effetto di eventuali<br />
timori di ritorsioni), da rendere obsolete anche le<br />
preoccupazioni o i relativi accorgimenti, in passato<br />
ritenuti rilevanti, quali l’oscuramento dei nomi<br />
dei dichiaranti, altre garanzie offribili dal datore<br />
di lavoro, o i rischi di qualsiasi tipo connessi alla<br />
personalità di quest’ultimo.<br />
A conferma della prevalenza del diritto di difesa, di<br />
rango costituzionale (art. 24 Cost.), sul diritto alla<br />
riservatezza, merita di essere ricordata anche una<br />
recentissima sentenza della Cassazione lavoro, la<br />
n. 15327 del 30 giugno 2<strong>00</strong>9 che, pronunciandosi<br />
nel caso di un datore di lavoro che s’era avvalso di<br />
alcuni scritti di un dipendente per produrli a terzi<br />
quali scritture di comparazione, al fine di accertare<br />
l’autore, tra i propri dipendenti, di uno scritto<br />
ingiurioso, ha affermato: “Invero, come affermato<br />
da questa Corte in analoghe occasioni, in tema<br />
di trattamento dei dati personali l’interesse alla<br />
riservatezza, tutelato dall’ordinamento positivo,<br />
recede quando quest’ultimo sia esercitato per la<br />
difesa di un interesse giuridicamente rilevante e<br />
nei soli ovvi limiti in cui esso sia necessario alla<br />
tutela. La L. 675 del 1996, infatti, non configurando<br />
uno “statuto generale della persona”, non<br />
si applica generalizzatamente ad ogni situazione<br />
soggettiva comunque riconducibile al novero<br />
dei diritti della persona, ma soltanto a quelle tra<br />
le predette situazioni soggettive che rientrano<br />
nell’ambito di applicazione della L. 675 del 1996<br />
come normativamente delineato in relazione al<br />
fenomeno del “trattamento dei dati personali”,<br />
precludendo l’accesso solo per quei documenti<br />
relativi ai dati sensibili della persona (vita privata,<br />
riservatezza sullo stato di salute, fede religiosa,<br />
difesa della dignità umana) (Cass. 24 maggio<br />
2<strong>00</strong>3 n. 8239).<br />
Di conseguenza deve escludersi che sempre ed in<br />
ogni caso, quando si abbia una divulgazione dei<br />
Approfondimenti<br />
dati relativi alla persona, si realizzi una violazione<br />
della L. 675 del 1996 a tutela del legittimo titolare<br />
dei dati personali, non potendosi prescindere da<br />
un giudizio di comparazione, rimesso al giudice di<br />
merito, degli interessi in gioco.”<br />
Giudizio di comparazione che, nel caso del diritto<br />
di accesso ai documenti amministrativi, è già effettuato<br />
nella legge, ove è risolto sempre e comunque<br />
a favore dell’accesso, non appena esso sia necessario<br />
per la tutela di propri diritti. Un minimo<br />
spazio di valutazione residua, quindi, soltanto per<br />
l’accertamento del presupposto della necessità,<br />
che però non potrà certo negarsi per il solo fatto,<br />
ad esempio, che le accuse sono reperibili altrove.<br />
La tutela dovrà ritenersi necessaria ogni qual volta<br />
il richiedente possa trarre una sia pur minima<br />
utilità dall’esame dei documenti dei quali chiede<br />
l’accesso, ai fini delle valutazioni operabili nella<br />
prospettiva della presentazione di un ricorso, sia<br />
amministrativo che giudiziale, o addirittura per la<br />
prospettata ipotesi di una qualsiasi altra iniziativa<br />
di tutela o difesa di propri interessi (come recita<br />
testualmente il comma 7 dell’art. 24 citato): ad<br />
esempio una denuncia, una querela, una istanza<br />
amministrativa, ecc. Ogni altra valutazione, nel<br />
caso di richieste per la tutela di diritti o interessi<br />
giuridici, è esclusa dalla legge e non può quindi<br />
essere svolta né dalle pubbliche amministrazioni,<br />
né dai giudici.<br />
Insomma il diritto di accesso alle dichiarazioni<br />
rese dai lavoratori è per il datore di lavoro sempre<br />
garantito e non vi possono più essere ostacoli o<br />
riserve di alcun tipo ad una piena attuazione di<br />
esso da parte delle pubbliche amministrazioni,<br />
chiamate a rivedere i loro regolamenti interni<br />
quando inadeguati, e soprattutto dai giudici amministrativi,<br />
chiamati, se del caso, a disapplicare<br />
i medesimi.<br />
Le sentenze commentate, per conseguenza, lungi<br />
dal poter essere encomiate come fatto da alcuni<br />
primi commentatori 9 , risultano gravemente ingiuste,<br />
superate dall’ordinamento, e non dovrebbero<br />
trovare alcun seguito.<br />
(9) Ci si riferisce agli avvocati INPS Lidia Carcavallo e Francesca Ferrazzoli, nella citata Inf. prev. n. 3/2<strong>00</strong>8.<br />
19
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Approfondimenti<br />
Ripartizione dell’onere della prova nelle<br />
opposizioni a cartelle di pagamento dell’Inps<br />
in relazione a pretese contributive<br />
ELIA NOTARANGELO<br />
Tribunale di Alba, Sezione <strong>Lavoro</strong>, Est. Marson, 23 maggio 2<strong>00</strong>8<br />
Con ricorso depositato il 4 dicembre 2<strong>00</strong>6 e regolarmente notificato, il signor C.A., titolare della<br />
“FARMACIA (omissis)”, proponeva opposizione avverso la cartella esattoriale I.N.P.S. n. (omissis),<br />
notificata in data 26 ottobre 2<strong>00</strong>6, contestando la fondatezza delle richieste economiche ivi<br />
formulate.<br />
Nel dettaglio, il ricorrente, titolare di farmacia ed iscritto all’albo dei farmacisti e all’ENPAF,<br />
contestava le risultanze del verbale di accertamento I.N.P.S., nonché la conseguente emissione<br />
della cartella esattoriale opposta, con la quale gli venivano addebitate omissioni contributive<br />
nella gestione commercianti relativamente alla posizione della coniuge, iscritta d’ufficio quale<br />
coadiutore familiare, contestando altresì la propria iscrizione nella stessa gestione quale titolare<br />
non attivo.<br />
A fondamento del ricorso sosteneva che, quale che fosse l’attività concretamente svolta all’interno<br />
della propria farmacia, ciò non avrebbe consentito il mutamento della propria qualifica di professionista,<br />
già iscritto alla cassa gestita dal proprio ordine professionale, con illegittima iscrizione<br />
d’ufficio nella gestione commercianti dell’I.N.P.S.<br />
In merito alla posizione del coadiutore affermava l’inesistenza di disposizioni legislative che imponessero<br />
l’iscrizione del collaboratore dell’impresa familiare il cui titolare sia un farmacista nella<br />
gestione commercianti I.N.P.S.<br />
Infine, rilevava l’erroneo sillogismo operato dagli agenti accertatori tra le previsioni nell’atto di<br />
costituzione dell’impresa familiare dell’attività del collaboratore con i requisiti di abitualità e prevalenza<br />
ex l. 662/96, in ogni caso sostenendo l’irrilevanza del fatto che il collaboratore lavorasse<br />
con carattere di abitualità e prevalenza.<br />
Contestava, in via di mero subordine, la quantificazione delle sanzioni, invocando l’applicazione<br />
dell’art. 116, comma decimo, l. 2<strong>00</strong>0/388.<br />
Conveniva quindi in giudizio l’I.N.P.S., nonché la S.C.C.I. e la UNIRISCOSSIONI s.p.a.<br />
Si costituiva in giudizio, in proprio e quale mandatario della società di cartolarizzazione S.C.C.I.,<br />
l’I.N.P.S., il quale concludeva per il rigetto dell’opposizione.<br />
(omissis)<br />
20
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Quanto alla normativa applicabile al caso di specie ed alle questioni di diritto prospettate<br />
Approfondimenti<br />
Il presente giudizio impone in via principale di accertare la legittimità in punto di diritto della<br />
scelta operata dall’I.N.P.S. di procedere d’ufficio all’iscrizione dei titolari di farmacie alla gestione<br />
separata dei commercianti quale titolare non attivo e, conseguentemente, imporre l’iscrizione del<br />
collaboratore dell’impresa familiare nella gestione commercianti.<br />
Assumono a proposito i ricorrenti che i farmacisti siano esclusi dall’applicazione della disciplina del<br />
commercio, non essendo possibile assimilare l’attività svolta nella farmacia all’attività commerciale,<br />
con conseguente illegittimità della richiesta contributiva avanzata.<br />
Tale assunto, sulla cui base, in buona sostanza, si fonda l’intero complesso argomentativo dei ricorrenti<br />
non si ritiene condivisibile.<br />
Come esposto anche nell’ordinanza n. 448/2<strong>00</strong>7 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato<br />
l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli art. 1 e 2 l. 613/1966 e 1 l.<br />
1397/1960, sollevata dal giudice di Torino in fattispecie analoga a quelle in questa sede esaminate,<br />
il quadro normativo di riferimento nella presente fattispecie è quello risultante dal disposto del<br />
D.Lgs. 114/1998, che definisce quali attività rientrino nella disciplina del commercio (art. 4, comma<br />
secondo lett. a), escludendo l’operatività di tale norma “ai farmacisti e ai direttori delle farmacie<br />
comunali qualora vendano esclusivamente prodotti farmaceutici, specialità medicinali, dispositivi<br />
medici e presidi medico-chirurgici”.<br />
Discende da tale norma che, qualora nella farmacia siano posti in commercio anche prodotti non<br />
medicinali e non medicali, può dirsi sussistente un settore tipicamente commerciale dell’attività<br />
dell’esercizio-farmacia, che comporta quindi il venir meno della esclusività della vendita dei prodotti<br />
che caratterizzano la natura della farmacia.<br />
Lo svolgimento di questa ulteriore attività non rende più il farmacista esente dalla normativa sul<br />
commercio e comporta che questi, almeno per l’attività di commercializzazione di prodotti non<br />
medici e non medicali, debba considerarsi titolare di un’attività commerciale ai sensi dell’art. 1 l.<br />
1397/1960, pertanto iscrivibile d’ufficio nella gestione commercianti dell’I.N.P.S.<br />
In relazione agli obblighi connessi a tale situazione, deve essere in questa sede richiamato quanto<br />
previsto dall’art. 10, secondo comma l. 613/1966, che pone direttamente a carico del titolare<br />
dell’impresa commerciale l’obbligo del pagamento dei contributi anche per i familiari coadiutori,<br />
salvo il diritto di rivalsa nei loro confronti.<br />
Posto che nel caso in esame deve trovare applicazione la normativa sul commercio per la parte di<br />
attività individuata in negativo dall’art. 4, comma secondo lett. a), D.Lgs. 114/1998 e che discende<br />
da ciò l’obbligo di cui all’art. 10, secondo comma, l. 613/1966, deve essere precisato, con riferimento<br />
ai familiari coadiutori da iscrivere nell’assicurazione obbligatoria IVS, che tali si considerano i<br />
soggetti che, legati al titolare dal rapporto di parentela meglio individuato dalla legge, partecipino<br />
al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza.<br />
Tanto la sussistenza del rapporto di parentela previsto, quanto le caratteristiche dell’attività svolta<br />
dai soggetti legati agli odierni ricorrenti (per la disamina in dettaglio di questi profili riservandosi di<br />
meglio e più dettagliatamente motivare in seguito) devono ritenersi integrati in tutte le fattispecie<br />
di cui ci si occupa, ciò da cui sorgono gli obblighi contributivi per cui è causa.<br />
A proposito dei dubbi di incostituzionalità sollevati dai ricorrenti, si osserva che l’interpretazione<br />
qui adottata appare non solo la più aderente alla realtà socio-economica che oggi è propria dell’esercizio<br />
delle farmacie, ma appare anche quella costituzionalmente meglio orientata ed appagante,<br />
assicurando una tutela previdenziale a soggetti che ne rimarrebbero altrimenti privi.<br />
21
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Approfondimenti<br />
Alla luce delle considerazioni che precedono, deve quindi essere dichiarata l’infondatezza in diritto<br />
delle opposizioni in questa sede proposte, essendo da ritenere fondato il provvedimento di iscrizione<br />
del coadiuvante dell’impresa familiare nella gestione IVS commercianti I.N.P.S.<br />
Quanto all’accertamento dei fatti concreti che integrano il presupposto per l’emissione della cartella<br />
Il difensore dei ricorrenti ha dedotto in merito a tale profilo l’omissione da parte degli organismi<br />
ispettivi di ogni valutazione in concreto circa l’effettiva sussistenza dei fatti posti a fondamento<br />
delle decisioni sulla base di tale valutazione successivamente assunte.<br />
Gli argomenti sostenuti al proposito dal difensore dei ricorrenti riguardano, nel dettaglio, la<br />
mancata prova in merito al fatto che nelle farmacie interessate si svolga in via esclusiva attività<br />
di commercializzazione di prodotti farmaceutici strictu sensu intesi, che tale attività, anche ove<br />
effettivamente effettuata, non sia in concreto svolta dai coadiutori, che la prestazione soggetta a<br />
contribuzione rivesta i caratteri della abitualità e prevalenza, tutti aspetti posti a fondamento della<br />
iscrizione a ruolo che sarebbero rimasti privi di riscontri concreti.<br />
La genericità delle eccezioni sotto tale profilo sollevate induce a ritenere infondati i rilievi di cui trattasi.<br />
A fronte della prova documentale allegata dai ricorrenti medesimi, costituita dal verbale di accertamento<br />
redatto in occasione delle ispezioni svolte all’interno delle singole farmacie, questo<br />
giudice ritiene operante il secondo comma dell’art. 2697 c.c. che impone al soggetto che eccepisca<br />
l’inefficacia dei fatti costituenti il fondamento della domanda nei suoi confronti proposta l’onere<br />
di dimostrare la sussistenza dei fatti sui quali l’eccezione si fonda.<br />
Tale questione è stata anche dibattuta e risolta dalla Corte di Cassazione con un orientamento consolidatosi<br />
a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 13533 del 2<strong>00</strong>1 in tema di inadempimento contrattuale.<br />
In quella sede è stato ribadito un principio, già invero precedentemente affermato, che valorizza l’effettiva<br />
possibilità per l’una o per l’altra parte di offrire la prova della fondatezza delle proprie ragioni.<br />
In applicazione del principio cosiddetto di vicinanza alla prova, le Sezioni Unite della Corte di<br />
Cassazione hanno affermato, con riferimento alla materia dei contratti, che il creditore può limitarsi<br />
a dedurre l’esistenza dell’obbligazione e la sua intervenuta scadenza, mentre compete al debitore<br />
dare la prova di fatti modificativi, estintivi o impeditivi di questa, sulla base della constatazione che<br />
tale prova appare più agevolmente raggiungibile dal soggetto che assume di nulla dovere, rispetto<br />
a quello che, invece, deduce un proprio credito.<br />
Analoghe considerazioni si ritiene possano valere nel caso di specie, considerando che il porre a<br />
carico del soggetto sottoposto a verifica da parte degli organi accertativi dell’I.N.P.S. la prova della<br />
insussistenza dei presupposti in fatto sui quali è basata la decisione circa l’esistenza e la consistenza<br />
dell’onere contributivo (che, si ribadisce, possono ritenersi documentalmente dimostrati alla luce<br />
dei verbali di accertamento in atti) soddisfa in pieno i condivisi principi giurisprudenziali sopra<br />
richiamati in tema di onere della prova.<br />
Nel caso di specie, ritiene questo giudice che la posizione dei ricorrenti nel dimostrare di commercializzare<br />
in via esclusiva prodotti farmaceutici, di impiegare i propri collaboratori in attività differenti<br />
da quelle indicate, quanto meno senza i caratteri della abitualità e prevalenza, sia indubitabilmente<br />
più agevole rispetto a quella che competerebbe all’I.N.P.S. di provare il contrario.<br />
In applicazione del principi di vicinanza alla prova, deve dunque ritenersi che competesse ai ricorrenti<br />
allegare e dimostrare la sussistenza di una situazione di fatto difforme da quella che l’I.N.P.S.<br />
ha posto a fondamento della propria decisione, così come cristallizzata nei verbali di accertamento<br />
allegati agli atti.<br />
22
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Approfondimenti<br />
Al proposito, deve evidenziarsi che il difensore dei ricorrenti, in relazione alle singole fattispecie<br />
dedotte in ciascuno dei giudizi riuniti, ha sollevato rilievi estremamente generici, tali da impedire<br />
un vaglio in concreto della fondatezza di questi, al proposito non ritenendosi sufficiente la mera contestazione<br />
(o interpretazione) di quanto riportato (o non riportato) nei verbali di accertamento.<br />
Particolarmente significativo a tale scopo si ritiene il fatto che il difensore dei ricorrenti non abbia<br />
formulato alcun capitolo di prova orale a sostegno delle proprie ragioni e che l’unica prova documentale<br />
allegata all’udienza fissata per gli incombenti di cui all’art. 429 c.p.c., ritenuta utilizzabile<br />
in assenza di rilievi da parte del resistente, sia costituita da una genericissima rilevazione statistica<br />
su base nazionale.<br />
Le considerazioni che precedono inducono a ritenere l’infondatezza dei rilievi sotto questo profilo<br />
formulati.<br />
Quanto esposto si ritiene assorbente anche in relazione alla domanda subordinata di declaratoria di<br />
illegittimità del verbale per assenza di riscontri probatori, pure sollevata dal difensore dei ricorrenti.<br />
Quanto alla pretesa insussistenza dei dati sulla base dei quali calcolare la contribuzione dovuta dai ricorrenti<br />
Non condivisibile si ritiene quanto dedotto dal difensore dei ricorrenti circa il fatto che l’I.N.P.S.<br />
avrebbe erroneamente fatto riferimento ai dati di natura prettamente fiscale comunicati dai titolari<br />
delle farmacie, deducendone l’inutilizzabilità a fini previdenziali.<br />
Tale impostazione non può essere condivisa alla luce di quanto previsto dall’art. 1 comma quinto<br />
l. 233/1990, ai sensi del quale “l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti iscritti<br />
alle gestioni dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli artigiani e degli esercenti attività<br />
commerciali, titolari, coadiuvanti e coadiutori, è pari al 12 per cento del reddito annuo derivante<br />
dalla attività di impresa che dà titolo all’iscrizione alla gestione, dichiarato ai fini Irpef, relativo<br />
all’anno precedente”.<br />
Quanto al regime sanzionatorio applicabile ed alla prescrizione<br />
Lo scrivente condivide al proposito le argomentazioni proposte dal difensore dei ricorrenti, il quale<br />
ha invocato, in via subordinata, l’applicazione dell’art. 116, comma decimo l. 388/2<strong>00</strong>0 per i casi<br />
di omissione contributiva.<br />
La norma in questione prevede che “nei casi di mancato o ritardato pagamento di contributi o<br />
premi derivanti da oggettive incertezze connesse a contrastanti orientamenti giurisprudenziali o<br />
amministrativi sulla ricorrenza dell’obbligo contributivo, successivamente riconosciuto in sede<br />
giudiziale o amministrativa, sempreché il versamento dei contributi o premi sia effettuato entro il<br />
termine fissato dagli enti impositori, si applica una sanzione civile, in ragione d’anno, pari al tasso<br />
ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti; la sanzione civile non può essere superiore al 40<br />
per cento dell’importo dei contributi o premi non corrisposti entro la scadenza di legge”.<br />
Ritiene questo giudice che la fattispecie appena descritta possa dirsi pacificamente integrata nel caso<br />
di specie, allo scopo essendo sufficiente considerare che la mancata iscrizione dei coadiuvanti derivi<br />
da oggettive incertezze connesse a contrastanti orientamenti giurisprudenziali e amministrativi.<br />
Lo stesso istituto resistente ha assunto sul punto decisioni che sono mutate nel tempo, escludendo<br />
inizialmente la sussistenza di un tale obbligo, per poi ammetterlo a condizione del ricorrere di<br />
determinati requisiti, infine provvedendo, a partire dal 2<strong>00</strong>4 e quindi a circa vent’anni di distanza<br />
dall’ultima indicazione, ad iscrivere d’ufficio i collaboratori familiari in fattispecie come quella<br />
qui affrontata.<br />
23
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
La sentenza commentata si inserisce, in maniera<br />
sicuramente innovativa ed a tratti in controcorrente,<br />
nel panorama giurisprudenziale formatosi<br />
sulla ripartizione dell’onere probatorio nelle<br />
cause aventi ad oggetto la pretesa contributiva<br />
INPS, azionata mediante c.d. “cartolarizzazione”,<br />
ovvero mediante iscrizione a ruolo dei contributi<br />
(omessi o evasi) e successiva emissione di cartella<br />
di pagamento 1 .<br />
Nel merito, la decisione ha affrontato la questione<br />
concernente l’obbligo assicurativo dei familiari del<br />
farmacista, non iscritti all’albo professionale, che<br />
collaborano nell’impresa familiare.<br />
Benché non sia intenzione dello scrivente affrontare<br />
l’argomento deciso - anche per l’impossibilità<br />
di trattare in questa sede una questione così complessa<br />
- appare necessario, comunque, fornire sul<br />
punto alcuni preliminari cenni, per poter meglio<br />
comprendere il successivo argomentare in materia<br />
di ripartizione dell’onere probatorio.<br />
La vicenda prende le mosse da una circolare<br />
INPS (n. 70 del 26.4.2<strong>00</strong>4), che ha espresso un<br />
orientamento teso ad iscrivere alla Gestione dei<br />
Commercianti i titolari di farmacie (con posizione<br />
Approfondimenti<br />
Il susseguirsi di differenti orientamenti sul punto è stato certamente in grado di ingenerare una<br />
situazione di incertezza sulla estensione dell’obbligo contributivo, che impone pertanto, in accoglimento<br />
della domanda subordinata dei ricorrenti, di stabilire che le sanzioni da applicare per i<br />
contributi dovuti siano calcolate nella misura prevista dall’art. 116, comma 10 l. 388/2<strong>00</strong>0.<br />
Per quanto concerne l’intervenuta prescrizione di alcune delle poste controverse, il difensore<br />
dell’I.N.P.S. ha espressamente dichiarato in sede di discussione ex art. 429 c.p.c. di rinunciare<br />
ai crediti maturati in epoca antecedente il 1998.<br />
Alla luce di quanto precede ed indipendentemente da quanto dichiarato in merito al fatto che<br />
l’istituto abbia provveduto o stia comunque provvedendo al relativo sgravio, deve dichiararsi che<br />
nulla è dovuto per i periodi antecedenti l’1 gennaio 1998. (omissis)<br />
non attiva, ovvero non produttiva di obbligo contributivo<br />
personale) ed i loro coadiutori familiari,<br />
per questi ultimi con obbligo di versamento dei<br />
contributi obbligatori per l’I.V.S.<br />
Il fondamento dei predetti obblighi è stato rinvenuto<br />
nell’art. 4, II comma, D.Lgs. 31 marzo<br />
1998 n. 114, che ha qualificato come attività<br />
commerciale, mediante una formulazione in negativo,<br />
quella dei farmacisti che non si limitano<br />
a vendere esclusivamente prodotti farmaceutici,<br />
specialità medicinali, dispositivi medici e presidi<br />
medico-chirurgici, ma che commercializzano<br />
anche altri prodotti, come i c.d. parafarmaci, i<br />
prodotti per l’igiene, i prodotti per l’infanzia, i<br />
cosmetici, etc. 2 .<br />
Conseguenza della qualificazione commerciale dell’attività<br />
svolta dal farmacista, in relazione a prodotti<br />
non medici o medicali è, secondo l’Ente previdenziale,<br />
la piana applicazione degli artt. 1 e 2 della Legge<br />
22 luglio 1966, n. 613, secondo cui vanno iscritti<br />
alla Gestione Commercianti, insieme ai titolari di<br />
imprese commerciali, anche i loro familiari coaudiutori,<br />
sempre se “partecipano al lavoro aziendale con<br />
carattere di abitualità e prevalenza” 3 .<br />
(1) Cfr. D.Lgs., 26 febbraio 1999, n. 46.<br />
(2) Art. 4, II comma, D.Lgs. 31 marzo 1998 n. 114: “Il presente decreto (che, ai sensi dell’art. 1, “stabilisce i principi e le norme generali sull’esercizio<br />
dell’attività commerciale”, ndr) non si applica: a) ai farmacisti e ai direttori di farmacie delle quali i comuni assumono l’impianto e l’esercizio ai<br />
sensi della legge 2 aprile 1968, n. 475, e successive modificazioni, e della legge 8 novembre 1991, n. 362, e successive modificazioni, qualora vendano<br />
esclusivamente prodotti farmaceutici, specialità medicinali, dispositivi medici e presidi medico-chirurgici; (omissis)”.<br />
(3) Art. 1, I comma, Legge 22 luglio 1966, n. 613: “L’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti è estesa agli esercenti<br />
piccole imprese commerciali iscritti negli elenchi degli aventi diritto all’assicurazione obbligatoria contro le malattie istituita con legge 27 novembre<br />
1960, n. 1397, agli ausiliari del commercio ed agli altri lavoratori autonomi iscritti nei predetti elenchi, nonché ai loro familiari coadiutori, indicati<br />
nell’articolo seguente”.<br />
Art. 2, II comma, legge cit.: “Agli effetti della presente legge, si considerano familiari coadiutori il coniuge, i figli legittimi o legittimati ed i nipoti<br />
in linea diretta gli ascendenti, i fratelli e le sorelle, che partecipano al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza, sempreché per tale<br />
attività non siano soggetti all’assicurazione generale obbligatoria in qualità di lavoratori dipendenti o di apprendisti ”.<br />
24
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Sulla scorta dell’orientamento generale espresso<br />
nella menzionata circolare, i servizi ispettivi presso<br />
le sedi INPS hanno compiuto accertamenti presso<br />
migliaia di farmacie sull’intero territorio nazionale.<br />
Pur non dando per pacifica la ricostruzione fornita<br />
dall’INPS, avversata dalle Associazioni di<br />
categoria dei Farmacisti ed oggetto comunque<br />
di contrasti giurisprudenziali, si deve partire dal<br />
presupposto che il Giudice del <strong>Lavoro</strong> di Alba ha<br />
ritenuto di aderirvi.<br />
Non è seriamente contestabile, peraltro, che<br />
- anche a sposare la tesi dell’Ente Previdenziale<br />
- l’obbligo di iscrizione alla gestione commercianti<br />
ed il relativo obbligo contributivo, imposto ai<br />
familiari coadiutori del farmacista, passino necessariamente<br />
attraverso la sussistenza di tre requisiti,<br />
che debbono essere accertati nel concreto:<br />
la commercializzazione, da parte del farmacista,<br />
di prodotti diversi da quelli medici o medicali<br />
citati all’art. 4 del D.Lgs. 114/98 4 ;<br />
lo svolgimento, da parte del familiare, risultante<br />
coadiutore dell’impresa familiare, di un’attività<br />
lavorativa diretta all’interno della Farmacia 5 ;<br />
lo svolgimento, da parte del familiare coadiutore,<br />
di un’attività con caratteri di prevalenza<br />
e continuatività.<br />
Sembra, peraltro, che gli accertamenti ispettivi<br />
avviati dalle sedi dell’INPS in tutta Italia - ivi<br />
compresi quelli posti a base delle cartelle esattoriali<br />
opposte, su cui è intervenuta la sentenza<br />
commentata -, si siano limitati a verificare, mediante<br />
supporto documentale, che i farmacisti<br />
fossero iscritti alla C.C.I.A.A., come piccoli<br />
imprenditori, e che sussistessero delle imprese<br />
familiari, facendone discendere de plano ed in<br />
via generalizzata l’iscrizione di tutti i familiari<br />
coadiutori risultanti dalla documentazione. Sem-<br />
Approfondimenti<br />
bra, inoltre, che gli agenti ispettori non abbiano<br />
verificato lo svolgimento in concreto, da parte dei<br />
farmacisti, dell’attività di commercializzazione dei<br />
parafarmaci (dandolo come fatto notorio), ovvero<br />
lo svolgimento in concreto di attività lavorativa<br />
all’interno della farmacia da parte dei familiari del<br />
titolare (tanto meno avendo rilevato i caratteri<br />
dell’abitualità e prevalenza).<br />
Gli atti introduttivi delle cause decise dal Giudice<br />
del <strong>Lavoro</strong> di Alba con la sentenza in commento,<br />
forse fondandosi sul maggioritario orientamento<br />
giurisprudenziale formatosi in materia di ripartizione<br />
dell’onere della prova nelle controversie previdenziali<br />
(ut infra), si sono limitati a contestare la<br />
pretesa dell’INPS, evidenziando la mancata prova,<br />
da parte dell’Ente previdenziale, circa l’esistenza<br />
degli elementi costitutivi della pretesa azionata,<br />
così come sopra descritti.<br />
Il Giudice del <strong>Lavoro</strong> adito, tuttavia, ha rigettato<br />
le opposizioni, censurando la genericità delle contestazioni<br />
e l’assenza di idonee offerte istruttorie<br />
(in particolare della prova testimoniale) da parte<br />
degli stessi ricorrenti.<br />
Tra le ragioni di detto convincimento vi è, in<br />
primo luogo, l’attribuzione al verbale di accertamento<br />
- prodotto dagli stessi ricorrenti - del valore<br />
di prova documentale, atta di per sé a far ritener<br />
fondata la pretesa previdenziale.<br />
Partendo da tale presupposto, il Giudicante ha ritenuto<br />
applicabile alla fattispecie il II comma dell’art.<br />
2697 c.c., secondo cui grava su chi intende contestare<br />
l’efficacia dei fatti costituenti il fondamento<br />
della domanda avversaria, l’onere di dimostrare la<br />
sussistenza dei fatti sui quali l’eccezione si fonda.<br />
Infine, ed è questo il punto nodale della decisione<br />
- che rende unico l’orientamento giurisprudenziale,<br />
almeno ad oggi -, il Giudice del <strong>Lavoro</strong> ha<br />
esteso alla fattispecie il principio di c.d. riferibilità<br />
(4) Secondo altri giudici di merito che hanno deciso sulla materia, non è corretto presumere “sempre e comunque in una farmacia, sol perché<br />
moderna e adeguata alle esigenze della utenza, l’effettivo utilizzo della autorizzazione commerciale alla vendita dei generi merceologici elencati<br />
nella Tabella n. 9 relativa ai titolari di farmacie (ben potendo l’attività strettamente commerciale essere meramente eventuale…), né potendo la<br />
circostanza di fatto ricavarsi dal dato puramente formalistico ricavabile dall’oggetto sociale necessariamente correlato alla iscrizione alla Camera di<br />
Commercio quale “piccolo imprenditore” ex art. 2083 c.c. o dall’atto costitutivo dell’impresa familiare ex art. 230 bis c.c.” (Trib. Verbania, 15 marzo<br />
2<strong>00</strong>6, n. 38, est. Riccobono; conforme: Trib. Arezzo, 23 giugno 2<strong>00</strong>6 n. 392).<br />
(5) Secondo le tesi difensive dei farmacisti, l’attività dei familiari coadiutori, affinché sorga l’obbligo di loro iscrizione alla gestione commercianti,<br />
deve concretamente riguardare proprio la commercializzazione dei prodotti esclusi dall’elenco di cui all’art. 4 D.Lgs. 114/98 (vendita di parafarmaci,<br />
cosmetici, etc.), con la conseguenza che dovrebbe ritenersi esonerato il coadiutore che presti la propria attività in famiglia o per lo svolgimento di<br />
attività diverse, quali quelle di pulizia, quelle amministrative, etc.<br />
25
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
o vicinanza della prova, enucleato dalla giurisprudenza<br />
a partire dalla nota sentenza della<br />
Cassazione a S.U. n. 13533 del 2<strong>00</strong>1, affermando<br />
che “la posizione dei ricorrenti nel dimostrare<br />
di commercializzare in via esclusiva prodotti<br />
farmaceutici, di impiegare i propri collaboratori<br />
in attività differenti da quelle indicate, quanto<br />
meno senza i caratteri della abitualità e prevalenza,<br />
sia indubitabilmente più agevole rispetto<br />
a quella che competerebbe all’I.N.P.S. di provare<br />
il contrario”.<br />
La tesi fatta propria dal Giudice del <strong>Lavoro</strong>, nella<br />
sentenza commentata, benché indubbiamente<br />
motivata in maniera sapiente, non convince appieno<br />
sulla scorta delle seguenti considerazioni.<br />
La premessa da cui partire, per una corretta ripartizione<br />
dell’onere della prova in materia di pretesa<br />
contributiva previdenziale, è quella per cui l’Ente<br />
Previdenziale, indipendentemente dalla veste<br />
formale che assuma nel giudizio, rimane attore<br />
sostanziale.<br />
La c.d. cartolarizzazione dei crediti contributivi,<br />
infatti, ha consentito all’INPS (e ad altri Enti)<br />
di non doversi precostituire un titolo giudiziario<br />
per procedere al recupero delle somme di propria<br />
competenza. Chi subisce, invece, la pretesa<br />
dell’Ente, espressa nelle forme della cartella di<br />
pagamento, ha facoltà di opporre quest’ultimo<br />
atto (entro quaranta giorni dalla notifica, termine<br />
ritenuto ormai pacificamente imposto a<br />
pena di decadenza), ai sensi dell’art. 24 del D.Lgs.<br />
46/99, ossia mediante ricorso dinanzi al Giudice<br />
del <strong>Lavoro</strong>.<br />
Nel giudizio di opposizione a cartella, l’opponente<br />
assume le vesti formali di ricorrente, mentre<br />
l’INPS quelle di resistente, ma non v’è dubbio che,<br />
Approfondimenti<br />
sotto il profilo sostanziale, sia proprio quest’ultimo<br />
a vestire gli abiti dell’attore 6 .<br />
Ne consegue che ricade sull’INPS l’onere di provare<br />
gli elementi costitutivi del diritto azionato,<br />
ovvero i presupposti dell’obbligo contributivo 7 ,<br />
mentre all’opponente è sufficiente contestare la<br />
pretesa e resistere, se del caso adducendo nuovi<br />
fatti impeditivi, estintivi o modificativi, dedotti<br />
a fondamento di eccezioni in senso stretto (prescrizione,<br />
compensazione, estinzione per avvenuto<br />
pagamento, etc.).<br />
Tra gli strumenti di prova di cui l’INPS si avvale<br />
solitamente, assume rilevanza preminente il verbale<br />
di accertamento ispettivo, il quale, però, fa<br />
piena prova - fino a querela di falso - solamente<br />
della sua provenienza dagli agenti accertatori e<br />
dei fatti che gli stessi attestano avvenuti in loro<br />
presenza o da loro stessi compiuti.<br />
Con riferimento alle dichiarazioni di terzi raccolte<br />
nel verbale, quest’ultimo fa piena prova del fatto che<br />
la dichiarazione è stata resa e dell’identità del dichiarante,<br />
non di certo della veridicità dei fatti narrati.<br />
Le dichiarazioni raccolte, quand’anche confermate<br />
dall’ispettore in sede di giudizio, non costituiscono<br />
né prova piena, né prova liberamente apprezzabile,<br />
ma tutt’al più un mero argomento di prova 8 .<br />
Il verbale, inoltre, è del tutto irrilevante sul piano<br />
probatorio - non costituendo neppure argomento<br />
di prova - nella parte in cui sono espressi il convincimento<br />
soggettivo dell’agente ispettore e le<br />
conclusioni giuridiche in merito alla qualificazione<br />
di una determinata vicenda 9 .<br />
A maggior ragione, il verbale di accertamento<br />
non può costituire prova alcuna di fatti e circostanze<br />
non descritti, ma semplicemente dati per<br />
(6) Cass. Sez. Lav., 19 maggio 2<strong>00</strong>1, n. 6858; Cass. Sez. Lav., 8 agosto 2<strong>00</strong>6, n. 17944; in senso conforme, su pretese per sanzioni amministrative<br />
o su pretese azionate in via monitoria, cfr. Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2<strong>00</strong>7, n. 5277; Cass. civ., sez. II, 30 luglio 2<strong>00</strong>4, n. 14556.<br />
(7) Tra le tante: Cass. Sez. Lav., 13 settembre 2<strong>00</strong>3, n. 13467; Cass. Sez. Lav., 13 giugno 2<strong>00</strong>2, n. 8502; Cass. Sez. Lav., 29 luglio 1999, n. 8253;<br />
Trib. Savona, Sez. <strong>Lavoro</strong>, 26 luglio 2<strong>00</strong>7.<br />
(8) Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2<strong>00</strong>4, n. 14235; Cass. Sez. Lav., 22 agosto 2<strong>00</strong>3 n. 12357. In senso parzialmente contrario, però, Cass. Sez. Lav.,<br />
14 aprile 2<strong>00</strong>8, n. 9812, secondo cui “I verbali redatti dai funzionari degli enti previdenziali o dagli ispettori del lavoro possono costituire prova<br />
sufficiente delle circostanze riferite dai lavoratori al pubblico ufficiale, qualora il loro specifico contenuto probatorio o il concorso di altri elementi<br />
renda superfluo l’espletamento di ulteriori mezzi istruttori”; conformi a quest’ultimo recente orientamento, Cass. Sez. Lav., 2 ottobre 2<strong>00</strong>8, n. 24416;<br />
Cass. Sez. Lav., 6 giugno 2<strong>00</strong>8, n. 15073; Cass. n. 3525/2<strong>00</strong>5, n. 15702/2<strong>00</strong>4, n. 9827/2<strong>00</strong>0.<br />
(9) “Il convincimento soggettivo dell’Ispettore espresso nelle conclusioni del verbale è irrilevante sul piano probatorio. Esso non è idoneo neppure<br />
a fondare una presunzione giurisprudenziale in quanto il progetto di sentenza del funzionario pubblico non può fungere da situazione socialtipica<br />
indiziante atta ad investire l’onere probatorio (VALLEBONA, L’onere della prova nel diritto del lavoro, Padova, 1988, 177”; CARLO PISANI, Il valore<br />
probatorio dei verbali ispettivi, in Colloqui Giuridici sul <strong>Lavoro</strong>, speciale di Guida al <strong>Lavoro</strong> 1/2<strong>00</strong>7.<br />
26
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
presupposti o scontati dagli agenti ispettori, nell’argomentare<br />
logico che li ha portati a formulare<br />
determinate conclusioni.<br />
Nei casi concreti al vaglio del Giudice del <strong>Lavoro</strong><br />
di Alba, i verbali di accertamento non davano<br />
atto - per quanto è possibile sapere (stante il<br />
difetto di legittimazione degli scriventi per poter<br />
accedere agli atti del processo) - della diretta<br />
percezione, da parte degli ispettori, di un’attività<br />
di vendita promiscua (di prodotti medicali e<br />
non) all’interno delle farmacie, né contenevano<br />
il rilevamento diretto, da parte degli ispettori<br />
stessi, di uno svolgimento di attività lavorativa<br />
da parte dei familiari coadiutori, tanto meno nella<br />
commercializzazione dei prodotti non medici (a<br />
maggior ragione non risultavano circostanze da<br />
cui potesse desumersi l’abitualità e prevalenza di<br />
siffatta attività). A tale conclusione deve giungersi<br />
se si consideri che, diversamente, i ricorrenti non<br />
si sarebbero limitati a contestare la presenza dei<br />
presupposti, ma avrebbero avviato ben diverse<br />
iniziative, quale ad esempio la querela di falso. Né<br />
la sentenza avrebbe rigettato le domande attore e<br />
per assenza di allegazioni o di offerte istruttorie,<br />
non essendo ammissibili prove in contrasto con<br />
una prova legale.<br />
I verbali in questione, però, contenevano verosimilmente<br />
una ricognizione della documentazione<br />
ispezionata direttamente dagli agenti accertatori,<br />
dalla quale emergeva forse l’iscrizione dei farmacisti<br />
alla C.C.I.A.A. e l’esistenza di un’impresa<br />
familiare.<br />
Qualora si aderisca alla tesi dei ricorrenti, secondo<br />
cui l’accertamento in concreto dell’esistenza<br />
dei presupposti della pretesa vada compiuto in<br />
giudizio, a prescindere dal mero dato formalistico<br />
rilevato dalla C.C.I.A.A. o dall’esistenza formale<br />
di un’impresa familiare, potrebbe sostenersi che<br />
l’INPS sia in ogni caso chiamato a fornire la prova<br />
di siffatti presupposti nel concreto (peraltro di per<br />
sé non bastevoli).<br />
Nel caso concreto, però, potrebbe essere - almeno<br />
in parte - condivisibile l’opinare del Giudice<br />
del <strong>Lavoro</strong> di Alba, il quale, anche attraverso il<br />
richiamo all’art. 2697, II comma c.c., ha fornito un<br />
fondamento ben preciso all’inversione dell’onere<br />
probatorio.<br />
Approfondimenti<br />
In altri termini, se deve darsi per pacifico, o per<br />
documentalmente attestato, che i farmacisti erano<br />
iscritti alla C.C.I.A.A. (ovviamente per la vendita<br />
di prodotti parafarmaceutici), sulla base di dichiarazioni<br />
spontanee rese a quest’ultimo organismo,<br />
sarebbe stato onere di costoro fornire la prova di<br />
fatti impeditivi o modificativi, quali il mancato<br />
concreto svolgimento di siffatta attività.<br />
Allo stesso modo, se risultava documentale l’esistenza<br />
di familiari coadiutori, i quali per stessa<br />
previsione di legge (art. 230-bis c.c.), possono<br />
esser definiti tali solo in presenza di un’attività<br />
lavorativa svolta “in modo continuativo”, sarebbe<br />
forse stato onere dei ricorrenti fornire la prova che<br />
tale continuatività era mancata.<br />
La perplessità residua discende dal fatto che - ammesso<br />
sempre che per tutti i farmacisti sia stata<br />
compiuta la suddetta ricognizione documentale, in<br />
sede di accertamento ispettivo, e che essa fosse sufficiente<br />
- sarebbe rimasto il problema di verificare,<br />
nel concreto, se i coadiutori svolgessero attività<br />
proprio nell’azienda ed ai fini della commercializzazione<br />
dei prodotti parafarmaceutici, nonché<br />
se sussistesse l’ulteriore requisito congiunto della<br />
prevalenza della prestazione lavorativa. Di tali elementi<br />
la prova doveva esser fornita dall’INPS.<br />
Il passaggio motivo sicuramente più interessante,<br />
della sentenza commentata, è però quello del<br />
richiamo al principio della vicinanza della prova,<br />
principio in base al quale - sulla scorta della<br />
recente giurisprudenza formatasi a partire dalla<br />
sentenza a S.U. della Cassazione n. 13533/2<strong>00</strong>1<br />
(citata in sentenza) - l’onere della prova andrebbe<br />
ripartito tenendo conto, in concreto, della possibilità<br />
per l’uno o per l’altro soggetto di provare<br />
fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive<br />
sfere di azione.<br />
Siffatto principio, in termini pratici, mira a<br />
superare il fatto che il creditore incontrerebbe<br />
difficoltà notevoli se dovesse dimostrare di non<br />
aver ricevuto la prestazione, mentre a volte è più<br />
agevole per il debitore dimostrare il fatto estintivo,<br />
provando l’avvenuto adempimento e paralizzando,<br />
in tal modo, la domanda attrice.<br />
Vi sono state, di recente, numerose pronunzie<br />
applicative di siffatto principio, ad esempio nell’ambito<br />
dei rapporti di lavoro, considerata la<br />
27
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
difficoltà di reperimento della prova da parte del<br />
lavoratore rispetto al datore di lavoro 10 , così come<br />
il principio è stato applicato nell’ambito del rapporto<br />
medico/paziente 11 , considerata la medesima<br />
difficoltà di reperimento della prova riscontrata<br />
dal paziente, nonché in una serie di situazioni in<br />
cui sussiste, in capo ad una delle parti, un obbligo<br />
di salvaguardia o garanzia, come nel caso degli<br />
obblighi del custode, ex art. 2051 c.c.<br />
Se il principio surriferito è ormai parte del diritto<br />
vivente, non si concorda invece sulla sua estensione<br />
alla materia previdenziale, ed in particolare ai<br />
giudizi (o a tutti i giudizi) di opposizione a cartella<br />
esattoriale, per una serie di ragioni.<br />
In primo luogo, il principio in questione, come<br />
accennato, è stato finora applicato solo nell’ambito<br />
di rapporti contrattuali o di garanzia, laddove<br />
l’esistenza dell’obbligazione (negoziale o legale) è<br />
scontata o non contestata, discutendosi solo del<br />
suo corretto adempimento o della sua estinzione<br />
per causa diversa dall’esatto adempimento.<br />
Per ciò che concerne il rapporto previdenziale,<br />
per tale volendosi intendere, in questa sede, il<br />
rapporto tra il contribuente e l’Ente Previdenziale,<br />
potrebbe anche ipotizzarsi, in astratto,<br />
l’applicazione del concetto della vicinanza della<br />
prova, ma solo in relazione all’esecuzione di un<br />
rapporto pacifico nella sua esistenza, ove non è<br />
contestata la sussistenza dei presupposti dell’iscrizione<br />
ad una gestione ed il conseguente obbligo<br />
contributivo (si pensi ad una mera omissione<br />
Approfondimenti<br />
contributiva da mancato pagamento di contributi<br />
denunziati).<br />
Il problema, invece, non sembra di così semplice soluzione<br />
in relazione al momento genetico del rapporto<br />
previdenziale, considerando che esso non si crea<br />
sempre con connotati di pacificità, ma tante volte<br />
- come nel caso disaminato - viene unilateralmente<br />
imposto dall’Ente Previdenziale, mediante accertamenti<br />
e provvedimenti d’ufficio, sulla base della<br />
ritenuta (ma contestata) esistenza dei presupposti di<br />
legge per il sorgere dell’obbligo contributivo.<br />
Deve ritenersi sia un basilare principio di diritto,<br />
sotteso alla generale regola di ripartizione dell’onere<br />
della prova - che sarebbe oltremodo stravolto dal<br />
criterio della vicinanza della prova, così latamente<br />
inteso -, quello per cui chi pretenda da un altro<br />
soggetto una determinata prestazione, deve allegare<br />
e fornire la prova del titolo sulla base del quale<br />
agisce o, che è lo stesso, dell’esistenza dell’obbligazione<br />
stessa e di tutti i suoi elementi costitutivi.<br />
Nello stesso senso si è espressa, del resto la sentenza<br />
della Corte di Cassazione a Sezioni Unite,<br />
n. 13533/2<strong>00</strong>1 (citata nella sentenza commentata),<br />
che lascia ricadere comunque sull’attore<br />
sostanziale e creditore quantomeno la prova del<br />
titolo, negoziale o legale, sulla base del quale egli<br />
agisce in giudizio: “...il creditore che agisca per la<br />
risoluzione contrattuale, per il risarcimento del<br />
danno, ovvero per l’adempimento deve ... provare<br />
la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il<br />
relativo termine di scadenza...” 12 .<br />
(10) “La ripartizione dell’onere della prova tra lavoratore, titolare del credito, e datore di lavoro, deve tenere conto, oltre che della partizione della<br />
fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio - riconducibile all’art. 24 Cost. e al divieto di<br />
interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio - della riferibilità o vicinanza o disponibilità<br />
dei mezzi di prova; conseguentemente ove i fatti possano essere noti solo all’imprenditore e non anche al lavoratore, incombe sul primo l’onere della<br />
prova negativa. (Nel caso di specie, relativo al riconoscimento del premio di produttività in relazione ai positivi risultati economici dell’impresa,<br />
la S.C., nel rigettare il ricorso, ha ritenuto che, correttamente, il giudice di merito aveva valutato che l’andamento dell’azienda rientrava tra gli<br />
elementi suscettibili di conoscenza solo da parte dell’imprenditore, sul quale, pertanto, incombeva il relativo onere probatorio)” (Cass. Sez. Lav.,<br />
25 luglio 2<strong>00</strong>8, n. 20484).<br />
In applicazione del medesimo principio, la Suprema Corte a Sezioni Unite, con la nota sentenza n. 141 del 10 gennaio 2<strong>00</strong>6, ha posto a carico<br />
del datore del lavoro l’onere di provare l’assenza del requisito dimensionale per l’applicazione della tutela risarcitoria di cui all’art. 18 Legge 3<strong>00</strong>/70,<br />
anche sulla base del fatto che siffatta prova era più vicina al datore stesso, che poteva fornirla mediante semplice esibizione documentale, ed avrebbe<br />
evitato di rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, “il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della ‘disponibilità’ dei fatti<br />
idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa”.<br />
(11) “In tema di responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica, il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione<br />
sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del professionista, restando a carico dell’obbligato l’onere di provare<br />
l’esatto adempimento, con la conseguenza che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi<br />
tecnici di particolare difficoltà rileva soltanto per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a<br />
carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà” (Cass. civ., sez. III, 9 novembre 2<strong>00</strong>6, n. 23918; conformi: Cass. civ., sez.<br />
III, 21 giugno 2<strong>00</strong>4, n. 11488).<br />
(12) Cass. Sez. Un., 30 ottobre 2<strong>00</strong>1, n. 13533.<br />
28
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Ovviamente, non costituisce prova del titolo<br />
o dei presupposti della pretesa contributiva il<br />
provvedimento con cui lo stesso Ente Previdenziale<br />
rivendica la propria pretesa, mentre<br />
potranno esser ritenute valide prove - che<br />
l’Ente ha l’onere di offrire - le risultanze oggettive<br />
del verbale di accertamento ispettivo,<br />
limitatamente ai fatti che gli agenti accertatori<br />
dichiarino essere accaduti direttamente alla<br />
loro presenza, oppure le prove testimoniali a<br />
conforto delle sommarie informazioni raccolte<br />
durante l’ispezione.<br />
Ferma la superiore ragione, l’applicabilità del<br />
principio di vicinanza della prova nel sistema<br />
previdenziale dovrebbe essere esclusa per un<br />
ulteriore motivo, da individuare nella diversità<br />
sostanziale tra un lavoratore (o un paziente di<br />
struttura sanitaria) e l’INPS.<br />
A differenza del primo, che effettivamente incontra<br />
non poche difficoltà nel raggiungere la<br />
prova dei fatti costitutivi della propria pretesa,<br />
almeno in relazione a certi dati o documenti in<br />
possesso del datore di lavoro, l’INPS (come altri<br />
Enti previdenziali ed assistenziali) non è posto in<br />
posizione paritaria, o addirittura di “debolezza”<br />
nei confronti del contribuente, ma dispone di un<br />
ampio e pregnante potere ispettivo e di accertamento,<br />
che gli consente di precostituire le prove<br />
della propria pretesa contributiva.<br />
Non si dimentichi, infatti, che l’Ente previdenziale<br />
può accedere ai luoghi di lavoro o di attività,<br />
pretendere dal titolare dell’impresa l’esibizione di<br />
documentazione aziendale di qualsiasi genere che<br />
abbia pertinenza con gli obblighi contributivi,<br />
raccogliere sommarie informazioni da persone<br />
che si trovano sul luogo di lavoro a vario titolo,<br />
richiedere l’assistenza della forza pubblica, anche<br />
mediante accesso congiunto al servizio ispettivo<br />
della Direzione Provinciale del <strong>Lavoro</strong>.<br />
Viceversa, non sempre il contribuente - colpito<br />
dall’ispezione - ha la facoltà di fornire la prova di<br />
circostanze che, più che essere impeditive, modificative<br />
o estintive, divengono vere e proprie<br />
circostanze negative, quali per l’appunto quelle<br />
da cui risulti l’inesistenza dei presupposti e degli<br />
elementi costitutivi alla base della pretesa contributiva.<br />
Approfondimenti<br />
La conseguenza corollaria di un’applicazione del<br />
principio di vicinanza della prova al sistema previdenziale<br />
sarebbe il rischio di un totale disinteresse<br />
con cui gli Enti Previdenziali avvierebbero<br />
gli accertamenti d’ufficio, consapevoli che ogni<br />
carenza nella fase delle indagini ispettive sarebbe<br />
sopperita dall’addossamento dell’onere della<br />
prova contraria in capo al soggetto indicato quale<br />
contribuente.<br />
Non si può fare a meno di ricordare, in tal senso,<br />
la campagna di iscrizione d’ufficio avviata<br />
dall’INPS nei confronti dei soci di s.n.c., semplicemente<br />
sulla base della loro qualità di soci<br />
risultante dalle iscrizioni alla C.C.I.A.A., senza<br />
alcuna minima previa indagine ispettiva circa<br />
l’esistenza dei presupposti dell’obbligo contributivo<br />
(non diversi da quelli dei familiari coadiutori<br />
del commerciante, ovvero lo svolgimento di<br />
un’attività personale nell’azienda, con caratteri<br />
di abitualità e prevalenza). L’applicazione del criterio<br />
di riparto della prova fondata sulla presunta<br />
vicinanza di essa al socio di s.n.c. (circostanza<br />
del resto non pacifica), permetterebbe all’INPS<br />
di proseguire le iscrizioni in maniera automatica<br />
e senza preventiva ispezione, nell’ambito di una<br />
prassi sicuramente errata.<br />
Vi è un’ulteriore considerazione che fa propendere<br />
gli scriventi nel senso dell’inapplicabilità del principio<br />
di vicinanza della prova al caso di specie. Essa<br />
discende dal fatto che le pronunce giurisprudenziali<br />
che hanno permesso di enucleare il principio disaminato<br />
hanno quasi sempre considerato - quali<br />
più vicine ad una delle parti - prove precostituite<br />
o di facile accesso e disponibilità (si pensi alle cartelle<br />
cliniche ed agli esami diagnostici in possesso<br />
della struttura ospedaliera, al libro matricola da cui<br />
emerga il requisito occupazionale di un’azienda, ai<br />
libri contabili da cui risulti l’andamento economico<br />
connesso al riconoscimento di un premio, etc.).<br />
Ci si chiede, invece, se, a fronte di documenti<br />
che possano esser facilmente acquisiti dall’Ente<br />
previdenziale in sede ispettiva, debba ritenersi<br />
più vicino al presunto debitore/contribuente la<br />
prova dell’assenza dei presupposti della pretesa<br />
contributiva, quando tale prova possa esser data<br />
solo attraverso mezzi di prova costituenda ed in<br />
particolare attraverso la testimonianza, tra le più<br />
incerte nel suo risultato.<br />
29
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Basti pensare, in proposito, alla facilità con cui<br />
l’INPS poteva provare, nel caso deciso, mediante<br />
il servizio ispettivo:<br />
che i prodotti commercializzati fossero promiscui,<br />
mediante una semplice descrizione dei<br />
prodotti esposti all’atto dell’accesso ispettivo<br />
ed al limite mediante la richiesta di esibizione<br />
del libro giornale o degli scontrini emessi in un<br />
certo periodo;<br />
che nelle farmacie vi fosse l’effettiva e concreta<br />
presenza al lavoro di coadiutori;<br />
che sussistesse il requisito della continuatività<br />
della prestazione dei coadiutori, mediante una<br />
pluralità di accessi, magari in incognito, prima<br />
dell’accertamento ispettivo finale;<br />
Approfondimenti<br />
che sussistesse il requisito della prevalenza<br />
nell’attività dei coadiutori, mediante accesso<br />
alle dichiarazioni fiscali degli stessi o mediante<br />
l’accesso agli estratti conto contributivi, da cui<br />
risultasse l’assenza di altri redditi da lavoro.<br />
Ad ogni modo, la sentenza commentata, che<br />
esprime un orientamento ancora seguito presso<br />
il foro albese, costituisce un novum nel panorama<br />
giurisprudenziale. Tale presa di posizione<br />
potrà costituire oggetto di dibattito e potrà esser<br />
accompagnato da perplessità, ma sicuramente<br />
ha il pregio di motivare coerentemente quel<br />
risultato cui altri giudici del lavoro sono a volte<br />
giunti, facendo leva su inesistenti presunzioni<br />
di legge 13 .<br />
(13) Ci si riferisce, ad esempio, ad una sentenza della Corte App. Torino, 6 novembre 2<strong>00</strong>8, n. 965, con la quale è stata rigettata un’opposizione<br />
a cartella di pagamento, emessa sulla scorta dell’iscrizione d’ufficio, da parte dell’INPS, di un socio di s.n.c., trovato intento al lavoro durante<br />
un’ispezione. La tesi difensiva dell’opponente si basava sulla mancata prova, non fornita dall’Ente Previdenziale, dei requisiti della prevalenza e della<br />
continuatività della prestazione lavorativa. La Corte d’Appello, invece, dato per provato lo svolgimento dell’attività lavorativa da parte del socio,<br />
ha ritenuto che<br />
30
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Passaggio di lavoratori in mobilità<br />
tra aziende collegate<br />
La legge n. 223/91 ha, tra l’altro, modificato in<br />
modo sostanziale il sistema degli ammortizzatori<br />
sociali posti a protezione della perdita del<br />
lavoro (e relativo reddito) da parte di gruppi di<br />
lavoratori, andando a sostituire con la “mobilità”<br />
quella che sino ad allora era la “disoccupazione<br />
speciale” regolata dalla legge n. 1115/1968 (art.<br />
8). Va osservato che, mentre la precedente legge<br />
prevedeva esclusivamente prestazioni a sostegno<br />
del reddito perduto specifiche per particolari casi<br />
di interruzione del rapporto di lavoro, la legge n.<br />
223/1991 ad un articolato sistema di protezione<br />
reddituale affianca specifiche disposizioni volte ad<br />
incentivare in maniera sostanziale il reimpiego del<br />
lavoratore licenziato e collocato in mobilità.<br />
La legge n. 223/1991 prevede essenzialmente due<br />
agevolazioni: la riduzione, per un determinato periodo,<br />
delle contribuzioni previdenziali per i lavoratori<br />
assunti dalle liste di mobilità sino alla misura<br />
prevista per gli apprendisti (art. 8, comma 2), cui<br />
si può aggiungere (sempre art. 8, comma 4) in caso<br />
di assunzione a tempo pieno e indeterminato “[...]<br />
per ogni mensilità di retribuzione corrisposta al lavoratore,<br />
un contributo mensile pari al cinquanta<br />
per cento della indennità di mobilità che sarebbe<br />
stata corrisposta al lavoratore”. Di fatto per ogni<br />
lavoratore che esce dalla prestazione di mobilità<br />
per essere assunto stabilmente ed a tempo pieno,<br />
l’indennità “risparmiata” viene spartita in parti<br />
uguali tra chi assume e la gestione INPS.<br />
Non ci vuole molto per capire che, in determinate<br />
circostanze, l’ingaggio di un lavoratore dalle<br />
liste di mobilità può rappresentare un “business”<br />
PAOLO CUZZELLI<br />
Approfondimenti<br />
non indifferente. I costi previdenziali vengono<br />
abbattuti in modo cospicuo, in più il cinquanta<br />
per cento della indennità di mobilità rappresenta<br />
valori di rilevanza assoluta.<br />
Tanto è vero che (parliamo per esperienze a suo<br />
tempo personalmente vissute) bastarono poche<br />
settimane di vigenza della legge n. 223/1991 per<br />
assistere al fiorire di procedere di collocamento<br />
in mobilità, con la quasi contestuale riallocazione<br />
dei lavoratori in questione presso altre ragioni<br />
sociali, magari in strutture cedute in comodato da<br />
chi collocava le maestranze in mobilità. In questi<br />
casi, la semplice visura dei documenti camerali<br />
evidenziava la continuità (o contiguità) degli<br />
assetti proprietari delle aziende coinvolte. Nei<br />
casi in cui, poi, la cessazione di attività risultasse<br />
connessa a procedure concorsuali, scattava anche<br />
l’esonero (legge n. 223/1991, art. 3, comma 3) dal<br />
versamento della cosiddetta tassa di ingresso in<br />
mobilità (prevista dalla stessa legge, art. 5, comma<br />
4). E quando fossero sussistite coincidenze o<br />
relazioni (più o meno palesi) a livello di proprietà,<br />
chiudere una attività attraverso procedure concorsuali,<br />
per trasferirne il business globale ad altra<br />
attività correlata, non è che fosse particolarmente<br />
difficoltoso.<br />
La constatazione di tali fenomeni elusivi degli<br />
intenti genuini che si prefiggeva la legge istitutiva<br />
della mobilità provocavano il successivo<br />
intervento del legislatore. Dobbiamo aspettare il<br />
1994 (ma è noto che il legislatore è celere solo<br />
in determinati particolarissimi casi), quando il<br />
decreto legge n. 299/1994 con l’art. 2 aggiungeva<br />
31
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
il comma 4/bis all’ art. 8 della legge n. 223/1991.<br />
Il comma aggiunto recita testualmente: “Il diritto<br />
ai benefici economici di cui ai commi precedenti è<br />
escluso con riferimento a quei lavoratori che siano<br />
stati collocati in mobilità, nei sei mesi precedenti,<br />
da parte di impresa dello stesso o di diverso settore<br />
di attività che, al momento del licenziamento,<br />
presenta assetti proprietari sostanzialmente coincidenti<br />
con quelli dell’impresa che assume ovvero<br />
risulta con quest’ultima in rapporto di collegamento<br />
o controllo[...] ”. Notiamo come la norma<br />
faccia riferimento a dati oggettivi e concreti: parla<br />
infatti di assetti “sostanzialmente” coincidenti, o,<br />
ancora più in generale, di rapporti ampiamente<br />
intesi di “collegamento o controllo”.<br />
L’aggiunta normativa ha da un lato permesso di<br />
rendere più efficace l’azione di vigilanza per la<br />
repressione dei fenomeni elusivi sopra accennati,<br />
contribuendo oggettivamente a ridurne la diffusione,<br />
dall’altra ha incentivato la ricerca di fattispecie<br />
ed interpretazioni sempre più sofisticate,<br />
che rendessero possibile (o formalmente credibile)<br />
particolari passaggi di manodopera tra una azienda<br />
e l’altra in un contesto di presunta mobilità.<br />
Sull’argomento è intervenuta varie volte la Cassazione,<br />
da ultimo con la sentenza n. 20499/2<strong>00</strong>8,<br />
Sez. <strong>Lavoro</strong>, che ha visto di nuovo prevalere le tesi,<br />
sostenute dall’INPS, per il disconoscimento delle<br />
agevolazioni contributive correlate ad assunzione<br />
di lavoratori formalmente collocati in mobilità e<br />
riallocati presso altra entità produttiva collegata.<br />
La situazione in specie, discretamente complessa<br />
da sintetizzare, vedeva la azienda A, in concordato<br />
preventivo con cessione dei beni, collocare<br />
in mobilità i lavoratori. Questi ultimi venivano<br />
assunti, con le agevolazioni del caso, dalla azienda<br />
B (che con lo scorrere dei vari gradi di giudizio era<br />
nel frattempo divenuta l’azienda C). Era inoltre<br />
esistente l’azienda D, che risultava azionista di<br />
riferimento di A e partecipante al 50 per cento di<br />
B e, successivamente della subentrante C. Infine,<br />
da A a B era intervenuta cessione di azienda.<br />
La Cassazione ripercorre i motivi principali posti<br />
alla base del ricorso dalla azienda C sulle contestazioni<br />
mosse originariamente a B. Abbiamo in<br />
primis la pretesa dubbia credibilità della affermazione<br />
circa la continuità tra le aziende, resa da<br />
un testimone, basata sul fatto che lo stesso era<br />
Approfondimenti<br />
l’ispettore del lavoro che aveva condotto l’accertamento<br />
(con buona pace del principio secondo<br />
cui le affermazioni verbalizzate dall’ispettore sono<br />
contestabili con querela di falso). Il ricorrente<br />
richiamava poi una non meglio identificata circolare<br />
ministeriale, che riconosceva i benefici in<br />
questione anche quando fossero coinvolti lavoratori<br />
licenziati a seguito di operazioni societarie,<br />
in presenza di accordi sindacali finalizzati alla<br />
salvaguardia dei livelli occupazionali. Andava di<br />
conseguenza data una lettura non formale dell’art.<br />
8, c.c. 4 e 4/bis, ma avendo come sostanziale riferimento<br />
la salvaguardia dei livelli occupazionali,<br />
che si asseriva realizzata in specie.<br />
In altre parole, i licenziamenti sarebbero stati<br />
causati esclusivamente dalla grave crisi finanziaria<br />
in cui si era venuta a trovare l’azienda A, non<br />
dalla preordinata (ovvero preordinabile da terze<br />
parti correlate) prospettiva del trasferimento della<br />
forza lavoro alla azienda B (sempre con buona<br />
pace dell’esistenza della azienda D, sovrastante<br />
ad entrambe e del fatto che l’azienda B era stata<br />
in grado di assorbire immediatamente business e<br />
mano d’opera di A senza alcuna difficoltà). Venivano<br />
infine richiamate, in quanto favorevoli alla<br />
concessione dei benefici in presenza di un soggetto<br />
cedente sottoposto ad una procedura concorsuale,<br />
le decisioni adottate dalla Corte di giustizia<br />
europea nella causa C-472/93, con richiamo alla<br />
direttiva 98/50/CEE.<br />
Ignorata la questione circa la testimonianza e<br />
considerato non pertinente il richiamo alla giurisprudenza<br />
comunitaria, la Cassazione osserva<br />
preliminarmente che, in specie, nei ragionamenti<br />
condotti dai giudici di merito non era riscontrabile<br />
alcun vizio nei criteri logici che avevano<br />
portato gli stessi alla formazione del convincimento.<br />
I vizi invocati non possono consistere<br />
esclusivamente nella non condivisione dell’apprezzamento<br />
di fatti e prove determinato dal giudice.<br />
Inoltre, non è sufficiente che il ricorrente<br />
si limiti a prospettare una possibilità/probabilità<br />
che esistano conclusioni logiche alternative<br />
alla decisione di merito. La conclusione logica<br />
alternativa prospettata nel ricorso per cassazione<br />
doveva alla fine apparire come l’unica possibile.<br />
Cosa che nella situazione che stiamo esaminando<br />
non si era verificata.<br />
32
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Concordando con i giudici d’appello, la Cassazione<br />
rileva che trasferimento d’azienda e procedure<br />
di mobilità costituiscono due discipline<br />
distinte, non sovrapponibili, che perseguono fini<br />
ed hanno ambiti operativi nettamente distinti.<br />
In effetti, viene osservato che, nel caso di trasferimento<br />
d’azienda, ci si trova in un quadro di<br />
occupazione strutturalmente stabile, mentre lo<br />
spostamento dei lavoratori appare più che altro<br />
volto “…a soddisfare non decifrabili esigenze di<br />
gruppi societari che, in ragione dei loro stretti<br />
collegamenti, presentano interessi in tutto o in<br />
parte coincidenti…”.<br />
Ancora più precisamente, la Corte osserva che (e<br />
l’ovvio riferimento è ai concetti di “collegamento<br />
o controllo” contenuti nel comma 4/bis dell’art.<br />
8 della legge più volte richiamata) assumono<br />
rilevanza ostativa alla concessione dei benefici<br />
in controversia “…quei rapporti tra le imprese<br />
che si traducano, sul piano fattuale, in condotte<br />
costanti e coordinate di collaborazione e comune<br />
agire sul mercato in ragione di un comune nucleo<br />
proprietario o di altre specifiche ragioni attestanti<br />
costanti legami di interessi anche essi comuni<br />
(legami di coniugio, di parentela, di affinità o<br />
finanche di collaudata e consolidata amicizia tra<br />
soci, ecc.) che inducano ad attuare ristrutturazioni<br />
aziendali, comportanti il licenziamento da<br />
parte di un’impresa e l’assunzione di lavoratori da<br />
parte dell’altra [...] influenzate oggettivamente da<br />
Approfondimenti<br />
finalità diverse da quelle per le quali sono stati<br />
riconosciuti i benefici di cui al citato art. 8…”.<br />
In conclusione, risulta confermata dalla Cassazione<br />
la validità degli elementi, evidenziati nei<br />
precedenti gradi di giudizio, a sostegno della applicabilità<br />
in specie del disposto dell’art. 8 comma<br />
4/bis della legge n. 223/91. Tali elementi evidenziavano<br />
“…un indubbio intreccio di interessi<br />
tra le compagini societarie, dato dalla presenza<br />
di un azionista di riferimento, pur in presenza di<br />
un azionariato alquanto frazionato…”. Viene poi<br />
posto l’accento, quale elemento a sostegno della<br />
continuità aziendale, sul fatto che il trasferimento<br />
di parte dei lavoratori fosse avvenuto immediatamente<br />
alla conclusione del periodo di preavviso,<br />
mentre per altra parte di maestranze tale trasferimento<br />
era stato effettuato dopo un periodo di<br />
tempo significativamente breve.<br />
In definitiva, appare estremamente consistente il<br />
rilievo dato dai giudici di legittimità agli aspetti<br />
sostanziali dei rapporti tra le società coinvolte,<br />
al fine di valutare il diritto a fruire delle agevolazioni<br />
contributive connesse al collocamento dei<br />
lavoratori posti (in questo caso in modo fittizio)<br />
in mobilità, escludendo che debbano essere tenuti<br />
in considerazione gli aspetti della situazione<br />
che appaiano rispettosi esclusivamente in modo<br />
formale delle condizioni imposte dalle procedure<br />
di mobilità.<br />
33
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Giudice ordinario o tributario<br />
per le controversie tra il sostituto<br />
d’imposta e il sostituito?<br />
Sono attratte nella competenza del giudice ordinario,<br />
e non del giudice tributario, le controversie<br />
tra il sostituto d’imposta e il sostituito aventi per<br />
oggetto l’esercizio del diritto di rivalsa del primo<br />
sul secondo per le ritenute operate. La sentenza<br />
26/6/2<strong>00</strong>9, n. 15031, della Cassazione si pone in<br />
contrasto con precedenti pronunce che avevano<br />
attribuito la competenza alle Commissioni Tributarie.<br />
Tuttavia, curiosamente, la sentenza 26/<br />
6/2<strong>00</strong>9, n. 15047, afferma esattamente l’opposto.<br />
Preliminarmente, prima di procedere oltre, si<br />
ricorda che la C.M. 23/4/1996, n. 98/E, aveva attratto<br />
nell’ambito della giustizia tributaria “anche<br />
le controversie tra sostituto e sostituito d’imposta<br />
in ordine alla legittimità ed alla misura delle ritenute<br />
alla fonte applicate”.<br />
Con la sentenza 30/10/2<strong>00</strong>8, n. 26013, la Cassazione<br />
aveva affermato la giurisdizione del giudice<br />
ordinario per le controversie in cui l’oggetto del<br />
contendere non è l’esistenza o la quantificazione<br />
dell’obbligazione tributaria, cioè l’an o il quantum,<br />
ma solo i rapporti di credito-debito tra le parti.<br />
In base alla sentenza 2/7/2<strong>00</strong>8, n. 18034, emessa<br />
a Sezioni Unite, le controversie sono devolute<br />
al giudice tributario in quanto “la controversia<br />
tra sostituto d’imposta e sostituito, avente ad<br />
oggetto la pretesa del primo di rivalersi delle<br />
somme versate a titolo di ritenuta d’acconto non<br />
detratta dagli importi erogati al secondo non<br />
diversamente da quella promossa dal sostituito<br />
nei confronti del sostituto, per pretendere il pagamento<br />
(anche) di quella parte del suo credito che<br />
SERGIO MOGOROVICH<br />
Approfondimenti<br />
il convenuto abbia trattenuto e versato a titolo<br />
di ritenuta d’imposta, rientra nella giurisdizione<br />
delle Commissioni tributarie, e non del giudice<br />
ordinario, posto che in entrambi i casi, l’indagine<br />
della legittimità della ritenuta non integra una<br />
mera questione pregiudiziale, suscettibile di essere<br />
delibata incidentalmente, ma comporta una<br />
causa tributaria avente carattere pregiudiziale, la<br />
quale deve essere definita con effetti di giudicato<br />
sostanziale, dal giudice cui la relativa cognizione,<br />
spetta per ragioni di materia, in litisconsorzio<br />
necessario anche dell’amministrazione finanziaria.<br />
Né l’applicazione di tale principio trova ostacolo<br />
nel carattere “impugnatorio” della giurisdizione<br />
delle commissioni tributarie - il quale presuppone<br />
la presenza di un provvedimento dell’amministrazione<br />
contro cui proporre quel reclamo che<br />
costituisce veicolo di accesso, ineludibile, a detta<br />
giurisdizione - giacché, come il sostituito, nel caso<br />
di prelevamento della ritenuta, potrà promuovere,<br />
presentata la dichiarazione annuale, la procedura<br />
di rimborso, così il sostituto, in caso di versamenti<br />
di somme non detratte a titolo di ritenuta, potrà<br />
a sua volta formulare richiesta di restituzione al<br />
fisco in particolare rappresentando le ragioni<br />
prospettate dal presunto debitore d’imposta per<br />
sottrarsi alla rivalsa - impugnandone quindi il<br />
rigetto - con ricorso rivolto anche nei confronti<br />
del sostituito, effettivo debitore verso il fisco e,<br />
quindi, da considerarsi litisconsorte necessario”.<br />
Le stesse argomentazioni sono presenti anche<br />
nelle sentenze 12/1/2<strong>00</strong>7, n. 418, 24/10/2<strong>00</strong>7, n.<br />
22266 e 15/11/2<strong>00</strong>5, n. 23019.<br />
34
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
Va osservato che, ai sensi del D.P.R. 29/9/1973, n.<br />
6<strong>00</strong>, il sostituto d’imposta è obbligato ad esercitare<br />
il diritto di rivalsa per le ritenute operate su somme<br />
e redditi indicati agli articoli da 23 a 30. Anzi,<br />
l’obbligo tributario è ancora più pregnante quando<br />
l’art. 64 lo rafforza imponendolo per le ritenute<br />
operate a titolo di acconto e l’art. 35 del D.P.R.<br />
29/9/1973, n. 602, afferma il principio di solidarietà<br />
passiva tra il sostituto d’imposta e il sostituito<br />
sia pure per le ritenute operate a titolo di imposta.<br />
Dal punto di vista operativo la questione della<br />
controversia tra il soggetto erogatore di un<br />
compenso e il soggetto percettore il compenso,<br />
è limitata soltanto al fatto che la ritenuta sia da<br />
applicare o meno a titolo di imposta, fermo restando<br />
che se è operata a titolo di acconto il suo<br />
ammontare può essere scorporato con l’imposta<br />
personale a debito o portato in compensazione<br />
ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. 9/7/1997, n. 241,<br />
o chiesto a rimborso dal sostituito con la dichiarazione<br />
o con un’apposita istanza presentata ai<br />
sensi dell’art. 38 del D.P.R. 29/9/1973, n. 602. In<br />
pratica, per evitare l’irrogazione delle sanzioni, il<br />
sostituto d’imposta opera la ritenuta e osserva gli<br />
adempimenti dichiarativi.<br />
Affrontare una causa, sia essa secondo il rito civile<br />
o tributario, significa andare incontro a tempi<br />
lunghi per la sentenza, a rischi procedurali di dichiarazione<br />
di incompetenza del giudice adito ed<br />
a costi certi per la coltivazione della controversia<br />
e probabili nel caso di condanna alle spese.<br />
1. La controversia<br />
La sentenza 26/6/2<strong>00</strong>9, n. 15031, del tutto innovativa,<br />
ha per oggetto la causa avviata da un avvocato<br />
finalizzata ad ottenere la restituzione della ritenuta<br />
che il Comune di Roma aveva operato al momento<br />
della liquidazione dell’onorario professionale.<br />
Secondo la Cassazione, nelle controversie tra il<br />
sostituto d’imposta e il sostituito, la materia del<br />
contendere non è costituita dalla sussistenza e/o<br />
dal contenuto dell’obbligo di effettuare la ritenuta<br />
(an e quantum), che sono questioni che attengono<br />
al rapporto tributario tra il sostituto d’imposta e<br />
l’erario (e che indubbiamente sono attratte nella<br />
competenza del giudice tributario). Le questioni<br />
relative all’indebito versamento delle ritenute o<br />
Approfondimenti<br />
all’omesso pagamento delle stesse rientrano nella<br />
competenza della giurisdizione speciale in quanto<br />
l’impugnazione dell’atto di richiesta di rimborso<br />
correlata al c.d. “silenzio-rifiuto” o al diniego o<br />
all’atto impositivo hanno per oggetto una pretesa<br />
tributaria.<br />
Invece, il rapporto tra sostituto d’imposta e sostituito<br />
focalizza l’attenzione sul legittimo e corretto<br />
esercizio del diritto di rivalsa che il primo esercita<br />
nell’ambito “di un rapporto di tipo privatistico,<br />
quindi di competenza del giudice ordinario. Il<br />
fatto che il diritto alla rivalsa sia previsto da<br />
una norma tributaria non trasforma il rapporto<br />
tra soggetti privati in un rapporto tributario, di<br />
tipo pubblicistico, che implica invece l’esercizio<br />
del potere impositivo nell’ambito di un rapporto<br />
sussumibile allo schema potestà-soggezione. Se<br />
manca un soggetto investito di potestas impositiva<br />
manca anche il rapporto tributario, così come se<br />
manca un provvedimento che sia espressione di<br />
tale potere non si configura la speciale lite tributaria<br />
che, per definizione, nasce dal contrasto<br />
rispetto ad una concreta ed autoritativa pretesa<br />
impositiva” (sentenza n. 15031 citata).<br />
2. La competenza del giudice tributario<br />
Rientrano nella competenza delle Commissioni<br />
tributarie soltanto le controversie che hanno<br />
per oggetto diretto i rapporti tributari, cioè la<br />
presenza di un soggetto con potestà impositiva e<br />
l’esercizio del potere mediante l’emissione di un<br />
atto di imposizione.<br />
Più in particolare si applica il D.Lgs. 31/12/1992,<br />
n. 546, se la controversia ha i seguenti connotati:<br />
a) l’oggetto del contendere è una disposizione<br />
tributaria (art. 2);<br />
b) la lite è sorta tra soggetti collegati dal rapporto<br />
tributario (art. 10);<br />
c) la controversia ha come volano un atto che è<br />
espressione della potestà impositiva (art. 19).<br />
Secondo la Cassazione, in tali controversie “manca<br />
una domanda giudiziaria rivolta nei confronti di<br />
un ente dotato di sovranità fiscale; manca, infine,<br />
la contestazione di un atto che sia espressione di<br />
tale potestas” per cui è esclusa la competenza delle<br />
Commissioni tributarie.<br />
35
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong>9<br />
3. La procedura contenziosa<br />
Secondo la Cassazione le liti tra il sostituto d’imposta<br />
e il sostituito hanno per oggetto la legittimità<br />
della rivalsa, in relazione sia all’an sia al quantum,<br />
del primo nei confronti del secondo per cui, se è<br />
stato versato più del dovuto o è stato effettuato<br />
un versamento non dovuto, entrambi possono<br />
chiedere il rimborso attivando il giudice tributario<br />
contro il rifiuto. In questa cornice è competente:<br />
a) il “giudice ordinario per errori di calcolo che non<br />
abbiano inciso sui versamenti a favore del fisco”;<br />
b) il giudice tributario “se invece si tratta di lite che<br />
abbia effetti nei confronti del fisco” cioè se il sostituto<br />
d’imposta ha versato una ritenuta non dovuta<br />
o in eccesso, rivalendosi o meno sul sostituto.<br />
La sentenza richiama, per coerenza, i pronunciamenti<br />
in materia di IVA relativamente alla<br />
domanda proposta dal consumatore finale nei confronti<br />
del soggetto IVA per ottenere la restituzione<br />
del maggior importo addebitato per rivalsa.<br />
4. Conclusioni<br />
La pronuncia, anche se sul filo dell’interpretazione<br />
può essere considerata corretta, si presta a critiche<br />
poiché può disorientare il contribuente. In pratica,<br />
se il sostituto, per errore, ha versato all’erario una<br />
somma non dovuta, non può rivalersi sul sostituito<br />
il quale, avanti il giudice ordinario può difendere il<br />
proprio diritto (ad es., l’applicazione della ritenuta<br />
sulle spese rimborsate a piè di lista). Se, invece, il<br />
sostituto osserva correttamente gli obblighi di applicazione<br />
della ritenuta per rivalsa e di versamento o si<br />
accolla l’onere finanziario, rinunciando a trasferirlo<br />
sul percipiente il reddito (esponendosi all’irrogazione<br />
delle sanzioni se la rivalsa è obbligatoria) ovvero,<br />
esercitando la rivalsa, si espone al rischio di contestazione,<br />
sul fatto che la ritenuta è stata operata in<br />
misura superiore al dovuto o non andava eseguita.<br />
La sentenza, tuttavia, non affronta il problema<br />
dell’applicazione della ritenuta su di un compenso<br />
o reddito di incerta imposizione fiscale: il sostituto<br />
d’imposta, cautelativamente, ha operato la ritenuta<br />
(mentre il sostituito la ritiene non dovuta) al<br />
fine di evitare l’irrogazione delle sanzioni. Quale<br />
è il giudice competente a decidere se la ritenuta<br />
è stata operata correttamente?<br />
Approfondimenti<br />
La Cassazione (sentenza 22/1/2<strong>00</strong>3, n. 865) ha<br />
affermato che le controversie tra il sostituto d’imposta<br />
e il sostituito (cioè tra il datore di lavoro e<br />
il dipendente) non sono devolute alla cognizione<br />
delle Commissioni tributarie qualora non siano<br />
inerenti alla legittimità dell’applicazione delle<br />
ritenute d’acconto (cioè l’obbligo di operarle<br />
sulle retribuzioni) ma abbiano per oggetto esclusivamente<br />
l’interpretazione della volontà delle<br />
parti con riferimento alla circostanza se la somma<br />
pattuita debba essere erogata al lordo oppure al<br />
netto della ritenuta d’acconto, nel qual caso la<br />
controversia è devoluta al giudice ordinario.<br />
5. La sentenza 26/6/2<strong>00</strong>9, n. 15047<br />
Con tale pronuncia, espressa a Sezioni Unite, la<br />
Suprema Corte è ritornata nell’alveo della competenza<br />
della giurisdizione tributaria richiamando<br />
le sentenze 15/11/2<strong>00</strong>5, n. 23019, 6/6/2<strong>00</strong>3, n.<br />
9074, 6/6/2<strong>00</strong>2, n. 8228, e 17/11/1999, n. 787.<br />
L’organo giudicante ha dichiarato la competenza<br />
del giudice ordinario qualora il lavoratore richieda<br />
il risarcimento dei danni correlato al ritardo nella<br />
corresponsione di una parte della retribuzione<br />
e alla maggiore imposta pagata per effetto del<br />
cumulo del compenso in misura tale da collocare<br />
il reddito imponibile in uno scaglione superiore:<br />
“pur vertendo tra sostituito e sostituto d’imposta,<br />
infatti, la controversia non ha ad oggetto la legittimità<br />
della ritenuta d’imposta applicata dal datore<br />
di lavoro, e pertanto, non presupponendo la definizione<br />
di una causa tributaria avente carattere<br />
pregiudiziale, esula dalla giurisdizione delle commissioni<br />
tributarie”. La sentenza evidenzia che se<br />
la competenza fosse attribuita a due giudici diversi<br />
(cioè quello ordinario per l’applicazione della ritenuta)<br />
e quello tributario (per la legittimità della<br />
ritenuta), il sostituto sarebbe soggetto al rischio di<br />
pagare due volte la stessa somma in base a due pronunce<br />
contrastanti provenienti da giudici diversi<br />
qualora il giudice ordinario dovesse dichiarare<br />
l’illegittimità della ritenuta con l’obbligo di corrispondere<br />
l’importo trattenuto alla controparte<br />
e il giudice tributario dovesse rifiutare il rimborso<br />
dichiarando pienamente legittima la ritenuta.<br />
In sintesi, questo è il ragionamento più logico e<br />
corretto.<br />
36
il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />
9 2<strong>00</strong> 9<br />
Osservatorio Giurisprudenziale<br />
Osservatorio Giurisprudenziale<br />
La sentenza: Trib. Milano, est. Beccarini Crescenzi, 30<br />
ottobre 2<strong>00</strong>8<br />
La questione: è legittimo il licenziamento disciplinare<br />
irrogato dal datore di lavoro che abbia convocato il<br />
lavoratore per rendere le proprie giustificazioni presso<br />
una sede diversa rispetto a quella di assegnazione?<br />
La soluzione: il Tribunale risponde negativamente.<br />
Con ricorso ex art. 414 c.p.c. Tizio, dipendente<br />
della Alfa s.p.a. ed r.s.a. della<br />
sede di Milano, conveniva in giudizio la<br />
datrice di lavoro esponendo:<br />
che, a seguito dell’ennesima contestazione disciplinare<br />
mossa nei suoi confronti, nell’agosto<br />
2<strong>00</strong>6 era stato convocato per rendere le giustificazioni<br />
presso la sede di Roma;<br />
che non si era presentato a tale incontro e,<br />
conseguentemente, era stato licenziato;<br />
che, proposto ricorso ex art. 28, L. n. 3<strong>00</strong>/1970,<br />
la condotta della società era stata dichiarata<br />
antisindacale;<br />
che nel novembre 2<strong>00</strong>6 la Alfa aveva pertanto<br />
riammesso in servizio il lavoratore e nel contempo,<br />
richiamando la precedente contestazione<br />
disciplinare, l’aveva invitato a rendere le<br />
proprie giustificazioni presso la sede di Milano;<br />
che nonostante avesse fornito tali giustificazioni<br />
era stato licenziato per giusta causa, ma che<br />
A CURA DI ROMINA DALZINI<br />
tale provvedimento dove considerarsi nullo<br />
e/o inefficace.<br />
Parallelamente veniva instaurato altro giudizio<br />
teso all’accertamento della nullità, illegittimità<br />
o inefficacia del primo licenziamento.<br />
Riunite le cause, il Tribunale accoglieva solo<br />
parzialmente le domande attrici.<br />
In relazione alle eccezioni sollevate dalla società,<br />
osservava preliminarmente il Giudicante che la<br />
percezione del t.f.r. e dell’indennità di disoccupazione<br />
sono condotte prive di univoco significato<br />
in relazione alla dedotta aquiescenza.<br />
In senso analogo si sono pronunciati: Cass. Sez.<br />
Lav., 7 aprile 2<strong>00</strong>5, n. 7207; App. Torino, 3 febbraio<br />
2<strong>00</strong>3, in Giur. piemontese, 2<strong>00</strong>4, 423; Trib. Sassari,<br />
19 ottobre 1995, in Gius, 1995, 3992; Trib. Palermo,<br />
12 dicembre 1991, in Temi Siciliana, 1991, 540.<br />
Ciò premesso, il Tribunale ha ritenuto sussistente<br />
la violazione dell’articolo 7. L. n. 3<strong>00</strong>/1970.<br />
La condotta aziendale consistita nel convocare<br />
il lavoratore per rendere le proprie giustificazioni<br />
presso la sede legale di Roma aveva frustrato<br />
in concreto la possibilità di un’effettiva difesa<br />
rispetto alle condotte contestate e non aveva<br />
consentito, pertanto, il corretto svolgimento<br />
della procedura per l’applicazione della sanzione<br />
disciplinare.<br />
Infatti, l’incontro con il lavoratore era stato<br />
fissato in un luogo pretestuosamente lontano o<br />
normalmente estraneo al tipo di attività oggetto<br />
37
il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />
9 2<strong>00</strong> 9<br />
dell’obbligazione. Quindi, a prescindere da ogni<br />
considerazione in merito alla natura antisindacale<br />
dell’anzidetta condotta in quanto tenuta nei confronti<br />
di un soggetto che rivestiva la carica di r.s.a.,<br />
doveva ritenersi concretizzata la violazione delle<br />
garanzie procedimentali previste dall’art. 7.<br />
Il licenziamento era conseguentemente ingiustificato,<br />
nel senso che il comportamento addebitato<br />
al dipendente, ma non fatto valere attraverso quel<br />
procedimento, non può, quand’anche effettivamente<br />
sussistente e rispondente alla nozione di<br />
giusta causa o giustificato motivo, essere addotto<br />
dal datore di lavoro per sottrarsi all’operatività<br />
della tutela apprestata dall’ordinamento nelle<br />
diverse situazioni (Cass. Sez. Lav., 27 agosto 2<strong>00</strong>3,<br />
n. 12579).<br />
In ordine alle conseguenze della suindicata declaratoria,<br />
il Tribunale ha rilevato che la mancata impugnazione<br />
del licenziamento intimato nell’agosto<br />
se da un canto non impediva al ricorrente, nel caso<br />
di dichiarata illegittimità degli altri atti espulsivi,<br />
di ottenere la reintegra nel posto di lavoro, dall’altro,<br />
non determinava la nullità del provvedimento<br />
comunicato in novembre per effetto della mancata<br />
revoca del primo atto espulsivo.<br />
Come più volte sostenuto dalla Suprema Corte,<br />
infatti, l’accertata antisindacalità del comportamento<br />
plurioffensivo del datore di lavoro e la<br />
conseguente rimozione dei suoi effetti attraverso<br />
l’ordine di reintegrazione, o, come nella specie, di<br />
riammissione in servizio, determina il ripristino<br />
della funzionalità del rapporto, con conseguente<br />
sua persistente validità ed efficacia (Cass. Sez.<br />
Un., 17 febbraio 1992, n. 1916; Cass. Sez. Lav., 16<br />
dicembre 1986, n. 7561 e 25 luglio 1984, n. 4374).<br />
Una volta ripristinato il rapporto, esso non poteva<br />
cessare se non per effetto di una nuova valida<br />
risoluzione.<br />
In argomento la Cassazione ha affermato che<br />
“il rinnovo da parte del datore di lavoro di un<br />
licenziamento nullo per vizio di forma (…)<br />
(rinnovo che si risolve nel compimento di un<br />
negozio diverso dal precedente) può intervenire<br />
validamente solo nel rispetto dei requisiti formali<br />
imposti dell’art. 7 S.L. e dalla disciplina collettiva,<br />
e richiede, in particolare, una nuova contestazione<br />
degli addebiti posti a suo fondamento; tuttavia<br />
Osservatorio Giurisprudenziale<br />
in tal caso la tempestività della prima contestazione<br />
(in assenza di un ‘autonoma tempestività<br />
della seconda) conserva la sua efficacia, poiché<br />
la violazione del principio dell’immediatezza<br />
della contestazione non va valutata in astratto e<br />
con esclusivo riferimento al tempo trascorso dal<br />
fatto, ma riscontrata in concreto in relazione al<br />
determinarsi, in ragione del tempo trascorso, di un<br />
comportamento del datore di lavoro incompatibile<br />
con la volontà di risolvere il rapporto” (Cass.<br />
Sez. Lav., 7 agosto 2<strong>00</strong>3, n. 11911).<br />
Nel caso in esame, la nuova contestazione era intervenuta<br />
subito dopo il decreto ex art. 28 St. Lav.,<br />
che aveva dichiarato antisindacale la condotta<br />
tenuta dall’azienda nell’ambito del procedimento<br />
disciplinare, con possibilità dunque di rinnovo<br />
dello stesso con rispetto dei prescritti requisiti<br />
formali, ed era stata contestuale alla comunicazione<br />
con cui, in osservanza del provvedimento,<br />
si invitava il ricorrente a riprendere il lavoro.<br />
Venendo all’esame della legittimità del licenziamento<br />
intimato nel novembre 2<strong>00</strong>6, il Tribunale<br />
ha ritenuto che i fatti addebitati (insubordinazione<br />
verso i superiori accompagnata da comportamento<br />
oltraggioso) si fossero in concreto verificati, con<br />
conseguente legittimità dell’atto espulsivo.<br />
Deve tuttavia rilevarsi che il licenziamento illegittimo<br />
non è idoneo ad estinguere il rapporto al<br />
momento in cui è stato intimato, determinando<br />
unicamente una sospensione della prestazione dedotta<br />
nel sinallagma, a causa del rifiuto del datore<br />
di ricevere la stessa, e non esclude che il datore di<br />
lavoro possa rinnovare il licenziamento, in base<br />
ai medesimi o a diversi motivi del precedente.<br />
Ne consegue che, nel caso in cui, dopo un primo<br />
licenziamento, ne sia intervenuto un altro non<br />
tempestivamente impugnato, il giudice, chiamato<br />
a pronunciarsi sulle conseguenze del primo licenziamento<br />
dichiarato illegittimo, deve limitarsi<br />
alla condanna al risarcimento dei danni subiti<br />
dal lavoratore nel periodo corrente tra il primo<br />
ed il secondo licenziamento e non può, invece,<br />
ordinare la reintegra nel posto di lavoro, essendosi<br />
il rapporto lavorativo ormai definitivamente<br />
estinto, per effetto della mancata impugnativa del<br />
secondo provvedimento di recesso. (Cass. Sez.<br />
Lav., 6 marzo 2<strong>00</strong>8, n. 6055; in senso analogo si<br />
veda Cass. Sez. Lav., 5 luglio 2<strong>00</strong>3, n. 10628).<br />
38
il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />
9 2<strong>00</strong> 9<br />
Alla luce di tali principi, il Tribunale ha rigettato<br />
la domanda di reintegrazione ed ha limitato il<br />
risarcimento del danno alla misura minima di<br />
cinque mensilità della retribuzione globale di<br />
fatto, posto che, come risultava dalla documentazione<br />
prodotta dal ricorrente, la riammissione in<br />
servizio era avvenuta nel novembre 2<strong>00</strong>6, ovvero<br />
prima del decorso di cinque mesi dall’illegittima<br />
risoluzione.<br />
La sentenza: Cass. Sez. Lav., 10 dicembre 2<strong>00</strong>8, n. 29<strong>00</strong>0<br />
La questione: un rapporto di lavoro subordinato può<br />
essere sostituito da uno di lavoro autonomo senza che vi<br />
sia un effettivo mutamento delle modalità di svolgimento<br />
della prestazione lavorativa?<br />
La soluzione: la Cassazione risponde negativamente.<br />
Tizia aveva lavorato per alcuni anni<br />
presso la Beta s.r.l., inizialmente in<br />
qualità di dipendente, successivamente<br />
in forza di più contratti di lavoro parasubordinato<br />
succedutisi nel tempo.<br />
A seguito di risoluzione del rapporto di collaborazione<br />
ad iniziativa della Beta, la lavoratrice<br />
conveniva in giudizio la società affinché fosse<br />
accertato che tale rapporto era stato unitario,<br />
con identità di mansioni, ed aveva avuto natura<br />
di lavoro subordinato, anche quando era stato<br />
diversamente qualificato dall’impresa; conseguentemente<br />
doveva essere dichiarata la nullità del<br />
licenziamento, privo di giusta causa o giustificato<br />
motivo, con ordine di reintegrazione nel posto di<br />
lavoro e condanna al risarcimento dei danni.<br />
Le ragioni della lavoratrice venivano disattese<br />
in primo grado ed accolte invece dal Giudice del<br />
gravame.<br />
La Suprema Corte, investita della questione,<br />
confermava la sentenza di secondo grado.<br />
Le prove esperite avevano evidenziato sia l’avvenuto<br />
inserimento della lavoratrice nella organizzazione<br />
aziendale, con l’assegnazione di mansioni<br />
circoscritte e non implicanti alcuna autonomia<br />
decisionale o anche solo operativa (Cass. Sez.<br />
Lav., 13 maggio 2<strong>00</strong>4, n. 9151); non era inoltre<br />
Osservatorio Giurisprudenziale<br />
dato cogliere alcuna differenza fra i diversi periodi<br />
di lavoro quanto alle mansioni svolte ed il<br />
rapporto stesso, in base ai due contratti a tempo<br />
determinato prodotti dalla parte datoriale, era<br />
stato formalizzato come subordinato.<br />
Secondo il costante orientamento giurisprudenziale,<br />
un rapporto di lavoro subordinato può essere<br />
sostituito da uno di lavoro autonomo, ma a tal<br />
fine è necessario che all’univoca volontà delle<br />
parti di mutare il regime giuridico del rapporto si<br />
accompagni un effettivo mutamento delle modalità<br />
di svolgimento della prestazione lavorativa,<br />
quale conseguenza del venir meno del vincolo di<br />
assoggettamento del lavoratore al datore di lavoro,<br />
dovendosi altrimenti presumere, con presunzione<br />
semplice, che il rapporto sia proseguito col regime<br />
precedente (Cass. Sez. Lav., 28 settembre 2<strong>00</strong>2, n.<br />
14071; 20 maggio 2<strong>00</strong>2, n. 7310; 25 gennaio 1993,<br />
n. 812; 21 gennaio 1989, n. 359; 19 novembre<br />
1985, n. 5705).<br />
Da tempo la Cassazione afferma che ai fini della<br />
distinzione tra lavoro autonomo e subordinato<br />
non deve prescindersi dalla volontà delle parti<br />
contraenti e, sotto questo profilo, va tenuto<br />
presente il nomen juris utilizzato, il quale però<br />
non ha un rilievo assorbente, poiché deve tenersi<br />
conto altresì, sul piano della interpretazione della<br />
volontà delle stesse parti, del comportamento<br />
complessivo delle medesime, anche posteriore<br />
alla conclusione del contratto, ai sensi dell’art.<br />
1362 c.c., comma 2, e, in caso di contrasto fra dati<br />
formali e dati fattuali relativi alle caratteristiche<br />
e modalità della prestazione, è necessario dare<br />
prevalente rilievo ai secondi, dato che la tutela<br />
relativa al lavoro subordinato, per il suo rilievo<br />
pubblicistico e costituzionale, non può essere<br />
elusa per mezzo di una configurazione formale non<br />
rispondente alle concrete modalità di esecuzione<br />
del contratto (Cass. Sez. Lav., 20 marzo 2<strong>00</strong>7, n.<br />
6622; 23 luglio 2<strong>00</strong>4, n. 13884; 28 marzo 2<strong>00</strong>3,<br />
n. 4770; 2 aprile 2<strong>00</strong>2, n. 4682; 1 marzo 2<strong>00</strong>2,<br />
n. 3<strong>00</strong>1; 18 aprile 2<strong>00</strong>1, n. 5665; 5 marzo 2<strong>00</strong>1,<br />
n. 32<strong>00</strong>; 8 gennaio 2<strong>00</strong>1, n. 151) e dovendosi<br />
tenere conto che le parti, pur volendo attuare un<br />
rapporto di lavoro subordinato, potrebbero aver<br />
simulatamente dichiarato di voler un rapporto<br />
autonomo al fine di eludere la disciplina legale<br />
in materia, ovvero, pur esprimendo al momento<br />
della conclusione del contratto una volontà au-<br />
39
il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />
9 2<strong>00</strong> 9<br />
tentica, potrebbero, nel corso del rapporto, aver<br />
manifestato, con comportamenti concludenti, una<br />
diversa volontà (Cass. Sez. Lav., 23 luglio 2<strong>00</strong>4,<br />
n. 13872; 27 agosto 2<strong>00</strong>2, n. 12581).<br />
Tali principi erano stati correttamente applicati<br />
dalla Corte d’Appello, la quale aveva ritenuto che<br />
il dedotto rapporto di lavoro autonomo, di fatto,<br />
non si era mai instaurato fra le parti.<br />
La ritenuta prosecuzione del rapporto lavorativo<br />
(subordinato) anche al di là dei termini fittiziamente<br />
apposti nel corso del suo svolgimento,<br />
comportava che il rapporto stesso, nella sua unitarietà,<br />
doveva essere considerato come a tempo<br />
indeterminato; conseguentemente l’avvenuta<br />
stipulazione, nel corso del rapporto di lavoro<br />
subordinato a tempo indeterminato, di un fittizio<br />
(e perciò privo di valenza novativa) contratto di<br />
collaborazione coordinata e continuativa non<br />
poteva essere considerata idonea a determinare<br />
la diversa qualificazione del rapporto stesso in<br />
termini di lavoro autonomo.<br />
In particolare, alla formale comunicazione di<br />
risoluzione per spirare del termine del contratto<br />
di collaborazione fittiziamente stipulato non<br />
potevano essere applicati i principi in tema di<br />
disdetta comunicata per scadenza del termine<br />
illegittimamente apposto ad un contratto di lavoro<br />
subordinato e la comunicazione datoriale doveva<br />
essere qualificata come licenziamento illegittimo<br />
in quanto non determinato da giusta causa o<br />
giustificato motivo.<br />
La sentenza: Cass. Sez. Lav., 30 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 15327<br />
La questione: il datore di lavoro può divulgare dati relativi<br />
ad un dipendente al fine di tutelare la personalità morale<br />
di altri lavoratori?<br />
La soluzione: la Cassazione risponde affermativamente.<br />
Tre dipendenti della Beta s.p.a. avevano<br />
ricevuto lettere anonime pesantemente<br />
ingiuriose. Sospettando che l’autore<br />
fosse un collega, avevano fatto richiesta alla datrice<br />
di lavoro di documenti idonei a consentire<br />
una perizia grafologica, per poter denunciare il<br />
responsabile.<br />
Osservatorio Giurisprudenziale<br />
Tizio, autore di alcuni dei documenti consegnati,<br />
conveniva in giudizio la società al fine di ottenere<br />
il risarcimento del danno derivatogli da tale<br />
divulgazione.<br />
La domanda del lavoratore non trovava accoglimento<br />
né in primo né in secondo grado.<br />
La Corte d’Appello, in particolare, riteneva che il<br />
trattamento dei dati personali operato dalla società<br />
richiedesse il consenso espresso dell’interessato.<br />
La normativa sulla privacy, tuttavia, andava coordinata<br />
con l’obbligo per l’imprenditore di adottare<br />
tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità<br />
fisica e la personalità morale dei prestatori di<br />
lavoro alle sue dipendenze, a’ sensi dell’art. 2087<br />
c.c., sicché la consegna dei documenti trovava<br />
piena giustificazione nell’esigenza di ripristinare<br />
un clima sereno in azienda. Nella fattispecie, oltretutto,<br />
si trattava di documenti dal contenuto<br />
scarsamente significante (richieste di istruzioni,<br />
di cambio del turno, riconoscimenti di premi di<br />
produzione, bolle doganali).<br />
La Suprema Corte, investita della questione,<br />
confermava le decisioni di merito.<br />
In base alle definizioni di “trattamento” e di “dato<br />
personale” contenute nell’art. 1, comma 2, L. n.<br />
675/1996 (applicabile ratione temporis; si veda<br />
ora il D.Lgs. n. 196/2<strong>00</strong>3), l’avere consegnato, e<br />
quindi comunicato, ad alcuni dipendenti la copia<br />
di documenti compilati o sottoscritti da Tizio<br />
costituiva effettivamente trattamento di dato<br />
personale senza consenso.<br />
In ambito aziendale peraltro la normativa generale<br />
in tema di privacy deve essere applicata con<br />
ragionevolezza, tenendo conto dei diritti degli<br />
altri lavoratori che si contrappongono al diritto<br />
alla riservatezza del dipendente.<br />
Nella fattispecie, erano in gioco diritti di rilievo<br />
costituzionale dei dipendenti ingiuriati, diritti<br />
che non potevano trovare attuazione se non individuando<br />
l’autore delle missive anonime; tale<br />
situazione poteva avvelenare l’ambiente di lavoro;<br />
infine, i documenti consegnati non avevano un<br />
contenuto particolarmente significante. La società,<br />
del resto, non poteva investire direttamente<br />
della vicenda il giudice penale, trattandosi di reati<br />
procedibili a querela della persona offesa; e non<br />
40
il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />
9 2<strong>00</strong> 9<br />
appariva nemmeno ragionevole rimettere l’iniziativa<br />
ai tre dipendenti, esponendoli al rischio<br />
di un’accusa di calunnia.<br />
Secondo la Cassazione, quindi, la Beta aveva<br />
operato correttamente, adempiendo all’obbligo<br />
di cui all’art. 2087 c.c., il cui contenuto, nella<br />
situazione sopra descritta, costituiva il legittimo<br />
limite al diritto al consenso espresso richiesto dalla<br />
L. n. 675/1996.<br />
La Suprema Corte aveva già avuto modo di<br />
affermare che l’interesse alla riservatezza, tutelato<br />
dall’ordinamento positivo, recede quando<br />
quest’ultimo sia esercitato per la difesa di un interesse<br />
giuridicamente rilevante (e tale è quello<br />
previsto dalla legge, allorché questa riconosce il<br />
diritto al creditore di procedere a pignoramento<br />
presso terzi) e nei soli ovvi limiti in cui esso sia<br />
necessario alla tutela. La legge n. 675 del 1996,<br />
Osservatorio Giurisprudenziale<br />
non configurando uno “statuto generale della persona”,<br />
non si applica generalizzatamente ad ogni<br />
situazione soggettiva comunque riconducibile<br />
al novero dei diritti della persona, ma soltanto<br />
a quelle tra le predette situazioni soggettive che<br />
rientrano nell’ambito di applicazione della legge<br />
n. 675 del 1996 come normativamente delineato<br />
in relazione al fenomeno del “trattamento dei dati<br />
personali”, precludendo l’accesso solo per quei<br />
documenti relativi ai dati sensibili della persona<br />
(vita privata, riservatezza sullo stato di salute, fede<br />
religiosa, difesa della dignità umana) (Cass. civ.,<br />
24 maggio 2<strong>00</strong>3, n. 8239).<br />
Deve conseguentemente escludersi che, allorché si<br />
abbia una divulgazione di dati relativi alla persona,<br />
si realizzi sempre e in ogni caso una violazione<br />
della normativa sulla privacy, non potendosi<br />
prescindere da un giudizio di comparazione degli<br />
interessi in gioco, rimesso al giudice di merito.<br />
41
il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />
Assicurazione infortuni<br />
9 2<strong>00</strong> 9<br />
2<strong>00</strong>9<br />
Ultime dalla Cassazione<br />
Cass. Sez. Lav., 18 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 11417<br />
Infortunio sul lavoro – Rischio elettivo – Elementi<br />
caratterizzanti<br />
Il rischio elettivo, quale limite all’indennizzabilità<br />
degli infortuni sul lavoro, è ravvisabile solo<br />
in presenza di un comportamento abnorme,<br />
volontario ed arbitrario del lavoratore, tale da<br />
condurlo ad affrontare rischi diversi da quelli<br />
inerenti alla normale attività lavorativa, pur<br />
latamente intesa, e tale da determinare una causa<br />
interruttiva di ogni nesso fra lavoro, rischio ed<br />
evento secondo l’apprezzamento di fatto riservato<br />
al giudice di merito.<br />
In particolare, per configurare il rischio elettivo<br />
secondo la definizione descritta, viene richiesto:<br />
a) che il lavoratore ponga in essere un atto non<br />
solo volontario, ma anche abnorme, nel senso di<br />
arbitrario ed estraneo alle finalità produttive; b)<br />
che il comportamento del lavoratore sia motivato<br />
da impulsi meramente personali, quali non<br />
possono qualificarsi le iniziative, pur incongrue<br />
ed anche contrarie alle direttive del datore di<br />
lavoro, ma motivate da finalità produttive; c)<br />
che l’evento conseguente all’azione del lavoratore<br />
non abbia alcun nesso di derivazione con<br />
l’attività lavorativa.<br />
Nel concorso di tali situazioni, che qualificano in<br />
termini di abnormità la causa iniziale della serie<br />
produttiva dell’evento infortunistico, il rischio<br />
A CURA DI ROMINA DALZINI<br />
Ultime dalla Cassazione<br />
elettivo si distingue, quindi, dall’atto colpevole<br />
del lavoratore, e cioè dall’atto volontario posto<br />
in essere con imprudenza, negligenza o imperizia,<br />
ma che, motivato comunque da finalità<br />
produttive, non vale ad interrompere il nesso<br />
fra l’infortunio e l’attività lavorativa e non ne<br />
esclude, pertanto, la indennizzabilità.<br />
Cass. Sez. Lav., 22 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 11928<br />
Premio Inail – Villaggi turistici – Classificazione<br />
Per determinare il premio assicurativo da pagare,<br />
non si possono cercare definizioni delle<br />
lavorazioni nell’ambito di normative diverse,<br />
ma si deve applicare esclusivamente la tabella<br />
di cui al D.M. 12 dicembre 2<strong>00</strong>0, alla stregua<br />
della quale i villaggi turistici rientrano nella voce<br />
0213, in cui si collocano stabilimenti balneari,<br />
campeggi, villaggi turistici, non già nella voce<br />
0211 in cui sono compresi alberghi, pensioni,<br />
residence e motel.<br />
Il villaggio turistico è infatti la struttura composita<br />
che offre qualcosa di più del camping, e<br />
tanto è sufficiente per includerla nella tariffa più<br />
alta e non in quella prevista per gli alberghi, non<br />
potendosi porre come discrimine la maggiore<br />
o minore comodità e raffinatezza dei locali di<br />
accoglienza. Attenendo invece il discrimine tra<br />
“albergo” e “villaggio turistico” alla misura del<br />
rischio infortunistico cui sono soggetti i dipendenti,<br />
si comprende come il premio maggiore<br />
corrisponda alle lavorazioni che si svolgono<br />
in strutture estese, come stabilimenti balneari,<br />
42
il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />
9 2<strong>00</strong> 9<br />
2<strong>00</strong>9<br />
campings e villaggi turistici, che constano di<br />
vari corpi separati all’interno di comprensori<br />
di grande ampiezza, che richiedono necessariamente,<br />
per il personale dipendente, spostamenti<br />
maggiori e all’aperto, rispetto a quelli necessari<br />
presso gli alberghi, che sono limitati ad un’unica<br />
struttura interna.<br />
Cass. Sez. Lav., 1 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 12726<br />
Azione di regresso – Legittimazione passiva<br />
Poiché nel nostro ordinamento positivo (Regio<br />
Decreto n. 1765 del 1935, articolo 22 e articolo<br />
2116 c.c., comma 1 e, successivamente, Decreto<br />
del Presidente della Repubblica 30 giugno<br />
1965, n. 1124, articolo 67) vige in materia di<br />
assicurazione contro gli infortuni il principio<br />
dell’automatismo, in virtù di esso il diritto del<br />
lavoratore alle prestazioni assicurative prescinde<br />
dalla stipulazione dell’assicurazione e del versamento<br />
dei contributi, e, pertanto, ove si verifichi<br />
l’evento previsto dalla legge per l’attribuzione<br />
delle prestazioni, è l’istituto assicuratore, ed esso<br />
soltanto, tenuto ad eseguire le prestazioni stesse,<br />
abbia o no il datore di lavoro adempiuto agli<br />
obblighi che la legge pone a suo carico, salvo in<br />
ogni caso il diritto di rivalsa dell’istituto verso il<br />
datore di lavoro.<br />
Pertanto, legittimato passivo dell’azione per il<br />
pagamento dell’indennità di infortunio e delle<br />
prestazioni in genere in favore dell’infortunato,<br />
abbia o no il datore di lavoro provveduto all’assicurazione<br />
ed al pagamento dei contributi, non<br />
potrebbe ritenersi che l’istituto assicuratore, e<br />
questo soltanto, e giammai il datore di lavoro,<br />
ancorché a titolo risarcitorio.<br />
Disoccupazione<br />
Cass. Sez. Lav., 8 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 10640<br />
Assegno per il nucleo familiare – Computo<br />
L’assegno per il nucleo familiare dovuto, ai sensi<br />
della L. n. 223 del 1991, art. 7, comma 10, ai<br />
lavoratori iscritti nelle liste di mobilità va determinato,<br />
in considerazione della specialità della<br />
normativa che lo prevede, su base giornaliera, e<br />
cioè secondo il criterio proprio dell’indennità di<br />
Ultime dalla Cassazione<br />
mobilità, trovando nella relativa disciplina la sua<br />
fonte genetica, la sua ratio ed il suo specifico collegamento;<br />
esso, perciò, deve essere corrisposto<br />
in ragione dei giorni di cui è composto il mese<br />
di febbraio di ciascun anno e non nella misura<br />
intera rapportata al mese, ovvero a trenta giorni,<br />
non trovando applicazione, in considerazione<br />
della specialità della regolamentazione, il parametro<br />
di cui dell’art. 59, comma al 1 e 2 (come<br />
sostituito dalla L. n. 1038 del 1961, art. 15) del<br />
T.u. sugli assegni familiari approvato con D.P.R.<br />
n. 797 del 1955.<br />
<strong>Lavoro</strong> autonomo<br />
Cass. Sez. Lav., 24 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 14868<br />
Facoltà di farsi sostituire da altra persona – Configurabilità<br />
L’obbligo di eseguire personalmente la prestazione<br />
caratterizza il lavoro subordinato e solo eccezionalmente,<br />
per la natura della prestazione e col<br />
consenso del datore, è possibile che il lavoratore<br />
si faccia sostituire da altra persona.<br />
Ne consegue la legittimità della decisione di<br />
merito che ravvisi il rapporto di lavoro autonomo<br />
sulla detta possibilità di sostituzione, insieme ad<br />
altri elementi, quali l’assenza di assoggettamento<br />
ad un orario e del diritto di ferie, il compenso<br />
non fisso ma a percentuale, l’uso di un veicolo<br />
proprio per eseguire le consegne.<br />
<strong>Lavoro</strong> subordinato<br />
Cass. Sez. Lav., 8 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 10629<br />
E autonomo – Criteri distintivi<br />
Nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto<br />
sia estremamente elementare, ripetitiva e<br />
predeterminata nelle sue modalità di esecuzione<br />
ed al fine della distinzione tra rapporto di lavoro<br />
autonomo e subordinato il criterio rappresentato<br />
dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio<br />
del potere direttivo, organizzativo e disciplinare<br />
non risulti, in quel particolare contesto, significativo,<br />
per la qualificazione del rapporto di lavoro<br />
occorre far ricorso a criteri distintivi sussidiari,<br />
quali la continuità e la durata del rapporto, le<br />
modalità di erogazione del compenso, la regola-<br />
43
il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />
9 2<strong>00</strong> 9<br />
2<strong>00</strong>9<br />
mentazione dell’orario di lavoro, la presenza di<br />
una pur minima organizzazione imprenditoriale<br />
(anche con riferimento al soggetto tenuto alla<br />
fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza<br />
di un effettivo potere di autorganizzazione<br />
in capo al prestatore, desunto anche dalla eventuale<br />
concomitanza di altri rapporti di lavoro.<br />
Cass. Sez. Lav., 17 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 14054<br />
E autonomo – Criteri distintivi – Nomen iuris<br />
Ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro<br />
come autonomo ovvero subordinato, il nomen<br />
iuris attribuito dalle parti, al pari di altri elementi<br />
quali l’osservanza di un determinato orario di<br />
lavoro, la cadenza e la misura fissa della retribuzione,<br />
l’assenza di rischio, la continuità della<br />
prestazione lavorativa ed altri, ha carattere sussidiario,<br />
essendo elemento distintivo del rapporto<br />
di lavoro subordinato l’assoggettamento del<br />
lavoratore al potere direttivo e disciplinare del<br />
datore di lavoro, che si estrinseca in specifiche<br />
disposizioni oltre che in una vigilanza e in un<br />
controllo assiduo delle prestazioni lavorative,<br />
da valutarsi, in relazione alla peculiarità delle<br />
mansioni.<br />
L’elemento del nomen iuris attribuito dalle stesse<br />
parti, se non è idoneo a surrogare il criterio della<br />
subordinazione nei termini ora precisati, assume<br />
rilievo decisivo ove l’autoqualificazione non<br />
risulti in contrasto con le concrete modalità di<br />
svolgimento del rapporto; in particolare, il riferimento<br />
al nomen iuris dato dalle parti al negozio,<br />
risulta di maggiore utilità, rispetto alle altre, in<br />
tutte quelle fattispecie in cui i caratteri differenziali<br />
tra due o più figure negoziali appaiono non<br />
agevolmente tracciabili, non potendosi negare<br />
che quando la volontà negoziale si è espressa in<br />
modo libero (in ragione della situazione in cui<br />
versano le parti al momento della dichiarazione)<br />
nonché in forma articolata, sì da concretizzarsi<br />
in un documento, ricco di clausole aventi ad oggetto<br />
le modalità dei rispettivi diritti ed obblighi,<br />
il giudice deve accertare in maniera rigorosa se<br />
tutto quanto dichiarato nel documento si sia tradotto<br />
nella realtà fattuale attraverso un coerente<br />
comportamento delle parti stesse.<br />
Licenziamenti collettivi<br />
Cass. Sez. Lav., 29 aprile 2<strong>00</strong>9, n. 9991<br />
Ultime dalla Cassazione<br />
Ristrutturazione di una unità produttiva – Scelta dei<br />
lavoratori – Limitata a quell’unità produttiva – Legittimità<br />
La platea dei lavoratori interessati alla riduzione<br />
di personale può essere limitata agli addetti ad un<br />
determinato reparto o settore solo sulla base di<br />
oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto<br />
di ristrutturazione aziendale, ed è onere del<br />
datore provare il fatto che determina l’oggettiva<br />
limitazione di queste esigenze, e giustificare il più<br />
ristretto spazio nel quale la scelta è stata effettuata.<br />
Cosicché, non può essere ritenuta legittima la<br />
scelta di lavoratori solo perchè impiegati nel reparto<br />
lavorativo soppresso o ridotto, trascurando<br />
il possesso di professionalità equivalente a quella<br />
di addetti ad altre realtà organizzative.<br />
Licenziamenti individuali<br />
Cass. Sez. Lav., 29 aprile 2<strong>00</strong>9, n. 9992<br />
Illegittimità – Risarcimento del danno – Reddito da<br />
pensione – Compensatio lucri cum damno – Esclusione<br />
In caso di licenziamento illegittimo del lavoratore,<br />
il risarcimento del danno spettante a<br />
quest’ultimo a norma della L. n. 3<strong>00</strong> del 1970,<br />
art. 18, commisurato alle retribuzioni perse a<br />
seguito del licenziamento e fino alla riammissione<br />
in servizio, non deve essere diminuito degli<br />
importi eventualmente ricevuti dall’interessato<br />
a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento<br />
discende dal verificarsi di requisiti<br />
di età e contribuzione stabiliti dalla legge, sicché<br />
le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae,<br />
dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al<br />
potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono<br />
all’operatività della regola della “compensatio<br />
lucri cum damno”. Tale “compensatio”, d’altra<br />
parte, non può configurarsi neanche allorché,<br />
eccezionalmente, la legge deroghi ai requisiti<br />
del pensionamento, anticipando, in relazione<br />
alla perdita del posto di lavoro, l’ammissione al<br />
trattamento previdenziale, sicché il rapporto fra<br />
la retribuzione e la pensione si ponga in termini<br />
44
il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />
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2<strong>00</strong>9<br />
di alternatività, né allorché il medesimo rapporto<br />
si ponga invece in termini di soggezione a divieti<br />
più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la<br />
retribuzione, posto che in tali casi la sopravvenuta<br />
declaratoria di illegittimità del licenziamento<br />
travolge ex tunc il diritto al pensionamento e<br />
sottopone l’interessato all’azione di ripetizione<br />
di indebito da parte del soggetto erogatore della<br />
pensione, con la conseguenza che le relative<br />
somme non possono configurarsi come un lucro<br />
compensabile col danno, e cioè come un effettivo<br />
incremento patrimoniale del lavoratore.<br />
Cass. Sez. Lav., 20 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 11720<br />
Giustificato motivo oggettivo – Sussistenza – Onere della<br />
prova – Assunzione di nuovi lavoratori – Valutazione<br />
del giudice di merito<br />
In tema di licenziamento per giustificato motivo<br />
oggettivo, la giurisprudenza di legittimità è orientata<br />
nel valorizzare, ai fini di cui trattasi, la situazione<br />
sussistente all’epoca del licenziamento e<br />
quella immediatamente successiva nel senso che<br />
la mancata assunzione di nuovi lavoratori nella<br />
stessa qualifica per un congruo periodo dopo il<br />
licenziamento costituisce elemento valutabile<br />
ai fini dell’assolvimento dell’onere probatorio<br />
relativo alla impossibilità di utilizzare il lavoratore<br />
licenziato in altre mansioni equivalenti e<br />
quindi a contrario del mancato assolvimento di<br />
siffatto onere. L’apprezzamento della congruità<br />
del periodo è rimesso alla valutazione del giudice<br />
del merito e si sottrae al sindacato di legittimità<br />
se congruamente motivato.<br />
Cass. Sez. Lav., 1 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 12721<br />
Carcerazione per fatti estranei allo svolgimento del<br />
rapporto – Inadempimento contrattuale – Non lo<br />
configura – Conseguenze<br />
La carcerazione (preventiva o esecutiva) per fatti<br />
estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro<br />
non costituisce inadempimento degli obblighi<br />
contrattuali, ma è un fatto oggettivo che determina<br />
la sopravvenuta temporanea impossibilità<br />
della prestazione lavorativa.<br />
In questa ipotesi, la persistenza o non persistenza<br />
Ultime dalla Cassazione<br />
di un apprezzabile interesse del datore a ricevere<br />
le ulteriori prestazioni del lavoratore detenuto<br />
deve essere valutata alla stregua di criteri oggettivi,<br />
riconducibili a quelli fissati nell’art. 3 della<br />
Legge 15 luglio 1966, n. 604, costituiti dalle<br />
esigenze oggettive dell’impresa, che devono essere<br />
valutate con giudizio ex ante e non ex post,<br />
tenendo conto delle dimensioni della stessa, del<br />
tipo di organizzazione tecnico-produttiva, della<br />
natura ed importanza delle mansioni del lavoratore<br />
detenuto, nonché del maturato periodo di<br />
assenza, della prevedibile durata della carcerazione,<br />
della possibilità di affidare temporaneamente<br />
ad altri le sue mansioni senza necessità di nuove<br />
assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza<br />
rilevante ai fini della determinazione della<br />
misura della tollerabilità dell’assenza.<br />
Carcerazione per fatti estranei allo svolgimento del<br />
rapporto – Diritto alla retribuzione – Non sussiste<br />
L’impossibilità della prestazione lavorativa<br />
causata da carcerazione, nella misura in cui<br />
determina l’illegittimità del licenziamento e<br />
simmetricamente l’affermazione del diritto alla<br />
reintegrazione nel posto di lavoro, è, per la sua<br />
stessa consistenza e nel tempo della sua protrazione,<br />
negazione del diritto alla retribuzione; la<br />
ricostituzione di questo diritto esige non solo<br />
la cessazione dello stato di detenzione bensì la<br />
formale offerta, da parte del lavoratore, della<br />
prestazione.<br />
Cass. Sez. Lav., 8 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 13167<br />
Contestazione – Immediatezza – Necessità – Limiti<br />
La contestazione disciplinare per essere considerata<br />
legittima deve presentare il carattere<br />
della “immediatezza” e tale carattere essenziale<br />
trova fondamento nell’art. 7, terzo e quarto<br />
comma, della legge n. 3<strong>00</strong>/1970 che riconosce<br />
al lavoratore incolpato il diritto di difesa da<br />
garantirsi nella sua effettività al fine di consentirgli<br />
l’allestimento del materiale difensivo<br />
(pronto riscontro delle accuse con eventuali<br />
testimonianze e documentazione) in tempi ad<br />
immediato ridosso dei fatti contestati ed in modo<br />
che lo stesso lavoratore possa contrastare più<br />
efficacemente il contenuto delle contestazioni<br />
mossegli dal datore di lavoro, dovendosi anche<br />
45
il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />
9 2<strong>00</strong> 9<br />
2<strong>00</strong>9<br />
considerare (nella valutazione del rilievo del<br />
cennato carattere) il “giusto affidamento” del<br />
prestatore, nel caso di ritardo nella contestazione,<br />
che il fatto incriminabile possa non avere<br />
rivestito una connotazione “disciplinare”, dato<br />
che l’esercizio del potere disciplinare non è, per<br />
il datore un obbligo, bensì una facoltà.<br />
Nell’esercizio del potere disciplinare il datore di<br />
lavoro deve comportarsi “secondo buona fede”,<br />
specie per evitare che sanzioni disciplinari irrogate<br />
senza consentire all’incolpato un effettivo<br />
diritto di difesa si pongano, appunto, quale<br />
trasgressione in re ipsa della “buona fede”, che<br />
è la matrice fondativa dei doveri-oneri sanciti<br />
dall’art. 7 cit. e, anche, dall’art. 2106 c.c. per cui<br />
l’affidamento legittimo del lavoratore non può<br />
venire vanificato da una tardiva contestazione<br />
disciplinare, comportando l’esercizio in tal senso<br />
viziato dal potere disciplinare una preclusione<br />
per l’espletamento di detto potere e, conseguentemente,<br />
rendendo invalida la sanzione irrogata<br />
in contrasto con il principio dell’immediatezza.<br />
L’applicazione in c.d. “senso relativo” del principio<br />
dell’immediatezza non può svuotare di<br />
efficacia il principio stesso dovendosi, infatti,<br />
tenere conto di quanto statuito dall’art. 7 cit. e<br />
della esigenza di una razionale amministrazione<br />
dei rapporti contrattuali secondo “buona fede”.<br />
Pertanto, tra l’interesse del datore di lavoro a<br />
prolungare le indagini senza uno specifico motivo<br />
obiettivamente valido (da accertarsi e valutarsi<br />
rigorosamente) e il diritto del lavoratore ad<br />
una pronta ed effettiva difesa, deve prevalere la<br />
posizione (ex lege tutelata) del lavoratore. Parimenti<br />
l’applicazione di una sanzione disciplinare<br />
- quando si tratti di licenziamento “in tronco”<br />
per giusta causa - deve avvenire alla stregua del<br />
principio dell’immediatezza e, di conseguenza,<br />
non può essere ritardata con la giustificazione<br />
della complessità dell’organizzazione aziendale.<br />
Cass. Sez. Lav., 17 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 14066<br />
Giusta causa – Configurabilità – Accertamento del<br />
giudice di merito<br />
Per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta<br />
causa di licenziamento, che deve rivestire<br />
il carattere di grave negazione degli elementi<br />
Ultime dalla Cassazione<br />
essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare<br />
di quello fiduciario, occorre valutare da un<br />
lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore,<br />
in relazione alla portata oggettiva e soggettiva<br />
dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono<br />
stati commessi ed all’intensità dell’elemento<br />
intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra<br />
tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la<br />
lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa<br />
la collaborazione del prestatore di lavoro sia in<br />
concreto tale da giustificare o meno la massima<br />
sanzione disciplinare; la valutazione della gravità<br />
dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare<br />
giusta causa di licenziamento si risolve in un<br />
apprezzamento di fatto riservato al giudice di<br />
merito ed incensurabile in sede di legittimità,<br />
se congruamente motivato.<br />
Giusta causa – Configurabilità – Accertamento del<br />
giudice di merito – Fattispecie<br />
Il giudice di merito - in considerazione del fatto<br />
che il licenziamento costituisce di certo per il<br />
lavoratore la più grave delle sanzioni in ragione<br />
dei suoi effetti - deve tenere conto della gravità<br />
della condotta addebitata al dipendente, da<br />
valutare non soltanto nella sua oggettività ma<br />
anche con riferimento all’elemento soggettivo<br />
che può assumere i connotati del dolo o della<br />
colpa, al fine di parametrare la singola sanzione<br />
al grado di illiceità della infrazione alla stregua<br />
del principio di proporzionalità, essendo possibile<br />
solo all’esito di tale iter conoscitivo decidere<br />
sulla configurabilità della giusta causa o del giustificato<br />
motivo di licenziamento e quindi sulla<br />
legittimità o meno dello stesso.<br />
La valutazione della gravità dell’infrazione,<br />
della sua idoneità ad integrare giusta causa di<br />
licenziamento e della proporzionalità della<br />
sanzione rispetto alla infrazione contestata, si<br />
risolve in un apprezzamento di fatto riservato<br />
al giudice di merito ed incensurabile in sede di<br />
legittimità, se congruamente motivato. (Nella<br />
fattispecie, il lavoratore, occupato in qualità di<br />
revisore contabile, aveva apposto la firma falsa<br />
del direttore dell’ufficio di appartenenza su una<br />
domanda di indennità di missione in realtà non<br />
effettuata ed aveva tenuto un comportamento<br />
scorretto nei confronti dei clienti consegnando<br />
loro somme di denaro inferiori a quanto dovu-<br />
46
il Giurista del <strong>Lavoro</strong><br />
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2<strong>00</strong>9<br />
to; i giudici di merito avevano correttamente<br />
proceduto alla verifica della gravità dei fatti<br />
contestati al lavoratore, in relazione sia alla<br />
portata oggettiva che soggettiva, rilevando come<br />
le circostanze concrete della condotta posta in<br />
essere ne evidenziassero l’obiettivo disvalore dal<br />
punto di vista sia oggettivo che soggettivo, ed<br />
integrassero senz’altro un fatto di gravità tale da<br />
non consentire, neanche provvisoriamente, la<br />
ulteriore prosecuzione del rapporto di lavoro).<br />
Cass. Sez. Lav., 22 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 14586<br />
Giusta causa – Proporzionalità tra comportamento e<br />
sanzione – Accertamento del giudice di merito<br />
In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini<br />
della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso,<br />
viene in considerazione ogni comportamento<br />
che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere<br />
la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere<br />
che la continuazione del rapporto si risolva in un<br />
pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante,<br />
ai fini del giudizio di proporzionalità,<br />
l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado<br />
di esercitare il comportamento del lavoratore<br />
che, per le sue concrete modalità e per il contesto<br />
di riferimento, appaia suscettibile di porre<br />
in dubbio la futura correttezza dell’adempimento<br />
e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente<br />
gli obblighi assunti, conformando il<br />
proprio comportamento ai canoni di buona fede<br />
e correttezza.<br />
Spetta al giudice di merito valutare la congruità<br />
della sanzione espulsiva non sulla base di una<br />
valutazione astratta del fatto addebitato, ma<br />
tenendo conto di ogni aspetto concreto della<br />
vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento<br />
unitario e sistematico, risulti sintomatico<br />
della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione<br />
del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine<br />
preminente rilievo alla configurazione che delle<br />
mancanze addebitate faccia la contrattazione<br />
collettiva, ma pure l’intensità dell’elemento intenzionale,<br />
al grado di affidamento richiesto dalle<br />
mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti<br />
modalità di attuazione del rapporto (ed in specie<br />
alla sua durata e all’assenza di precedenti sanzioni),<br />
alla sua particolare natura e tipologia.<br />
Ultime dalla Cassazione<br />
Cass. Sez. Lav., 25 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 14952<br />
Contestazione – Immediatezza – Necessita – Limiti<br />
Il principio dell’immediatezza della contestazione<br />
disciplinare e della tempestività della irrogazione<br />
della relativa sanzione, esplicazione del generale<br />
precetto di conformarsi alla buona fede e alla<br />
correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro,<br />
deve essere inteso in senso relativo, potendo in<br />
concreto essere compatibile con un intervallo di<br />
tempo più o meno lungo, quando l’accertamento<br />
e la valutazione dei fatti richiedano uno spazio<br />
temporale maggiore, ovvero quando la complessità<br />
della struttura organizzativa dell’impresa<br />
possa far ritardare il provvedimento di recesso; in<br />
ogni caso, la valutazione relativa alla tempestività<br />
costituisce giudizio di merito, non sindacabile<br />
in cassazione ove adeguatamente motivato.<br />
Ai fini di cui trattasi, il lasso temporale tra i fatti<br />
e la contestazione deve decorrere dall’avvenuta<br />
conoscenza da parte del datore di lavoro della<br />
situazione contestata e non dalla astratta percettibilità<br />
o conoscenza dei fatti stessi, tenuto<br />
conto dei mezzi a sua disposizione.<br />
Cass. Sez. Lav., 7 luglio 2<strong>00</strong>9, n. 15915<br />
Licenziamento illegittimo – Risarcimento del danno<br />
ulteriore – Onere della prova<br />
Il risarcimento dei danni professionali conseguenti<br />
alla mancata reintegrazione nel posto di<br />
lavoro rientra nella fattispecie prevista dall’art.<br />
18 della legge 3<strong>00</strong>/70 in quanto quella regolata<br />
dall’art. 2103 c.c., presuppone l’attualità<br />
in fatto ed in diritto del rapporto lavorativo<br />
ed una dequalificazione intervenuta nel corso<br />
dello stesso; sicché presenta una propria<br />
specificità e marcati caratteri differenziali<br />
rispetto alla ipotesi della inottemperanza all’ordine<br />
giudiziale di reintegra, che è invece<br />
regolata dal disposto del richiamato art. 18.<br />
Conseguentemente, nel regime di tutela reale ex<br />
art. 18 della legge n. 3<strong>00</strong> del 1970 avverso i licenziamenti<br />
illegittimi, la predeterminazione legale<br />
del danno risarcibile in favore del lavoratore<br />
(con riferimento alla retribuzione globale di fatto<br />
dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione)<br />
non esclude che il lavoratore possa<br />
chiedere il risarcimento del danno ulteriore che<br />
gli sia derivato dal ritardo della reintegra, e che<br />
47
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2<strong>00</strong>9<br />
il giudice, in presenza della prova di tale danno<br />
ulteriore, possa liquidarlo equitativamente.<br />
Quanto alla prova di siffatto ulteriore danno<br />
escluso che possa ritenersi in re ipsa, è, però,<br />
da ritenersi ammissibile che, a fronte di precise<br />
allegazioni, quali ad esempio, la lunga inattività<br />
e/o una particolare collocazione lavorativa che<br />
richieda un continuo, costante aggiornamento di<br />
cognizioni e conoscenze incompatibili con uno<br />
stato di inoperosità (che denotano una marcata<br />
lesione alla professionalità del lavoratore illegittimamente<br />
licenziato e non reintegrato), il giudice<br />
possa avvalersi, per considerare raggiunta la<br />
relativa dimostrazione, della prova presuntiva.<br />
Mansioni e qualifiche<br />
Cass. Sez. Lav., 8 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 13162<br />
Attribuzione di qualifica superiore – Disgiunta da più<br />
elevata retribuzione – Legittimità<br />
Ove, in presenza di specifiche condizioni, un più<br />
elevato livello di qualifica sia separato, per incontestata<br />
disposizione datorile, dalla maggiore relativa<br />
retribuzione e dalla stessa materiale corrispondente<br />
prestazione, e sia retroattivamente attribuito,<br />
con la separazione e la retroattiva attribuzione<br />
della qualifica, non sussiste il diritto alla contestuale<br />
retribuzione (corrispondente alla qualifica).<br />
Mobbing<br />
Cass. pen., Sez. IV, 26 giugno 2<strong>00</strong>9, n. 26594<br />
Reato – Configurabilità – Condizioni<br />
Il mobbing è solo vagamente assimilabile alla<br />
previsione di cui all’art. 572 c.p., ma di questa<br />
non condivide tout court, quasi per automatismo,<br />
tutti gli elementi tipici.<br />
Ed invero, sia l’art. 571 che l’art. 572 c.p. indicano<br />
come soggetto passivo delle rispettive previsioni<br />
anche la “persona sottoposta all’autorità<br />
dell’agente o a lui affidata per l’esercizio di una<br />
professione o di un’arte”. La formula linguistica<br />
utilizzata postula il chiaro riferimento a rapporti<br />
implicanti una subordinazione, sia essa giuridica<br />
o di mero fatto, la quale da un lato - può indurre<br />
il soggetto attivo a tenere una condotta abitualmente<br />
prevaricatrice verso il soggetto passivo<br />
Ultime dalla Cassazione<br />
e - dall’altro - rende difficile a quest’ultimo di<br />
sottrarvisi, con conseguenti avvilimento ed umiliazione<br />
della sua personalità. Proprio incidendo<br />
sulle nozioni di “subordinazione ad autorità” e<br />
di “affidamento, può farsi rientrare nella corrispondente<br />
situazione anche il rapporto che lega<br />
il lavoratore al datore di lavoro. L’affermazione<br />
merita, però, una precisazione.<br />
Tale rapporto, avuto riguardo alla ratio delle<br />
richiamate norme e, in particolare, a quella<br />
di cui all’art. 572 c.p., deve comunque essere<br />
caratterizzato da “familiarità”, nel senso che,<br />
pur non inquadrandosi nel contesto tipico della<br />
“famiglia”, deve comportare relazioni abituali<br />
e intense, consuetudini di vita tra i soggetti, la<br />
soggezione di una parte nei confronti dell’altra<br />
(rapporto supremazia-soggezione), la fiducia<br />
riposta dal soggetto passivo nel soggetto attivo,<br />
destinatario quest’ultimo di obblighi di assistenza<br />
verso il primo, perché parte più debole. È soltanto<br />
nel limitato contesto di un tale peculiare<br />
rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi,<br />
ove si verifichi l’alterazione della funzione<br />
del medesimo rapporto attraverso lo svilimento<br />
e l’umiliazione della dignità fisica e morale del<br />
soggetto passivo, il reato di maltrattamenti.<br />
(Nella fattispecie, è stata esclusa la configurabilità<br />
della fattispecie penale in quanto la società<br />
aveva centinaia di dipendenti ed una articolata<br />
organizzazione che non implicava una stretta ed<br />
intensa relazione diretta tra datore di lavoro e<br />
dipendente sì da determinare una comunanza di<br />
vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio<br />
familiare, e inevitabilmente marginalizzava<br />
i rapporti intersoggettivi nel senso che non<br />
ne esaltava quell’aspetto personalistico connesso<br />
alla soggezione tra soggetti operanti su piani diversi.<br />
Conseguentemente non era apprezzabile,<br />
in una simile realtà, la riduzione del soggetto più<br />
debole in una condizione esistenziale dolorosa e<br />
intollerabile a causa della sopraffazione sistematica<br />
di cui sarebbe rimasto vittima).<br />
Patto di non concorrenza<br />
Cass. Sez. Lav., 6 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 10403<br />
Decorrenza – Rapporti di lavoro parasubordinato<br />
Per i contratti di collaborazione, quale quello di<br />
lavoro parasubordinato, nella durata massima<br />
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dell’eventuale patto accessorio di non concorrenza<br />
non può essere compreso il tempo di<br />
svolgimento della collaborazione, onde la stessa<br />
non inizia prima della cessazione del contratto.<br />
Durante lo svolgimento di questo, infatti, l’obbligo<br />
di astenersi dalla concorrenza, connaturale<br />
ad ogni rapporto di collaborazione economica,<br />
renderebbe inutile ossia privo di causa il patto<br />
accessorio, come risulta ad esempio dall’articolo<br />
1743 c.c., articolo 1746 c.c., comma 1, dagli articoli<br />
2105, 2301 e 2318 cod. civ. ed in generale<br />
dall’articolo 1375 cod. civ.<br />
Processo del lavoro<br />
Cass. Sez. Lav., 23 aprile 2<strong>00</strong>9, n. 9695<br />
Licenziamento illegittimo – Sentenza di condanna<br />
– Titolo esecutivo – Configurabilità – Condizioni<br />
Le sentenze di condanna del datore di lavoro al<br />
pagamento di quanto dovuto al lavoratore a seguito<br />
del riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento,<br />
a’ sensi dell’art. 18, L. n. 3<strong>00</strong>/1970,<br />
ovvero le sentenze di condanna del datore di<br />
lavoro al pagamento di un determinato numero<br />
di mensilità di retribuzione, costituiscono valido<br />
titolo esecutivo per la realizzazione del credito<br />
anche quando, nonostante l’omessa indicazione<br />
del preciso ammontare complessivo della somma<br />
oggetto dell’obbligazione, la somma stessa<br />
sia quantificabile per mezzo di un mero calcolo<br />
matematico, semprechè per la determinazione<br />
dell’importo non siano necessari elementi estranei<br />
al giudizio concluso e non predeterminati per<br />
legge, solo in tale ultimo caso potendo il creditore<br />
fare legittimamente ricorso al procedimento<br />
monitorio, nel cui ambito la sentenza diviene<br />
utilizzabile come atto scritto, dimostrativo dell’esistenza<br />
del credito fatto valere.<br />
Cass. Sez. Un., 7 luglio 2<strong>00</strong>9, n. 15846<br />
Controversie su maxisanzione per lavoro irregolare<br />
– Giurisdizione ordinaria<br />
La Corte Costituzionale con sentenza 14 maggio<br />
2<strong>00</strong>8 n. 130 ha dichiarato la illegittimità costituzionale<br />
del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546,<br />
Ultime dalla Cassazione<br />
art. 2, comma 1, nella parte in cui attribuisce<br />
alla giurisdizione tributaria le controversie relative<br />
alle sanzioni comunque irrogate da uffici<br />
finanziari, anche laddove esse conseguano alla<br />
violazione di disposizioni non aventi natura<br />
tributaria.<br />
Di conseguenza, per effetto di tale declaratoria,<br />
deve affermarsi che la giurisdizione a conoscere<br />
delle “controversie relative alle sanzioni comunque<br />
irrogate da uffici finanziari” (quale quelle<br />
di cui al D.L. n. 12 del 2<strong>00</strong>2, art. 3, comma 3,<br />
convertito con L. n. 73 del 2<strong>00</strong>2, in relazione<br />
a preteso rapporto di lavoro irregolare) appartiene<br />
al giudice ordinario, e non già a quello<br />
tributario, perchè quelle sanzioni conseguono<br />
“alla violazione di disposizioni non aventi natura<br />
tributaria”.<br />
Controversie su maxisanzione per lavoro irregolare –<br />
Giurisdizione – Difetto del giudice adito – Conseguenze<br />
L’accertata carenza di giurisdizione del giudice<br />
tributario che la ha pronunciata determina la<br />
necessità di cassare la decisione impugnata e di<br />
rimettere le parti innanzi al giudice ordinario<br />
territorialmente competente.<br />
Reati<br />
Cass. pen., Sez. III, 14 maggio 2<strong>00</strong>9, n. 20255<br />
Ritenute previdenziali – Omesso versamento –<br />
Pagamento delle retribuzioni – Prova – Necessita<br />
Il reato di cui all’art. 2, L. n. 638/1983 non è<br />
configurabile senza la materiale corresponsione<br />
delle retribuzioni. Trattandosi di un elemento costitutivo<br />
del reato, la dimostrazione del materiale<br />
esborso delle somme e, quindi, della mancata<br />
effettuazione delle ritenute, deve essere fornita<br />
dalla pubblica accusa, in quanto, diversamente<br />
argomentando, si verrebbe ad esonerare in ogni<br />
caso l’accusa dall’onere di provare la sussistenza<br />
di un fatto che costituisce un elemento integrativo<br />
della fattispecie e ad addossare, per contro,<br />
alla difesa l’onere di provare l’esistenza di questo<br />
fatto.<br />
49
il Giurista del <strong>Lavoro</strong> 9 2<strong>00</strong> 9<br />
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