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febbraio - Konrad

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libri<br />

IERI<br />

“Il bianco e nero è come una struttura architettonica, rispecchia le fondamenta<br />

del nostro essere, del nostro sentire. Potremmo paragonarlo alle<br />

travi portanti di un edificio. Evoca l’essenza dell’esperienza vissuta. Sul<br />

piano emotivo è, a mio parere, molto più intenso del colore. Il colore si<br />

ferma all’apparenza delle cose. Può essere bello, delicato, meraviglioso a<br />

suo modo, ma è totalmente diverso.”<br />

L’ha detto Rodney Smith, considerato il maestro della fotografia surrealista,<br />

certo riferendosi esclusivamente al suo mestiere. Ma il discorso<br />

potrebbe applicarsi bene anche alla narrativa.<br />

Ci sono storie a colori e ci sono storie in bianco e nero, meno belle delle<br />

prime. Essenziali, spoglie, con un retrogusto amaro, di radice, di stortura<br />

del destino. Sono storie che stanno sullo stomaco (mi piace, non mi piace<br />

non conta più, si è già oltre), eppure le riprendi ugualmente dallo scaffale,<br />

spesso, e le soppesi chiedendoti se di nuovo ti sarà necessario rileggerle.<br />

E lo farai, e sarà un’esperienza quasi fisica, come camminare in un campo<br />

all’alba, senza riferimenti, passi nel vuoto. Solo un brivido di umidità nella<br />

schiena e un sasso, ogni tanto, sotto il piede.<br />

Ieri è una di queste storie (e guarda caso, c’è una foto di Smith in copertina).<br />

L’eccezionale brevità ne facilita la ri-ri-rilettura all’infinito e la riscoperta<br />

ogni volta di qualcosa di nuovo e struggente tra le righe.<br />

Romanzo, racconto, soffio, Ieri ha per protagonista Tobias Horvath, nato in<br />

un villaggio senza nome. Dell’infanzia misera, con la mamma ladra prostituta<br />

mendicante, ricorda poche cose, una più delle altre: quando, tra i molti<br />

uomini che vede passare in casa, scopre quale sia suo padre (il maestro<br />

di scuola), tenta di ucciderlo spingendo il coltello a fondo nel desiderio di<br />

uccidere anche la madre che gli sta sotto.<br />

Tutto il resto della sua vita è fuga. Cambia nome, sul suo passato mette una<br />

sepoltura di bugie. Sono un orfano di guerra. I miei genitori sono morti durante<br />

i bombardamenti. Il suo presente è noia e abitudine in un paese straniero.<br />

Il lavoro in una fabbrica di orologi: sempre il medesimo gesto, ripetitivo, alienante.<br />

Il sabato sera con una donna che gli è indifferente, tanto per ricordarsi<br />

di essere uomo. La scrittura, unica passione, che lo salva e lo condanna. E<br />

un’ossessione: quella di incontrare Line, la donna del suo destino, quella per<br />

cui crede di essere venuto al mondo.<br />

Oggi ricomincio la corsa idiota. Mi alzo alle cinque di mattina, mi lavo, mi<br />

faccio la barba, mi preparo un caffè e vado, corro fino alla piazza Principale,<br />

salgo sul bus, chiudo gli occhi, e tutto l’orrore della mia vita presente mi<br />

salta al collo.<br />

50 mm<br />

Agota Kristof, Ieri<br />

Einaudi, 2002, 96 pagine, € 10,00<br />

Quest’uomo, la nostalgia addosso come fosse un abito. Quest’uomo, le mani in tasca, prende la<br />

stessa strada ogni giorno, prima di andare in ufficio. Passa davanti a una casa fatiscente, la casa<br />

dove i genitori sono stati bambini, e poi sposi, e adulti e vecchi. E dove lui stesso è nato. E gli zii, e i<br />

nonni. Tutti, tutti sono vissuti in quella casa. Tre generazioni esistite, tre generazioni scomparse. Da<br />

non crederci.<br />

Passa. Si ferma. Non può evitare di farlo. Per inventarsi un gesto normale tra la gente che corre, finge<br />

di accendersi una sigaretta, aspirando il vento. Fissa quel portone chiuso da un catenaccio, intravvede<br />

il buio profondo dell’androne. Un’immagine che gli toglie il respiro.<br />

Motivi di sicurezza, ma a lui hanno spezzato il cuore.<br />

Quando il catenaccio ancora non c’era, qualche volta si concedeva di entrare, sostare un minuto nell’ombra,<br />

ascoltare il silenzio, e nel silenzio risate lontane, schiocco di baci e rumore di posate nei piatti.<br />

Se fosse abbastanza scaltro, se non temesse di avere guai con la polizia o di fare brutte figure, lo<br />

farebbe ancora. Potrebbe divellere quel lucchetto, introdursi in quella casa che sente ancora profondamente<br />

sua, con una torcia in mano salire le scale che conosce così bene, buttar giù le porte ormai<br />

fragili di tutti gli appartamenti, accarezzare gli angoli con il fascio di luce, scendere in cantina, salire<br />

in soffitta, recuperare le vecchie cose che nessuno ha sgomberato, soppesarle, odorarle. Trovare<br />

un vecchio giocattolo, ridiventare bambino. L’illusione di una carezza sulla nuca. E se l’intero edificio<br />

crollasse proprio in quel momento, sarebbe una bella fine. Tornare in famiglia.<br />

Osserva ancora un po’ il portone serrato, ma è tardi. Deve andare a lavorare, vivere. Ripasserà domani.<br />

Lui lo sa che lì dentro, c’è qualcuno – ci deve essere per forza ancora qualcuno – che lo aspetta.<br />

9 konrad <strong>febbraio</strong> 2012<br />

Ma un mattino, una giovane donna<br />

sale sull’autobus. A quella fermata<br />

non era mai salito nessuno. Tobias la<br />

riconosce immediatamente: è Line,<br />

ma non quella dei sogni malati. è la<br />

vera Line, la compagna di scuola,<br />

figlia del maestro, sua sorellastra...<br />

Anche lei lavora alla fabbrica, è nuova<br />

dell’ambiente, smarrita. Viene da<br />

quell’altrove lontano – ha nello sguardo<br />

l’esilio, l’erranza (i segni distintivi<br />

dell’opera di Agota Kristof) – ma è<br />

determinata a tornare a casa presto.<br />

Tobias inizia a osservarla, a seguirla, a sorriderle. è l’inizio di una storia<br />

d’amore palesemente impossibile.<br />

Il linguaggio è scarno, secco, poco più di un graffio sulla carta bianca.<br />

Poteva essere altrimenti? Questa storia poteva essere raccontata “a<br />

colori”? Certo, tutte le storie, come tutti i visi di donna, possono. è il trucco<br />

e parrucco della letteratura, è la cipria sulle parole, il fronzolo che pende<br />

dalle frasi opulente.<br />

Ma sarebbe stato un inganno. Ieri andava scritto così, e soltanto così, poveramente.<br />

Agota Kristof, morta lo scorso luglio, sapeva fin dove la parola è autentica<br />

e dove comincia a far sceneggiate. Lei non aggiungeva niente là dove<br />

non serviva. Scrittrice discreta e umile, grandissima senza la presunzione<br />

di esserlo, interviste stringate e poca voglia di scherzare, per tutta la vita<br />

non ha fatto che ripeterci questo: la verità deve essere semplice, sfrondata<br />

di tutto, nuda.<br />

Ben altre firme hanno reso omaggio, immediatamente e ottimamente, ad<br />

Agota che se ne andava. Questo è un saluto modesto, tardivo, un cenno<br />

della mano, un ringraziamento per ciò che resta. Delle molte eredità, la più<br />

preziosa è forse questa che ritroviamo in una frase di Tobias.<br />

Quando Line, che freme per tornare in patria, avere un buon posto e un<br />

buon futuro, gli dice Mio fratello maggiore è diventato avvocato e l’altro medico.<br />

Ma tu hai scelto di scappare e di diventare un niente. Un operaio di<br />

fabbrica. Perché?, Tobias le risponde: Perché è diventando assolutamente<br />

niente che si può diventare uno scrittore.<br />

Luisella Pacco<br />

Inizia con questo numero la rubrica 50mm, racconti brevissimi<br />

pensati come scatti fotografici, ritratti di un momento rubato<br />

elle.pi

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