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Orchestra Italiana e Orchestrazione fra Sette e Ottocento

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Francesco Paradiso<br />

<strong>Orchestra</strong> <strong>Italiana</strong><br />

e<br />

<strong>Orchestra</strong>zione<br />

<strong>fra</strong> <strong>Sette</strong> e <strong>Ottocento</strong><br />

Milano, Aprile 2000


Una breve premessa<br />

<strong>Orchestra</strong> <strong>Italiana</strong><br />

e<br />

<strong>Orchestra</strong>zione<br />

<strong>fra</strong> <strong>Sette</strong> e <strong>Ottocento</strong><br />

Per dar conto delle trasformazioni avvenute nella pratica orchestrale italiana durante i primi<br />

decenni dell’<strong>Ottocento</strong> (in particolare negli anni in cui nacque la produzione operistica rossiniana) è<br />

opportuno un preliminare riferimento alle caratteristiche orchestrali del periodo immediatamente<br />

precedente, giacché molti dei mutamenti intercorsi (soprattutto quelli riguardanti le mansioni del<br />

primo violino e l’abolizione del secondo cembalo) possono trovare giustificazione e chiarimento<br />

proprio nel confronto con le consuetudini precedenti. E’ inoltre doverosa la limitazione del campo<br />

d’indagine al solo ambito teatrale – indubbiamente quello più fedele a consuetudini prestabilite –<br />

dal momento che la coeva distinzione in tre generi musicali (teatrale, da chiesa, da camera)<br />

corrispondevano ad un’effettiva e radicale differenza di pratiche esecutive. Va infine rilevato – pur<br />

riconoscendo la necessità di riferimento ad un ampio numero di compagini orchestrali – che è<br />

tuttavia opportuno prendere in considerazione soprattutto le orchestre di maggior prestigio nelle<br />

quali operavano stabilmente strumentisti di accertato valore, a contatto con autorevoli compositori e<br />

con un repertorio comprendente principalmente opere e balli in prima esecuzione.<br />

Questo ricerca ha mirato dunque a ricostruire il processo di trasformazione del numero, della<br />

distribuzione e della disposizione dei posti orchestrali in tali compagini primarie (alle quali gli altri<br />

teatri si adeguarono più o meno fedelmente a seconda delle disponibilità e possibilità locali) e ad<br />

evidenziare, ove possibile, le ragioni musicali che vennero determinando i successivi cambiamenti.<br />

La situazione nel secondo <strong>Sette</strong>cento<br />

La guida migliore per una conoscenza delle consuetudini orchestrali italiane nella seconda metà<br />

del <strong>Sette</strong>cento è senz’altro quella offertaci da Francesco Galeazzi, violinista, teorico e matematico<br />

di origine torinese, nel suo Elementi teorico-pratici di musica con un saggio sopra l’arte di suonare<br />

il violino, pubblicato a Roma in due volumi (1791 e 1796) e in seguito riedito ad Ascoli (1817)<br />

limitatamente al solo primo volume 1 . Il suo esauriente lavoro abbraccia con originalità e<br />

attendibilità un gran numero di argomenti e di problematiche, strumentali e non, al cui confronto<br />

risulta sorprendente lo scarso riconoscimento tributatogli già all’epoca della pubblicazione 2 e fin<br />

quasi ai nostri giorni 3 . Il perché di tale duraturo oblio è tanto più difficile da comprendere (a meno<br />

1 Vol. I: Roma, Pilucchi Cracas (poi Ascoli, Cardi); vol. II : Roma, Puccinelli.<br />

2 Il pur documentatissimo Dizionario e bibliografia della musica di Pietro Lichtenthal (IV, Milano; Fontana 1826, p.<br />

187), ad esempio, menziona il volume con evidenti imprecisioni che ne rivelano la mancata conoscenza diretta da parte<br />

dello stesso Lichtenthal. Un’eccezione è invece costituita dal trattatelo di Giuseppe Scaramelli (1811) citato<br />

estesamente più avanti, che ne discute ampie sezioni dimostrando enorme considerazione per quell’opera.<br />

3 Pur non avendo conosciuto la fama che meriterebbe, il trattato di Galeazzi è stato oggetto in tempi recenti di studi<br />

specialistici, tra cui quelli dovuti a Bathia Churgin, Francesco Galeazzi’s Description (1796) of Sonata Form, «Journal<br />

of the American Musicological Society», , 1968, pp. 181-199, e Milton Sutter, Francesco Galeazzi on the Duties of the<br />

Leader or Concertmaster, «The Consort», n.32, 1976, pp. 185-192.<br />

2


che non lo si voglia ingenuamente addebitare al riduttivo titolo dell’opera) se comparato con<br />

l’assoluta unicità e importanza di questo lavoro nel panorama trattatistico italiano del secondo<br />

<strong>Sette</strong>cento 4 .<br />

Il primo violino direttore d’orchestra<br />

Limitandoci agli argomenti riguardanti la pratica orchestrale discussi da Galeazzi nella sua<br />

opera 5 , sarà subito importante sottolineare l’enfasi riservata da quest’ultimo al ruolo e alle<br />

prerogative del primo violino direttore d’orchestra, vero e unico responsabile della corretta<br />

esecuzione musicale 6 .<br />

A questo riguardo egli segnala da una parte le numerose ed elevatissime qualità musicali che tale<br />

strumentista deve possedere:<br />

dall’altra l’importanza della più completa subordinazione degli altri orchestrali alla sua volontà<br />

Inoltre, ricorda l’autore, affinché le doti del primo violino possano essere compiutamente messe<br />

a frutto, è indispensabile che egli abbia al suo fianco «ottimi bassi, un buon primo de’ i secondi, ed<br />

un buon vicino 7 ; senza queste condizioni tutte le cure riusciranno vane» (§ 288, pp. 215). Poco più<br />

avanti Galeazzi passa a descrivere dettagliatamente tutti i doveri di un primo violino, fornendoci un<br />

vero e proprio decalogo le cui clausole rivestono per noi un’importanza davvero straordinaria (§<br />

301, pp. 224-227):<br />

4 Basti ricordare che esso contiene una delle primissime descrizioni della forma sonata (peraltro con caratteristiche già<br />

molto avanzate), su cui si veda l’articolo di Bathia Churgin citato nella nota precedente.<br />

5 Vol. I, artt. XVIII-XIX, § 274-301, pp. 207-227<br />

6 Galeazzi, dapprima membro dell’orchestra del Teatro regio di Torino, dove compare nell’organico della stagione<br />

1747-1748 come «Francesco Galeasso» e in quello del 1755-1756 come «Francesco Galleasso» (v. Marie-Therese<br />

Bouquet, Il Teatro di corte dalle origini al 1788, in Storia del Teatro Regio, a cura di Alberto basso, I, Torino; Cassa di<br />

Risparmio di Torino 1976, p. 175 e p. 172 nota 14), si era in seguito trasferito a Roma come primo violino del Teatro<br />

Valle (v. Francois-Joseph Fetis, Biographie universelle des musiciens, II, Paris, Didot 1862, p. 383). Ulteriori<br />

informazioni biografiche in I Galeazzi, a cura di Clelia Galeazzi Marri, Recanati, Tipografia R. Simboli 1941.<br />

7 Sarà bene sottolineare fin d’ora l’importanza di questo “alleato” del primo violino, sul quale in seguito, coll’aumentare<br />

delle mansioni e delle difficoltà imposte al direttore dalla crescente complessità della scritturale orchestrale, ricadrà il<br />

ruolo-guida del complesso degli archi.<br />

3


Proprio a proposito del punto XV Galeazzi aggiunge alcune considerazioni negative su un’usanza<br />

diffusa «in alcuni teatri, e specialmente in quel di Roma, in cui una Tromba ricevuto il Tono dal<br />

cembalo, lo fa sentire all’orchestra tutta», suggerendo di affidare al primo violino anche questo<br />

incarico.<br />

Tale determinante e preminente funzione del primo violino, caratteristica dell’esecuzione<br />

musicale teatrale in Italia (ed è bene insistere sul riferimento a questo particolare repertorio<br />

musicale), resterà in vigore nel nostro paese - a differenza di quanto avvenne Oltralpe e nonostante<br />

ciò possa risultare non poco sorprendente – almeno fin verso al metà del secolo successivo.<br />

5


Composizione e disposizione dell’orchestra<br />

Fin qui dunque le osservazioni di Galeazzi sul ruolo del primo violino. Ma egli si sofferma<br />

dettagliatamente anche su un altro aspetto altrettanto significativo, quello relativo alla composizione<br />

dell’orchestrale teatrale, al numero degli esecutori e alle proporzioni d rispettare nella distribuzione<br />

delle parti (§ 288, p. 215):<br />

Da quanto riferito si può facilmente rilevare il dato più caratteristico della proporzione numerica<br />

or ora riportata, ossia che essa corrisponda pressappoco ad un rapporto di 2:1 tra numero dei violini<br />

e quello dei rimanenti strumenti ad arco: un fenomeno che rappresenta una peculiarità italiana –<br />

peraltro finora non rilevata – nel panorama internazionale dell’epoca, giacché Oltralpe si rileva<br />

invece la tendenza ad un rapporto di 3:2 e più spesso di parità numerica tra le due sezioni,<br />

pareggiamento che sarà infine accolto anche nel nostro Paese 8 .<br />

Tra le numerose notizie riportate da Galeazzi, non si può inoltre passare sotto silenzio la sua<br />

osservazione circa la collocazione dell’orchestra rispetto al palcoscenico (§ 297, pp. 210-221)<br />

Galeazzi prende quindi ad esaminare la maniera più corretta di disporre gli strumenti all’interno<br />

dello spazio orchestrale, segnalando le differenze di collocazione per i vari generi di esecuzione, «in<br />

Sala, in Chiesa, in Teatro».<br />

8 Un’attenta analisi su scala internazionale di tali rapporti numerici è contenuta in Neal Zaslaw, Toward the Revival of<br />

the Classical <strong>Orchestra</strong>, «Proceedings of the Royal Musical Association», CIII, 1976-1977, pp. 158.187: (in particolare)<br />

180-183, ed è accuratamente commentata a compendiata in Daniel J.Koury, <strong>Orchestra</strong>l performance Practices in the<br />

Nineteenth century. Size, Proprortions and Seating, Ann Arbor (Michigan), UMI Research Press 1986, pp.23-25.<br />

6


Limitatamente alle orchestre teatrali è rilevabile una caratteristica comune, sempre secondo<br />

Galeazzi, a tutte le orchestra italiane, ossia la presenza di due cembali, mentre risulta qualche<br />

sostanziale differenza circa la collocazione del primo violino 9 (§297-298, pp.221-222):<br />

Figura 1<br />

9 (§ 297-298, pp.221-222)<br />

7


(L’affermazione del Galeazzi riguardo la «gran distanza che passa <strong>fra</strong> il Primo violino ed i Bassi»<br />

va evidentemente riferita ai bassi vicini al primo cembalo, giacché accettando la disposizione<br />

approvata da Galeazzi - quella del Teatro Regio di Torino riprodotta in fig. 3 – solo questi ultimi<br />

verrebbero ad essere vicini al primo violino direttore, mentre i bassi situati in prossimità del<br />

secondo cembalo risulterebbero ancor più lontani da lui.)<br />

Figura 2<br />

8


Figura 3<br />

Le affermazioni di Galeazzi proseguono con un’annotazione che vale ancora la pena di segnalare:<br />

«Vorrei però, che di dasse a queste due linee una curvatura opposta, vale a dire, che le<br />

concavità fossero rivolte in dentro, cosicché lasciassero <strong>fra</strong> di loro uno spazio curvilineo, nel quale<br />

collocar si potrebbero le viole, e stromenti da fiato. I bassi poi al solito ai due cembali» (§ 298, p.<br />

222).<br />

Il secondo cembalo<br />

Riguardo la presenza dei due cembali, usanza cui «tutte le orchestra d’Italia si accordano», sono<br />

state talvolta proposte giustificazioni fantasiose e poco verosimili. Si riporta al proposito una<br />

significativa quanto inequivocabile dichiarazione di Pasquale Cafaro, maestro della R. Cappella di<br />

Napoli, il quale in una lettera del 1773 così reagiva alla proposta di rinunciare al secondo cembalo<br />

nel Teatro San Carlo di Napoli:<br />

9


il secondo cembalo serviva dunque ad accompagnare i cantanti nei recitativi quando, per ragioni<br />

sceniche, essi dovevano allontanarsi dalla posizione vicino alla quale si trovava il primo strumento<br />

e avrebbero rischiato così di non distinguerne nettamente il suono.<br />

Se si volessero dunque riassumere sinteticamente le principali caratteristiche dell’orchestra<br />

settecentesca italiana, bisognerà sottolineare in primo luogo:<br />

1. Ruolo del primo violino: ad esso spettava una funzione di grande importanza e<br />

responsabilità nella conduzione dell’intero organico.<br />

2. Composizione dell’orchestra: essa era costituita “immancabilmente” da una compagine di<br />

violini con una proporzione all’incirca del doppio rispetto ai rimanenti strumenti ad arco.<br />

3. Presenza di due cembali (e degli strumenti bassi ad essi affiancati per l’esecuzione dei<br />

recitativi) attestata come pratica fino al volgere del secolo.<br />

L’orchestra italiana del primo <strong>Ottocento</strong><br />

Particolarmente istruttivo può risultare a questo punto il confronto con le conclusioni a cui si<br />

arriverà esaminando, a loro volta, le principali caratteristiche dell’orchestra italiana del primo<br />

<strong>Ottocento</strong>. Rispetto al periodo precedente, infatti, l’orchestra italiana ottocentesca presenta in<br />

sintesi:<br />

1. Ruolo del primo violino in rapida e radicale trasformazione<br />

2. Drastica revisione degli equilibri sonori tra strumenti acuti e gravi della famiglia degli archi<br />

3. Presenza di un solo cembalo (destinato in seguito a scomparire)<br />

4. Presenza significativa e pervadente di fiati e strumenti a percussione, in particolare quelli<br />

della cosiddetta «banda turca».<br />

Vedremo di illustrare tutti questi punti che, in più di un caso, hanno diretta relazione con la<br />

produzione rossiniana, almeno quella destinata in prima esecuzione ai teatri italiani.<br />

Al tal fine sarà utile un costante riferimento a quello che risulta essere in assoluto il centro più<br />

rappresentativo per la produzione teatrale di quell’epoca, il Teatro alla scala di Milano. Al riguardo<br />

si deve anzitutto richiamare l’attenzione su quanto illustrato dalla tabella riportata nella fig. 2.<br />

Da essa risulta decisamente evidente la tendenza a pareggiare il numero dei violini rispetto agli<br />

altri strumenti ad arco, colmando la precedente differenza 10 . Il motivo di questa trasformazione<br />

appare in stretta relazione con la massiccia e progressiva introduzione degli strumenti a fiato («gli<br />

strumenti baccanali», come qualcuno li chiamava all’epoca) in funzioni protagonistiche che in<br />

precedenza erano riservate ai violini (o erano del tutto assenti).<br />

Va poi rilevata un’altra caratteristica ben presto riscontrata: vale a dire la disposizione del primo<br />

violino direttore al centro dell’orchestra. Questa soluzione, che come si ricorderà, veniva<br />

categoricamente avversata da Galeazzi, il quale la riteneva «difettosissima» 11 , rivela piuttosto una<br />

mutata concezione di alcune funzioni orchestrali e in particolare il superamento della necessità di<br />

mantenere vicine le prime parti più importanti dell’orchestra (primo violino, cembalo, violoncello e<br />

contrabbasso al cembalo).<br />

10 Bisogna oltretutto tenere presente, come risulterà chiaramente più avanti, che nel numero dei primi violini vengono di<br />

norma inclusi in questi conteggi almeno due o tre strumentisti destinati alla sola esecuzione dei balli, in alternativa a<br />

quelli impiegati per le opere.<br />

11 Cfr. nota 2<br />

10


A questo proposito si può avanzare un’ipotesi che, chiarendo i presupposti del suddetto<br />

cambiamento, mira a giustificarlo alla luce della soluzione pratica adottata da molte orchestra<br />

dell’epoca, ossia l’adozione del fortepiano 12 al posto del cembalo: è verosimile difatti che tale<br />

soluzione abbia completamente rivoluzionato la pratica esecutiva orchestrale eliminando alcune<br />

delle condizioni che imponevano la presenza di due cembali alle estremità dello spazio orchestrale.<br />

La sostituzione del cembalo con il pianoforte<br />

Per meglio chiarire la portata di tale ipotesi bisogna dapprima ribadire, sulla scorta di importanti<br />

lavori specialistici dedicati all’argomento 13 , che l’avvento generalizzato del pianoforte nella pratica<br />

professionale in Italia va verosimilmente retrodatato 14 e che questo fenomeno è stato a lungo<br />

occultato dall’ambiguo significato del termine «cembalo» tra fine del XVIII e inizio del XIX<br />

secolo.<br />

Se difatti uno studio di Elena Biggi Parodi recentemente pubblicato ha pienamente confermato il<br />

fatto che il Metodo per il clavicembalo di Francesco Pollini (1811) fosse in realtà destinato al<br />

pianoforte 15 ; se in un documento ancora precedente, del 1805, troviamo il «maestro al cembalo»<br />

Ambrogio Minoia (all’epoca in forza alla Scala) inequivocabilmente alle prese con un «pianoforte»<br />

16 ; se ormai sappiamo che gli ultimi clavicembali furono costruiti in Italia nei primissimi anni<br />

’90 del <strong>Sette</strong>cento 17 ; se ancora molto precedentemente, addirittura nel 1768, Boccherini pubblicava<br />

le sue Sonate per cembalo con violino obbligato op. 5. mentre l’autografo di quest’ultime (Parma<br />

biblioteca Palatina) è chiaramente destinato al «forte piano» 18 ; se molto di ciò che sta emergendo<br />

intorno alla storia sette-ottocentesca del pianoforte in Italia risulta occultato dietro a quel fuorviante<br />

termine «cembalo» che in italiano aveva dunque la stessa ambiguità del tedesco Clavier 19 , dovremo<br />

allora affidarci all’organologia per chiarire al più presto questa particolare trasformazione<br />

dell’orchestra primo-ottocentesca.<br />

Ad ogni modo è verosimile che la maggior potenza sonora del pianoforte rispetto al<br />

clavicembalo, prima ancora del suo carattere timbrico, dovette rappresentare un elemento<br />

discriminante che ne impose ben presto la preferenza in tutti i teatri italiani rendendo superfluo con<br />

la sua sonorità il raddoppio dello strumento a tastiera (per «comodo de’ Cantori»). Tale<br />

cambiamento, sovente non facilmente riscontrabile nelle testimonianze documentarie proprio per la<br />

generalizzata utilizzazione del termine «cembalo», può essere dunque ipotizzato ogni volta che<br />

compare un solo strumento al posto di due, il che sovente coincide anche con la sua collocazione in<br />

12<br />

Ci si riferisce ai primi modelli di pianoforte, ossia a quelli non dotati di un’intelaiatura metallica di rinforzo.<br />

13<br />

Cfr. Cesare Ponsicchi, Il pianoforte. Sua origine e suo sviluppo, Firenze, Guidi 1876, nel quale sono riportate notizie<br />

che sembrano accreditare una linea di continuità nella costruzione del pianoforte (almeno in Toscana) a partire<br />

dall’attività dello stesso Bartolomeo Cristofori; inoltre il saggio di Mario Fabbri, Il primo «pianoforte» di Bartolomeo<br />

Cristofori e Giorgio F. Haendel, «Chigiana», XXI, 1964, n.s. 1, pp. 143-190: 162-172, nel quale sono riportati i nomi di<br />

sette costruttori di «cembali» con registri di piano e forte, attivi <strong>fra</strong> 1777 1788; dello stesso autore cfr. anche L’alba del<br />

pianoforte. Verità storica sulla nascita del primo cembalo a martelletti, Milano, Nuove Edizioni di Milano 1968,.<br />

14<br />

Le testimonianze di seguito presentate, pur senza alcuna pretesa sistematicità, sembrano tuttavia sufficienti a<br />

dimostrare la validità dell’assunto, ossia la reale prevalenza del pianoforte, almeno nella pratica esecutiva professionale,<br />

negli anni a cavallo tra i due secoli.<br />

15<br />

Elena Biggi Parodi, Il «Metodo pel clavicembalo» di Francesco Pollini, ossia il primo metodo pubblicato in Italia per<br />

il pianoforte, «Nuova rivista musicale italiana», , 1991, pp. 1-29.<br />

16<br />

Cfr. Agostina Zecca Laterza, Bonifacio Asioli Maestro e Direttore della Real musica, «Chigiana», 1971, n.s. 6-7, pp.<br />

61-76; 63.<br />

17<br />

Cfr. Clavicembali e spinette dal XVI al XIX secolo. Collezione L.F. Tagliavini, a cura di Luigi Ferdinando Tagliavini<br />

e John Henry van der Meer, Bologna, Grafis 1986, p.121.<br />

18<br />

cfr. quanto riportato da Franco Angeleri nell’opuscolo allegato al CD Luigi Boccherini, Sonate per fortepiano con<br />

accompagnamento di violino, Tactus TC 74021201, 1990 (Franco Angeleri, fp.; Enrico Gatti, vl.)<br />

19<br />

cfr. Biggi Parodi, art. cit., pp. 5-6 nota 25<br />

11


una posizione più vicina al centro dell’orchestra, dove risulta definitivamente trasferito il primo<br />

violino direttore (cfr. la pianta dell’interno del Teatro San Carlo riportate nella fig.4)<br />

Figura 4<br />

La presenza di due strumenti a tastiera tenderebbe quindi a farli identificare come strumenti a<br />

corde pizzicate, mentre l’impiego di uno solo di essi (non a caso attestato in secondo tempo) 20<br />

denuncerebbe l’adozione del ben più sonoro pianoforte. Si può chiarire così l’affermazione<br />

contenuta nel Saggio sopra i doveri di un primo violino direttore d’orchestra di Giuseppe<br />

Scaramelli, del 1811: «In qualche Teatro grande usano di mettere anche un [secondo] Cembalo in<br />

coda dei violini, ma siccome questo a nulla serve molti lo hanno dimesso».<br />

Per quanto attiene inoltre la funzione del suonatore dello strumento a tastiera nel primo<br />

<strong>Ottocento</strong>, essa risulta altrettanto secondaria di quella del suo collega del secolo precedente, come<br />

informa lo stesso Scaramelli:<br />

20 Al San Carlo di Napoli questo cambiamento avvenne dopo il 1786, giacché in quell’anno erano ancora presenti due<br />

«spinettoni» alle estremità opposte dell’orchestra (cfr. Prota-Giurleo, art. cit., p. 49 nota 18). A questo proposito si può<br />

aggiungere che il termine spinettone risulta frequentemente utilizzato nella seconda metà del <strong>Sette</strong>cento per indicare<br />

spinette rettangolari di grande formato; tuttavia non è stata finora degnata di sufficiente attenzione un’affermazione<br />

contenuta in PONSICCHI, op. cit., p. 19 nota 6, secondo la quale tali strumenti erano dotati di tre corde per tasto<br />

(registri 16’, 8’, e 4’), invece di due.<br />

12


(Va ricordato che sulla partitura del cembalista leggevano la loro parte anche il violoncello e il<br />

contrabbasso al cembalo, il che spiega la necessità per il cembalo di voltare le pagine anche durante<br />

le pause).<br />

Abbiamo già rilevato che la rinuncia al secondo cembalo venne spesso a coincidere con lo<br />

spostamento del primo verso la nuova posizione del violino principale, nella zona centrale tuttora<br />

adottata per la direzione d’orchestra 21 . Dovette risultare difatti del tutto opportuno, allorché restò in<br />

uso un solo strumento a tastiera, trasferire quest’ultimo in prossimità del primo violino, con ovvi<br />

vantaggi per l’esecuzione dei recitativi.<br />

La documentazione iconografica relativa al teatro San Carlo (v. figg. 5-6) di poco successiva alla<br />

riapertura del medesimo dopo l’incendio del 1816, ci offre una testimonianza di eccezionale<br />

interesse di quanto sin qui descritto, confermando in primo luogo la funzione del «Capo Direttore<br />

Primo Violino», il quale viene ad assumere un ruolo più moderno anche grazie alla sua posizione<br />

centrale dalla quale «osserva in un sol punto tutta la di lui famiglia […] dipendente dalla mossa del<br />

suo Arco» (si noti la posizione di quest’ultimo nella fig. 5)<br />

Figura 5<br />

21 Tale posizione del violino, evidentemente la più comoda per dirigere una complessa esecuzione musicale, era stata<br />

sua tempo criticata da Galeazzi, come si ricorderà, perché, vista la necessità di mantenere i due cembali alle estremità<br />

dell’orchestra, avrebbe determinato la lontananza del direttore dal primo dei due strumenti a tastiera e dal rispettivo<br />

coro dei bassi (cfr. fig. 3)<br />

13


La stessa documentazione conferma inoltre la stabile presenza di un nutrito stuolo di strumenti a<br />

fiato e a percussione (dei quali si parlerà diffusamente più avanti) mentre attesta parallelamente,<br />

almeno rispetto alle coeve esperienze milanesi, una tendenza più conservatrice della compagine<br />

napoletana verso il mantenimento della proporzione settecentesca tra violini e restanti strumenti ad<br />

arco (rapporto 1 a 1). Infine essa conferma l’abolizione del secondo cembalo e lo spostamento del<br />

primo in posizione centrale.<br />

Ad ogni modo il già non rilevante ruolo del «cembalo» (chiamiamolo ancora così, pur intendendo<br />

ovviamente il pianoforte) venne ben presto a ridursi ulteriormente d’importanza con la graduale<br />

eliminazione dei recitativi secchi dalle opere di più recente composizione, mentre restò in vigore<br />

per l’esecuzione delle «riprese» di opere più antiche. La sua presenza sarà ancora rilevabile in una<br />

pianta dell’orchestra scaligera sotto la direzione del celebre Alessandro Rolla (1757-1841),<br />

direzione durata fino al 1853, prima della definitiva eliminazione, avvenuta in tempi diversi nelle<br />

orchestra italiane a partire dalla fine degli anni ’30 (v. fig. 6).<br />

Figura 6<br />

14


Tale eliminazione ebbe un’ulteriore importantissima conseguenza: essa liberò i bassi (violoncello<br />

e contrabbasso) che stazionavano rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra, e che di norma<br />

erano suonati dai più valenti musicista dell’orchestra (quelli meglio retribuiti, dopo il violino<br />

direttore e il maestro al cembalo) dall’obbligo di questa residenza forzata. Si poterono riunire così<br />

in un sol gruppo tutti i violoncelli e i contrabbassi, in una disposizione che si prestava mirabilmente<br />

alla direzione dal centro dello spazio orchestrale. A tale riguardo la figura ed il nome da citare per<br />

primi sono quelli del grande violinista succeduto a Rolla nella direzione della compagine scaligera,<br />

Eugenio cavallini (1806-1881), allievo dello stesso Rolla e <strong>fra</strong>tello dell’altrettanto acclamato<br />

Ernesto, primo clarinetto della medesima orchestra. Egli si fece carico di una drastica riforma,<br />

realizzata tra il 1834 e il 1846 in tre fasi successive, con il sostegno di Donizetti e poi anche di un<br />

Verdi reduce dai primi grandi successi, scatenando con ciò gli strali di un singolare personaggio,<br />

Francesco Antonio Biscottini, all’epoca ispettore dell’orchestra di quel teatro 22 . La riforma operata<br />

da Cavallini diede motivo al temibile Biscottini di indirizzare alla Direzione Centrale dei Teatri un<br />

subdolo (quanto per noi preziosissimo) documento pubblicato da Renato Meucci 23 .<br />

Ma sempre riguardo all’opera di Eugenio cavallini ben più significativi risultano i positivi<br />

commenti di Donizetti, che così si espresse in una lettera del gennaio 1834 indirizzata al duca<br />

Visconti, allora direttore dei Teatri Imperiali di Milano, il quale aveva personalmente incoraggiato<br />

il cambiamento:<br />

La descrizione di Donizetti è comprensibilmente riferita principalmente al ruolo del compositore,<br />

che tuttavia aveva una funzione di ben poco rilievo dopo le prime recite di un’opera in prima<br />

rappresentazione, essendo notoriamente obbligato – come abbiamo visto – a lasciare nelle mani del<br />

primo violino «capo d’orchestra» la completa responsabilità per le rappresentazioni successive.<br />

22<br />

Egli era stato assunto nel 1853, subentrando al maestro Zaneboni (Milano, Archivio Storico Civico, fondo Spettacoli<br />

Pubblici, cart. 11)<br />

23<br />

Renato Meucci, Osservazioni del m°. Francesco Antonio Biscottini sull’orchestra scaligera del 1846, «Il flauto<br />

dolce», n. 17-18, 1987-1988, pp.41-44.<br />

15


La trasformazione del ruolo direttoriale<br />

La fase successiva tra quella appena descritta e la definitiva affermazione del ruolo di direttore<br />

d’orchestra in senso moderno (ruolo che sarà documentabile a partire dalla metà degli anni ’50) può<br />

essere accuratamente ricostruita grazie a due diverse testimonianze, risalenti agli anni compresi tra<br />

il 1835 e il 1840: la prima è la proposta di riforma dell’orchestra del teatro Regio di Parma dovuta a<br />

Niccolò Paganini, la seconda è un’accurata descrizione del coevo ruolo del direttore d’orchestra<br />

sicuramente più vicina della precedente alle effettive consuetudini italiane dell’epoca.<br />

Ma vediamo dapprima le vicende che, alla metà degli anni ’30, legarono Paganini alle sorti<br />

dell’orchestra del teatro Regio di Parma. Tali vicende risultano emblematiche, in un contesto di<br />

decadimento qualitativo del complesso parmense (a suo tempo definito da Galeazzi una delle<br />

«migliori orchestra del mondo»), del tentativo, avviato da Paganini su invito della sovrana Maria<br />

Luigia, di un radicale rinnovamento della formazione con il suo adeguamento ai criteri esecutivi<br />

d’Oltralpe. Si trattava di un progetto sicuramente attuabile ma che, come noteremo più avanti, si<br />

arenò proprio su un punto cui fin dall’inizio Paganini annetteva grande importanza: quello della<br />

direzione d’orchestra.<br />

Affidandoci alle parole stesse del grande violinista vediamo quali fossero le sue indicazioni<br />

iniziali riportate in una prima bozza di una riforma dell’orchestra parmense (1835), dalla quale<br />

traspare quanto grande ormai fosse la distanza tra la pratica esecutiva italiana e quella del resto<br />

d’Europa 24 :<br />

Ebbene nonostante queste dichiarazioni programmatiche il testo definitivo dei Progetti di<br />

regolamento per la ducale orchestra di Parma redatto da Paganini nel 1836 lasciò immutato il<br />

ruolo di «direttore d’orchestra primo violino», che «dirigerà l’orchestra e la sorveglierà in tutti i<br />

privilegi di corte, o del ducale teatro, o delle funzioni di chiesa», e ciò sebbene il regolamento<br />

preveda anche la figura di un «maestro di cappella del ducale teatro», il quale assisterà «prestando<br />

l’opera sua, a tute le prove e delle opere, e delle accademie che si daranno in teatro» e sarà tenuto<br />

24 La documentazione è riportata integralmente nel saggio di Gian Paolo Minardi, L’orchestra a Parma. Un prestigioso<br />

europeo e il suo progressivo declino, in <strong>Orchestra</strong> in Emilia –Romagna nell’<strong>Ottocento</strong> e nel Novecento, a cura di<br />

Marcello Conati e Marcello Pavarani, Parma, orchestra Sinfonica dell’Emilia Romagna “Artuto Toscaniani” 1982, pp.<br />

75-144; 94 e 137.<br />

16


«di fare negli spartiti che dovranno prodursi al pubblico, tutti que’ cambiamenti che potessero<br />

occorrere». Nulla di più. Eppure un tal «maestro di cappella» doveva ben essere un apprezzato<br />

pianista, viste le sue mansioni e visto che nello stesso documento tale qualifica veniva richiesta<br />

anche al suo sostituto. Ma i tempi evidentemente non erano ancora maturi in Italia (quindi non solo<br />

a Parma, ma anche negli altri principali teatri italiani) per un radicale cambiamento di ruoli che<br />

altrove era già stato attuato e che risultava ampiamente giustificato dalla crescente complessità delle<br />

scrittura orchestrale.<br />

Ad un ben meno noto violinista che si firmava con le iniziali «A.B.», identificabili con quelle del<br />

conte Antonio Belgioioso 25 , dobbiamo invece un più realistico progetto pubblicato nel 1845<br />

all’interno del Mentore teatrale di Francesco Avventi 26 con l’aggiunta di note redazionali che ci<br />

fanno ipotizzare una data di concepimento vicinissima alla fine degli anni ’30 27 . In questa proposta,<br />

inviata ad un corrispondente bolognese, il conte Belgioioso descrive accuratamente le mansioni del<br />

nuovo direttore e dei suoi principali colleghi violinisti dell’orchestra, distinguendo tre ruoli<br />

principali «Supremo direttore, Concertino, Spalla ossia continuo» (p.273). Esaminiamo dalle parole<br />

stesse di Belgioioso la natura di questi incarichi, le cui denominazioni serviranno, oltretutto, a<br />

rivelare l’origine insospettata di alcuni termini ancora oggi in uso nelle orchestre italiane. In<br />

particolare è necessario osservare che il termine «concertino» non sembra avere alcun riferimento<br />

all’antico ruolo del Concerto grosso strumentale, ma solo alle capacità virtuosistiche (concertanti)<br />

del violinista cui, nelle orchestre più rinomate, era affidata la realizzazione dei passi a solo, altrove<br />

(e in altri tempi) eseguiti dallo stesso direttore. La necessità di questo ruolo appare impellente (p.<br />

268) «per le superiori orchestra ove il direttore vuolsi un omo in età di senno e dell’esperienza e che<br />

non può assumere simultaneamente la parte do concertista, detta il concertino», mentre la scelta di<br />

quest’ultimo «deve cadere sopra professori di fresca età, ma che abbiano date non dubbie e reiterate<br />

pubbliche prove di loro eccellenza in questa estetica classe». Altrettanto significativa risulta al<br />

riguardo una precisazione che si deve all’anonimo estensore delle note aggiunte al testo del<br />

Belgioioso, il quale chiarisce anche il significato originario del termine «spalla» (p. 279, nota 10)<br />

25 Cantante e compositore dilettante (1801-1858), egli risultava aver scritto un’opera. La figlia di Domenico,<br />

rappresentata a Milano (teatro del Re) nel 1845, un trattato Sull’arte del canto (Milano, Lampato 1841) e musica<br />

strumentale, tra cui tre Gran trio (op. 1-3) per pf. Vl. vlc. Alcuni Notturni e anche Sei valzer con coda per pf. (Milano,<br />

Ricordi n. 1 2884: nessun esemplare localizzato).<br />

26 [Antonio Belgioioso], Sulla importanza dell’elezione del primo violino nelle principali città d’Italia. Lettera scritta<br />

dal lago di Como a Bologna da un istruito dilettante di violino, e di composizioni musicali, in Francesco Avventi,<br />

Mentore teatrale. Repertorio di leggi, massime, nrme e discipline per gli artisti melo-drammatici e per chiunque abbia<br />

ingerenza e interesse in affari teatrali, Ferrara, Negri 1845, pp. 264-281.<br />

27 Con riferimento ad Alessandro Rolla (1757-1841), che aveva lasciato la Scala nel 1833, ci dice nel testo (p.276, nota<br />

2): «questo classico quanto venerando vecchio, vuol starsene com’ha diritto e bisogno in onoranda e tranquilla<br />

quiescenza»<br />

17


Varrà inoltre la pena di ricordare quanto riportato poco più di un decennio prima nella voce<br />

«concertino» del Dizionario di Lichtenthal, risalente al 1826 (I, p. 183): «in alcuni paesi d’Italia si<br />

dà pure tal nome alla Parte del Primo Violino, Capo D’orchestra, nella quale, per intelligenza del<br />

medesimo, trovansi marcati i passi obbligati degli strumenti 28 (e v. fig. 7)<br />

Figura 7<br />

28 E’ interessante altresì notare quanto lo stesso Lichenthal riporta circa il «foglietto», la parte destinata al primo violino<br />

direttore dei balli (I, p.279): «Nome che si suol dare alla Parte del primo Violino, Capo d’orchestra, ripetitore de’Balli,<br />

la quale contiene tutti i passi obbligati dell’orchestra, e per tal modo forma una specie di spartitino»<br />

18


Se dunque verso la fine degli anni ’30 è accertata la necessità – almeno per le orchestre principali<br />

– di un violinista che affronti almeno una parte delle mansioni in precedenza riservate al primo<br />

violino direttore d’orchestra assumendo perfino il nome precedentemente assegnato alla parte di<br />

quest’ultimo, è evidente che questa separazione di incarichi deve aver avuto un’adeguata e ben<br />

circostanziata motivazione 29 : a questo riguardo non sembra azzardato imputare un tale<br />

cambiamento all’incessante aumento di complessità nella scrittura e nella realizzazione operistica<br />

coeva. Su questo punto troviamo una conferma nello stesso testo di Belgioioso, il quale, circa le<br />

qualità del direttore d’orchestra, sostiene quanto segue (pp. 269-270):<br />

Come si sarà notato, le doti ora richieste al primo violino direttore comprendono una buona dose<br />

di familiarità con i fiati e le percussioni, che evidentemente rivestono, all’interno della compagine<br />

orchestrale, ben altra importanza rispetto al passato. Veniva così aperta la strada verso una nuova<br />

‘direzione’ (e qui il duplice senso suona quanto mai opportuno), quella stessa che, svincolando il<br />

direttore/violinista da qualsiasi obbligo di intervento col proprio strumento, porterà in breve<br />

all’affermazione del «maestro concertatore e direttore dell’opera», ruolo che alla Scala sarà<br />

ricoperto per la prima volta da Alberto Mazzuccato nel 1854 30 , cui va riconosciuto il primato in tale<br />

carica di «direttore d’orchestra» in senso moderno, carioca che egli ricoprì dunque prima ancora di<br />

Angelo Mariani, solitamente indicato come inauguratore della nuova figura direttoriale in Italia nel<br />

1860 31 .<br />

L’invasione dei fiati e delle percussioni in orchestra<br />

Ma veniamo da ultimo all’argomento più significativo tra quelli che è necessario trattare a<br />

proposito delle innovazioni dell’orchestra italiana del primo <strong>Ottocento</strong>: appunto l’introduzione di<br />

nuovi strumenti a fiato e a percussione.<br />

A tale riguardo bisogna tenere presenti due fenomeni piuttosto trascurati della prassi esecutiva<br />

dell’epoca: la funzione svolta dalla banda di palcoscenico nel periodo di maggior cambiamento<br />

dell’orchestra italiana, e la costante presenza in molti teatri (e certamente in quello alla Scala) della<br />

29<br />

La stessa suddivisione dei principali incarichi violinistici dell’orchestra è attestata anche per il periodo successivo<br />

dall’autorevole Trattato pratico di strumentazione di Antonio Tosoroni (Firenze, Guidi 1850), che elenca i seguenti<br />

ruoli (p: 76): «Un Primo Violino o Diret[t]ore dell’Opera, un Supplemento al Direttore [spalla], un Violino<br />

Concertista».<br />

30<br />

Cfr. Giampiero Tintori, Duecento anni di teatro alla Scala. Cronologia opere-balletti-concerti 1778-1977. Milano,<br />

Grafica Gutemnberg 1979, p. 399<br />

31<br />

Su Angelo mariani e la sua attività direttoriale, oltrechè sui suoi rapporti con Verdi, si vedano Tancredi mantovani,<br />

Angelo Mariani, Roma, Ausonia 1921, e Umberto Zoppi, Mariani, Verdi e la Stolz, in un carteggio inedito, Milano,<br />

Garzanti 1947.<br />

19


cosiddetta «banda turca» ( o «bassa musica») 32 , una presenza altresì rilevabile, sotto forma di<br />

particolare registro, in molti pianoforti e organi del primo <strong>Ottocento</strong> 33 .<br />

Per quanto riguarda il primo punto, è necessario rigettare una convinzione piuttosto diffusa,<br />

quella cioè che sia stato proprio Rossini ad introdurre un impiego sistematico e generalizzato della<br />

banda di palcoscenico. Questa convinzione non è confortata da alcuna prova plausibile ed è anzi in<br />

aperto contrasto con le numerose testimonianze di epoca precedente 34 che pure attestano l’impiego<br />

di compagini militari nel corso delle rappresentazioni teatrali 35 . Va semmai attribuito a Rossini un<br />

particolare e massiccio sfruttamento di queste risorse, sfruttamento che gli valse numerose<br />

critiche 36 , anche da parte dei suoi stessi ammiratori.<br />

Resta da aggiungere un’osservazione circa un fenomeno rimasto finora del tutto ignorato, ma<br />

perfettamente esemplificativo delle vicende dell’epoca: la particolare relazione che esisteva, a<br />

cavallo tra sette e <strong>Ottocento</strong>, tra il più importante complesso bandistico milanese. Quello della<br />

Guardia Nazionale, e della stessa orchestra del teatro alla Scala. Una recente ricerca d’archivio ha<br />

permesso di rinvenire un elenco di musicisti aggregati a tale complesso nel 1796 37 , dal quale risulta<br />

la sorprendente presenza di ben nove elementi su sedici precedentemente o contemporaneamente al<br />

servizio del massimo teatro milanese, compreso il primo violino dell’orchestra, Luigi De Baillou,<br />

che qui appare come compositore ufficiale della banda («Maestro nazionale per la musica<br />

istromentale»: e v. fig. 8).<br />

Con riferimento a tali stretti rapporti tra la maggiore banda cittadina e la più importante orchestra<br />

italiana dell’epoca (rapporti peraltro documentabili anche per il periodo successivo), sembra<br />

doveroso avanzare qui un’ipotesi che ricerche future potranno forse documentare e chiarire: il fatto<br />

cioè che l’introduzione di nuovi strumenti, a fiato o a percussione, ovvero di particolari modelli di<br />

tali strumenti, sia stata in molti casi mediata e favorita proprio dalla costante presenza di bande<br />

militari o civili nei teatri italiani: queste ultime difatti furono le prime a sperimentare (e con molta<br />

minore prevenzione) quelle innovazioni tecniche che caratterizzarono in maniera incessante la<br />

produzione di strumenti musicali nell’<strong>Ottocento</strong> (ad esempio l’adozione dei corni e delle trombe a<br />

valvole, di cui i bandisti si servirono ben prima degli orchestrali) 38 .<br />

Un altro timbro “bandistico” particolarmente significativo, ma che non ha incontrato finora<br />

sufficiente attenzione da parte degli studiosi, è quello della cosiddetta «banda turca». Forse<br />

introdotta nell’opera per la prima volta da Gluck 39 questa formazione, composta da triangoli, piatti,<br />

32<br />

Si trattava di un gruppo di strumenti a percussione comprendente tamburo, triangolo, piatti e cappel cinese<br />

33<br />

Cfr. Rosamond E.M. Harding, The Piano–Forte. Its History traced to the Great Exibition of 1851, London,<br />

Heckscher 1978, cap. 5, pp. 118-123 (The influence of Turkish music upon the Pianoforte) e cap. 6, pp. 124-150<br />

(Turkish Music and other pedals)<br />

34<br />

Una accurata trattazione dell’argomento si trova in Jurgen Maehder, «Banda sul palco» Variable Besetzungen in der<br />

Buhnenmusik der italiwenischen Oper des 19. Jahrhunderts als Relikte alter Besetzungstraditionen?, in Alte musik als<br />

asthetische Gegenwart. Bericht uber der internationalen musikwissenschaftlicher Kongress Stuttgart 1985, II Kassel-<br />

Basel, Barenreiter 1987, pp. 293-310.<br />

35<br />

Basti ricordare la presenza di una banda militare al San Carlo di Napoli già in occasione dell’Ezio di Sarro (1741) e<br />

del Tigrane di Hasse (1746).<br />

36<br />

Tra cui quello di G.S.Mayr, che pure era stato tra i suoi predecessori nell’impiego della banda (cfr. Zibaldone, a cura<br />

di Arrigo Gazzaniga, bergamo, Grafica gutemberg 1977, p. 81).<br />

37<br />

Cfr. Renato Meucci, Gioacchino Rossini 1792-1992 il testo e la scena, Convegno internazionale di studi, Pesaro 25-<br />

28 giugno 1992, Fondazione Rossini Pesaro; Milano, Archivio Storico civico, fondo Materie, art. 50, Banda militare.<br />

38<br />

Cfr. Anthony Baines, Gli Ottoni, Torino, EDT/ Musica 1991, p. 202 (ed. orig. London, 1978)<br />

39<br />

Sulla fortuna di questo complesso in Europa cfr. tra l’altro il lavoro di Ivano Cavallini, Musica e strumenti turchi in<br />

alcune fonti europee del XVIII secolo e l’ «Histoire» di Charles de Blainville (1767), in Restauro, conservazione e<br />

recupero di antichi strumenti musicali, Firenze, Olschki 1986, pp. 257-273.<br />

20


gran cassa, e sopratutto dal «cappel cinese» 40 , riscosse in tutta Europa e anche in Italia un così<br />

entusiastico successo da consentirle una lunga permanenza negli organici orchestrali (cfr. fig. 9)<br />

Figura 8<br />

40 Si tratta dello strumento a forma di ombrello («ombralino» nell’organico della banda della Guardia Nazionale<br />

milanese cfr. fig. 8) corredato di campanellini tintinnanti.<br />

21


Figura 9<br />

22


Venendo ora a Rossini e al suo ruolo, non tanto come “inauguratore” di nuovi e più invadenti<br />

timbri dell’orchestra, quanto piuttosto di una geniale utilizzazione, varrà forse la pena domandarsi<br />

in che misura questa scelta e questa novità del linguaggio rossiniano poté intuire su quel processo di<br />

23


innovamento orchestrale di cui si è parlato a lungo più sopra e che fu accompagnato da una<br />

sostanziale ridefinizione del ruolo del direttore d’orchestra. Evidentemente la musica di Rossini non<br />

ebbe ripercussioni immediate su tale ruolo direttoriale, ma costituì – per così dire – il presupposto<br />

pratico della sua trasformazione. La sua orchestrazione «piena», fondata su un impiego consistente<br />

e originale di tutte le sezioni strumentali, contribuì inevitabilmente alla ridefinizione dei ruoli<br />

orchestrali: le parti solistiche dei fiati disposte nitidamente al di sopra dell’accompagnamento degli<br />

archi; la linea melodica che evita di intrecciarsi con voci e timbri affini; il movimento<br />

contrappuntistico che non va ad intralciare le funzioni melodiche, né tantomeno quelle armoniche;<br />

sono difatti preziosi contributi che lasceranno una traccia decisiva sull’esecuzione 41 .<br />

Sul versante opposto però – e qui ci facciamo più vicini ai giudizi negativi citati in precedenza – a<br />

tutto si contrappone l’eccessivo peso sonoro di alcuni pezzi d’assieme, dovuto ad una certa<br />

ostentata invadenza degli ottoni, in particolare di quelli bassi, uniti agli strumenti a percussione. Ci<br />

troviamo di fronte a due ben diversi atteggiamenti compositivi: da una parte quello del melodista<br />

raffinato, persino eccessivamente lezioso nello sfruttare le possibilità cantabili degli strumenti a<br />

fiato; dall’altra l’orchestratore irruente di concertati e marce dal gusto un po’ grossolano, ma<br />

dall’effetto sicuramente travolgente. Al riguardo non possiamo dimenticare quanto la «Gazzetta<br />

musicale di Milano» osservava in uno dei suoi primi fascicoli 42 : «giusti nel tributare i debiti elogi al<br />

talento superiore di Rossini, ne è pur duopo confessare che le proporzioni dell’orchestra furono da<br />

lui sbilanciate con l’uso troppo frequente degli strumenti più forti della medesima».<br />

Ma proprio su questo terreno cade un’ultima considerazione che potrà essere verificata solo<br />

allorché, com’è avvenuto per la musica barocca e sta avvenendo per quella di epoca classica, si<br />

offrirà l’occasione di ascoltare delle musiche rossiniana eseguite con tecniche e strumenti analoghi<br />

a quelli del passato. Giacché è pienamente documentata, proprio a partire dal ventennio della<br />

produzione operistica rossiniana, una radicale trasformazione degli strumenti a fiato tendente a<br />

rendere quest’ultimi notevolmente più sonori e brillanti che in passato, appare verosimile che le loro<br />

parti, eseguite con esemplari appropriati, possano rivelare un sapore timbrico a noi ancora del tutto<br />

sconosciuto. E se il discorso è valido per gli strumenti a fiato, lo è ancora di più per gli strumenti a<br />

percussione, principali imputati tra gli «stromenti più forti» dell’orchestra.<br />

Ma se per i primi la restituzione dovrà prevedere la reintroduzione di esemplari che in parte sono<br />

già utilizzati nelle esecuzioni «barocche» (come l’oboe e il corno inglese a due chiavi, o il corno<br />

naturale) o comunque non del tutto sconosciuti agli specialisti (come l’oficleide e il serpentone di<br />

legno), per i secondi si tratterà di un’affascinante e assolutamente inedita riscoperta: che dire difatti<br />

di un’orchestra che preveda stabilmente in organico un nutrito complesso di «musica turca», con<br />

tanto di cappel cinese dai bubboli tintinnanti e di sistri d’accompagnamento 43 ?<br />

Milano, Aprile 2000<br />

Francesco Paradiso<br />

41<br />

Si veda al riguardo Stefano Diddi, Gli strumenti a fiato nell’orchestra rossiniana, «Bollettino del centro rossiniano di<br />

studi», [VII], 1967, pp. 85-96 e 104-114.<br />

42<br />

Suppl. al n. 49, dicembre 1842, p. 211<br />

43<br />

Per approfondimenti al presente lavoro cfr. La trasformazione dell’orchestra in Italia al tempo di Rossini, di Renato<br />

Meucci, in Gioacchino Rossini 1792-1992 , Il testo e la scena, a cura di Paolo Fabbri, Convegno internazionale di studi,<br />

Pesaro, Fondazione Rossini, 1992.<br />

24

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