di - Rivista IDEA
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DOPO QUINDICI MESI<br />
IN AULA PER IL<br />
PROCESSO “THYSSEN”<br />
LA SENTENZA, CHE FA<br />
GIUSTIZIA, SEGUITA<br />
DA UN FIUME DI<br />
COMMENTI POLITICI,<br />
SINDACALI, GIURIDICI.<br />
MA RESTA IL VUOTO<br />
NELLE FAMIGLIE<br />
COLPITE E L’ASSURDO<br />
DI UNA TRAGEDIA<br />
CHE POTEVA ESSERE<br />
EVITATA. QUANDO LA<br />
RICOSTRUISCONO,<br />
PIANGE ANCHE UN<br />
GIURATO POPOLARE:<br />
IMMAGINE-SIMBOLO<br />
DI UNA CAUSA<br />
PENALE STORICA<br />
8 á 28 aprile 2011<br />
Il ficcanaso<br />
LE LACRIME DEL GIUDICE<br />
Antonio Barillà<br />
Abbiamo letto decine <strong>di</strong> articoli, seguito un’infinità <strong>di</strong> servizi in tv, ascoltato<br />
testimonianze, ricostruzioni e commenti. Quin<strong>di</strong>ci mesi <strong>di</strong> processo,<br />
commozione e dolore, fino a una sentenza che <strong>di</strong>venta storia, scolpita<br />
per sempre nel <strong>di</strong>ritto del lavoro, «<strong>di</strong>rompente per il futuro», come <strong>di</strong>ce il<br />
procuratore Raffaele Guariniello, aggiungendo con amarezza che comunque «una<br />
condanna non è mai una vittoria o una festa per nessuno, perché è capitata una cosa<br />
molto brutta e se si fosse potuto evitare il processo sarebbe stato meglio».<br />
La cosa molto brutta capita il 6 <strong>di</strong>cembre 2007 quando scoppia un incen<strong>di</strong>o nella<br />
linea 5 della “Thyssen” <strong>di</strong> Torino: le fiamme avvolgono otto operai, uno muore subito<br />
e sei nei giorni successivi. L’unico sopravvissuto è in aula per il verdetto, con i segni<br />
della trage<strong>di</strong>a sulla pelle e nell’anima. La condanna, che non è una vittoria o una festa,<br />
è comunque una consolazione per chi chiedeva giustizia: tutti colpevoli, i sei <strong>di</strong>rigenti<br />
imputati, omici<strong>di</strong>o volontario con dolo eventuale, prima volta in Italia per un incidente<br />
sul lavoro. Ora parlano tutti della svolta giu<strong>di</strong>ziaria, del monito che contiene,<br />
delle vite che potranno salvarsi in futuro, dell’in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> responsabilità precise<br />
a <strong>di</strong>spetto <strong>di</strong> pressappochismi giuri<strong>di</strong>ci che in passato hanno lasciato come unico,<br />
grottesco colpevole il destino. Noi non sapremmo cosa aggiungere.<br />
Vogliamo invece parlare ancora <strong>di</strong> quegli operai che non torneranno più a casa, o<br />
delle loro case tristi o dei loro familiari a pezzi. La sentenza è un sostegno e un appiglio,<br />
ma non cambia la situazione, e nella penombra <strong>di</strong> un appartamento, sul marmo<br />
d’una tomba, nel riepilogo bagnato <strong>di</strong> lacrime <strong>di</strong> sogni che non hanno avuto il tempo<br />
<strong>di</strong> sbocciare, c’è un vuoto che sopravvive alle telecamere attorno al palagiustizia, alle<br />
arringhe dei legali, alla sod<strong>di</strong>sfazione dell’accusa, allo stupore della <strong>di</strong>fesa.<br />
In aula ci sono le foto dei sette operai: Angelo che portava da casa i panini con la marmellata<br />
fatta dalla moglie, Giuseppe che confidava <strong>di</strong> voler riprendere gli stu<strong>di</strong>, Ro -<br />
sario che progettava <strong>di</strong> aprire un locale, Bruno che stava per licenziarsi per gestire un<br />
bar con la ragazza, Antonio e Roberto che parlavano con tenerezza dei figlioletti,<br />
Rocco che aspettava la pensione. Non hanno avuto tempo per cambiare vita, per vedere<br />
crescere i bimbi o per avere dei bimbi: della squadra, solo l’altro Antonio ancora<br />
può, ma è prigioniero <strong>di</strong> un incubo, quasi incapace <strong>di</strong> perdonarsi d’essere sfuggito,<br />
d’essersi chinato proprio nel momento in cui la lingua <strong>di</strong> fuoco s’è allungata.<br />
Ora la squadra ha avuto giustizia, ha sconfitto la grande multinazionale svelando<br />
sicurezze fragili e rischi enormi, ma è impossibile, tra chi custo<strong>di</strong>sce la loro memoria,<br />
percepire la sod<strong>di</strong>sfazione che affiora in alcuni cori giuri<strong>di</strong>ci, politici, sindacali. La<br />
moglie <strong>di</strong> Angelo lascia l’aula abbracciata alla figlia Noemi, triste: «È giusto che i colpevoli<br />
paghino, ma tanto loro i familiari potranno vederli ancora...». Il padre <strong>di</strong><br />
Giuseppe ha la voce spezzata: «Un po’ <strong>di</strong> giustizia l’abbiamo avuta, però il vuoto ci<br />
rimane». La mamma <strong>di</strong> Roberto spera: «Mi auguro che dopo la sentenza nessuno più<br />
risparmi sulla pelle <strong>di</strong> chi lavora». Abbiamo provato cercare un’immagine-simbolo<br />
del processo, rovistando tra i sorrisi senza più futuro dei caduti, appesi ai banchi o<br />
stampate sulle magliette; tra i visi rigati <strong>di</strong> lacrime dei parenti; nel volto impietrito<br />
dell’unico sopravvissuto. Secondo noi quella più significativa è l’immagine d’un giurato<br />
popolare commosso mentre assiste alla proiezione del video della trage<strong>di</strong>a: ha la<br />
fascia tricolore, la testa bassa, un fazzoletto bianco che asciuga gli occhi...