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Sulla soglia del mondo. L'altrove dell'Occidente - Studi culturali e ...

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Biblioteca<br />

14


Edizione originale:<br />

Culture after Humanism<br />

Copyright © 2001, Iain Chambers<br />

Prima edizione: 2001, Routledge, London<br />

Copyright © 2003, Meltemi editore srl, Roma<br />

Traduzione di Nicola Nobili<br />

È vietata la riproduzione, anche parziale,<br />

con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia,<br />

anche a uso interno o didattico, non autorizzata.<br />

Meltemi editore<br />

via <strong>del</strong>l’Olmata, 30 - 00184 Roma<br />

tel. 064741063 - fax 064741407<br />

info@meltemieditore.it<br />

www.meltemieditore.it


Iain Chambers<br />

<strong>Sulla</strong> <strong>soglia</strong> <strong>del</strong> <strong>mondo</strong><br />

L’altrove <strong>del</strong>l’Occidente<br />

Introduzione e cura<br />

di Faranda<br />

MELTEMI


Indice<br />

p. 7 Introduzione<br />

15 Capitolo primo<br />

Questione di storia<br />

Dalla nave ammiraglia<br />

La vulnerabilità <strong>del</strong>l’interpretazione<br />

Un’altra storia<br />

Dal passato<br />

Narrazioni interne<br />

Posizioni<br />

Il sublime <strong>del</strong>la modernità<br />

Posizionalità storiche<br />

Al di là <strong>del</strong>la rappresentazione<br />

I limiti <strong>del</strong>la politica e la poetica dei limiti<br />

65 Capitolo secondo<br />

Cornici terrestri<br />

La tecnologia è l’umanesimo<br />

Un’altra modernità<br />

77 Capitolo terzo<br />

La storia, il Barocco e il giudizio degli angeli<br />

La facciata e l’ornamento<br />

La magia, la mortalità e la sfiducia <strong>del</strong>la mimesi<br />

La malinconia e lo spazio coloniale<br />

Lo stile <strong>del</strong> tempo<br />

Suoni impronunciabili<br />

Casa


107 Capitolo quarto<br />

Voce nell’oscurità, mappa <strong>del</strong>la memoria<br />

Potrei cominciare<br />

Citare il passato<br />

Pensare<br />

Potremmo considerare la musica<br />

Danza gitana sotto un albero<br />

La memoria, attorno alla quale<br />

Iscrivere la memoria nella musica<br />

137 Capitolo quinto<br />

Architettura, amnesia e il ritorno all’arcaico<br />

“L’arte <strong>del</strong> vuoto”<br />

Impalcature invisibili, vite invisibili<br />

La volontà di architettare<br />

Lettere <strong>del</strong> tempo<br />

Il terreno sotto i nostri piedi<br />

La tecnologia e i limiti terrestri<br />

Sull’orlo <strong>del</strong>la costruzione<br />

La tradizione <strong>del</strong> discontinuo<br />

175 Capitolo sesto<br />

Estraneo in casa<br />

Il mistero <strong>del</strong>la casa<br />

Il trauma <strong>del</strong>la traduzione<br />

Antropologizzare l’antropologo<br />

La sfida <strong>del</strong>l’incompleto<br />

Estraniare l’Occidente<br />

201 Capitolo settimo<br />

<strong>Sulla</strong> <strong>soglia</strong><br />

Sull’orlo <strong>del</strong>la cornice<br />

Possesso<br />

La casa <strong>del</strong> linguaggio<br />

Alla deriva<br />

La <strong>soglia</strong> <strong>del</strong> pensiero<br />

Lo spaesamento<br />

Esporsi<br />

Viaggio interrotto<br />

La casa in rovina<br />

Un luogo nel <strong>mondo</strong><br />

237 Bibliografia


Introduzione<br />

Dunhuang, con le sue mele croccanti, la sua uva selvatica, le<br />

sue prugne profumate e i suoi meloni di oasi, è una polverosa<br />

città nel deserto, situata lungo l’antica Via <strong>del</strong>la Seta, nella Cina<br />

occidentale. In apparenza, è un centro urbano periferico nel<br />

luogo in cui la Cina sfuma nell’Asia centrale e le campagne <strong>del</strong>la<br />

pianura alluvionale cedono il passo alle dune di sabbia, dove<br />

la Grande Muraglia lascia il posto a fortezze solitarie abbandonate<br />

al vento. Dunhuang è uno dei crocevia storici <strong>del</strong> pianeta.<br />

Qui si incontrano il buddismo e l’islamismo, il kebab e i dim<br />

sum, in quella che sia Paul Gilroy che James Clifford descriverebbero<br />

come una “cultura <strong>del</strong> viaggio” che rivela quel che c’è<br />

di comune nelle diversità: qui tutto è plasmato e vissuto, in maniera<br />

pragmatica, nel substrato cangiante <strong>del</strong>l’appropriazione<br />

storica. Se il volo diretto <strong>del</strong>la China Northwest Airlines da<br />

Ürümqi a Jedda, dal Turkestan cinese all’Arabia Saudita, fornisce<br />

un collegamento immediato che taglia il <strong>mondo</strong> islamico,<br />

questa è anche la regione in cui, durante il suo viaggio spirituale<br />

cominciato in India, passato per l’altopiano tibetano, e quindi<br />

proseguito per la Cina e giunto nell’arcipelago giapponese, il<br />

buddismo ha lasciato una testimonianza significativa. A partire<br />

dal terzo secolo dopo Cristo, e per più di mille anni di sviluppo<br />

ininterrotto, le grotte di Magao, a sud di Dunhuang, sono state<br />

certamente una <strong>del</strong>le gallerie d’arte di pittura parietale e scultura<br />

buddista più grandi <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>. (Nonché il magazzino che<br />

ha conservato migliaia di manoscritti buddisti in sanscrito, tibetano<br />

e cinese, per lo più trafugati e ricomparsi a Londra e a Parigi<br />

all’inizio <strong>del</strong> ventesimo secolo). Qui, nelle diversificate tonalità<br />

di colore, di figurazione e di fisionomia <strong>del</strong> Budda, dei


8 IAIN CHAMBERS<br />

suoi discepoli, dei racconti <strong>del</strong>la sua vita e dei suoi insegnamenti,<br />

è possibile ricostruire in che modo le forme originariamente<br />

“occidentali” <strong>del</strong> subcontinente indiano si siano modificate e<br />

“cinesizzate”.<br />

Questo passato bastardo e questa incubazione ibrida tradiscono<br />

una versione assai più selvaggia e incerta <strong>del</strong>la “Cina”, <strong>del</strong>la<br />

sua gente, <strong>del</strong>la sua lingua e <strong>del</strong>la sua cultura, rispetto a quella<br />

divulgata ufficialmente. Qui c’è <strong>del</strong>l’altro, c’è di più, e questo di<br />

più mette in discussione il senso <strong>del</strong> passato, e pertanto anche il<br />

presente e il futuro. Quest’insolita “lezione” di storia, ovviamente,<br />

non è una peculiarità <strong>del</strong>la Cina: essa mette in discussione tutte<br />

le forme ufficiali di identità nazionale e la modernità culturale<br />

che incoraggiano. Ciò nonostante, il “balzo <strong>del</strong>la tigre” nel passato<br />

che propone Walter Benjamin contiene altresì la rivelazione<br />

di un altro futuro: un futuro che sfugge sia al controllo <strong>del</strong> presente,<br />

sia all’istituzionalizzazione <strong>del</strong> passato (Benjamin 1955, p.<br />

84). Questa osservazione serve ad accompagnare l’ossessione <strong>del</strong><br />

viaggiatore per “l’afrore di un leopardo <strong>del</strong>le nevi a quattromila<br />

metri” (Chatwin 1981, p. 20) con una narrazione ulteriore che<br />

attraversa, complica e collega il percorso turistico a una concezione<br />

più instabile e potenzialmente più aperta <strong>del</strong>la modernità<br />

(Chatwin 1981).<br />

Rendere la modernità altrui problematica, plurale e porosa significa<br />

anche rendere meno tranquilla la propria modernità. Se è<br />

possibile caratterizzare l’epoca <strong>del</strong>la modernità come l’epoca <strong>del</strong>l’umanesimo<br />

occidentale, di un <strong>mondo</strong> basato sulla continua<br />

conferma <strong>del</strong> soggetto che osserva, allora è anche legittimo considerare<br />

ciò che avviene all’autorità <strong>del</strong>le lingue critiche, <strong>del</strong>la storiografia<br />

e <strong>del</strong>l’inclinazione occidentale alla conoscenza e al potere,<br />

alla luce <strong>del</strong>la messa in discussione e <strong>del</strong>la dispersione di<br />

quella particolare disposizione storica. Nelle pagine che seguono,<br />

questa è l’argomentazione principale che verrà sviluppata. Inizialmente<br />

si potrà discutere unicamente su quanto sia nuova questa<br />

procedura, dal momento che questa storia è già stata raccontata:<br />

la modernità ha sempre litigato con se stessa, e la sua superficiale<br />

affermazione <strong>del</strong> “progresso” è sempre stata accompagnata<br />

da una serie di eventi che parlano d’altro e hanno altra origine.<br />

È in questo contesto che il postmoderno, come ha ribadito ripetutamente<br />

Jean-François Lyotard, non segna la fine <strong>del</strong>la moder-


INTRODUZIONE 9<br />

nità, ma una relazione diversa con essa. In maniera più immediata<br />

e incisiva, gli studi postcoloniali hanno esteso il fermo invito<br />

alla cultura occidentale a rivisitare non soltanto la propria modalità<br />

di vita ma anche le proprie modalità di pensiero. In ballo c’è<br />

qualcosa di più <strong>del</strong>la trasgressione o addirittura <strong>del</strong>la revisione<br />

radicale <strong>del</strong> modo di intendere che abbiamo ricevuto in eredità:<br />

c’è qualcosa che arresta persistentemente la pulsione alla coerenza<br />

e rende tanto l’adattamento politico successivo, quanto quello<br />

culturale, più ardui, se non impossibili. Sbrogliando la matassa<br />

<strong>del</strong>la modernità, non solo viene messa in discussione la sua struttura,<br />

ma i suoi fili pendenti ritornano per proporre uno schema<br />

diverso <strong>del</strong> tempo e <strong>del</strong> modo in cui lo occupiamo.<br />

Il modo in cui vengono trattate queste tematiche nei capitoli<br />

seguenti risente chiaramente <strong>del</strong>l’enfasi con cui Martin Heidegger<br />

asserisce che il recupero <strong>del</strong> senso <strong>del</strong>l’essere nel <strong>mondo</strong><br />

non è riconducibile alla somma dei singoli individui. Essere al<br />

<strong>mondo</strong> non è mai un punto d’arrivo, non si ottiene mai il quadro<br />

completo, il verdetto conclusivo. C’è sempre qualcosa in<br />

più, che sfugge alla cornice che vorremmo imporre. A questo<br />

punto, il senso <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> che abbiamo ricevuto in eredità, in<br />

cui il soggetto umano viene considerato sovrano, il linguaggio il<br />

mezzo trasparente <strong>del</strong> suo volere e la verità nient’altro che la<br />

rappresentazione <strong>del</strong> suo razionalismo, è soggetto a una revisione<br />

radicale. Ancora una volta, che cosa accade alla storia, alla<br />

cultura, alla soggettività e all’analisi critica, quando si comprende<br />

che i linguaggi che costituiscono queste formazioni e queste<br />

pratiche vanno al di là <strong>del</strong>la volontà e <strong>del</strong> controllo comune? La<br />

questione si situa in uno spazio che, provocatoriamente, potremmo<br />

definire postumanesimo. Questa prospettiva non apre a<br />

un universo antiumano, né tantomeno annuncia la fine <strong>del</strong> soggetto,<br />

bensì, nel tentativo di spostare il rapporto egemonico,<br />

propone un soggetto che differisce, nonché una diversa etica <strong>del</strong>la<br />

comprensione. Paradossalmente, criticare l’universalismo<br />

astratto <strong>del</strong>l’umanesimo occidentale significa gettare l’uomo nell’immediatezza<br />

culturale e storica di un’umanità differenziata e<br />

sempre incompleta.<br />

Se tutto ciò vuole attirare l’attenzione sul potere <strong>del</strong>la cultura e<br />

sollevare una problematica di natura politica, vuole anche perorare<br />

la causa di una politica che vada al di là <strong>del</strong>le soluzioni stru-


10 IAIN CHAMBERS<br />

mentali per toccare la ragione stessa <strong>del</strong> linguaggio e <strong>del</strong>la narrazione.<br />

Qui il politico slitta inevitabilmente nell’ambiguo potenziale<br />

<strong>del</strong> linguaggio, nel viaggio <strong>del</strong>le sue estensioni poetiche. L’adozione<br />

di questa prospettiva, unita alla constatazione <strong>del</strong>la natura<br />

inscindibile <strong>del</strong>l’etica e <strong>del</strong>l’estetica, ha fornito l’ossatura di questo<br />

libro. A questo punto, la proposta di una configurazione che<br />

acquisisca una forma dopo l’umanesimo tocca una corda più<br />

profonda allorché l’universalismo ricevuto in eredità viene collocato<br />

in un contesto storico e culturale preciso.<br />

Immanuel Kant nella Critica <strong>del</strong> giudizio (1790), nella celebre<br />

disquisizione sul bello e sul sublime, sostiene la necessità di una<br />

distanza critica e di uno sguardo disinteressato nell’appropriazione<br />

<strong>del</strong>la bellezza, e la natura <strong>del</strong> sublime come subordinata al<br />

consenso universale <strong>del</strong>la ragione. Quantunque il giudizio estetico,<br />

a differenza <strong>del</strong> giudizio teorico, non riesca ad affermare la<br />

propria validità sui concetti a priori, insistendo sull’universalità<br />

<strong>del</strong> gusto disinteressato <strong>del</strong>la collettività umana rientra a far parte<br />

<strong>del</strong>l’ambito <strong>del</strong>l’oggettività universale. Questa razionalizzazione<br />

<strong>del</strong> sentimento assicura le fondamenta <strong>del</strong> giudizio critico e la<br />

continua autorità <strong>del</strong> soggetto. Nondimeno, se la ragione non è<br />

in grado di fornire che una pallida rappresentazione di ciò che<br />

esprime il sublime, allora la provocazione <strong>del</strong>l’inquietante immensità<br />

e <strong>del</strong>l’infinita informità alienano potenzialmente la ragione<br />

da se stessa. Quanto appena asserito concede un varco al passaggio<br />

<strong>del</strong>la critica successiva dei limiti di una ragione incapace<br />

di percepire una conoscenza che la prevarica e mette in discussione<br />

la sua supremazia. Proprio questa indeterminazione, studiata<br />

successivamente dai romantici tedeschi ed esposta insistentemente<br />

da Friedrich Nietzsche, rappresenta una sfida alla sistematica<br />

disposizione <strong>del</strong>la conoscenza in una totalità autoreferente<br />

e concettuale. In ultima istanza questa eredità, che, volenti o<br />

nolenti, è anche la nostra eredità, è il disfacimento <strong>del</strong>l’umanesimo<br />

come disposizione critica. Questa è la strada attraverso cui la<br />

conoscenza può ottenere la libertà di seguire altre direttive. La<br />

distanza disciplinare viene turbata da vicinanze inattese che trasformano<br />

la condizione <strong>del</strong>l’estetica, <strong>del</strong>la poetica e dei linguaggi<br />

che esprimono il nostro potenziale.<br />

Ciò mi induce a vedere, sentire e avvertire nell’opera artistica<br />

un disturbo ininterrotto, una frattura nel tessuto di quanto


INTRODUZIONE 11<br />

ci si attende. Nell’insistenza <strong>del</strong> linguaggio che rende l’ordine<br />

<strong>del</strong>l’ordinario straordinario, irriducibile a una razionalità finale,<br />

magico, persino sacro e forse divino, è implicata una sensazione<br />

di dislocazione affettiva. Perché andando al di là <strong>del</strong> significato<br />

prestabilito, l’opera d’arte rivela non tanto un “messaggio” distinto<br />

quanto un senso che, in definitiva, è un non-senso, il rifiuto<br />

<strong>del</strong>l’omologazione che apre la prospettiva sul vuoto e che<br />

oppone resistenza alla razionalizzazione, quel vuoto dove il significato<br />

immediato è fluttuante, sospeso, silente 1 (Agamben<br />

1970). In tale contesto, la dissoluzione <strong>del</strong>l’estetico e la mutilazione<br />

<strong>del</strong>la distanza critica, rappresentano al contempo la dissoluzione<br />

<strong>del</strong> paradigma umanistico che ambedue hanno storicamente<br />

propagato.<br />

Oltre i confini <strong>del</strong>la critica estetica si palesa un senso <strong>del</strong> bello<br />

che non è né sistematico, né definitivo. Scaturisce durante la veglia<br />

di quanto è accaduto, intesa sia come transito che come lutto<br />

(Buci-Glucksmann 1992, p. 16). Si tratta di un senso <strong>del</strong> bello palesemente<br />

postkantiano, dal momento che annuncia ciò che non<br />

può essere contenuto. Non si conferma alcun piacere razionalista,<br />

bensì si dichiara il confine, l’accenno <strong>del</strong> sublime, il brivido <strong>del</strong><br />

<strong>mondo</strong>, l’incontro con l’angelico e lo straordinario; veniamo trasportati<br />

al di là di noi stessi nell’erotismo <strong>del</strong> tempo e nel senso di<br />

perdita che ne consegue, che si proclama come identità.<br />

Prendere congedo criticamente dalla storia <strong>del</strong> soggettivismo<br />

possessivo e dalla conoscenza che afferma se stessa non significa<br />

necessariamente abbandonare il “valore d’uso” e l’“umano” alla<br />

feticizzazione e all’alienazione <strong>del</strong>la modernità (Carchia 1982, p.<br />

61). Proporre una poetica <strong>del</strong>l’inquietudine non significa proporre<br />

un mezzo di comunicazione, ma sabotare quell’ordine e rivedere<br />

senza esitazioni le premesse <strong>del</strong> soggetto <strong>del</strong>l’operatività storica<br />

<strong>del</strong>l’umanesimo occidentale. Louis Althusser scriveva, nel 1963:<br />

“Tutto dipende quindi dal riconoscere la natura <strong>del</strong>l’umanesimo<br />

come ideologia” (Althusser 1965, p. 206). Considerare l’antiumanesimo<br />

alla luce <strong>del</strong>l’eredità di Marx, Nietzsche, Freud e Heidegger<br />

non significa, tuttavia, optare per la logica cru<strong>del</strong>e <strong>del</strong>le strut-<br />

1 In un breve scritto pubblicato nel 1970, e significativamente intitolato La cosa più<br />

inquietante, Giorgio Agamben mette alla prova la propria argomentazione, domandandosi<br />

se i tempi siano maturi per distruggere l’estetica e, di conseguenza, per riconoscere il<br />

vuoto che consente all’opera d’arte di emergere nel suo “divino terrore”.


12 IAIN CHAMBERS<br />

ture impassibili e <strong>del</strong>le relazioni sociali caratterizzate da un grado<br />

di determinazione esasperato, ma restituire forza critica alla complessità<br />

di un <strong>mondo</strong> che non si può ricondurre a una visione<br />

omogenea o a un unico punto di vista (Elliot 1998) 1 . A questo<br />

punto, il poetico che canta <strong>del</strong>la <strong>soglia</strong> e <strong>del</strong> non rappresentato investe<br />

il politico, e parla senza avere l’intenzione immediata di<br />

informare o di apportare necessariamente un beneficio al soggetto.<br />

Si tratta di un ritorno alla comprensione di tutta la complessità<br />

culturale che si avverte negli schemi, nelle tensioni e nelle tendenze<br />

prive di soluzione <strong>del</strong>le formazioni storiche.<br />

Per tornare brevemente alla Cina, laggiù si pratica la millenaria<br />

attività <strong>del</strong>la calligrafia, affascinante osmosi tra scrittura e pittura,<br />

in cui la significazione sconfina dalla semantica immediata e<br />

penetra in un senso assai più ambiguo e più libero. A differenza<br />

<strong>del</strong>la comprensione pragmatica <strong>del</strong>la scrittura, la calligrafia non<br />

tenta di comunicare un’assenza, di rappresentare la “realtà”. Il<br />

ricorso ai caratteri dipinti rivolge l’attenzione sul mezzo stesso.<br />

La calligrafia, nelle sue diverse scuole e nei suoi diversi stili, non<br />

è semplicemente un mezzo per la comunicazione, che rappresenta<br />

qualcos’altro, bensì è un mezzo in se stesso; l’arte <strong>del</strong>la scrittura,<br />

la scrittura come arte, una firma storica e culturale che finisce<br />

per rivelare molto più di qualsiasi messaggio intenzionale. Al di<br />

là <strong>del</strong>la palese autorità culturale e politica <strong>del</strong>la scrittura c’è l’affascinante<br />

nesso di uno stile <strong>del</strong>l’iscrizione che è anche sintomo<br />

di una sequenza di pensieri: pratica testuale, senso e direzione,<br />

che al contempo sono assoggettati al significato e lo superano<br />

(Connery 1998) 2 .<br />

Vorrei suggerire che anche lo stile e la lingua di questo libro si<br />

sforzano di ricondurre a questa possibilità. In un tempo e in uno<br />

spazio circoscritti, le pagine che seguono riguardano le implicazioni<br />

politiche e poetiche dei linguaggi in cui ci muoviamo e ci<br />

stabiliamo. Con ciò si vuole proporre che, a prescindere dalla<br />

comprensione strumentale che egemonizza la vita contempora-<br />

1 Confermato anche dal filosofo francese in persona nei suoi ultimi lavori.<br />

2 Indubbiamente questo denuncia un certo orientalismo. Nella Cina imperiale la scrittura<br />

e l’interpretazione erano, soprattutto, un’attività regolamentata rigidamente, concepita per<br />

assicurare l’autorità centrale <strong>del</strong>lo Stato. Nondimeno, se i caratteri grafici “non erano semplicemente<br />

indicatori trasparenti <strong>del</strong> contenuto”, allora gli stili <strong>del</strong>l’iscrizione tradiscono in una<br />

qualche misura qualcosa di più <strong>del</strong>la semplice autorità <strong>del</strong> testo approvato.


INTRODUZIONE 13<br />

nea, nelle sue implicazioni e nella sua potenzialità più profonde<br />

la realtà ha inizio e si conchiude nella casa <strong>del</strong> linguaggio. In ultima<br />

istanza è nella nostra vita materiale, storica, culturale e psichica<br />

che risiediamo, riconosciamo e riconsideriamo noi stessi. È<br />

alla luce di questa modalità di vita che i seguenti capitoli prendono<br />

in considerazione gli studi <strong>culturali</strong>, geografici, architettonici<br />

e storici tenendo un occhio fisso sulla loro potenziale rivalutazione<br />

e ristrutturazione.


Capitolo primo<br />

Questione di storia<br />

Dalla nave ammiraglia<br />

La conoscenza, vista come processo di<br />

transizione, non ha fondamenta, soltanto<br />

una struttura nel tempo.<br />

(Bhaskar 1975, p. 189)<br />

Golfo di Napoli, 1799. Nei primi mesi <strong>del</strong>l’anno una rivolta<br />

ha portato alla presa <strong>del</strong> potere da parte <strong>del</strong>l’intellighenzia liberale<br />

<strong>del</strong> luogo e all’abbandono <strong>del</strong>la città da parte <strong>del</strong>la monarchia<br />

borbonica. La movimentata esistenza <strong>del</strong> nuovo Stato si protrasse<br />

per appena cinque mesi, prima di essere schiacciata dalla<br />

milizia contadina <strong>del</strong> cardinale Ruffo, aiutata e spalleggiata dal<br />

sostegno navale di Horatio Nelson e <strong>del</strong>la flotta britannica. Molti<br />

dei capi <strong>del</strong>la rivolta furono giustiziati pubblicamente in piazza<br />

<strong>del</strong> Mercato: decapitazione per gli aristocratici, impiccagione per<br />

i borghesi. Direttamente ispirata dalla Rivoluzione francese, ancora<br />

oggi la breve Repubblica <strong>del</strong> 1799 viene vissuta da molti napoletani<br />

come una ferita aperta che stilla sangue sulla formazione<br />

<strong>del</strong>la città contemporanea. Secondo questa visione <strong>del</strong> passato, il<br />

“1799” rappresenta un momento perduto, e la storia successiva è<br />

la testimonianza <strong>del</strong>la brutale negazione <strong>del</strong>le sue possibilità. Si<br />

ritiene che questa spiegazione storica e storicista rievochi un<br />

evento singolare, l’unica Repubblica indipendente nella storia<br />

moderna <strong>del</strong>l’Italia, che distingue la storia di Napoli da quella<br />

<strong>del</strong> resto <strong>del</strong>la penisola. Al di là dei confini di un’idealizzazione<br />

spesso stucchevole, emerge nondimeno l’importante analogia tra<br />

il 1799 e, per esempio, il 1999, allorché si iscrive un fatto storico<br />

specifico in un quadro <strong>del</strong>la modernità occidentale di più ampio<br />

respiro. Forse la maniera di apprezzare tale analogia non è racchiusa<br />

tanto nell’ennesima analisi <strong>del</strong> 1799 come un evento storico<br />

irripetibile, quanto nel dare ascolto alle domande che scaturiscono<br />

da quel particolare momento: domande che mettono in di-


16 IAIN CHAMBERS<br />

scussione la concezione e la rappresentazione definitive sia <strong>del</strong>l’allora<br />

che <strong>del</strong>l’adesso.<br />

Potrei cominciare da una scena semplice, tratta da un’opera<br />

<strong>del</strong>la scrittrice e critica americana Susan Sontag, L’amante <strong>del</strong> vulcano<br />

(1992). Una nave da guerra britannica è ancorata nel Golfo<br />

di Napoli, da cui si gode di una vista <strong>del</strong>la città dal mare. Dalla<br />

nave parte l’ordine di sopprimere l’imberbe Repubblica. A bordo<br />

si trovano Nelson, Sir William e Lady Hamilton. Sir William è un<br />

amante <strong>del</strong> Vesuvio, nonché uno dei padri <strong>del</strong>la neonata scienza<br />

chiamata vulcanologia e un membro <strong>del</strong>la Royal Society. Nelson,<br />

l’amante di Lady Hamilton, è l’ammiraglio <strong>del</strong>la flotta inviata da<br />

Londra per dar manforte al fronte <strong>del</strong> Mediterraneo contro la<br />

Francia. L’anno precedente aveva annientato la flotta francese<br />

nelle acque egiziane nella battaglia di Abukir. Nel frattempo, la<br />

Francia repubblicana stava per trasformarsi nell’Impero napoleonico.<br />

Anche la rivolta napoletana e la conseguente proclamazione<br />

<strong>del</strong>la Repubblica fanno parte di questa storia.<br />

Questo sguardo telescopico induce a inserire la storia locale di<br />

Napoli in una prospettiva europea, o anche globale, e mi stimola<br />

a considerare gli eventi <strong>del</strong> 1799 in una luce diversa. Per esempio,<br />

qui Napoli si ritrova inserita in una cronologia di rivolte e rivoluzioni<br />

moderne. Questa particolare narrazione ha inizio nel 1776,<br />

con la rivolta <strong>del</strong>le colonie <strong>del</strong> Nord America contro la Gran Bretagna,<br />

che a sua volta ha fornito l’ispirazione per l’evento più famoso:<br />

la Rivoluzione francese <strong>del</strong> 1789. Tuttavia, la più lunga e<br />

sanguinaria di tutte le rivolte fu quella dei “giacobini neri”, gli<br />

schiavi di Santo Domingo capitanati da Toussaint L’Ouverture e<br />

influenzati direttamente dagli eventi francesi. Al termine di tredici<br />

anni di lotte contro britannici, spagnoli e, soprattutto, francesi,<br />

la rivolta si risolse con la proclamazione <strong>del</strong>la prima Repubblica<br />

nera di Haiti, nel 1804. L’anno prima <strong>del</strong>la fondazione <strong>del</strong>la Repubblica<br />

Napoletana, l’alleanza cattolico-protestante degli “irlandesi<br />

uniti” di Wolfe Tone si era battuta per l’indipendenza <strong>del</strong>l’Irlanda,<br />

prima che la rivolta fosse sedata nel sangue. Nell’arco dei<br />

successivi vent’anni l’intera America Latina fu scossa da una serie<br />

di rivolte con cui le colonie ottennero, violentemente, la secessione<br />

dalla Corona spagnola. Nelle diverse forme di contestazione<br />

dei poteri autoritari, centralizzati e non rappresentativi (sovente a<br />

tutela di interessi e oligarchie locali), è stato possibile, col senno


QUESTIONE DI STORIA 17<br />

di poi, identificare il passaggio verso una modernità caratterizzata<br />

dalla diseguale acquisizione <strong>del</strong>la politica di massa, <strong>del</strong>la democrazia<br />

di massa e <strong>del</strong>la cultura di massa (Anderson 1983).<br />

Per tornare al Golfo di Napoli e alla nave di Nelson, questa nave<br />

da guerra, come tutte quelle <strong>del</strong>la marina britannica, il cui equipaggio<br />

era composto per il trenta per cento da marinai di colore,<br />

aveva i ponti verniciati di rosso per mascherare il sangue dei caduti<br />

sul campo. Questa nave, questa flotta, rappresentavano il pragmatismo<br />

brutale di un imperialismo per il quale il Mediterraneo,<br />

analogamente ai Caraibi, all’Atlantico, all’oceano Indiano e all’Australia,<br />

di recente colonizzazione, non era che un tassello nell’economia<br />

politica globale. La questione che si pone è: questa prospettiva<br />

rappresenta solamente una panoramica di Napoli inquadrata<br />

da una nave da guerra britannica e imposta dal Ministero degli<br />

Esteri di Londra, oppure consente il profilarsi di una prospettiva<br />

di più ampio respiro? Mi permetto di osservare che, analogamente<br />

alla presenza di un progetto giapponese che al momento domina il<br />

profilo architettonico di Napoli, la visuale che giunge da altrove<br />

offre, a prescindere dal verdetto finale, un punto di vista che interrompe<br />

il consenso ufficiale di un’immagine locale. Traducendo la<br />

storia <strong>del</strong>la Repubblica Napoletana in un planisfero meno provinciale<br />

e più mondano, gli eventi rappresentati dai cinque mesi di vita<br />

<strong>del</strong>la Repubblica acquistano una risonanza etica più ampia e si<br />

inseriscono in una contestualizzazione storica e politica più vasta.<br />

Inquadrata da un orizzonte più ampio, la presenza <strong>del</strong>la Francia<br />

in questa particolare storia, al di là <strong>del</strong>la forza simbolica <strong>del</strong><br />

1789 e <strong>del</strong>la presenza e <strong>del</strong>l’aiuto concreti dei soldati francesi nei<br />

primi giorni <strong>del</strong>la fondazione <strong>del</strong>la Repubblica, rivela una serie di<br />

questioni e di condizioni tanto difficili da spiegare quanto la presenza<br />

<strong>del</strong>la flotta britannica nel Golfo di Napoli alcuni mesi più<br />

tardi. La titubanza <strong>del</strong> Direttorio di Parigi nel riconoscere la Repubblica<br />

Napoletana, come la sua analoga riluttanza ad accettare<br />

l’istanza di abolizione <strong>del</strong>la schiavitù nell’isola più ricca <strong>del</strong> suo<br />

impero coloniale (Santo Domingo), evidenzia una politica dettata<br />

più dalle necessità politiche ed economiche <strong>del</strong> centro metropolitano,<br />

che dalle richieste <strong>del</strong>le libertà locali. In quest’ottica emerge<br />

una Napoli che ha la duplice funzione di oggetto di interessi europei<br />

superiori e di particolare città europea risucchiata nella ragnatela<br />

di questioni maggiori, di portata globale.


18 IAIN CHAMBERS<br />

Una <strong>del</strong>le catene principali, per quanto in gran parte non rilevabile<br />

dalla popolazione, che ancorava la natura locale specifica<br />

di Napoli al resto <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> in questo periodo storico era un sistema<br />

coloniale basato sul lavoro degli schiavi neri importati dall’Africa<br />

alle Americhe. Il riconoscimento <strong>del</strong>la centralità di quel<br />

tipo di economia rispetto alla formazione culturale e politica <strong>del</strong>la<br />

modernità richiama l’attenzione su storie subalterne raccontate da<br />

altri punti di vista. In questo caso, sull’“Atlantico nero”, come<br />

propone in maniera eloquente l’importante studio di Paul Gilroy<br />

(1993a). Riportando il discorso alla città da cui siamo partiti, e restringendolo<br />

alla gastronomia, il caffè, la cioccolata, i pomodori, il<br />

peperoncino, le patate e lo zucchero sono tutti prodotti e sapori<br />

che hanno visto uno sviluppo sulla scia <strong>del</strong>l’espansione coloniale,<br />

alimentata dalla medesima economia politica che forniva la base<br />

per la rivendicazione di nuovi diritti politici. Le “scoperte” <strong>del</strong><br />

Nuovo Mondo aprirono anche la porta al nuovo <strong>mondo</strong> <strong>del</strong>le esigenze<br />

politiche postfeudali, che raggiunsero l’apice con avvenimenti<br />

come la guerra civile inglese, la Rivoluzione francese e la<br />

Repubblica Napoletana. Proprio a questo sviluppo paradossale si<br />

riferiva Jaurès quando ribadiva che le basi economiche <strong>del</strong>la Rivoluzione<br />

francese sono state la schiavitù e la tratta degli schiavi: “I<br />

patrimoni creati a Bordeaux, a Nantes, dal traffico negriero permisero<br />

alla borghesia di rivendicare il bisogno di libertà e di<br />

emancipazione umana” (citato in James 1980, p. 50). La modernità<br />

occidentale, che la si evincesse dalla Londra georgiana o dalla<br />

Napoli borbonica, faceva parte di questo quadro comune.<br />

Sfruttare una narrazione fittizia per affrontare la questione<br />

<strong>del</strong>la Repubblica Napoletana, e quindi espandere la storia su ulteriori<br />

dimensioni, potrebbe sembrare un’appropriazione non ortodossa<br />

(illegittima? sovversiva?) degli eventi storici. Tuttavia, al di<br />

là <strong>del</strong> gioco retorico dei diversi punti di vista, un approccio di<br />

questo tipo è fondamentalmente legato alla ricerca di una contestualizzazione<br />

<strong>del</strong> senso contemporaneo <strong>del</strong>la “conoscenza” e <strong>del</strong>la<br />

“verità”. Nella narrazione storica, nel racconto <strong>del</strong> passato,<br />

vengo spinto a osservare, come insiste Paul Ricoeur, che il “senso”<br />

non deriva dai “fatti” nudi e crudi e dagli “eventi” isolati,<br />

bensì è un qualcosa che scaturisce dalla temporaneità <strong>del</strong>la narrazione,<br />

dal racconto <strong>del</strong> tempo (Ricoeur 1983-84-85). Pertanto,<br />

dove e come si situano la distinzione <strong>del</strong>la narrazione <strong>del</strong> “1799”


QUESTIONE DI STORIA 19<br />

proposta nella rappresentazione storica a opera di Benedetto Croce<br />

e l’attenta ricerca esposta con grande dovizia di dettagli storici<br />

in L’amante <strong>del</strong> vulcano? 1 . Su che basi poggiano queste distinzioni?<br />

Raccontando il <strong>mondo</strong>, da dove si traggono i protocolli? Nella<br />

costellazione di narrazioni che circondano il “1799”, sospese<br />

nella scrittura, nel linguaggio <strong>del</strong>la rappresentazione, dove finisce<br />

la finzione e dove comincia la “realtà”? Se anche fosse possibile<br />

ritornare nel passato e confrontare i “fatti”, quella realtà dovrebbe<br />

sempre essere trasmessa mediante la logica e i linguaggi <strong>del</strong>la<br />

rappresentazione: documenti pubblici, diari privati, dati statistici,<br />

la testimonianza <strong>del</strong> costume e <strong>del</strong>le arti, tutti elementi che richiedono<br />

una certa rielaborazione per essere leggibili in una struttura<br />

organizzata dalla scrittura. Eccoci giunti alla <strong>soglia</strong> <strong>del</strong> dibattito in<br />

cui tropi di storiografia, come ha coerentemente asserito Hayden<br />

White (1985), diventano oggetti di analisi a pieno titolo.<br />

Mettere in discussione la disciplina <strong>del</strong>la storiografia sottintende<br />

una ricontestualizzazione <strong>del</strong> linguaggio, il quale viene trasferito<br />

dalla condizione astratta di “verità”, garantita da una neutrale<br />

“scientificità” dei “fatti”, a una posizione in cui il linguaggio<br />

stesso assurge al ruolo di fattore di significato temporaneo.<br />

La storiografia stessa si fa storia. A questo punto, e dato il valore<br />

simbolico che ha il 1799 per la storia e la cultura <strong>del</strong>la Napoli di<br />

oggi, forse il modo migliore per onorare il sacrificio di chi ha<br />

perso la vita nel nome <strong>del</strong>la rivoluzione non sta tanto nella narrazione<br />

di eroi e vittime, quanto nell’elaborazione di un lutto che<br />

apre le porte a uno spazio vitale nei linguaggi che rappresentano<br />

sia quel momento storico, sia ciò che noi siamo oggi. In quest’ottica,<br />

è possibile vivere il ritorno al e <strong>del</strong> 1799 come un interrogativo<br />

che tormenta e mette in discussione il nostro modo di usare,<br />

interpretare e costruire il passato.<br />

Allorché un’insurrezione, una rivoluzione, entra a far parte<br />

<strong>del</strong>la storia ufficiale di una città, di una cultura, è quasi ineluttabilmente<br />

autorizzata ad assumere il ruolo di narrazione <strong>del</strong> passato<br />

che contribuisce alla conservazione <strong>del</strong>la contestualizzazione<br />

1 Oppure, per restare più vicini a dove risiedo attualmente, nella ricostruzione letteraria<br />

operata da Enzo Striano (1979) <strong>del</strong>la vita di Eleonora Pimentel de Fonseca, una <strong>del</strong>le<br />

“martiri” <strong>del</strong> 1799.


20 IAIN CHAMBERS<br />

egemonica <strong>del</strong> presente. Il tradimento <strong>del</strong>la costellazione storica<br />

<strong>del</strong> 1799 può essere letto nell’ottica di questo uso e abuso. Focalizzata<br />

in una specificità storico-culturale ristretta, la luce che potrebbe<br />

gettare la Repubblica Napoletana sulla condizione attuale<br />

<strong>del</strong>la città risulta di fatto oscurata. Per far sì che emerga una diversa<br />

storia <strong>del</strong>la Repubblica, la storia di una città europea inserita<br />

in un complesso scenario mondiale, e quindi una storia provvista<br />

di risonanze politiche, storiche ed etiche prossime al <strong>mondo</strong><br />

contemporaneo, diventa necessario disfare e riscrivere la versione<br />

ufficiale. A questo scopo è necessario avanzare una critica <strong>del</strong>la<br />

cultura che ha costruito e conservato quella particolare storia. A<br />

questo punto, prima di addentrarsi in un qualche tentativo di fornire<br />

una spiegazione socio-storica e culturale <strong>del</strong>la particolare formazione<br />

<strong>del</strong>la società napoleonica, occorre riflettere sulla struttura<br />

istituzionale <strong>del</strong>la “conoscenza” “scientifica” e storiografica, la<br />

quale, come ribadisce Michel Foucault, è sempre una struttura di<br />

potere, mediante cui si è consolidata e diffusa quella particolare<br />

maniera di rappresentare il “1799”.<br />

La vulnerabilità <strong>del</strong>l’interpretazione<br />

Nel caso di Napoli ciò significa fare i conti con un approccio<br />

alla storia che si identifica con le premesse (l’ideologia?) <strong>del</strong>lo storicismo.<br />

Ripensare il tempo e lo spazio di Napoli vuol dire divellere<br />

lo storicismo che ha dettato la cultura e la storia <strong>del</strong>la città,<br />

nonché aprire quella “storia” alla distinzione tra la chiusa consolazione<br />

di quanto già determinato e la vulnerabilità di una storia<br />

soggetta ad altre modalità di narrazione. Se lo storicismo racconta<br />

la continuità dei vincitori, forti <strong>del</strong>la comprensione omogenea <strong>del</strong><br />

tempo e <strong>del</strong>la conoscenza, una storia critica, aperta e vulnerabile<br />

potrebbe, invece, essere concepita come narrazione, racconto, sospesa<br />

tra l’inclusione e l’esclusione, tra la rappresentazione e la repressione,<br />

e nella quale non arriva mai la parola conclusiva. Sarebbe<br />

una storia al di là <strong>del</strong>la grandiosa macchinazione <strong>del</strong> destino<br />

storico. Sarebbe ugualmente una storia non riducibile alla rappresentazione<br />

empirista e alla tirannia discorsiva di un realismo<br />

per così dire oggettivo. Non si tratterebbe di una storia <strong>del</strong> passato<br />

“com’è stato davvero”, bensì di una storia <strong>del</strong> presente intrisa


QUESTIONE DI STORIA 21<br />

degli interrogativi <strong>del</strong> passato, un confronto e una configurazione<br />

reciproci, in cui tanto il passato quanto il presente divengono luoghi<br />

di transito temporaneo, di traduzione culturale e di indagine<br />

etica. Ciò vorrebbe dire abbandonare l’utopistico compito di una<br />

narrazione neutrale o “obiettiva” <strong>del</strong> passato a favore <strong>del</strong>l’ancor<br />

più imperativa assunzione <strong>del</strong>la responsabilità <strong>del</strong> computo <strong>del</strong><br />

tempo, recando testimonianza <strong>del</strong>le generazioni passate in un linguaggio<br />

aperto al giudizio in qualsiasi condizione (Lévinas 1961).<br />

Chiaramente, questo non ha:<br />

nulla in comune con la posizione autoevanescente <strong>del</strong>lo storicista, il<br />

quale immagina davvero di potersi astrarre dalle condizioni <strong>del</strong>la<br />

propria esistenza e che, di conseguenza, si trasforma egli stesso in<br />

una pallida ombra. Per Benjamin, così come per Nietzsche, questa<br />

obiettività egoista è a tutti gli effetti “empatia” con il “vincitore”. Lo<br />

storicismo è quindi ben lungi dall’essere disinteressato, ma gli interessi<br />

che rappresenta sono lungi dai propri. L’enucleazione “metodologica”<br />

<strong>del</strong> presente, accoppiata all’opposta esaltazione <strong>del</strong> presente<br />

come la sola e unica autorità, l’unico giudice superstite <strong>del</strong> passato,<br />

rappresenta la contraddizione di fondo <strong>del</strong>lo storicismo (Wolfarth<br />

1998, p. 23).<br />

Se l’empirismo offre l’autorità incontestabile di fatti e artefatti,<br />

lo storicismo assicura una coerenza che non può essere messa in<br />

discussione, basandosi essa su una retorica dimentica <strong>del</strong>la tematica<br />

ontologica <strong>del</strong> linguaggio e <strong>del</strong>le instabili coordinate <strong>del</strong>la<br />

narrazione. Dove ha inizio il racconto? In che modo, perché, e<br />

per chi? Dove si conclude? Come osserva Hans Kellner (1997),<br />

“l’ipotesi secondo cui il passato è in qualche modo continuo è di<br />

natura letteraria” (p. 129). Se l’empirismo ricorre alla fattualità<br />

priva di mediazione <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, lo storicismo si appella alla struttura<br />

eterna di una dimensione temporale unica che avanza dal<br />

passato verso il futuro. Per entrambi la verità storica non sta nei<br />

linguaggi che ci permettono di sentirci come appartenenti alla nostra<br />

realtà e con cui diamo un senso al <strong>mondo</strong>, ma altrove, nei<br />

“fatti” e nella “verità” rivelati dalla ragione. In particolare, per lo<br />

storicismo la coerenza intellettuale è assicurata dal continuum in<br />

cui la storia e la ragione si rispecchiano reciprocamente, assumendo<br />

carattere di indivisibilità e unicità. In quest’ottica lo storico<br />

non è tanto colui che fa ritorno al passato per rivisitarlo, rappre-


22 IAIN CHAMBERS<br />

sentarlo e riscriverlo, quanto il custode <strong>del</strong>l’archivio <strong>del</strong>la conoscenza<br />

umana in perenne espansione. Questo archivio rimane stabile<br />

nella sua forma, sostanzialmente immutabile nelle sue fondamenta.<br />

Questa visione <strong>del</strong> passato è destinata a non produrre altro<br />

che “vittime”: tutto trova spiegazione nel dispiegarsi <strong>del</strong> processo<br />

storico stesso. Il lessico tecnico lo definisce teleologia, mentre<br />

in parole povere lo si denomina “destino”. Proprio in questa<br />

luce, come annunciava Walter Benjamin negli anni Trenta, prima<br />

<strong>del</strong>l’ascesa trionfale <strong>del</strong> fascismo, lo storicismo si immedesima<br />

nella versione <strong>del</strong> passato proposta, nonché imposta, dai vincitori<br />

(Benjamin 1955a).<br />

È possibile incrociare, costruire e contestare questo tempo storico<br />

sia per mezzo <strong>del</strong> linguaggio che nel linguaggio; il fatto che<br />

sia possibile apprenderlo e interpretarlo soltanto nell’ambito <strong>del</strong><br />

passaggio culturale, che precede e supera tutti gli appelli alla stabilità<br />

<strong>del</strong> significato, getta una sfida inconfutabile. Forse, invece<br />

di limitarsi a testimoniare il ricordo ufficiale <strong>del</strong>la Repubblica Napoletana<br />

come se si trattasse di un evento conchiuso, morto e sepolto<br />

con la sua sconfitta, sarebbe il caso di cercare di estrapolare<br />

dall’evento storico e critico le energie per piegare e rielaborare il<br />

presente al fine di mettere in discussione un destino apparentemente<br />

imposto dalla “storia”. Ciò vorrebbe dire vedere negli<br />

eventi <strong>del</strong> 1799, nei suoi dettagli e nella sua complessità, non la<br />

battuta di arresto di un processo che avrebbe dovuto aprire la<br />

strada che avrebbe portato la città direttamente verso la modernità<br />

e la realizzazione <strong>del</strong> “progresso”, bensì un segnale assai più<br />

inquietante: Napoli come allegoria <strong>del</strong>la precarietà <strong>del</strong>la modernità.<br />

Allora la città, da luogo in cui una determinata continuità<br />

viene riaffermata e celebrata in un’identità folcloristica, verrebbe<br />

ad assumere i connotati di luogo inquietante dove è costantemente<br />

aperta la questione irrisolta <strong>del</strong>la modernità <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>.<br />

Ciò significa concepire il <strong>mondo</strong> in cui vivo come un prodotto<br />

<strong>del</strong> tempo. Pensare al tempo, e al mio essere in questo tempo chiamato<br />

modernità, equivale a prendere in considerazione le categorie<br />

che rendono comprensibile questo passaggio terreno. Nondimeno,<br />

prendere in considerazione queste categorie vuol dire anche<br />

registrare la volubile contestualizzazione <strong>del</strong> tempo, apprezzare la<br />

costruzione culturale di come viene rappresentato il tempo: i linguaggi<br />

e i limiti di ciò che normalmente definiamo storia. Se tutto


QUESTIONE DI STORIA 23<br />

ciò che trapassa è destinato a far parte <strong>del</strong>la storia, è ugualmente<br />

vero che la storia non registra tutto ciò che passa. La storia <strong>del</strong><br />

tempo è anche la storia <strong>del</strong> tempo. Concezioni differenti <strong>del</strong>la temporalità,<br />

nonché contestualizzazioni differenti <strong>del</strong>l’organizzazione<br />

sociale e semantica, si sono ritrovate storicamente sottomesse alla<br />

modernità occidentale. Ecco che la rappresentazione <strong>del</strong> passato<br />

viene subordinata alla protervia <strong>del</strong> progresso. Che sia concepito<br />

direttamente, in termini di causa ed effetto, oppure negli sviluppi<br />

contraddittori <strong>del</strong> dinamismo dialettico, si presume che il tempo<br />

storico riveli un fine teleologico. Ma da dove originano questo particolare<br />

tempo e questa particolare definizione? È possibile concepire<br />

il tempo come fosse il trasmettitore omogeneo dei nostri desideri<br />

e <strong>del</strong>le nostre azioni? Il tempo risponde solamente all’imperativo<br />

lineare, a un’identità pubblica astratta che non muore mai 1 .<br />

Sembra impossibile fornire <strong>del</strong>le risposte a queste speculazioni<br />

metafisiche, fintanto che non ci sovviene la premessa fondamentale,<br />

ossia che il tempo, questa cosa di cui registriamo istintivamente<br />

il passaggio in un battito cardiaco, nelle rughe sul volto, e in ciò<br />

che viene custodito ufficialmente in monumenti, musei e archivi<br />

istituzionali, viene sempre percepito, trasmesso e compreso nei linguaggi,<br />

cioè la formazione culturale e storica da cui deriviamo e in<br />

cui diamo un senso alla nostra esistenza.<br />

Questa storia non è situata al di fuori di ognuno di noi, come<br />

se fosse un oggetto indipendente da studiare e spiegare, bensì è<br />

una storia in cui ciascuno di noi viene in-corporato, “espresso” e<br />

articolato. Noi non facciamo la storia secondo modalità che scegliamo<br />

liberamente, come giustamente ci ricorda Karl Marx. La<br />

storia stessa deriva dall’atto di incorporazione che forse è possibile<br />

comprendere meglio come atto di interpretazione. In un’intervista<br />

televisiva rilasciata nel 1969, Martin Heidegger commentò la<br />

celebre insistenza di Marx sulle Tesi di Feuerbach secondo cui la<br />

filosofia ha interpretato il <strong>mondo</strong> soltanto quando c’era da trasformarlo<br />

rendendo suggestivamente prossima l’apparente contrapposizione<br />

tra trasformazione e interpretazione. La trasforma-<br />

1 Come afferma Heidegger (1927), è il “tempo di nessuno”, il tempo anonimo di<br />

“quelli” che non muoiono mai, poiché, non essendo toccati dalla morte individuale, c’è<br />

sempre tempo.


24 IAIN CHAMBERS<br />

zione <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, a suo dire, presuppone un cambiamento nella<br />

rappresentazione <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> che dipende dall’interpretazione 1 . A<br />

ciò è possibile aggiungere le parole dette da Salman Rushdie<br />

(1991, p. 18) in tempi più recenti: “è dunque chiaro che quello di<br />

ridescrivere un <strong>mondo</strong> è il primo passo necessario a trasformarlo”.<br />

La denuncia di Marx contiene un annuncio critico, filosofico.<br />

La storia è un atto di interpretazione che si presenta nella sua<br />

forma naturale. Il realismo, in quanto modalità privilegiata <strong>del</strong>la<br />

narrazione storica, rafforza ed espande questa inclinazione fino a<br />

quando i limiti <strong>del</strong>la disamina storica si sovrappongono ai limiti<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong>. Dalla presunta divisione tra narrazioni immaginarie e<br />

realistiche <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> scaturiscono le moderne discipline denominate<br />

“letteratura” e “storia” (Anderson 1983), le quali sono tuttavia<br />

intrinsecamente legate alla matrice soggiacente che pone un<br />

freno alle pretese epistemologiche <strong>del</strong>la “storia” di poter spiegare<br />

“che cosa è successo”. Entrambe le discipline producono resoconti<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong> nel <strong>mondo</strong>. Entrambe trovano sostegno e verifica<br />

nel linguaggio, dove per linguaggio non si intende semplicemente<br />

il supporto tecnico <strong>del</strong>la linguistica e <strong>del</strong>la cultura <strong>del</strong>la<br />

carta stampata, bensì il nutrimento ontologico <strong>del</strong> senso. Questa<br />

storia, che viene considerata la pietra angolare su cui poggia la<br />

spiegazione, di cui la letteratura è l’ornamento immaginario, è essa<br />

stessa una forma di narrazione, un’articolazione sociale, che<br />

parla <strong>del</strong>la storia di una particolare formazione culturale.<br />

Un’altra storia<br />

Eppure, questo tipo di conoscenza <strong>del</strong> passato, nonché <strong>del</strong><br />

presente, data l’egemonia di cui gode al momento, e malgrado i<br />

tentativi subalterni di contrastarla, non si può cancellare con un<br />

colpo di spugna. È tuttavia possibile riconoscerne i limiti, ciò che<br />

la “storia” istituzionale stessa rappresenta e reprime, e inscriverli<br />

in ulteriori e contrastanti contestualizzazioni <strong>del</strong> tempo. Ciò vor-<br />

1 Martin Heidegger in una conversazione con Richard Wisser, trasmessa il 24 settembre<br />

1969 dalla ZDF e pubblicata da Günther Neske ed Emil Kettering (1988). In questa<br />

sede mi riferisco all’edizione italiana.


QUESTIONE DI STORIA 25<br />

rebbe dire sottrarre la modernità alla tirannia di una razionalità<br />

onnipotente e all’universalismo di un punto di vista unico e lineare,<br />

al fine di impostarne i termini, i linguaggi, le comprensioni e i<br />

desideri su un terreno più aperto, e quindi spostarsi in un <strong>mondo</strong><br />

che non si può ricondurre alla sua identità (Wellmer 1993). Nel<br />

lutto di una modernità positivista e sicura di sé, ciò che emerge<br />

non è l’espressione di dolore per aver perso la certezza, quanto la<br />

necessità di seppellire i morti per poter “investire nuovamente il<br />

<strong>mondo</strong> e il sé di significato simbolico” (Wheeler 1998). Si tratta<br />

di un lutto che si attesta in una costellazione culturale e politica<br />

che presta attenzione alla mortalità e alla modestia, ai limiti. Non<br />

significa abbandonare il sogno, abbandonare l’utopia, bensì trasformarla<br />

in un’azione contemporanea, ossia in un’etica che va di<br />

pari passo con la contestualizzazione storica incerta in cui parla e<br />

che le permette di parlare.<br />

Ma che cos’è, esattamente, questa contestualizzazione? Da dove<br />

sbuca, e a che esigenze fa fronte? Per cominciare a fornire una<br />

risposta al quesito è inevitabile riconoscere una distinzione di luogo<br />

culturale e storico che dipende sempre più da una struttura<br />

globale non sufficientemente riconosciuta, la quale è in evoluzione<br />

fin dall’alba <strong>del</strong>la modernità occidentale, cinque secoli fa. Nelle<br />

reciproche complessità <strong>del</strong>l’occidentalizzazione <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> e<br />

nella mondializzazione <strong>del</strong>l’Occidente, ogni singolo evento reca<br />

testimonianza <strong>del</strong>la sua particolare collocazione nel <strong>mondo</strong>, nonché<br />

<strong>del</strong>la maniera in cui è stato rappresentato e… represso. Pertanto,<br />

parlando da un certo luogo, la voce che testimonia di un<br />

passato e di un presente particolari risuona vieppiù nei canali <strong>del</strong>l’amplificazione<br />

globale. Tuttavia, ciò non significa semplicemente<br />

gettare una particolare storia o posizione nella cacofonia pluralistica<br />

<strong>del</strong>le voci più disparate che tentano di raccontare una storia.<br />

Si tratta, invece, di ritoccare il senso <strong>del</strong>la narrazione, la testimonianza<br />

<strong>del</strong> tempo, <strong>del</strong>la vita, contro i poteri strutturali che ci<br />

incasellano in maniera diversa e diseguale.<br />

Il Programma per lo Sviluppo <strong>del</strong>le Nazioni Unite, pubblicato<br />

nel 1997 riferisce di un 18 per cento <strong>del</strong>la popolazione mondiale<br />

(circa 800 milioni di persone) che possiede l’83 per cento <strong>del</strong>la<br />

ricchezza, mentre l’82 per cento (circa cinque miliardi di persone)<br />

amministra il 17 per cento <strong>del</strong>la ricchezza. La stessa pubblicazione<br />

indica che sarebbe possibile sradicare la povertà estrema


26 IAIN CHAMBERS<br />

spendendo ogni anno meno <strong>del</strong> patrimonio dei sette uomini più<br />

ricchi <strong>del</strong> pianeta. Negli Stati Uniti, l’uno per cento <strong>del</strong>la popolazione<br />

possiede il 40 per cento <strong>del</strong>la ricchezza, un altro 20 per<br />

cento possiede un’ulteriore fetta pari al 40 per cento <strong>del</strong>la ricchezza,<br />

mentre al restante 79 per cento rimane il 20 per cento. Si<br />

prevede che entro il 2010 nello Stato <strong>del</strong>la California un bambino<br />

su quattro sarà affetto di malnutrizione («La Repubblica»,<br />

19/8/1999) 1 . Allo stesso tempo, gli Stati Uniti detengono il 25<br />

per cento <strong>del</strong>l’intera popolazione carceraria mondiale 2 . Queste<br />

statistiche descrivono un quadro profondamente antidemocratico<br />

<strong>del</strong>le risorse politiche e <strong>del</strong>le responsabilità <strong>del</strong>la vita quotidiana,<br />

che nel “Primo” <strong>mondo</strong> trovano, emblematicamente, massima<br />

espressione negli Stati Uniti, dove il ricorso alla legge e all’indiscussa<br />

predominanza <strong>del</strong>la Costituzione, “un piano di governo<br />

redatto da un gruppo di mercanti e schiavisti all’alba <strong>del</strong>l’era moderna”,<br />

ha immancabilmente la priorità sulla giustizia e sul processo<br />

democratico (Lazare 1998) 3 .<br />

A Bulawayo, un disinvolto ragazzone nero con un variopinto<br />

telefonino Motorola Star Tac TM allacciato alla cintura attraversa la<br />

strada al semaforo, avanzando tra le macchine. Eppure il Sud <strong>del</strong><br />

<strong>mondo</strong>, con quella sua instabile commistione di segnali globali e<br />

realtà locale, rimane il Sud <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>. Gli investimenti, il tenore<br />

e le prospettive di vita rimangono così radicalmente diverse che<br />

nemmeno il brusio <strong>del</strong>le statistiche è in grado di mettere a tacere<br />

la tragedia che incarnano. Nello Zimbabwe, la speranza media di<br />

vita è scesa di trent’anni con la comparsa <strong>del</strong> virus <strong>del</strong>l’HIV. Nessun<br />

volo <strong>del</strong>le compagnie aeree statunitensi raggiunge alcuna città<br />

africana, comprese il Cairo e Johannesburg. In un continente in<br />

cui il potere pare dipendere più dal clientelismo che non dal profitto<br />

o dallo sviluppo, in termini economici parlare di un’Africa in<br />

relazione neocoloniale con l’Occidente ha poco senso, dal mo-<br />

1 Per ulteriori informazioni si consulti il sito: www.undp.org/poverty/publications.<br />

2 Per ulteriori informazioni sul crescente impoverimento <strong>del</strong>la maggior parte <strong>del</strong>la popolazione<br />

degli Stati Uniti nel contesto di un’economia in crescita, si veda Blau 1999.<br />

3 Come asserisce convincentemente Lazare, limitare il governo a un sistema di controlli<br />

e bilanciamenti significa altresì limitare la democrazia e lo “sviluppo <strong>del</strong>la coerente<br />

regola <strong>del</strong>la maggioranza”. La politica istituzionale viene a essere limitata agli interessi di<br />

gruppi e lobby che dispongono dei mezzi economici e sociali per rendersi visibili, e quindi<br />

“politici”. Ne risulta ciò che Lazare definisce un “regime controdemocratico”.


QUESTIONE DI STORIA 27<br />

mento che nel 1990 controllava solamente l’1,9 per cento <strong>del</strong><br />

commercio mondiale (ne gestiva il 5,2 per cento nel 1950), e i ritorni<br />

degli investimenti nel continente sono calati dal 30,7 per<br />

cento negli anni Sessanta al 2,5 per cento negli anni Ottanta. Si<br />

tratta di uno scenario caratterizzato da una mancanza quasi totale<br />

di investimenti, in cui l’investimento esterno, privato, commerciale<br />

ammontava ad appena 504 milioni di dollari nel 1992, “ossia<br />

all’1,6 per cento degli investimenti totali di Africa, Asia, America<br />

Centrale e Meridionale messe assieme”. Nel 1992 il prodotto interno<br />

lordo (PIL) <strong>del</strong>l’intera Africa sub-sahariana, pari a 270 miliardi<br />

di dollari, era inferiore a quello dei Paesi Bassi. L’Africa<br />

sub-sahariana comprende il Sudafrica. Per dirla in maniera spicciola,<br />

“il continente sta scivolando fuori dal Terzo Mondo, per finire<br />

nella sua desolata categoria <strong>del</strong>l’ennesimo <strong>mondo</strong>” 1 . In questa<br />

parte <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> si concentra un 60 per cento <strong>del</strong>la popolazione<br />

che non ha mai fatto una telefonata. Come ci ricorda Zillah Eisenstein<br />

(1998), ci sono più linee telefoniche a Manhattan che in<br />

tutta l’Africa sub-sahariana.<br />

Nel computo globale, un continente, l’Africa, si è semplicemente<br />

disperso. La Banca Mondiale prevedeva che entro l’anno<br />

2000 sarebbe stato necessario importare un terzo di tutti gli alimenti<br />

necessari. Tra il 1961 e il 1995, la produzione alimentare<br />

pro capite <strong>del</strong>l’Africa ha registrato un calo <strong>del</strong>l’11,6 per cento<br />

(contrariamente a quella <strong>del</strong>l’America Latina, che è aumentata <strong>del</strong><br />

31,4 per cento, e <strong>del</strong>l’Asia, salita <strong>del</strong> 70,6 per cento). In questo<br />

scenario, lo Stato costituisce una struttura “neopatrimoniale” in<br />

cui il problema principale non è lo sviluppo, quanto rimanere al<br />

potere:<br />

L’obiettivo principale è rimanere al potere. Occorre che l’esercito sia<br />

soddisfatto, che alle masse urbane sia dato da mangiare, che gli interessi<br />

conflittuali <strong>del</strong>le coalizioni politiche vengano bilanciati. Per<br />

questo fine, ogni aspetto <strong>del</strong>l’economia diviene uno strumento di<br />

protezione. Quote, tariffe, sussidi, licenze di importazione, la valuta<br />

1 Tutte le cifre e le citazioni sono tratte da Gifford 1998. Al pessimismo di considerare<br />

che apparentemente un continente “si sia perso” occorre ribattere con la consapevolezza<br />

di una situazione storica ben precisa, la quale “semplicemente non vuole riconoscere i<br />

suoi debiti nei confronti <strong>del</strong>l’Africa” (Reader 1998, p. 4). Come se il passato e il futuro<br />

<strong>del</strong>l’Africa non fossero anche i nostri, come insegnano i postcolonialisti e i globalisti.


28 IAIN CHAMBERS<br />

sovrastimata e così via assurgono al ruolo di canali di arricchimento,<br />

mediante l’attività di ricerca <strong>del</strong>l’affitto. I privilegi <strong>del</strong>l’élite dipendono<br />

dal monopolio <strong>del</strong> potere nell’ambito <strong>del</strong>la società, non dalla produttività<br />

<strong>del</strong>la società nel suo insieme, molto meno dalla sensazione<br />

di benessere che permea la popolazione in generale. Almeno a breve<br />

termine, un efficiente programma di sviluppo economico contrasta<br />

con questa situazione. Le esigenze economiche e politiche <strong>del</strong> potere<br />

personale seguono la propria logica. La mala gestione trova effettivamente<br />

un suo fondamento logico nel sistema neopatrimoniale<br />

(Gifford 1998, p. 13).<br />

Anche questo rientra nel cuore <strong>del</strong>la complessa eredità storica<br />

e <strong>del</strong>la contestualizzazione contemporanea <strong>del</strong>la modernità. Non<br />

si tratta di un’idiosincrasia periferica, bensì di una componente<br />

strutturale di quella storia, di quella modernità.<br />

Dal passato<br />

In questa prospettiva, com’è possibile raccontare il passato, o i<br />

passati? Certamente la coerenza <strong>del</strong>le narrazioni consolidate non<br />

può essere eguagliata da una coerenza alternativa. Dopo tutto,<br />

proprio il senso <strong>del</strong>la coerenza, che porta alla natura conclusiva<br />

<strong>del</strong>la finitezza razionale, è il problema: una finitezza che, come la<br />

prospettiva che ha per centro il soggetto, in ultima analisi è infinita<br />

nelle proprie pretese. Forse il cliché barocco <strong>del</strong>le “rovine” trova<br />

collocazione più consona in questo contesto. L’edificio fondato<br />

dalla storiografia occidentale non viene spazzato via, persiste e sopravvive,<br />

ma ora viene assillato da una serie di interrogativi; la sua<br />

struttura viene frantumata da un movimento culturale imprevisto<br />

e scossa dalla presenza di nuovi abitanti storici cui precedentemente<br />

non si prestava attenzione. La storia che scaturisce da questo<br />

edificio non offre più la rivelazione di un destino astratto, né<br />

corrisponde perfettamente all’articolazione di strutture socioeconomiche<br />

verificabili: adesso ospita una temporalità più sregolata<br />

creata dalla produzione sociale di una posizione nel tempo. Tutto<br />

questo per parlare di una modernità multipla in cui il passato e il<br />

presente si congiungono e interrogano scambievolmente, perché<br />

in un’affiliazione con-temporanea di questo tipo il senso <strong>del</strong> presente<br />

e il “progresso” che vi si associa si ritrovano a essere in de-


QUESTIONE DI STORIA 29<br />

bito nei confronti <strong>del</strong>le questioni irrisolte che vengono loro incontro<br />

dal passato.<br />

Quindi il passato irrompe nel presente non soltanto per annunciare<br />

l’altro lato <strong>del</strong>la modernità, quello represso, ma anche<br />

per piantare le radici di un turbamento più sregolato. La modernità<br />

non diviene semplicemente più complessa a causa <strong>del</strong>l’aggiunta<br />

di quanto non era stato riconosciuto, risulta irrimediabilmente<br />

disfatta da tematiche che non è più in grado di contenere.<br />

L’arcaico, dato come perso nella nebbia dei tempi, fa la sua comparsa<br />

nel bel mezzo <strong>del</strong>la modernità, apportando un senso diverso,<br />

una diversa direzione. Sorprendentemente, si ripropone l’assenza,<br />

la “perdita” <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> <strong>del</strong> passato rispetto al quale il presente<br />

misura il proprio “progresso”, per tormentare la modernità.<br />

La sicurezza razionale affronta un fantasma che reca testimonianza<br />

<strong>del</strong> ritorno <strong>del</strong>l’economia, apparentemente senza tempo,<br />

<strong>del</strong>l’“arcaico” e <strong>del</strong> “primitivo”: “un brusio di parole svanite non<br />

appena enunciate, perse dunque per sempre” (de Certeau 1975,<br />

p. 223). Questo perché le potenti tracce di questi linguaggi perduti,<br />

le diverse contestualizzazioni <strong>culturali</strong> <strong>del</strong> tempo e <strong>del</strong>lo spazio<br />

(pitture rupestri preistoriche in Sud Africa e Zimbabwe, città<br />

precolombiane nelle giungle e nei deserti <strong>del</strong>le Americhe, le vie<br />

dei canti tra gli arbusti australiani, vessilli <strong>del</strong>le preghiere nei passi<br />

montani asiatici) possono scardinare a forza il presente per interrogare<br />

la sua conoscenza che tutto abbraccia. È possibile che<br />

l’“esotico” turistico riferisca, inaspettatamente, un testamento più<br />

profondo quando l’assenza <strong>del</strong> significato immediato è in grado<br />

di aprire uno squarcio nel tempo.<br />

Al turbamento provocato dall’idea di formazioni <strong>culturali</strong> stabili<br />

situate nell’epoca mitica <strong>del</strong>le società “primitive” si contrappongono<br />

le prove <strong>del</strong>l’Africa australe e <strong>del</strong> Nord America (per<br />

non parlare <strong>del</strong>le prove di ininterrotte migrazioni in Oceania e<br />

Asia): spazi storici attraversati dalle migrazioni, dai movimenti e<br />

dagli spostamenti <strong>del</strong>le pretese territoriali e dei confini, tanto prima<br />

quanto dopo il “primo contatto” con gli europei. La pressione<br />

<strong>del</strong>la Confederazione degli Irochesi dalla costa orientale ai Grandi<br />

Laghi si estese alle praterie orientali, spingendo così verso ovest altre<br />

nazioni, tra cui i Sioux e i Lakota. Ottocento anni fa parte <strong>del</strong><br />

gruppo linguistico Athabasca uscì dal Canada nordoccidentale e<br />

penetrò in quelli che oggi sono gli Stati Uniti sudoccidentali; du-


30 IAIN CHAMBERS<br />

rante questo processo divennero Navaho e Apache. Nell’Africa<br />

meridionale, all’inizio <strong>del</strong> diciannovesimo secolo, ebbe luogo il<br />

movimento degli Ndebele che passarono dal Natal nello Zimbabwe<br />

meridionale (probabilmente a causa <strong>del</strong>lo schiavismo sulle<br />

coste <strong>del</strong> Mozambico), esercitando una pressione militare e territoriale<br />

sugli Shona e sui San di quella zona, prima che i coloni angloboeri<br />

usurpassero direttamente quel territorio. La terra come<br />

punto di origine mitico, come costante orizzonte <strong>del</strong>l’identità e testimonianza<br />

<strong>del</strong>la tradizione non è mai, malgrado le apparenze,<br />

senza tempo. Viene coltivata dal linguaggio e, se trasformata dal<br />

mito in un riferimento costante, non è esente da una nuova iscrizione,<br />

una nuova narrazione (Ranger 1996) 1 . Si insiste sulla natura<br />

storica <strong>del</strong>l’“arcaico”, introducendo una temporalità che turba le<br />

asserzioni occidentali unilaterali <strong>del</strong> “progresso” e <strong>del</strong>la sua storiografia,<br />

ma che, nondimeno, rimane una temporalità che registra<br />

l’entità storica e la trasformazione culturale in termini propri.<br />

È possibile che il mantenimento <strong>del</strong>la distanza temporale e<br />

culturale, sia per mezzo <strong>del</strong>la razionalità strumentale che <strong>del</strong>la<br />

sicurezza trascendentale <strong>del</strong>lo storicismo, venga messo in crisi, e<br />

non solo dalle prove storiche, ma anche dalle tracce contemporanee<br />

<strong>del</strong>l’arcaico, annunciato nel passaggio umano inciso su<br />

una parete di roccia, in una narrazione geroglifica il cui mistero<br />

e la cui magia resistono agli imperativi <strong>del</strong>la teleologia e alla trasparenza<br />

strumentale (Garlake 1995). In presenza di un altro<br />

linguaggio, e <strong>del</strong>le forme di conoscenza a esso relative, scaturisce<br />

un dinamismo insospettato che devia la netta distinzione tra<br />

l’universo verosimilmente naturale e statico <strong>del</strong> “primitivo” dal<br />

movimento culturale perenne <strong>del</strong> “moderno”. Una linearità logocentrica<br />

che insiste sul passaggio dal preistorico allo storico,<br />

dalla natura alla cultura, dall’oralità alla scrittura, si dissolve in<br />

qualcosa di meno rassicurante (Carchia 1982, p. 177). Questo<br />

perché se la scrittura penetra nell’arcaico, distruggendo tutte le<br />

illusioni di ripristinare il <strong>mondo</strong> “così com’era”, l’arcaico si ripropone<br />

per assumere altresì il ruolo di esempio contempora-<br />

1 Il medesimo autore analizza altresì la stratificazione multipla <strong>del</strong>le culture e dei poteri,<br />

che risulta nella mutabilità <strong>del</strong> paesaggio e nel passaggio storico <strong>del</strong>la prospettiva, in<br />

Ranger 1999.


QUESTIONE DI STORIA 31<br />

neo <strong>del</strong>la scrittura che tenta di rappresentarla e circo-scriverla.<br />

Il <strong>mondo</strong> “così com’era” è perduto per sempre, non resta altro<br />

che le vestigia <strong>del</strong>la rappresentazione. Ciò nondimeno, questi<br />

residui non sono oggetti morti in attesa di essere classificati e<br />

spiegati secondo una logica universale, bensì interrogativi vitali<br />

che perseguitano la mia comprensione con altre storie, con gli<br />

altri. L’arcaico, come ad esempio tenta di suggerire il cinema di<br />

Pier Paolo Pasolini, non è un mero e tranquillo ritorno a un<br />

tempo antecedente al mio, bensì è una presenza inquietante che<br />

propone una nuova configurazione <strong>del</strong> mio presente (Page<br />

1998). Scene di questo tipo non rappresentano “l’esotismo” <strong>del</strong>la<br />

modernità, quanto i suoi interrogativi, le sue interruzioni: un<br />

invito a riconcettualizzare e riconstestualizzare la modernità<br />

stessa. In Edipo Re (1967), la Grecia mitologica e il nord Africa<br />

contemporaneo sono periferie temporanee, <strong>culturali</strong>, fisiche e<br />

psichiche che Pasolini raffigura come inquietantemente vicine.<br />

D’un tratto, l’“aborigeno”, il “nativo” e il “primitivo” diventano<br />

contemporanei, fanno parte <strong>del</strong>la modernità che strutturalmente<br />

li esclude 1 . Quanto appena detto equivale ad attingere da altri<br />

ordini di senso (arcaico, mitico, inconscio, poetico), al fine di riscrivere<br />

il <strong>mondo</strong>, ambientare le storie in un ritmo differente e<br />

cercare di rendere il mondano magico (Page 1998). Insistere sull’arcaico<br />

come narrazione strategica che interroga le supposizioni,<br />

le razionalizzazioni, le repressioni e le negazioni <strong>del</strong>la modernità<br />

non significa cercare di recuperare un’innocenza perduta,<br />

quanto piuttosto proporre una ricerca critica su come narrare,<br />

come rivestire di erotico la realtà.<br />

Contro questa possibilità, la spazializzazione <strong>del</strong>la conoscenza<br />

tenta di fissare la distinzione tra centro e periferia, ovvero, la prospettiva<br />

tra soggetto e oggetto. In questo modo è possibile realizzare<br />

un piano controllato su cui la narrazione successiva può spiegarsi<br />

in una continua riaffermazione <strong>del</strong> narratore. Distanziandosi<br />

in siffatta maniera è possibile riconoscere l’altro sempre e soltanto<br />

in termini di soggetto:<br />

1 Per ulteriori osservazioni sulla rappresentazione <strong>del</strong>la componente “aborigena” <strong>del</strong>la<br />

modernità, si veda Jebb, a cura, 1996.


32 IAIN CHAMBERS<br />

Una parte <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> che sembrava interamente altro è ricondotta<br />

allo stesso attraverso l’effetto di sfalsamento che disloca la diversità<br />

per farne un’esteriorità dietro cui si può riconoscere un’interiorità,<br />

l’unica definizione <strong>del</strong>l’uomo (de Certeau 1975, p. 235, corsivo nell’originale).<br />

Narrazioni interne<br />

In questo contesto la scrittura, con la sua organizzazione <strong>del</strong>la<br />

conoscenza e <strong>del</strong>la comprensione, viene a essere ri-posizionata nel<br />

più ampio settore <strong>del</strong>le iscrizioni grafiche, in cui la cristallina logica<br />

<strong>del</strong>l’utilità mimetica, la trasmissione lineare di un “messaggio”<br />

chiaro e coerente, viene scavalcata e classificata nelle tracce, nella<br />

ricerca di stati <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> eterogenei. Il desiderio <strong>del</strong>la simmetria<br />

e <strong>del</strong>la successiva fissazione <strong>del</strong>la distanza tra il moderno e l’arcaico,<br />

tra l’osservatore occidentale e gli “oggetti” <strong>del</strong>la sua disciplina<br />

e <strong>del</strong> settore di ricerca, inaspettatamente viene ricondotto a una<br />

vicinanza condivisa. L’arcaico ritorna come presenza asimmetrica<br />

che mette in discussione il trionfo apparente <strong>del</strong> monoteismo e la<br />

separazione <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> spirituale da quello materiale, <strong>del</strong>la cultura<br />

dalla natura, <strong>del</strong> razionalismo dalle altre forme <strong>del</strong>la ragione.<br />

Proprio questo spazio, lo spazio <strong>del</strong>la non identità, ci attira altrove.<br />

Come il taglio orizzontale, la spaccatura terrestre che squarcia<br />

l’intensità monocroma di una tela di Mark Rothko, qualche “cosa”<br />

incede nella bellezza <strong>del</strong> nulla.<br />

Una prospettiva di questo tipo, non più incentrata sul soggetto,<br />

bensì inter-mondiale, potrebbe, usando le parole <strong>del</strong>l’artista<br />

indiano Anish Kapoor, “portare all’espressione (…) e quindi a<br />

dirigersi verso un’esistenza poetica” (Kapoor, citato in Bhabha<br />

1998, p. 11). Questa è l’idea di Kapoor di “narrazione interna”,<br />

di ciò che è insito nel materiale, ciò che può essere estratto da<br />

quanto è già dato, depositato e disseminato, che qui può rivelarsi<br />

stimolante, poiché il materiale è ciò che insiste e che attende una<br />

forma, è ciò che ci viene incontro e ci interroga. È ciò che, essendo<br />

inquadrato, ci invita a considerare il processo stesso di inquadramento<br />

che costituisce la prospettiva <strong>del</strong> senso, la conoscenza<br />

e l’affetto, ma che al contempo, attirando l’attenzione sull’azione<br />

d’inquadramento, accentua e riconosce i limiti di quei registri. Ci


QUESTIONE DI STORIA 33<br />

troviamo a parlare di ciò che apre l’intervallo e la tensione tra<br />

materiale terrestre e il particolare <strong>mondo</strong> e i linguaggi che incorniciano<br />

e registrano quell’intervallo, ciò che ci spinge contro il<br />

quadro che, nel divenire, rende possibile l’impossibile: è in questo<br />

che il poetico acquisisce il proprio potenziale. Per citare il titolo<br />

di un’opera <strong>del</strong>lo stesso Anish Kapoor, un disco gigantesco,<br />

rosso sangue, cavo, che pende dal soffitto, si tratta di ritrovarsi<br />

“al confine <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>”.<br />

Giungere fino a questo punto, e indagare sulle possibilità di<br />

un senso <strong>del</strong>la “verità” storica assai meno saldo, sfonda i confini<br />

esistenti <strong>del</strong>la rappresentazione istituzionale e minaccia di recidere<br />

il cordone ombelicale che tradizionalmente tiene legate le umanità<br />

al continuum di un fondamento logico storico e umanistico.<br />

L’imposizione <strong>del</strong>la storia, trasportata al di là <strong>del</strong>la concezione<br />

storicista ed empirista, è ciò che registra con maggiore precisione i<br />

limiti temporali e ontologici <strong>del</strong>l’iniziativa umanista. Esiste una costellazione<br />

congiunturale, particolarmente evidente nella terminologia<br />

<strong>del</strong>la postmodernità e <strong>del</strong> postcolonialismo, che annuncia<br />

bruscamente, quantunque sovente in maniera superficiale, questo<br />

sganciamento dalla formazione umanista. Ciò che occorre, in questo<br />

passaggio, fissare altrove non è il senso di cancellazione, bensì<br />

il senso di rielaborazione: relazioni di potere, discriminazione, disuguaglianza,<br />

sfruttamento e repressione nelle loro manifestazioni<br />

di classe, coloniali, sessiste e razziali permangono in una contestualizzazione<br />

differente ma continua <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>.<br />

L’attenzione verso gli interrogativi disseminati dalle forme inter<strong>culturali</strong><br />

che circolano nel <strong>mondo</strong>, che trattano degli scambi<br />

tra storie, tradizioni, letterature e oralità, induce a puntare i riflettori<br />

sulla collocazione mutevole <strong>del</strong>la traduzione storica e culturale.<br />

In questa zona di confine avviluppata dalle nebbie balugina la<br />

possibilità di una conoscenza di frontiera. Questa conoscenza<br />

evoca una concezione geopolitica <strong>del</strong>la posizione, nonché, e in<br />

maniera più immediata, una trasformazione nella relazione con le<br />

discipline esistenti e le figure istituzionalizzate <strong>del</strong>la comprensione.<br />

Ecco che si insinua un linguaggio critico che ricava la propria<br />

etica dalle esperienze, dalle pratiche e dalle proposte <strong>del</strong> subalterno.<br />

Può essere questa la conoscenza <strong>del</strong>l’“altro” (non si tratta di<br />

un accademico ventriloquio che parla a nome <strong>del</strong> subalterno, riconfermando<br />

così le egemonie già esistenti), ma un’“altra” cono-


34 IAIN CHAMBERS<br />

scenza che irrita, turba e alla fine sovverte la precedente disposizione<br />

<strong>del</strong>la conoscenza e <strong>del</strong> potere (Saldívar 1997). Ciò significa<br />

fare ritorno alla voce <strong>del</strong>l’Occidente, assuefatta al riconoscimento<br />

universale, alla sua posizione repressa e profondamente disturbata<br />

nella storia.<br />

Posizioni<br />

Giunti a questo punto, è possibile traslare questo “ritorno” in<br />

una sintassi più immediata osservando, per esempio, chi e che cosa<br />

sia un intellettuale postcoloniale? Pur riconoscendo e prendendo<br />

atto <strong>del</strong>l’impossibilità di fornire una risposta chiara e lampante<br />

a questa domanda, nondimeno è possibile osservare lo spazio,<br />

nonché i successivi luoghi in cui si <strong>del</strong>inea il predetto quesito.<br />

Questo particolare spazio è certamente istituzionale, ma è anche<br />

significativamente storico, geopolitico e ontologico. Personalmente,<br />

chi scrive è interessato a riconoscere in queste coordinate una<br />

precisa posizionalità che modula la sua successiva risposta alla domanda<br />

fatta dal “postcoloniale”. Pertanto, i commenti riportati<br />

qui di seguito non vogliono parlare in nome <strong>del</strong>lo spazio o <strong>del</strong>l’astrazione<br />

teorica, bensì in termini di una particolare posizione in<br />

cui il discorso nominato dal postcoloniale viene pronunciato e<br />

rappresentato.<br />

Nei meandri e nelle sottigliezze <strong>del</strong> dibattito, il postcoloniale,<br />

in quanto voce critica, lessico intellettuale e pratica istituzionale, è<br />

certamente anche indice, sintomo di modificazione storica. Chiaramente<br />

non si tratta di alterazione omogenea, né nella sua presenza,<br />

né nei suoi effetti. Come termine che <strong>del</strong>iberatamente tenta<br />

di ricontestualizzare il corpus <strong>del</strong>la conoscenza e <strong>del</strong>le comprensioni<br />

anteriori (quel “post”, infatti, non è un segnale cronologico<br />

puro e semplice, bensì è anche di natura epistemologica), il “postcoloniale”<br />

fa appello a un incontro storico e teorico in cui a tutti è<br />

posto l’invito a ri-vedere e ri-considerare le proprie posizioni terrene<br />

e differenziate nell’articolazione e nella gestione <strong>del</strong> giudizio<br />

storico e <strong>del</strong>le definizioni <strong>culturali</strong>. Ecco che il postcoloniale si<br />

presenta come spazio teorico e politico che consente di scavare a<br />

fondo nella conoscenza occidentale, intesa sia come disposizione<br />

di discipline che come specifica disposizione storica <strong>del</strong>la verità.


QUESTIONE DI STORIA 35<br />

Se il postcoloniale si pone in stretta relazione con una rivisitazione<br />

critica <strong>del</strong>le precise storie e <strong>del</strong>la scomparsa <strong>del</strong> colonialismo,<br />

in particolare la sua narrazione subalterna, repressa e sovversiva,<br />

esso propone altresì, implicitamente, una critica fondamentale<br />

<strong>del</strong>le istituzioni, dei linguaggi e <strong>del</strong>le discipline che storicamente<br />

hanno organizzato, definito e spiegato il “coloniale”, ovverosia<br />

la conoscenza, scientifica quanto umanistica, avviluppata<br />

nella “storia” che la modernità occidentale ha raccontato a se<br />

stessa. Si tratta <strong>del</strong>la storia che ha mo<strong>del</strong>lato la mia “casa”, consentendomi<br />

di parlare, ed è a partire da quella storia che tento di<br />

rispondere e acquisire responsabilità.<br />

Essendo io nato (per quanto l’insistenza di Heidegger sullo stato<br />

involontario <strong>del</strong>l’essere “gettato” nel <strong>mondo</strong> sia forse più consona<br />

a un senso storico <strong>del</strong>l’essere sfumato) nel cuore <strong>del</strong>la “terra<br />

verde e piacevole” di Blake 1 , in me il postcoloniale ispira una duplice<br />

sensazione, perché esso sposta questioni apparentemente<br />

marginali, ancorate all’inamovibile tempo <strong>del</strong>la schiavitù, <strong>del</strong>la<br />

conquista coloniale, <strong>del</strong>l’imperialismo e <strong>del</strong> razionalismo <strong>del</strong> razzismo,<br />

verso la costituzione <strong>del</strong> meridiano, mentre al contempo riposiziona<br />

quel centro su un’altra carta geografica assai meno provinciale.<br />

La questione <strong>del</strong>l’“altro” (l’ex schiavo, la minoranza, i diseredati,<br />

gli emigranti) assume il ruolo di controversia <strong>del</strong>la formazione<br />

storica <strong>del</strong> mio “sé”. Il passato scivola dalle flebili lusinghe<br />

di un silenzioso ripostiglio a un insistente interrogativo <strong>del</strong> presente.<br />

Sebbene questo riposizionamento radicale non possa affatto garantire<br />

l’assenza <strong>del</strong> narcisismo intellettuale (sia gli europei bianchi<br />

che quelli <strong>del</strong> “Terzo” <strong>mondo</strong> lucrano sulla ri-proposizione di se<br />

stessi e <strong>del</strong> loro patrimonio culturale sotto i riflettori <strong>del</strong>la nuova<br />

luce critica), se perseguito con insistenza porta a conseguenze irreversibili<br />

per la comprensione storica e culturale.<br />

Il postcoloniale effettua un’incisione nel corpus esistente <strong>del</strong>la<br />

conoscenza, e più precisamente nel sapere umanistico; pertanto,<br />

impone altresì un’interruzione nell’apparente ineluttabilità <strong>del</strong><br />

“progresso” storico. Alla teleologia <strong>del</strong> tempo storico <strong>del</strong>la modernità,<br />

al dispiegarsi lineare <strong>del</strong>lo sviluppo e alla sostituzione <strong>del</strong><br />

1 Espressione tratta dalla poesia di William Blake intitolata Milton, pubblicata originariamente<br />

nel 1804 (N.d.T.).


36 IAIN CHAMBERS<br />

primitivo con la perfezione <strong>del</strong> futuro si sostituisce una spirale di<br />

ritorni trasversali che innestano il passato nel presente, l’arcaico<br />

nell’avanguardia. In questa interruzione inattesa, la narrazione<br />

storica non è semplicemente costretta ad amplificare le proprie<br />

conoscenze, bensì le viene richiesto anche di riconsiderare la propria<br />

struttura, i propri stimoli e i propri desideri.<br />

Ciò equivale a spezzare la linearità <strong>del</strong>la spiegazione e riportare<br />

la modernità alla fase iniziale che aveva segnato l’inizio di uno scenario<br />

mondiale, nel Quattrocento. Ritornare alla violenta appropriazione,<br />

colonizzazione, imperializzazione europea e alla successiva<br />

ibridazione <strong>del</strong> resto <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> vorrebbe dire invertire le tendenze<br />

critiche prevalenti che vedono nella globalizzazione semplicemente<br />

la più recente (nonché ineluttabile) manifestazione <strong>del</strong>la<br />

precedente storia economica. Vorrebbe dire che la globalizzazione<br />

non riguarda solo l’accaparramento <strong>del</strong> potere <strong>del</strong>le multinazionali<br />

e <strong>del</strong> capitale, ma anche, e in maniera più significativa, la più estesa<br />

cartografia ontologica che trasformi il <strong>mondo</strong> in identità e interesse<br />

occidentale in ogni ramo <strong>del</strong>l’attività storica. È questa particolare<br />

struttura storica che si tradisce nel presunto universalismo<br />

<strong>del</strong> suo umanesimo e <strong>del</strong>le tecnologie <strong>del</strong> sé. In questa prospettiva,<br />

la dimensione postcoloniale è forse più facile da comprendere come<br />

luogo sovradeterminato in cui sia chi era colonizzatore che chi<br />

era colonizzato è stato colonizzato fisicamente e psichicamente.<br />

Qui forse è necessario congedare la “storia” stessa per uscire dagli<br />

schemi che ognuno di noi ha ricevuto in eredità e quindi per ritagliarsi<br />

lo spazio necessario a riacquistare la possibilità di muoversi<br />

(McLean 1998).<br />

La storia non è solo parziale, è anche partigiana. Riconoscere e<br />

registrare il tempo e lo spazio, la voce, il corpo, l’intento cosciente<br />

e inconscio, significa essere più, non meno, storico. Raccontare<br />

il passato con questa disposizione più flessibile può richiedere di<br />

leggere meno “storia” e di ascoltare più musica, di dedicarsi ai romanzi<br />

anziché alla statistica, al fine di de-centrare la comprensione<br />

“realista” (e le sue fondamenta epistemologiche nella presunta<br />

trasparenza <strong>del</strong> linguaggio e <strong>del</strong>la ragione) cui fanno appello numerose<br />

storie. Qui la spirale <strong>del</strong> linguaggio (in quanto testimonianza,<br />

evocazione e letteratura) interrompe la linearità che divora<br />

il tempo in nome <strong>del</strong> progresso. Qui la storia ritorna non in veste<br />

di “fatto”, bensì di sopravvivenza. Questo ricorso storico apre


QUESTIONE DI STORIA 37<br />

alla tensione tra la storia e la narrativa, tra la scrittura e l’oralità o,<br />

per dirla con Michel de Certeau, tra l’oggettivo e l’immaginario,<br />

tra il positivismo e la poetica. È la trasgressione di questa frontiera<br />

che sottolinea i limiti <strong>del</strong>l’oggettivo e <strong>del</strong>le strutture che oggettivano.<br />

Qui emerge la controforza di “atlanti eclettici”, in cui ciò<br />

che sfugge allo sguardo oggettivante e alla sua struttura classificatoria<br />

<strong>del</strong>la visione diviene un sito produttivo di comprensione 1 .<br />

Più in là, emerge l’autorità astratta <strong>del</strong>l’io razionalizzante che differenzia<br />

e rivela le biografie individuali e collettive di ciò che è e<br />

diviene nel <strong>mondo</strong>.<br />

Insistendo sui limiti <strong>del</strong>la rappresentazione storica, il mio<br />

obiettivo non è soltanto di attirare l’attenzione su una pluralità<br />

potenziale e sull’eterogeneità dei “punti di vista”, bensì quello di<br />

stabilire i termini ontologici più radicali <strong>del</strong> non visto e <strong>del</strong> non<br />

visibile, di ciò che permane in un particolare spazio e tempo al di<br />

fuori <strong>del</strong>l’ambito <strong>del</strong> riconoscimento e <strong>del</strong>la rappresentazione istituzionali:<br />

di ciò che rimane come punto di interruzione, come limite,<br />

dimensione sconosciuta e interrogativo potenziale. Non<br />

rientra in questi confini che il postcoloniale si manifesti come<br />

problematica che interessa contemporaneamente i passati colonizzatori<br />

e colonizzati. Come perturbazione critica la cui eco risuona<br />

in vari luoghi, fornisce un senso di connessione e distinzione<br />

contemporanee. Suggerendo legami tra mondi precedentemente<br />

separati da una distanza intellettuale, storica, politica e fisica,<br />

l’affermazione postcoloniale rende contemporaneamente immediati<br />

l’ineffabile e l’incommensurabile: ciò che in precedenza<br />

era stato represso, estromesso dall’equazione, o più semplicemente<br />

passato sotto silenzio.<br />

Certamente il concetto <strong>del</strong> postcoloniale è stato coniato a<br />

vantaggio <strong>del</strong>l’Occidente. Qui, verosimilmente, stanno la sua genesi,<br />

il suo credito istituzionale e il suo apparente beneficio, come<br />

affermano molti dei suoi critici. Tuttavia, nell’idea <strong>del</strong> beneficio<br />

è implicito anche il significato di profitto diretto, nonché il<br />

guadagno più ambiguo che emerge da un tipo di comprensione<br />

1 Mi sono appropriato dei concetti di mappe eclettiche dall’architetto Stefano Boeri.<br />

Queste mappe tentano di suggerire una visuale obliqua che rivela che la geometria bidimensionale<br />

(e la sua successiva estensione nella grafica tridimensionale al computer) non<br />

è in grado di “vedere”.


38 IAIN CHAMBERS<br />

che non termina necessariamente acquisendo autoconferma.<br />

Laddove detta autoconferma comincia a vacillare e perdono<br />

consistenza le premesse soggiacenti <strong>del</strong>l’egocentrismo, quello è<br />

esattamente il punto in cui non è più possibile spostare o evitare<br />

la tenacia <strong>del</strong>l’alterità.<br />

In relazione alla diversità e all’alterità, inevitabilmente proiettate<br />

e prodotte dal soggetto che distingue se stesso/a dall’altro/a,<br />

inaspettatamente mi scontro anche con l’inquietante corpo <strong>del</strong><br />

cyborg: l’hardware e il software tecnologici che sovente ci estraniano<br />

da noi stessi. Questa divagazione tecnologica apre effettivamente<br />

un sentiero nella formazione storica <strong>del</strong>la conoscenza e<br />

<strong>del</strong>la cultura, qui orbitanti attorno alle pratiche <strong>del</strong>la “scienza”,<br />

che porta altresì alla complessiva dislocazione <strong>del</strong>l’épisteme occidentale<br />

nello stesso campo di forza emesso dal postcoloniale. Sia<br />

per il colonizzato che per il cyborg, sono inquietanti sintomi <strong>del</strong>la<br />

metafisica <strong>del</strong>la modernità. Qual è esattamente la relazione,<br />

per non parlare <strong>del</strong>la prossimità, tra il corpo di chi in passato (e<br />

talvolta ancora oggi) è stato colonizzato e il cyborg? Entrambi<br />

sono corpi costruiti e gestiti da poteri che li hanno resi oggetti di<br />

studio e di ricerca, ma anche, e contemporaneamente, oggetti di<br />

controllo, sfruttamento e disciplina. Entrambi nascono apparentemente<br />

dal nulla: il corpo colonizzato da una storia e un luogo<br />

negati, il cyborg dall’inanimato, dal non umano. Nondimeno,<br />

questi corpi hanno acquisito anche la facoltà di rispondere, e di<br />

rispondere nei linguaggi che in precedenza li relegavano a posizioni<br />

subordinate. L’oggetto si rivela come soggetto storico. I<br />

miei linguaggi fanno ritorno nel corpo <strong>del</strong>l’altro, rendendo il mio<br />

senso di identità irritante, vulnerabile, aperto agli interrogativi<br />

che giungono da altrove. Sono costretto a rispondere. Inoltre,<br />

nominare la relazione tra il corpo colonizzato e il corpo integralmente<br />

costruito e colonizzato dalla tecnologia, ovvero il cyborg,<br />

vuole dire altresì introdurre il concetto <strong>del</strong> sublime, di ciò che mi<br />

attira e al contempo mi minaccia: in questo particolare caso, si<br />

tratta <strong>del</strong> sublime razziale e tecnologico, cioè un desiderio, pur<br />

negato, che fa parte <strong>del</strong>la mia stessa identità.<br />

Questo inquietante incontro con l’alterità, sia sotto forma di<br />

corpo extraeuropeo storico e culturale che sotto forma di corpo<br />

non naturale, la macchina e le relative tecnologie, ha sempre accompagnato<br />

lo sviluppo <strong>del</strong>la modernità occidentale e i concetti


QUESTIONE DI STORIA 39<br />

<strong>del</strong> sé. Storicamente, e non solo in Occidente, la costruzione<br />

<strong>del</strong>l’“io”, in quanto individuo sessuale, etnico, storico, culturale e<br />

nazionalizzato, è avvenuta attraverso la presenza, sia reale che immaginata,<br />

di un altro, che ha immancabilmente vestito i panni<br />

alieni <strong>del</strong>la mostruosità. L’indebolimento di questa relazione, il rifiuto<br />

<strong>del</strong>l’altro di rispecchiare me e le mie ossessioni, conduce a<br />

una crisi nel senso precedente <strong>del</strong> mio sé. La vicinanza <strong>del</strong>l’altro a<br />

me, raggiunta per mezzo <strong>del</strong>le forze economiche e politiche <strong>del</strong>la<br />

modernità e <strong>del</strong>l’annullamento <strong>del</strong>le distanze a opera <strong>del</strong>la tecnologia<br />

(dalla nave a vela all’aeroplano alla tecnologia digitale e alla<br />

robotica), apre alla critica e al criticismo quella precedente disposizione<br />

culturale, con il suo fermo senso di distanza razziale, sessuale,<br />

geopolitica e strumentale e la conseguente assicurazione di<br />

un’identità separata.<br />

Tuttavia, intendo altresì proporre qualcosa che sfugge, o forse<br />

si libera, dal semplice dualismo, dalla dicotomia tra centro e periferia,<br />

tra egemonia e subalternità, tra me e l’altro. Le osservazioni<br />

sulle differenze etniche, storiche e <strong>culturali</strong> che compongono e interrogano<br />

il <strong>mondo</strong> d’oggi avvengono in un contesto caratterizzato<br />

da un mutamento perenne. È un contesto in cui le supposizioni<br />

<strong>del</strong>la stabilità apparentemente antropologica <strong>del</strong>l’identità etnica<br />

e razziale, <strong>del</strong>l’identità <strong>del</strong> sesso, <strong>del</strong>l’identità <strong>del</strong>l’umano stesso,<br />

vengono viste e vissute in maniera assai meno sicura. Come ha<br />

ripetuto con vigore Frantz Fanon (1991, p. 202) – “Non sono prigioniero<br />

<strong>del</strong>la Storia. Non devo cercarvi il senso <strong>del</strong> mio destino”<br />

– si tratta di indebolire, persino sconfessare queste ancore <strong>del</strong>l’identità<br />

nel passaggio critico oltre i confini <strong>del</strong>le strutture egemoniche<br />

<strong>del</strong> potere/sapere occidentale e <strong>del</strong>l’affermazione automatica<br />

<strong>del</strong>le lotte storiche che vi si contrappongono. Ecco che l’identità,<br />

da sereno porto d’arrivo, diviene il punto di partenza per un<br />

viaggio privo di garanzie 1 .<br />

Avventurarsi al di là <strong>del</strong>l’assolutismo <strong>del</strong>l’identità (tutti sappiamo<br />

chi siamo, non è vero?) vuol dire varcare una serie di frontiere,<br />

le più ovvie <strong>del</strong>le quali sono quelle <strong>del</strong>l’Illuminismo e <strong>del</strong>l’Umanesimo<br />

europeo, e penetrare in un’etnografia in cui l’“uomo”<br />

1 Questo punto viene espresso nella maniera più eloquente nelle pagine conclusive di<br />

Said 1994.


40 IAIN CHAMBERS<br />

<strong>del</strong>la conoscenza, lo scienziato, il soggetto, diventano l’oggetto di<br />

un discorso, di una storia, di un <strong>mondo</strong>, di uno spazio ontologico<br />

che si interroga ed è interrogato. È implicito l’abbandono di un<br />

senso <strong>del</strong> sé fisso che, nella sua pretesa universalità, espone un<br />

punto di vista unilaterale. Come rileva Rey Chow, un siffatto umanesimo<br />

ha storicamente e ontologicamente una propria specificità<br />

razziale e geopolitica e, come hanno ribadito alcuni, ha trovato la<br />

sua completa realizzazione nella razionalizzazione <strong>del</strong> terrore e<br />

<strong>del</strong> genocidio programmatico <strong>del</strong>l’altro (Chow 1998). Dobbiamo<br />

allora procedere criticando tanto questi assolutismi quanto le loro<br />

controparti? Che succede alla presunta autonomia di una “diversità”<br />

assoluta, allorché essa finalmente si trova ad affrontare “la fine<br />

<strong>del</strong>l’innocente concetto <strong>del</strong> soggetto nero essenziale”, già annunciata<br />

nel 1988 da Stuart Hall? Qui l’idea di razza, di identità,<br />

persino l’idea di umano e <strong>del</strong> corpo come fondamento <strong>del</strong>la verità<br />

vengono messe a confronto per consentire la fuga dalla camicia di<br />

forza di un particolare “tempo” storico, verso una maniera diversa<br />

di essere nel tempo.<br />

Tornare all’osservazione dei poteri scritti sul corpo – costruito<br />

conformemente alle leggi e alle logiche razziali, sessuali, scientifiche<br />

e tecnologiche – ci spinge a ripensare questi meccanismi non<br />

come strutture astratte, bensì come formazioni <strong>culturali</strong>, come<br />

contestualizzazioni storiche, come iscrizioni sociali e psichiche.<br />

Oggi la costellazione storica che rivela una siffatta situazione viene<br />

apparentemente inquadrata dai processi differenziati <strong>del</strong>la globalizzazione.<br />

Eppure la globalizzazione, la tendenza a trattare la<br />

storia, la cultura e, soprattutto, l’economia politica come sistema<br />

mondiale, ha inizio con la modernità stessa. La possibilità di ricondurre<br />

il <strong>mondo</strong> a un punto di vista solo e unico, e da lì gestirne<br />

l’economia, la politica, la storia e la cultura è stata, se non creata,<br />

quantomeno vittoriosamente impiantata dalla modernità occidentale.<br />

La prospettiva quattrocentesca <strong>del</strong> Rinascimento, in cui<br />

ogni oggetto viene distribuito nello spazio e regolato dallo sguardo<br />

<strong>del</strong> soggetto che osserva, artista o scienziato, è ciò che dà il via<br />

a questa immagine <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>. Ed è qui che oggi incontro l’ineluttabile<br />

dis-locazione e il de-centramento di questi poteri e linguaggi,<br />

nel fatto che gli “oggetti” <strong>del</strong> mio sguardo rispondono.<br />

Quando le mie costruzioni, le estensioni <strong>del</strong> mio <strong>mondo</strong> si rivelano<br />

indipendenti ed esprimono le proprie storie, i propri desideri,


QUESTIONE DI STORIA 41<br />

le proprie logiche nel mio linguaggio, ecco che vengo trascinato<br />

oltre gli schemi (e i poteri) di quella precedente immagine <strong>del</strong><br />

<strong>mondo</strong>. Qui, ai limiti <strong>del</strong>l’Umanesimo occidentale, mi viene chiesto<br />

di considerare la mia “casa” non più come una struttura fissa,<br />

con radici che affondano saldamente nelle premesse epistemiche<br />

basate sulla lealtà logica e sulle istituzioni <strong>del</strong>la tradizione nazionale,<br />

bensì come un transito contingente, una via che, letteralmente,<br />

mi conduce altrove. A questo punto, essere post-umanista<br />

non significa rinunciare all’umano: al contrario, annuncia qualcosa<br />

che è più umano precisamente attraverso il suo tentativo di<br />

uscire dagli astratti confini e controlli di un soggetto universale<br />

che crede che tutto abbia inizio e fine in se stesso.<br />

Accettare l’idea <strong>del</strong> post-umanesimo vuol dire registrare dei limiti,<br />

iscritti a livello locale <strong>del</strong> corpo, <strong>del</strong>la storia, <strong>del</strong> potere e <strong>del</strong>la<br />

conoscenza che parla. Proprio qui, entro questi precisi confini<br />

storici, mi trovo a dialogare nella vicinanza <strong>del</strong>l’altro che rifiuta di<br />

essere “altro” rispetto a me, ossia, rifiuta di mantenere le distanze,<br />

come oggetto dipendente dei miei desideri e <strong>del</strong> mio potere.<br />

Donna Haraway (1991) suggerisce che proprio negli estremi <strong>del</strong><br />

cyborg, in questa cifra priva di storia, io vengo invitato nel modo<br />

più duro a contemplare questa possibilità. Nella commistione e<br />

contaminazione <strong>del</strong>l’umano e <strong>del</strong>la macchina, nell’estensione simultanea<br />

di me stesso e <strong>del</strong>la mia agognata separazione dallo stratagemma<br />

strumentale, nel misto di organico e inorganico, la mia autonomia<br />

soggettiva, mentale e fisica viene messa in discussione. Mi<br />

viene rivolto l’invito a entrare in quel passaggio tra pericolo e salvezza,<br />

per citare la nota definizione di Heidegger <strong>del</strong>la tecnologia,<br />

per pensare e procedere in maniera diversa.<br />

Ma allora, qual è il senso di questo momento storico e globale,<br />

allorché gli oggetti <strong>del</strong> mio sguardo, <strong>del</strong> mio linguaggio, chiedono<br />

maggiore… riconoscimento, attenzione, giustizia, libertà, e mi<br />

gettano in uno stato in cui sono chiamato a riflettere sui limiti, sui<br />

miei limiti, sui limiti di una visione che si credeva capace di afferrare<br />

e comprendere ogni cosa? E quindi, come posso acquisire un<br />

senso e una direzione da questa interruzione che mi offre una<br />

prospettiva che si spinge al di là di me? Questo tipo di interrogativo<br />

può servire, soprattutto, a sciogliere il nodo tradizionale che<br />

ha legato indissolubilmente sangue e terra nelle disquisizioni sull’identità.<br />

L’annuncio <strong>del</strong>l’altro manda in mille pezzi la presunta


42 IAIN CHAMBERS<br />

omogeneità di me come individuo e <strong>del</strong>l’identità collettiva. Se il<br />

corpo alienato <strong>del</strong> colonizzato e <strong>del</strong> cyborg è stato parte integrante<br />

<strong>del</strong>la realizzazione <strong>del</strong> mio <strong>mondo</strong>, <strong>del</strong>la mia modernità –<br />

com’è quasi certamente il caso – allora devo necessariamente riconoscere<br />

l’eterogeneità come parte integrante di quella storia, di<br />

quella formazione culturale e <strong>del</strong>la costruzione <strong>del</strong>la mia identità.<br />

In tal modo, come asserisce giustamente Julia Kristeva (1988),<br />

l’estraneo mi trasforma in un estraneo, rendendo la mia storia, il<br />

mio linguaggio, la formazione di me ignota, inquietante. In questa<br />

battuta d’arresto, in questa scissione e intervallo (sovente doloroso<br />

e difficile da accettare, segnatamente per coloro che hanno<br />

sempre vissuto la storia come riflesso di se stessi), mi ritrovo in<br />

viaggio senza la possibilità di colmare il vuoto, costretto a vivere<br />

la mia storia come apertura etica. Ciò potrebbe voler dire non limitarsi<br />

a “usare” e “sfruttare” l’esempio postcoloniale a beneficio<br />

istituzionale e individuale, bensì accettarlo come un invito a ripensare<br />

le premesse stesse <strong>del</strong>lo “storico”, e quindi le conseguenze<br />

<strong>culturali</strong>, politiche, psichiche e poetiche che derivano dallo<br />

smuovere, scavare e coltivare il terreno su cui poggio i piedi.<br />

Il sublime <strong>del</strong>la modernità<br />

In questa sfida alla verità razionalista e al soggetto universale è<br />

insita la sfida alla modernità occidentale. Tuttavia, prima ancora<br />

<strong>del</strong> discorso contemporaneo sulla postmodernità e sulla postcolonialità,<br />

questa particolare sfida ha già affondato profondamente le<br />

radici nell’arte e nella letteratura occidentali, più precisamente<br />

nei tentativi settecenteschi di limitare l’eccesso sentimentale ed<br />

emotivo proposto dal sublime. In questo senso, la Critica <strong>del</strong> giudizio<br />

di Kant <strong>del</strong> 1790 analizza la relazione tra l’immaginazione e<br />

la ragione, e giunge alla conclusione che la prima debba essere subordinata<br />

alla seconda. In una rielaborazione razionalista <strong>del</strong>l’indagine<br />

svolta più in termini fisiologici da Edmund Burke in Inchiesta<br />

sul bello e sul sublime, <strong>del</strong> 1757, il sublime viene considerato<br />

esclusivamente un prodotto <strong>del</strong>la mente, un costrutto mentale;<br />

il piacere è dato dall’afferrarne l’enormità, invece che dall’avere<br />

a che fare con un oggetto particolare, come nel caso <strong>del</strong> bello.<br />

Per questa ragione, la Natura e i suoi oggetti non possono essere


QUESTIONE DI STORIA 43<br />

sublimi: possono soltanto essere belli. Il sublime è una sensazione,<br />

risiede nella mente, e rappresenta l’inadeguatezza <strong>del</strong>l’immaginazione<br />

di afferrare la portata di ciò che si contempla. L’immaginazione<br />

viene superata dalla ragione. In The Feminine Sublime,<br />

Barbara Freeman (1995, p. 71) fornisce un commento critico:<br />

La funzione <strong>del</strong>la ragione è di comprendere una totalità che l’immaginazione<br />

da sola non può rappresentare, e quindi scoprire una superiorità<br />

sulla natura che altrimenti la mente non riuscirebbe a raggiungere.<br />

Il bello e il sublime non possono sfidare o sminuire il potere<br />

<strong>del</strong>la ragione, ma soltanto riaffermare la sua portata in ogni angolo<br />

<strong>del</strong>l’universo. Il soggetto estende il proprio influsso, immune<br />

da dubbi, domande e ambiguità che vengono registrati soltanto<br />

per essere “risolti” nell’unità razionale <strong>del</strong>lo scopo e <strong>del</strong> progresso<br />

di una totalità di generazioni che si estende verso l’infinito.<br />

Tutto, compresa la “più selvaggia e sregolata confusione e devastazione”,<br />

rientra nell’ambito <strong>del</strong>la ragione:<br />

poiché il vero sublime non può essere contenuto in alcuna forma<br />

sensibile, ma riguarda solo le idee <strong>del</strong>la ragione, le quali, sebbene<br />

nessuna esibizione possa essere loro adeguata, anzi appunto per tale<br />

sproporzione che si può esibire sensibilmente, sono svegliate ed evocate<br />

nell’animo nostro (Kant 1790, p. 93).<br />

Come afferma Barbara Freeman proseguendo, Frankenstein<br />

di Mary Shelley è la realizzazione, o forse la messa in scena, <strong>del</strong>lo<br />

scenario kantiano. Kant, come Victor Frankenstein, ritiene<br />

che la ragione possa svelare e ricondurre ogni cosa nel diapason<br />

<strong>del</strong> soggetto pensante. Tutto può essere rappresentato e reso cristallino<br />

dalla ragione. La conoscenza non si acquisisce per caso,<br />

ma si conquista, acquisisce e reclama. Victor Frankenstein “fornisce<br />

un ritratto di Kant, ovvero lo specchio <strong>del</strong> desiderio metafisico”<br />

(Freeman 1995, p. 87). Per Kant il sublime deve sempre<br />

operare entro limiti determinati dalla ragione e dalla sua autorità<br />

morale, altrimenti diviene, come egli stesso afferma, “mostruoso”.<br />

La mostruosità è ciò che interferisce col progetto <strong>del</strong>la<br />

ragione, valicandone i confini teorici e usurpandone gli imperativi<br />

razionali. Per dirla con Corpi che contano di Judith Butler


44 IAIN CHAMBERS<br />

(1993), il sublime è ciò che registra nella maniera più diretta il<br />

movimento <strong>del</strong> confine stesso.<br />

Al cospetto <strong>del</strong>la purezza <strong>del</strong>la ragione, i corpi, la carne fisica,<br />

il sangue e le ossa, differenziati per sesso, genere, razza, età e mortalità,<br />

recano testimonianza <strong>del</strong>la tremenda confusione dei confini,<br />

di un’inquietante imprecisione e <strong>del</strong> potenziale sovvertimento<br />

<strong>del</strong>la coerenza maschile da parte di sregolati eccessi femminili. In<br />

questo contesto un corpo senza confini, in cui l’interno e l’esterno,<br />

il fisso e il fluido, vengono confusi, trasfigurati, viene annunciato<br />

nella maniera più significativa nella gestazione <strong>del</strong> corpo<br />

materno: da donna a mostro, il passo è breve. Negli abissi <strong>del</strong>l’indefinito,<br />

in cui l’orrore <strong>del</strong>l’abietto sovverte il controllo canonico,<br />

la razionalità viene resa drammaticamente responsabile per ciò<br />

che tenta di reprimere e distanziare. La misoginia e il razzismo<br />

<strong>del</strong>la ragione vengono costretti a riconoscerne le pretese universali.<br />

Come conclude, suggestivamente, la Freeman, a questo punto<br />

il sublime e la mostruosità, l’alterità e la natura ibrida, divengono<br />

elementi di una teoria, invece che ciò che la teoria si sforza di<br />

escludere e negare.<br />

Il quadro di J. M. W. Turner Slavers Throwing Overboard the<br />

Dead and Dying: Typhoon Coming On (Negrieri che gettano a mare<br />

morti e moribondi: tifone che incombe, meglio noto come Nave<br />

negriera) venne esposto in pubblico per la prima volta a Londra<br />

nel 1840. Una nave a vela viene sballottata dalle onde selvagge di<br />

una imminente tempesta. Tra le onde, si intravedono pesci e<br />

gabbiani stridenti. Nell’angolo in basso a destra, una gamba nera<br />

incatenata sta per sprofondare per sempre negli abissi. Questo<br />

quadro di Turner conduce al centro di un discorso estetico una<br />

manifestazione complessa <strong>del</strong> sublime spaventoso, condensato in<br />

un segnale storico e sociale: la schiavitù, un’istituzione che era<br />

stata abolita appena sette anni prima nell’Impero Britannico, e<br />

che era ancora in vigore in altre parti <strong>del</strong>la regione atlantica. Ecco<br />

che l’oggetto <strong>del</strong>la ragione, lo sguardo disinteressato che contempla<br />

la bellezza, assume una connotazione doppiamente inquietante,<br />

perché si riscontrano sia l’inquietudine <strong>del</strong> sublime,<br />

dei sentimenti portati all’eccesso e <strong>del</strong>la passione irrazionale, che<br />

l’inquietudine di affrontare il represso: la repressione <strong>del</strong>la<br />

schiavitù, i cui proventi indiretti <strong>del</strong>le piantagioni di zucchero,<br />

cotone e caffè finanziavano il <strong>mondo</strong> produttivo e la società che


QUESTIONE DI STORIA 45<br />

patrocinava la mostra, la galleria d’arte e perfino l’acquisto <strong>del</strong>l’opera<br />

di Turner.<br />

Non si vuole con questo gettare la croce sull’opera, bensì coglierne<br />

l’ambiguità (chiaramente Turner non ritrasse una simile<br />

scena per sostenere la causa <strong>del</strong>la schiavitù) e afferrare in quella<br />

ambiguità modi diversi di interpretare e rispondere all’opera e,<br />

con essa, alla modernità occidentale.<br />

Il primo proprietario <strong>del</strong> dipinto fu il critico d’arte John Ruskin,<br />

che lo ricevette in dono dal padre. Nel suo libro Pittori Moderni<br />

(1843), Ruskin esamina il dipinto solo relativamente al modo in cui<br />

l’acqua debba essere dipinta, suggerendo che quello fosse “il più<br />

nobile mare” (p. 480) mai dipinto da Turner e da un pittore. Il fatto<br />

che “la nave colpevole” (ib.) trasportasse schiavi e che gettasse<br />

gli schiavi fuori bordo viene relegato a una noticina a piè di pagina.<br />

Ovviamente è possibile commentare il quadro per quanto concerne<br />

la realizzazione <strong>del</strong>l’acqua, ma in questo caso l’omissione, per mezzo<br />

<strong>del</strong>la quale la schiavitù esce di soppiatto dal quadro, è forse anche<br />

emblematica. Vent’anni più tardi, Ruskin vendette il quadro. Si<br />

disse che per lui il soggetto fosse troppo doloroso da contemplare.<br />

Tuttavia, ciò che aveva trovato troppo doloroso da contemplare<br />

non poteva interferire col suo giudizio estetico (Gilroy 1993c).<br />

Ciò cui intendo brevemente accennare in questa sede, riferendomi<br />

al commento sulla questione <strong>del</strong> critico britannico Paul Gilroy,<br />

è che, al contrario, potrebbe essere oltremodo illuminante interrompere<br />

un giudizio estetico con un giudizio etico, o persino<br />

mescolare e congiungere i due giudizi. Si giungerebbe alla massima<br />

di Wittgenstein, secondo cui l’etica e l’estetica si sovrappongono.<br />

Tuttavia, ed è questo che ci dice Gilroy (e che propone il<br />

romanticismo tedesco nella sua critica alla subordinazione kantiana<br />

<strong>del</strong> sublime alla ragione), qualora li abbinassimo, apriremmo la<br />

porta non soltanto a una maniera nuova di vedere il quadro, ma<br />

anche alla modernità stessa.<br />

Ricollocare la schiavitù nella cornice, riprendere quei corpi neri<br />

abbandonati e riportarli nel quadro, non significa soltanto affrontare<br />

i limiti <strong>del</strong>la ragione e di un’estetica riluttante a contemplare<br />

l’altra faccia <strong>del</strong>la rappresentazione. Riportare questi corpi<br />

nel quadro significa altresì segnare i limiti di questa ragione e <strong>del</strong>le<br />

sue narrazioni politiche e <strong>culturali</strong>, e suggerire che esistano altre<br />

storie, altre modernità da raccontare.


46 IAIN CHAMBERS<br />

La tematica <strong>del</strong>l’arte, <strong>del</strong> bello e <strong>del</strong> sublime si rivela quindi<br />

assai più di un dibattito provinciale limitato al settore <strong>del</strong>l’estetica<br />

e all’autorità <strong>del</strong>l’Illuminismo. Vuol dire restituire l’arte <strong>del</strong>la modernità<br />

alle rivendicazioni originarie. Fin dal principio, si è ritenuto<br />

che l’arte occidentale moderna aprisse una finestra sul <strong>mondo</strong><br />

per riflettere ciò che osserva l’occhio in modo che “in questa<br />

superficie si presentino le forme <strong>del</strong>le cose vedute, non altrimenti<br />

che se essa fusse di vetro tralucente” (Leon Battista Alberti 1436,<br />

pp. 26-28) 1 . Una tale logica <strong>del</strong>la rappresentazione ha sancito la<br />

supremazia <strong>del</strong>l’ottica e la centralità <strong>del</strong>l’occhio. La tecnologia<br />

<strong>del</strong>la prospettiva è ciò che assicura all’occhio che lo spazio venga<br />

determinato esclusivamente in modo che<br />

posto il punto centrico, (…) segno diritte linee da esso a ciascuna divisione<br />

posta nella linea <strong>del</strong> quadrangolo che giace, quali segnate linee<br />

a me dimostrino in che modo, quasi persino in infinito, ciascuna<br />

traversa quantità segua alterandosi (p. 36).<br />

La prospettiva, con il suo punto d’origine e una geometria <strong>del</strong>lo<br />

spazio regolata e omogenea, situa l’occhio <strong>del</strong>l’osservatore al<br />

centro <strong>del</strong>la cornice, a controllare e definire ciò che bisogna vedere,<br />

catalogare, descrivere, spiegare. La griglia <strong>del</strong>la teoria, la cornice<br />

<strong>del</strong>la visione, l’ordine <strong>del</strong>la vista che pone se stesso al centro,<br />

protegge l’osservatore dal rischio di essere esposto a ciò che non<br />

riesce a vedere, contemplare o rappresentare. È questo potere individuale<br />

e assoluto sullo spazio che lo rende uniforme e perfettamente<br />

evidente agli occhi <strong>del</strong>l’osservatore. La sistematica elaborazione<br />

dei principi <strong>del</strong>la prospettiva è quanto il pittore, l’architetto<br />

e l’urbanista rinascimentale rappresenta nella storia <strong>del</strong>l’arte. La<br />

conoscenza e l’estetica che scaturiscono da questo punto di vista<br />

che pone il sé al centro sono, ovviamente, profondamente inserite<br />

nella formazione e nella successiva esecuzione <strong>del</strong>la modernità<br />

stessa. Ne consegue che la biografia <strong>del</strong>l’artista diviene emblematicamente<br />

intercambiabile con la biografia <strong>del</strong> genio universale<br />

che è la modernità occidentale (Soussloff 1997).<br />

1 Per le citazioni dal De pictura <strong>del</strong>l’Alberti, trattandosi di un classico disponibile in<br />

numerose edizioni, i numeri di pagina si riferiscono all’edizione riportata nella bibliografia<br />

(N.d.T.).


QUESTIONE DI STORIA 47<br />

La prospettiva instaura la razionalizzazione <strong>del</strong>lo spazio, la sua<br />

colonizzazione, consentendo all’osservatore di ritrarsi dal ciglio<br />

<strong>del</strong>l’infinita dispersione. Come nel caso <strong>del</strong> sublime kantiano, la<br />

minaccia <strong>del</strong>la dispersione e <strong>del</strong>la degradazione, il “punto di fuga”<br />

nel quadro, viene riposizionato nell’ambito <strong>del</strong>l’appropriazione<br />

razionale: il continuum che si dipana tra l’occhio <strong>del</strong> soggetto e<br />

l’infinito si fa discreto, soggetto a misurazione, calcolo e convergenza<br />

(Burgin 1990). Si tratta di un’arte che pone al centro l’osservatore.<br />

È la vista di chi guarda che attiva la prospettiva, la quale<br />

gli garantisce che la sua posizione è il punto di origine di ciò<br />

che viene rappresentato. Quantunque condotto lungo linee visive<br />

che tendono all’infinito, lo sguardo <strong>del</strong>l’osservatore non vacilla e<br />

non si dissolve mai. Fissato nella cornice e sospeso nella ponderata<br />

geometria <strong>del</strong> campo ottico, il soggetto conferma il quadro nell’istanza<br />

condivisa che il quadro riconferma la posizione di fulcro<br />

<strong>del</strong> soggetto.<br />

In questa persistente centralità <strong>del</strong>l’occh-ìo 1 , la distanza tra le<br />

semplici strutture <strong>del</strong> Rinascimento utilizzate per <strong>del</strong>ineare la prospettiva<br />

e le videocamere digitali <strong>del</strong> giorno d’oggi – entrambe<br />

rendono la realtà immediata, come senza intervento tecnico (“una<br />

chimera nel paese <strong>del</strong>la tecnica”, Benjamin 1955b) – è assai più<br />

breve di quanto i cinque secoli che li separano indurrebbero a ritenere.<br />

Sono lo spostamento in atto di questa “immagine <strong>del</strong><br />

<strong>mondo</strong>”, il suo umanesimo incentrato sul soggetto, le implicazioni<br />

storiche, politiche e poetiche di questo spostamento, che suggeriscono<br />

qualcosa di ben più profondo <strong>del</strong> semplice passaggio<br />

cronologico di un’epoca storica.<br />

Il pensiero storico, la scrittura, l’arte e il dibattito, fin dagli anni<br />

Quaranta, hanno costretto sempre più a una radicale ri-valutazione<br />

<strong>del</strong>la modernità occidentale alla luce <strong>del</strong>le migrazioni globali,<br />

degli spostamenti storici e <strong>del</strong>le traduzioni <strong>culturali</strong> assurti a<br />

protagonisti <strong>del</strong>la modernità fin da quando essa ha fatto la sua<br />

comparsa, cinque secoli fa. Se l’Occidente si è quindi, per molti<br />

1 L’autore conia il composto “eye/I” sfruttando l’omofonia tra i termini inglesi “eye”<br />

(occhio) e “I” (io). Si è deciso di rendere in italiano questo gioco di parole con “occh-ìo”,<br />

scomponendo il vocabolo italiano “occhio” in modo da rendere riconoscibili entrambi i<br />

lessemi <strong>del</strong> neologismo inglese e spostando l’accento tonico, al fine di evitare che la lettura<br />

ad alta voce vanifichi l’effetto retorico (N.d.T.).


48 IAIN CHAMBERS<br />

versi, sovrapposto al <strong>mondo</strong> moderno, con la sua economia politica,<br />

i suoi linguaggi, le sue tecniche e la sua tecnologia che forniscono<br />

e sorreggono una cornice globale, quello spazio è divenuto<br />

altresì il luogo <strong>del</strong>la differenza, la “casa” di altre storie, culture e<br />

identità. Nel foggiare il <strong>mondo</strong>, si sono inevitabilmente trasposte<br />

le presunzioni <strong>del</strong>l’Occidente di possedere e dirigere il linguaggio<br />

e le istituzioni che portano il suo nome.<br />

Questa enfasi sulla dislocazione, sulla migrazione e sulla ri-appropriazione<br />

non viene proposta per recuperare l’emigrazione altrui<br />

pro domo mea, e per asserire che ormai siamo tutti “emigranti”.<br />

Piuttosto, significa registrare una risposta, una responsabilità,<br />

nei linguaggi di cui dispongo per operare la necessaria interruzione<br />

e la rivalutazione <strong>del</strong>la mia voce, <strong>del</strong>la mia storia e <strong>del</strong>la mia<br />

cultura in un <strong>mondo</strong> in cui il passaggio storico e la traduzione<br />

culturale <strong>del</strong>l’emigrazione sono divenuti inscindibili dalle definizioni<br />

<strong>del</strong>la modernità. Ecco che la configurazione sia poetica che<br />

politica <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> viene ricreata o foggiata in maniera differente.<br />

La visione rassicurante offerta dalla distanza critica <strong>del</strong>la prospettiva<br />

soggettiva e l’universalismo <strong>del</strong>la visione a volo d’uccello vengono<br />

adesso integrati e sovvertiti da uno sguardo obliquo che<br />

emerge da una storia e da un luogo particolari, necessariamente<br />

“dal basso”, che conducono allo spostamento e alla potenziale dispersione<br />

<strong>del</strong>la precedente visione.<br />

Che cosa compare, che cosa si registra e si ode, allorché si riconosce<br />

questo movimento?<br />

Posizionalità storiche<br />

La rigidità unilaterale <strong>del</strong>la relazione osservatoreosservato/soggetto-oggetto<br />

che ci ha lasciato in eredità l’umanesimo<br />

cede il posto a un linguaggio differente: meno violento nella<br />

sua caparbietà, più aperto nel suo significato. L’intenzionalità diretta<br />

e l’azione unilaterale cedono il posto a un incontro meno<br />

condizionato, alla ricettività, all’accettazione <strong>del</strong>l’ascolto. L’altro<br />

non viene fissato per essere decifrato e spiegato in quanto oggetto<br />

<strong>del</strong> mio discorso e <strong>del</strong>la mia conoscenza, bensì viene recepito come<br />

l’eco, la risonanza di ciò che sfugge alle intenzioni <strong>del</strong>la mia<br />

rappresentazione (Carchia 1982, p. 17).


QUESTIONE DI STORIA 49<br />

Ecco allora che il soggetto, l’“io”, viene provocato e invocato<br />

dall’altro al punto di diventare, esso stesso, un oggetto <strong>del</strong>l’appartenenza<br />

condivisa <strong>del</strong>l’interprete all’oggetto <strong>del</strong>l’interpretazione,<br />

ciò che Gadamer (1965) chiama notoriamente “fusione<br />

d’orizzonti”. Tuttavia, ciò che si manifesta in questo contesto,<br />

e che infrange il cerchio perfetto <strong>del</strong>l’estetismo ermeneutico<br />

<strong>del</strong>lo stesso Gadamer, non è tanto la sostituzione <strong>del</strong>la “distanza<br />

critica” kantiana con una sublimazione organica di soggetto<br />

e oggetto nella natura comune <strong>del</strong>le cose, quanto piuttosto<br />

un senso acuto di posizionalità storica. Si tratta di una consapevolezza<br />

talmente acuta da incunearsi nelle pretese universali di<br />

un razionalismo che presume già di conoscere appieno se stesso<br />

e la storia che si propone di rivelare, e talmente acuta da rendere<br />

ogni singola tradizione <strong>del</strong>l’interpretazione, ogni singola ermeneutica,<br />

ogni singola conoscenza, un luogo instabile di passaggio,<br />

di trasformazione e di traduzione (ib.). In questa versione<br />

maggiormente agnostica e vulnerabile <strong>del</strong>la storia, priva di<br />

una ragione obiettiva in grado di garantire la costellazione <strong>del</strong>la<br />

nostra vita, le premesse stesse <strong>del</strong> soggetto e <strong>del</strong>l’azione storica,<br />

<strong>del</strong>l’umanesimo occidentale, mi invitano a riconsiderare in una<br />

riproposizione <strong>del</strong> tutto nuova la comprensione storica e la critica<br />

culturale.<br />

Questo mi riporta alla questione <strong>del</strong>la “verità” nell’arte. Contrariamente<br />

alla comprensione proposizionale, in cui si presume<br />

che il linguaggio e l’oggettività coincidano in una relazione garantita<br />

dalla razionalità consensuale, qui la prospettiva <strong>del</strong>la “verità”<br />

diventa una condizione priva di determinazione, la quale dice più<br />

di quanto possa esprimere un qualsiasi linguaggio razionale. Non<br />

si tratta necessariamente di una proposta teologica o mistica, sebbene<br />

Walter Benjamin, per esempio, non abbia trascurato questa<br />

eventualità, bensì di un’argomentazione sul tempo e lo spazio, o<br />

sulla storia e sull’essenza, come il Romanticismo tedesco, Benjamin<br />

e Heidegger, in modi diversi, hanno cercato di esprimere. Ed<br />

è proprio la questione <strong>del</strong>l’arte che più di tutto tiene aperta la visuale<br />

su questo orizzonte.<br />

Contenuta in una costellazione storica in cui il significato<br />

emerge dai limiti, e non dall’universalità senza tempo <strong>del</strong> linguaggio<br />

astratto dei concetti, l’opera d’arte ci prospetta le indicazioni<br />

temporali di un orizzonte <strong>del</strong> linguaggio, di una posizionalità


50 IAIN CHAMBERS<br />

mondana e di una cornice terrena, che si trovano dietro di noi, davanti<br />

a noi e al di là di noi. Si tratta di un senso <strong>del</strong> significato che<br />

scaturisce dall’interno <strong>del</strong>le limitazioni materiali <strong>del</strong>la contestualizzazione<br />

storica che è, proprio per queste ragioni, sia posizionabile<br />

che, in ultima istanza, priva di fondamenta permanenti o<br />

atemporali. Nel tempo e <strong>del</strong> tempo, questo significato costituisce<br />

una “via” (Heidegger), un “passaggio” (Benjamin) che registra la<br />

posizionalità, la responsabilità <strong>del</strong>la posizione, piuttosto che l’universale,<br />

cumulativo “progresso” di cui la razionalità strumentale<br />

tenta di circondarsi.<br />

Pensare in questo modo non umanista, ossia in un modo che<br />

precede e eccede il “soggetto”, non vuole dire pensare in termini<br />

antiumanistici, cosa che sarebbe altrettanto arbitraria, altrettanto<br />

dispotica, e quindi, altrettanto umanista. Cambiare il segno, ribaltare<br />

la formula, non vorrebbe dire altro che riconfermarla. Prendere<br />

criticamente le distanze dalla storia <strong>del</strong> soggettivismo che si<br />

pone al centro di tutto non significa identificarsi con l’indifferenza<br />

<strong>del</strong>l’inumano, anzi, il non umanista è il supplemento critico<br />

che precede e eccede l’imperialismo <strong>del</strong> soggetto.<br />

Per molti, questo supplemento critico è ciò che il linguaggio,<br />

nella più ampia accezione <strong>del</strong> termine, custodisce. Il linguaggio<br />

conserva il potenziale esecutivo di ciò che va al di là di ciò che è<br />

semplicemente strumentale e prescrittivo. Come iscrizione che si<br />

dispiega, come rivelazione culturale e storica, il linguaggio non è un<br />

problema linguistico, bensì un problema <strong>del</strong> divenire, il cui lessico<br />

e la cui grammatica si possono esprimere in una sintassi etica e poetica,<br />

mediante corpi e tecnologia, mediante sessualità e suoni. La<br />

poesia di Hölderlin per Martin Heidegger, un futuro fantascientifico<br />

<strong>del</strong> suono per Jimi Hendrix, il cyborg contemporaneo e futuro<br />

per Donna Haraway; per ognuno, un’integrazione irriducibile alle<br />

consolazioni <strong>del</strong>l’umanesimo e al fondamento e alla riconferma <strong>del</strong><br />

soggetto che ne conseguono. In questa sospensione <strong>del</strong>la tendenza<br />

umanista, nella dispersione <strong>del</strong>la sua logica, nell’indebolimento <strong>del</strong>la<br />

sua voce, nello spostamento <strong>del</strong>la sua visione, si riscontra l’invito<br />

ad accettare il <strong>mondo</strong> asimmetrico e incompleto non come destino<br />

consolatorio di un umanesimo non affrancato, bensì come lo sperone,<br />

l’interrogativo di una non identità che ci sospinge.<br />

Il senso <strong>del</strong>l’arte che sto tentando di evocare in queste righe si<br />

dispiega in prossimità di questo limite, annunciando la <strong>soglia</strong>, che


QUESTIONE DI STORIA 51<br />

richiama ciò che ci sostiene nel passaggio dal consenso di quel<br />

che è noto a un altrove, a “strade mai prese” (Lipsitz 1990, p. 30).<br />

È un’arte irriducibile a una funzione ideologica o comunicativa: è<br />

un’arte, o una poetica, che stabilisce un’insistenza etica. A questo<br />

punto, la razionalità di una specifica formazione <strong>del</strong>la rappresentazione<br />

deve registrare i propri limiti. Ecco che un particolare<br />

senso <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> si trova di fronte a una battuta d’arresto: è dove<br />

una ragione, un’arte, un’estetica, un’identità nutrita in e con una<br />

siffatta formazione devono lasciarsi alle spalle le proprie premesse<br />

e superarle. Andare oltre il proprio “se stesso” non vuole dire<br />

smarrirsi nel <strong>del</strong>irio <strong>del</strong>l’identificazione con la propria storia, tecnologia<br />

e cultura: si tratta, invece, di custodire un tale egocentrismo<br />

in maniera critica (Bowie 1997).<br />

Registrare detti limiti equivale ad allontanarsi da un assorbimento<br />

<strong>del</strong> sé che trasforma il linguaggio, la storia, la cultura e il<br />

<strong>mondo</strong> in una sterile, e in fin dei conti omicida, ossessione per il<br />

possesso: la “mia” lingua, la “loro” cultura, la “nostra” storia. Allontanarsi<br />

e inseguire un’arte, un linguaggio, una storia in una maniera<br />

avulsa dal possesso significa avvicinare la promessa <strong>del</strong>lo<br />

spostamento e <strong>del</strong>l’alterità, e per mezzo di essa il potenziale per ricontestualizzare<br />

il senso di noi stessi. Non si tratta di un’arte <strong>del</strong>la<br />

sublimazione, qualcosa che in apparenza ci consente di rilassarci,<br />

tranquilli, nella contemplazione <strong>del</strong>l’autoconferma, bensì di un<br />

esame. Non ci permette di sfuggire a noi stessi, piuttosto ci rende<br />

maggiormente soggetti all’interrogazione e al dubbio, perché non<br />

è né la proposta <strong>del</strong>l’integrazione, né <strong>del</strong>la domesticazione, bensì<br />

la proposta di una costellazione sociale e storica che perturba e<br />

mette in crisi la comprensione istituzionale. Limitarsi a riconoscere<br />

nell’alterità la relatività <strong>del</strong>le precedenti rivendicazioni di un senso,<br />

di una conoscenza e di una verità assoluti non fa necessariamente<br />

slittare l’incessante pretesa <strong>del</strong> soggetto <strong>del</strong>la realizzazione <strong>del</strong> sé<br />

attraverso l’oggettivazione <strong>del</strong>l’altro. La continuità di quella relazione,<br />

per quanto relativizzata e storicizzata, rimane fondamentalmente<br />

inalterata. Piuttosto, è l’osservatore, rinsavito dalle sue illusioni<br />

e dal suo egocentrismo, che alla fine consente all’osservatore<br />

“non di parlare di qualcosa, ma nelle vicinanze di qualcosa” 15 .<br />

1 Dal film di Trinh T. Minh-ha Reassemblage (1982).


52 IAIN CHAMBERS<br />

L’artificio <strong>del</strong>la distanza intellettuale viene a essere sostituito<br />

dalla contingenza storica e culturale. È a questo punto che l’imperativo<br />

ideologico <strong>del</strong>la modernità, bramosa di rendere tutto<br />

trasparente e soggetto al proprio razionalismo, subisce la più<br />

profonda dislocazione e ricontestualizzazione. Ecco spiegato perché<br />

quel “post-” di “postcolonialismo”, per esempio, è una metafora<br />

più di natura spaziale che cronologica: non si riferisce soltanto<br />

all’evento storico <strong>del</strong> colonialismo, ma racconta altresì una<br />

storia, soprattutto la “mia” storia, da un altro punto, da una locazione<br />

de-centrata relativamente al razionalismo sociotecnico<br />

che apparentemente governa la “ragione” <strong>del</strong>la modernità. Recare<br />

testimonianza di questo altrove è al contempo un’appropriazione<br />

estetica ed etica <strong>del</strong> linguaggio e <strong>del</strong>le identità <strong>culturali</strong> in<br />

cui trovo il mio “sé”.<br />

Quanto detto impone un’interruzione interna – una denuncia<br />

e una critica – nei linguaggi che concedono autorità a me; i linguaggi<br />

<strong>del</strong>la modernità occidentale che storicamente hanno consentito<br />

a me di autoproclamarmi soggetto <strong>del</strong>la storia e di proclamare<br />

gli altri “oggetti” <strong>del</strong>la storia. Mettere in discussione e demolire<br />

quella “distanza critica”, giustificata nel nome <strong>del</strong>la scienza,<br />

<strong>del</strong>la conoscenza e <strong>del</strong>la “verità”, vuol dire ricontestualizzare il<br />

linguaggio in cui vivo e che costituisce la mia casa. L’intreccio e<br />

l’interrogazione degli orizzonti mi rende, nella mia storia e nella<br />

mia tradizione, vulnerabile, esposto a un mondeggiare il <strong>mondo</strong><br />

nella ricerca di una risposta che sia anche accettazione di responsabilità.<br />

In tal modo diviene scomoda la precedente identità e,<br />

nello stesso tempo, si rende ingiustificabile la passione per l’assassinio,<br />

ossia lo sradicamento storico, culturare, mentale e, infine,<br />

fisico <strong>del</strong>l’altro. Significa anche opporsi alla tendenza teorica contemporanea,<br />

che valorizza lo spazio per volgere il pensiero all’instabile,<br />

quotidiano argomento <strong>del</strong> luogo, a quel rozzo e spesso resistente<br />

passaggio, che ci assorbe e ci eccede. Nello sregolato<br />

scambio tra il linguaggio e la terra, il genere e il terreno, l’etnicità<br />

e l’etica, esiste un’inquietante architettura che eccede la casa monolitica<br />

che il razionalismo continua a progettare. Essere inscritti<br />

in una voce, in un corpo, in un tempo particolari in cui vengono<br />

registrate le temporalità <strong>del</strong>la “modernità” e <strong>del</strong>la “globalizzazione”<br />

significa essere invitati a riconcepire, anziché limitarsi a sfollare,<br />

quel luogo. Parlando da un preciso luogo politico, storico,


QUESTIONE DI STORIA 53<br />

culturale ed economico, invece che dall’“ovunque”, il tempo si<br />

piega, viene chiamato alla resa dei conti, e la sua superficie lineare<br />

si flette a rivelare altre modalità <strong>del</strong> divenire. Non riguarda solamente<br />

il momento contemporaneo, ma anche la formazione storica<br />

complessiva che mi ha creato.<br />

Al di là <strong>del</strong>la rappresentazione<br />

La storia non si limita a smuovere i sedimenti <strong>del</strong> passato: la storia<br />

è la rappresentazione istituzionalizzata <strong>del</strong> passato. In quanto<br />

monografia, libro, documentario e archivio in via di sviluppo, la storia<br />

è un’attività <strong>del</strong> presente che rievoca il passato in una contestualizzazione<br />

in fieri <strong>del</strong> presente. La storia non è ciò che è stato, ma la<br />

testimonianza di ciò che è: in quanto conoscenza, discorso, dibattito,<br />

rappresentazione, interpretazione. Il ricorso reiterato al realismo<br />

come modalità privilegiata per la rappresentazione è particolarmente<br />

evidente nelle formazioni <strong>culturali</strong> anglosassoni, in cui il linguaggio<br />

tende a essere, pragmaticamente, considerato uno strumento<br />

“neutrale” e un mezzo sostanzialmente trasparente per la comunicazione.<br />

Soltanto nella sfera “<strong>del</strong>l’immaginazione”, la letteratura e l’estetica,<br />

viene concessa la licenza di violare queste asserzioni strumentali.<br />

Le indagini letterarie e poetiche <strong>del</strong> linguaggio vengono<br />

considerate decisamente avulse dalle pretese di verità perseguite in<br />

altre facoltà umanistiche per inclinazione più obiettive o “scientifiche”.<br />

Eppure, persino nella letteratura, così come nella narrazione<br />

chiave <strong>del</strong> ventesimo secolo, il cinema, il realismo continua a occupare<br />

una posizione centrale nel confermare il <strong>mondo</strong> <strong>del</strong> soggetto.<br />

Questa riduzione <strong>del</strong> linguaggio a una sintassi oggettivante non è né<br />

casuale, né arbitraria, bensì trova fondamento nella storia <strong>del</strong>la professionalizzazione<br />

<strong>del</strong>le discipline che “ha fissato le norme <strong>del</strong>la<br />

scienza <strong>del</strong> diciannovesimo secolo come epistemologiche e il romanzo<br />

realista come mo<strong>del</strong>lo letterario” (Kellner 1995, p. 6). Un linguaggio<br />

di questo tipo, un realismo di questo tipo, non riflettono o<br />

impersonano il <strong>mondo</strong> di tutti, ma solo il <strong>mondo</strong> per alcuni 1 .<br />

1 Sull’egemonia storica <strong>del</strong>la visione incorporata nella narrazione realista con la sua<br />

percezione imperiale e il suo possesso <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, si veda Said 1994.


54 IAIN CHAMBERS<br />

Questa contestualizzazione storica e culturale <strong>del</strong> linguaggio<br />

è ciò che ci permette di comprendere meglio il profondo impatto<br />

<strong>del</strong>la “teoria francese” nel <strong>mondo</strong> anglofono a partire dagli<br />

anni Sessanta. Lacan, Barthes, Foucault, Kristeva, Derrida, Irigaray,<br />

Lyotard e Cixous sono tutte voci critiche che annunciano<br />

e asseriscono la centralità ontologica <strong>del</strong> linguaggio in ogni senso<br />

<strong>del</strong>l’azione umana. Raramente si è contemplato questo aspetto<br />

<strong>del</strong>la “teoria” nella sua interezza. Negli ambienti anglofoni, la<br />

sfida ontologica <strong>del</strong> linguaggio viene sistematicamente ricondotta<br />

a una “svolta linguistica”, a una comprensione più tecnica e<br />

autoreferente, persino se la si definisce “semiotica” o “discorsiva”.<br />

Un’appropriazione non troppo lontana dall’idea <strong>del</strong> linguaggio<br />

quasi esclusivamente in termini di razionalismo espresso<br />

dalla massima “fare cose con parole” (Austin 1976). L’insistenza<br />

pragmatica insita nel rapprochement di Richard Rorty per<br />

l’ermeneutica, per non parlare <strong>del</strong>l’egemonia <strong>del</strong>la logica autoreferenziale<br />

<strong>del</strong>la filosofia analitica oxfordiana, confermano e<br />

sintomatizzano l’errore rivelato in questa traduzione culturale di<br />

una teoria “straniera”, in tal modo alterando e addolcendo l’impatto<br />

sulle correnti guida <strong>del</strong>l’accademismo angloamericano<br />

(Rorty, a cura, 1967) 1 .<br />

Eppure, non solo parliamo noi, ma il linguaggio anche, testimonianza<br />

storica e testimone represso, parla attraverso noi, fornendoci<br />

infine una casa e un senso, una direzione, un percorso<br />

nel <strong>mondo</strong>. Questo significa che il linguaggio apre la porta a<br />

una serie di implicazioni che non possono essere ricondotte alla<br />

linguistica o alle questioni di logica e comunicazione.<br />

L’illusione realista che postula che si passi direttamente attraverso<br />

il linguaggio per osservare, catturare, descrivere e spiegare<br />

il <strong>mondo</strong> esterno è stata messa in discussione direttamente<br />

nella storiografia da Hayden White. In Metahistory (1973) e<br />

Tropics of Discourse (1978), White punta giustamente i riflettori<br />

sul linguaggio represso <strong>del</strong>la narrazione storica, insistendo sulla<br />

sua composizione letteraria e sull’ambiguità epistemologica <strong>del</strong><br />

1 Probabilmente l’espressione “svolta linguistica” è stata adoperata per la prima volta<br />

nel saggio di Gustav Bergemann <strong>del</strong> 1953, ristampato nella raccolta di Rorty. Si veda<br />

Ankersmit, Kellner, a cura, 1995, p. 241.


QUESTIONE DI STORIA 55<br />

suo discorso. Questo lavoro rivoluzionario innesca il disfacimento<br />

consequenziale di un’oggettività che si fa forte <strong>del</strong>la relazione<br />

soggetto-oggetto <strong>del</strong>l’umanesimo e <strong>del</strong>la sua concezione<br />

strumentale <strong>del</strong> linguaggio. Rivolgendosi alla scrittura <strong>del</strong>la storia,<br />

al linguaggio e alle strategie <strong>del</strong>la narrazione <strong>del</strong> passato,<br />

non soltanto la natura artificiosa <strong>del</strong>la realtà diviene raccontabile,<br />

ma anche le strutture <strong>del</strong>la rappresentazione non possono<br />

più essere rinchiuse in una problematica squisitamente formale<br />

e retorica, come se la “realtà” fosse lì, pronta per essere recuperata<br />

dal soggetto. A questo punto, scrivere la storia si inserisce<br />

direttamente nella storicità <strong>del</strong> linguaggio stesso, ergo, come afferma<br />

perspicacemente Gregor McLennan (1981, p. 85), “la<br />

consueta distinzione tra la storia e la ‘filosofia <strong>del</strong>la storia’ viene<br />

annullata”.<br />

In quest’ottica, la reiterata scelta <strong>del</strong> realismo come modalità<br />

privilegiata <strong>del</strong>la rappresentazione si rivela essere più una costruzione<br />

culturale che una garanzia ontologica: la realtà <strong>del</strong>la<br />

rappresentazione è la realtà <strong>del</strong>la rappresentazione. Non significa<br />

addurre un’argomentazione di maniera sui simulacri e sulla<br />

scomparsa <strong>del</strong> vero (per quanto insistere sulla mancanza di fondamenti<br />

ci segnali qualcosa di potenzialmente importante),<br />

quanto asserire di doversi assumere la responsabilità storica ed<br />

etica per i linguaggi in cui la verità, la conoscenza e il senso di<br />

noi stessi trovano collocazione ed espressione. L’enfasi sull’abbinamento<br />

<strong>del</strong>la rappresentazione e <strong>del</strong> realismo contiene l’asserzione<br />

che esiste una verità unica e omogenea. Suggerisce che<br />

mentre ci possono benissimo essere divergenze di opinione, dibattiti<br />

e dissenso, il lavoro intellettuale progredisce immancabilmente<br />

nella direzione <strong>del</strong>la rivelazione <strong>del</strong> telos di una conclusione<br />

soggiacente e universale. Questo punto di vista putativo<br />

è unico, accoglie una sola razionalità, una sola verità apparentemente<br />

garantita nei protocolli centrati sul soggetto di un<br />

umanesimo universalizzante. Ma questo punto di vista onnipresente<br />

è esso stesso prodotto, schiavo di una precisa formazione<br />

storica e contestualizzazione culturale che, a sua volta, accoglie<br />

un regime di rappresentazione e le sue asserzioni sulla verità.<br />

Se il realismo consente di evitare un rapporto critico col linguaggio<br />

di cui dispone per spiegare il <strong>mondo</strong> (il passato, analogamente<br />

al presente, non fa che attendere di essere scoperto e


56 IAIN CHAMBERS<br />

rappresentato), certamente una storiografia critica non può più<br />

rifuggire dal confronto con la disposizione <strong>del</strong> linguaggio e la<br />

rappresentazione in cui la storia e le sue spiegazioni fanno la loro<br />

comparsa. Imprigionato nel linguaggio <strong>del</strong> tempo, e nel tempo<br />

<strong>del</strong> linguaggio, non c’è alcun passato di per sé, c’è solamente<br />

il passaggio <strong>del</strong> presente eternamente aperto alla ricontestualizzazione<br />

che si attua interrogando il passato: sia il passato che<br />

viene interrogato che quello che interroga.<br />

Quanto detto significa che il passato non può né essere cancellato,<br />

né tanto meno negato. Anzi, riconoscendo che le procedure<br />

<strong>del</strong> ricordo e i regimi di rappresentazione sono l’unico modo<br />

in cui possiamo accedere al passaggio <strong>del</strong> tempo, il passato<br />

rimane il passato. È possibile rivisitarlo e riscriverlo in chiave di<br />

un realismo limitato e contestato, ma il suo ritorno può anche<br />

sfidare il rappresentabile e l’incommensurabile. La rappresentazione<br />

ha dei limiti, come dimostra drammaticamente, per esempio,<br />

l’Olocausto, la Shoah (Friendlander, a cura, 1992). La ragione<br />

non è in grado di afferrare in maniera esaustiva, o di registrare<br />

nella sua interezza, quell’evento storico – sia in termini di genocidio<br />

istituzionalizzato col benestare <strong>del</strong>lo Stato o come burocrazia<br />

indolente e banalità quotidiana <strong>del</strong> male – quando esso<br />

sia esposto sotto forma di cifre astronomiche e terrore indicibile.<br />

Nell’incommensurabilità estrema tra l’evento e i significati<br />

successivi, l’Olocausto supera e frantuma i precedenti punti di<br />

riferimento (Lyotard 1983, pp. 81-83). Eppure, da questo punto<br />

di vista l’Olocausto non è più necessariamente un’eccezione unica,<br />

bensì un evento storico moderno di portata colossale che<br />

getta un’ombra raggelante sui limiti <strong>del</strong>la ragione occidentale<br />

nel divulgare e spiegare le forze <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> che apparentemente<br />

ha generato. Alla scioccante unicità <strong>del</strong>l’Olocausto è da aggiungere<br />

ciò che rivela come evento specifico nella formazione e nella<br />

realizzazione <strong>del</strong>la stessa modernità 1 . Ciò nondimeno, registrare<br />

i limiti <strong>del</strong>la ragione non significa consolidare il rifiuto a<br />

pensare, nemmeno a pensare all’impensabile. Registrare i limiti<br />

<strong>del</strong>la ragione è quantomeno interrogare il razionalismo stesso<br />

che la modernità dovrebbe incarnare, e di qui incrociarne le ri-<br />

1 Per una dettagliata disquisizione sulle implicazioni <strong>del</strong>l’“unicità” <strong>del</strong>l’Olocausto, si<br />

veda Brecher 1999.


QUESTIONE DI STORIA 57<br />

vendicazioni di “progresso” con la testimonianza lampante di<br />

ciò che eccede la sua razionalizzazione. Al posto <strong>del</strong>l’“unicità”,<br />

forse, per dirla come Bob Brecher (1999), è la realtà inaudita<br />

<strong>del</strong>l’Olocausto che frantuma il pensiero, costringendoci a formularlo<br />

nuovamente. Se l’Olocausto è al di là <strong>del</strong>la portata immediata<br />

<strong>del</strong> razionalismo, e se la tentazione di spiegare, secondo<br />

Primo Levi, scivola in direzione <strong>del</strong>la giustificazione, esso non si<br />

colloca al di là <strong>del</strong>la costellazione storica in cui ha avuto luogo<br />

(Levi 1987) 1 .<br />

Ciò significa trasporre la questione <strong>del</strong>la storia al di là di un<br />

liberale ventaglio <strong>del</strong>le possibilità con cui l’universale si dispone<br />

ad assorbire punti di vista particolari e partigiani. Il riconoscimento<br />

di una storia femminista, di una storia nera, di una storia<br />

omosessuale e di una storia subalterna, di per se stesso non sfida<br />

necessariamente la “continua adesione all’empirismo comune e<br />

ai precetti realisti <strong>del</strong>la rappresentazione e <strong>del</strong>la verità” (Jenkins<br />

1997, p. 1). Indugiare in quel regime <strong>del</strong>la rappresentazione,<br />

cercare il riconoscimento per una narrazione repressa <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>,<br />

significa rimanere intrappolati nel linguaggio insistendo su<br />

un’improbabile ridistribuzione dei poteri. Indugiare su questo<br />

punto vuol dire reprimere precisamente ciò che è emerso in<br />

queste varie storie inizialmente: un regime <strong>del</strong>la rappresentazione<br />

le cui rivendicazioni di verità dipendevano dalla sistematica<br />

repressione degli altri. Vuol dire parlare di qualcosa di ben più<br />

radicale e dirompente <strong>del</strong> semplice adattamento. Vuol dire rendere<br />

un senso di rappresentazione e verità ricevuto in eredità,<br />

una modalità storica di ritrarre e inquadrare il <strong>mondo</strong> profondamente<br />

problematica, forse obsoleta.<br />

Mettere in discussione l’autorità di una disciplina come la<br />

storiografia, e ciò che intende propinarci sul passato, significa<br />

altresì mettere in discussione la comprensione <strong>del</strong> presente e di<br />

noi stessi. Esporre l’esecuzione di un tale progetto e desiderio<br />

non rende necessariamente impossibile il progetto storiografico,<br />

ma significa reclamare un altro tipo di storia, e che l’esercizio<br />

1 L’autore si riferisce alla postfazione <strong>del</strong>l’edizione inglese di Se questo è un uomo e La<br />

tregua, assente nelle edizioni italiane. Per i dettagli, si rimanda alla Bibliografia (N.d.T.).


58 IAIN CHAMBERS<br />

<strong>del</strong>la sua autorità sia maggiormente ristretto e circoscritto 1 . In<br />

contrapposizione alla violenza astratta <strong>del</strong>l’oggettività storica, il<br />

problema <strong>del</strong>la storiografia diviene quello di come rappresentare<br />

l’assenza, come superare il trauma. Riflettere su cosa una particolare<br />

storia rappresenti, per chi, quando e come, significa riconoscere<br />

la giusta affermazione di Arthur Danto (1962, citato<br />

in Vann 1995) secondo cui “gli eventi non esistono che in una<br />

qualche descrizione”. Chi parla si trova sempre in un qualche<br />

luogo: ci troviamo sempre in una data posizione, confinati nel<br />

tempo, collocati. Quanto appena detto ricorda il Dasein di Heidegger,<br />

ossia l’essere-nel-<strong>mondo</strong> senza garanzie di trascendentalità.<br />

La fuga intellettuale dal <strong>mondo</strong>, per farvi ritorno armato di<br />

critica come un essere separato, autonomo, non è che una perpetuazione<br />

di ciò che Alain Robbe-Grillet (For a New Novel, citato<br />

in Ermath 1992, p. 119) una volta definì il “terrore” <strong>del</strong>l’umanesimo,<br />

“tipico di un universo in cui la risposta a ogni domanda<br />

è ‘l’uomo’”. La trascendentale oggettività soggettiva <strong>del</strong>l’umanesimo<br />

cede il posto al riconoscimento <strong>del</strong>la località culturale,<br />

all’essere già soggetto al <strong>mondo</strong> prima ancora di concepire<br />

il <strong>mondo</strong> e noi stessi. L’“io” isolato passa nella comunanza temporale<br />

<strong>del</strong>l’“evento”, in cui il confine tra corpo e linguaggio,<br />

soggetto e oggetto diviene sfocato (ib.).<br />

L’edificio disciplinare <strong>del</strong>la storia, come moderno e continuamente<br />

rinnovato archivio <strong>del</strong>le discontinue e contraddittorie pastoie<br />

di un immanente “progresso”, si tramuta pertanto nella<br />

struttura, a un tempo inconcludente e assai più inquietante, di<br />

una rovina barocca: rovina che consapevolmente testimonia le<br />

rappresentazioni <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, le sue storie e la “verità”, proprio<br />

nei termini di limiti <strong>del</strong> linguaggio, <strong>del</strong>la posizione, <strong>del</strong>la vita. Rivalutare<br />

il regime <strong>del</strong>la rappresentazione per mezzo <strong>del</strong> quale<br />

parla la storia, subordinare i “fatti” e gli “eventi” ai linguaggi nei<br />

quali compaiono, può rendere bene l’idea di “fonti primarie”,<br />

“documenti” e “archivi” instabili, nonché scatenare una vicinanza<br />

inquietante tra il “reale” e il “romanzesco”, ma il fulcro <strong>del</strong>la<br />

1 Si veda Berkhoffer 1995 per una dettagliata panoramica sulla tematica <strong>del</strong> <strong>mondo</strong><br />

anglocentrico, scritta da uno storico, caratterizzata da limiti nelle proprie implicazioni <strong>culturali</strong><br />

e politiche sulla comprensione linguistica, retorica e dialogica <strong>del</strong> linguaggio. Per un<br />

approccio di più ampio respiro e maggiormente interdisciplinare, si veda Ankersmit, Kellner,<br />

a cura, 1995.


QUESTIONE DI STORIA 59<br />

questione resta insito nel ribadire che la conoscenza promana<br />

dalla narrazione in fieri <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> che tenta di sanare le ferite<br />

<strong>del</strong>la memoria.<br />

Gli straordinari film di Chris Marker riflettono lungamente<br />

sulla tematica <strong>del</strong>la memoria (e dei suoi mezzi). Nel film Sans<br />

Soleil, dice:<br />

Chi l’ha detto che il tempo rimargina tutte le ferite? Meglio sarebbe<br />

dire che il tempo guarisce tutto, tranne le ferite. Col tempo, il dolore<br />

<strong>del</strong>la separazione perde i suoi limiti reali, col tempo il corpo desiderato<br />

scompare repentinamente, e se il corpo desiderato ha già cessato<br />

di esistere per l’altro, allora non rimane che una ferita, disincarnata.<br />

Nel medesimo film, una cornice apparentemente unitaria, una<br />

serie di storie, di immagini, tenute assieme in un flusso temporaneo<br />

e uditivo, registrano l’impossibilità di ricondurre tutto alla<br />

comprensione comune. Vestigia di storie, miti e memorie trasformano<br />

la storia in iscrizioni, la storia in una ri-scrittura. Chi scrive<br />

di chi in questo spazio condiviso che abbraccia vari luoghi e tempi?<br />

Chi guarda chi, allorché lo sguardo viene restituito e il privilegio<br />

<strong>del</strong>la macchina fotografica di immortalare la vita, il “fatto”,<br />

viene messo in discussione? Nelle sequenze visive che si riscontrano<br />

passando dall’Islanda a Tokyo, alla Guinea-Bissau, al<br />

Sahel, a Hokkaido, a Okinawa e all’Île-de-France, dov’è che si fa<br />

la storia, e chi, nel connubio tra politico e prosaico, fa la storia?<br />

Le inquadrature di attesa e spiegazione vengono interrotte da<br />

“cose che accelerano il battito cardiaco”. Si tratta di storie che<br />

entrano ed escono con moto ondivago dalle narrazioni ufficiali,<br />

disturbando la loro logica. In questa narrazione temporale, <strong>del</strong>la<br />

storia emerge una ferita aperta nelle nostre vite, che propone un<br />

linguaggio che scaturisce dall’incertezza: la poesia.<br />

I limiti <strong>del</strong>la politica e la poetica dei limiti<br />

Contestare l’ideologia umanista secondo cui il <strong>mondo</strong>, per<br />

quanto sregolato e turbolento, è soggetto in ultima analisi a<br />

un’unica ragione, per molti equivale ad abbandonare la propria<br />

casa. Se la politica rappresenta la volontà di costruire e ottenere


60 IAIN CHAMBERS<br />

un’“abitazione” gestibile, allora ciò che essa non è in grado di<br />

cogliere, ciò che non riesce a sopprimere nel nome <strong>del</strong>la chiarezza<br />

e <strong>del</strong>la logica, potrebbe indurci a ritenere la poetica più prossima<br />

alla verità <strong>del</strong> nostro essere nel <strong>mondo</strong>. In quest’ottica, l’arte<br />

non è solo un ornamento frivolo apposto sulle strutture <strong>del</strong>la<br />

vita quotidiana, qualcosa di estraneo alla necessità, bensì un requisito<br />

etico che ci invita a riformulare il nostro pensiero. Ripensando,<br />

è possibile che ritorniamo alle asserzioni <strong>del</strong> “politico”<br />

e che le esponiamo alla responsabilità di un <strong>mondo</strong> che non<br />

rispetta o riconosce necessariamente la sua ragione. In quel gesto,<br />

la storia <strong>del</strong> politico non viene né cancellata, né abbandonata,<br />

è tenuta a rendere conto di più <strong>del</strong>la sua struttura esplicita. A<br />

questo punto, la verità non riguarda la mimesi, il realismo e la<br />

trasparenza <strong>del</strong>la rappresentazione, bensì il sito quotidiano <strong>del</strong>la<br />

rivelazione o <strong>del</strong>la scoperta.<br />

Ecco che l’economia morale <strong>del</strong>l’analisi politica si ritrova intrappolata<br />

tra una verità non ancora realizzata e le strategie di sopravvivenza,<br />

tra la purezza <strong>del</strong> progetto e i risultati discontinui<br />

<strong>del</strong>la mediazione, <strong>del</strong>la trattativa e <strong>del</strong>la trasformazione. La politica<br />

<strong>del</strong> razionalismo strumentale che si ritiene in grado di realizzare<br />

una volontà politica deve immancabilmente fare i conti con<br />

un’integrazione che rifiuta di conformarsi, che frustra e interrompe<br />

il suo desiderio. Però quell’integrazione sregolata non si limita<br />

a rappresentare il limite di una volontà politica o l’altra faccia <strong>del</strong>la<br />

ragione strumentale, bensì interroga i fondamenti stessi su cui<br />

si poggia e opera una razionalità di questo genere. Andando al di<br />

là <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> <strong>del</strong> politico, quest’altra faccia <strong>del</strong>la ragione, una ragione<br />

non immediatamente soggetta al razionalismo e alla traduzione<br />

trasparente, mantiene una necessaria distinzione tra quanto<br />

è noto e quanto deve essere ancora realizzato, tra la prescrizione e<br />

l’iscrizione, e pertanto preserva i limiti <strong>del</strong> politico. Tutto può benissimo<br />

essere “politico”, ma non tutto può essere ricondotto, in<br />

un singolo istante storico, alla logica strumentale <strong>del</strong>la politica<br />

istituzionale. Ciò che ottenebra e sfugge a quella logica (la natura<br />

inopportuna, inattesa e sregolata <strong>del</strong>l’essere individuato e collettivo<br />

nel <strong>mondo</strong>) è ciò che si potrebbe chiamare il poetico.<br />

Forse non v’è alternativa separata, autonoma, al capitalismo<br />

imperante che struttura il <strong>mondo</strong> odierno. La modernità, l’occidentalizzazione<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, la globalizzazione, sono le etichette


QUESTIONE DI STORIA 61<br />

di un ordine economico, politico e culturale che apparentemente<br />

si è instaurato per un tempo di cui non è possibile prevedere<br />

la fine. Lo schema capitalista <strong>del</strong>la modernità occidentale pone i<br />

termini e le condizioni politico-economiche, non i risultati, <strong>del</strong>la<br />

produzione e <strong>del</strong>la riproduzione. Nondimeno, è chiaro che esistono<br />

anche le possibilità (indubbiamente più di dimensione locale,<br />

di effetto transitorio, e di aspirazioni modeste) di farsi strada,<br />

penetrare e percorrere questa formazione storica. È possibile<br />

spostare la “logica” prevalente, frustrarne la natura feticista,<br />

criticarne la cultura, deviare dai suoi precetti, “tradurne” le<br />

traiettorie. Forse, e malgrado le asserzioni politiche <strong>del</strong> contrario,<br />

il passaggio storico da una modalità di produzione all’altra<br />

non è mai stato gestito e condotto in maniera consapevole.<br />

<strong>Sulla</strong> scia di un’eredità compressa e in divenire, scaturisce<br />

una scelta politica tra la fede (sia teleologica che teologica) in<br />

un’alternativa autonoma eppure futura e un’altra che cerca la<br />

redenzione nell’unico spazio e nell’unico tempo a nostra disposizione.<br />

Non si tratta di proporre una distinzione astratta tra<br />

idealismo e pragmatismo, che sarebbe uno scarso conforto e una<br />

prospettiva superficiale. Si tratta invece di esaminare una distinzione<br />

tra la presunzione di ricondurre il <strong>mondo</strong> a un umanesimo<br />

soggettivista che proclama l’oggettività nella riconferma <strong>del</strong>l’autorità<br />

<strong>del</strong> sé persino nelle proiezioni più utopistiche, e il tentativo<br />

di agire, pensare ed essere in maniera più partecipe, senza il<br />

sostegno di siffatte promesse. Se il primo atteggiamento fornisce<br />

la consolazione data dalla garanzia di un’autorità morale e di<br />

una distanza critica, il secondo tradisce il conforto <strong>del</strong>la conferma<br />

intellettuale e cerca piuttosto di costruire una politica in cui<br />

ascoltare le voci, le storie, le esperienze… i silenzi, significa porsi<br />

di fronte a ciò che non è immediatamente reperibile per il desiderio<br />

e il progetto <strong>del</strong>l’ascoltatore.<br />

Porsi di fronte a ciò che supera il “politico”, al fine di metterne<br />

in discussione sia le pratiche istituzionali che i fondamenti<br />

teorici, vuol dire rendere vicino e inquietante ciò che non può<br />

essere reso cristallino, razionale e gestibile. Pertanto, registrare i<br />

limiti <strong>del</strong> politico non equivale solamente a reiterare i limiti più<br />

ovvi <strong>del</strong>l’organizzazione e <strong>del</strong>la distribuzione <strong>del</strong> potere <strong>del</strong> governo<br />

e dei partiti politici nella società civile, ma anche a continuare<br />

a insistere storicamente su ciò che si trova al di là <strong>del</strong>la lo-


62 IAIN CHAMBERS<br />

ro portata e <strong>del</strong>la loro comprensione: il <strong>mondo</strong> differenziato e la<br />

cornice terrena che eccedono i particolari passaggi in cui loro,<br />

tu e io ci muoviamo, viviamo e moriamo. Questo appello a ciò<br />

che va al di là conferma la nota asserzione di Emmanuel Lévinas<br />

sull’impossibilità etica <strong>del</strong>la chiusura, <strong>del</strong> controllo, <strong>del</strong>la totalità<br />

definitivi e <strong>del</strong> parallelo programma per rendere tutto (scientificamente,<br />

tecnicamente, politicamente, culturalmente) trasparente.<br />

Ciò che eccede il desiderio universale <strong>del</strong>la chiusura, <strong>del</strong>la<br />

conclusione e <strong>del</strong>la conferma <strong>del</strong> sé è ciò che eccede e sfida la<br />

nostra comprensione. Una disposizione critica deve saper abitare<br />

questa <strong>soglia</strong>: da un lato prendere seriamente le asserzioni politiche,<br />

spingere i loro linguaggi multipli (emotivo, razionale,<br />

morale, tecnico, scientifico) verso la responsabilità <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>;<br />

dall’altro lato, registrare il non rappresentato e il non rappresentabile.<br />

È una posizione in cui la stessa ontologia (il fondamento<br />

presunto e la base <strong>del</strong>la formulazione politica e <strong>del</strong> riconoscimento<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong>) diviene soggetta a essere messa in discussione.<br />

Una volta che il pensare e l’agire vengono spostati dalle rassicurazioni<br />

astratte <strong>del</strong> razionalismo, si affacciano in un <strong>mondo</strong><br />

in cui il sé è incapace di possedere completamente il sé (Schürmann<br />

1990, p. 23). Ecco che la critica apprende a spostarsi entro<br />

i limiti storici che ne sostengono la voce, dato che il pensiero<br />

mina una conoscenza presunta.<br />

Rifiutare di operare una netta scissione tra poetica e politica<br />

apre la strada alla questione <strong>del</strong> potere economico e statale che<br />

dà luogo a una diversa maniera di accettare queste condizioni<br />

mettendone in discussione i loro fondamenti, il linguaggio e la<br />

logica. Una proposta di questo tipo non viene portata avanti come<br />

compromesso o come adattamento liberale allo status quo,<br />

bensì come un disfacimento radicale <strong>del</strong>le premesse stesse da<br />

cui dipende il breviario <strong>del</strong>l’azione politica. Ciò significa tentare<br />

<strong>del</strong>iberatamente di frustrare l’esigenza intellettuale <strong>del</strong>la rappresentazione,<br />

confondere e confutare indirettamente un linguaggio<br />

avvezzo alla conferma e alla chiusura <strong>del</strong>la “ragione” che ne<br />

consegue (Buchanan 1997). Mettere in discussione la possibilità<br />

stessa di interrogare significa indebolirne le premesse riportando<br />

alla luce i limiti. Ma davvero è tanto semplice? Riconoscere i<br />

limiti può anche rafforzare l’interrogativo, correggendo il tiro<br />

<strong>del</strong>l’indagine e registrando con maggiore precisione il campo


QUESTIONE DI STORIA 63<br />

d’azione <strong>del</strong>la critica che ne consegue. Nondimeno, questo è un<br />

approccio, una modalità critica, praticata senza apparati formali<br />

o metodologie esplicite (ib.), perché la preoccupazione qui non<br />

è la natura definitiva dei concetti, bensì il potere <strong>del</strong>l’articolazione,<br />

la formazione agonistica e politica <strong>del</strong>la conoscenza, il linguaggio,<br />

la violenza grammaticale, che crea l’“oggetto” e la spiegazione<br />

che ne deriva. Nelle pagine e nei capitoli che seguono<br />

ho tentato di mantenere questa sregolata promessa.


Capitolo secondo<br />

Cornici terrestri<br />

(…) Ciò che in ultimo ci copre<br />

è che siamo senza riparo, e che quell’assenza<br />

volgemmo verso l’aperto, quando lo vedemmo<br />

minacciare,<br />

per affermarlo nel cerchio estremo, in qualche<br />

luogo dove la legge ci tocca.<br />

(Rilke 1993, vol. II, p. 261)<br />

Da lontano, mentre lavorano nei campi di carciofi e di fragole<br />

sotto i cieli <strong>del</strong>la California, oppure più vicino a noi, mentre fanno<br />

la fila per salire sull’autobus a Milano e alla cassa al supermercato,<br />

incontro le mani, le voci, i corpi precedentemente celati, che<br />

rafforzano il mio senso <strong>del</strong>lo spazio. Si tratta di facce spesso scure,<br />

vite fluttuanti di emigrati, la cui attività quotidiana e il cui<br />

sfruttamento sistematico garantiscono la mia stabilità. Ora si sono<br />

inseriti nella mia vita, nel mio linguaggio, nelle poesie che leggo,<br />

“insoddisfatti” (Rich 1991, p. 44).<br />

Una donna nera, il capo chino, che ascolta qualcosa<br />

– la voce di una donna, la voce di un uomo oppure<br />

la voce <strong>del</strong>l’autostrada, notte dopo notte,<br />

metallo che scorre a valle sfrecciando<br />

accanto all’eucalipto, al cipresso, agli imperi <strong>del</strong>l’agriturismo (p. 3).<br />

Tutti noi, coscientemente o meno, viviamo la modernità alla<br />

“luce oltraggiata” di coloro che non sono sopravvissuti alla sua imposta<br />

indifferenza, di quelli che sono stati soggiogati, sovente immolati,<br />

al nichilismo <strong>del</strong>le sue razionalità strumentali. La luce <strong>del</strong>l’oltraggio<br />

è la luce <strong>del</strong>la storia “che sgorga su di noi quando meno<br />

ce l’aspettiamo” (p. 49). Questa espressione di Adrienne Rich risuona<br />

all’unisono con l’enfasi che pone Lévinas sul senso <strong>del</strong>la storia<br />

aperto al giudizio in ogni circostanza, ovvero, un’etica che precede<br />

ogni calcolo e verdetto, che anticipa l’azione <strong>del</strong> pensare alla<br />

storia, l’azione <strong>del</strong> pensiero. Non ci si può nascondere, non c’è<br />

una “piccola radura <strong>del</strong> tempo” in cui abbiamo sufficientemente<br />

autorità per sottrarci a questo giudizio. Siamo estremamente vul-


66 IAIN CHAMBERS<br />

nerabili. Richiedere protezione equivale a rifiutare questa apertura,<br />

è pregare un Dio che ne nega un altro. All’affermazione di<br />

Rilke di questa legge <strong>del</strong>l’Apertura, Adrienne Rich aggiunge:<br />

Oltraggio: chi osa reclamare protezione per se stesso<br />

nel mezzo di una tale mancanza di protezione? Quale preghiera<br />

è mai? A che razza di dio? Che genere di desiderio? (ib.).<br />

In questo “atlante <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> difficile”, un siffatto oltraggio ci<br />

ricorda <strong>del</strong>l’esposizione costante allo spazio vitale, privo di rassicurazioni.<br />

Posizionato nel linguaggio e nella proliferazione <strong>del</strong> ricordo,<br />

nessuno è nella condizione di richiedere protezione. Ai precetti<br />

<strong>del</strong>la pedagogia <strong>del</strong>la “civiltà”, <strong>del</strong>la “società”, <strong>del</strong>la “comunità”<br />

astratte, Homi Bhabha (1996) ha giustamente contrapposto un senso<br />

poetico e politico <strong>del</strong>la “performatività”. La comprensione pedagogica<br />

è già al corrente di chi è il soggetto <strong>del</strong>la storia, di che cos’è<br />

una società giusta, e “ardisce reclamare protezione per se stessa”.<br />

Differenza e diversità ricevono attenzione unicamente allorché<br />

riflettono la prescrizione, che si riflette nella comunanza cristallina<br />

di un’individualità priva di corpo, astratta. Il pedagogico sfugge alla<br />

possibilità che l’incerto si faccia strada, penetri e percorra le discrepanze<br />

storiche e <strong>culturali</strong> in cui avviene la nostra formazione.<br />

Se il pedagogico accumula memoria nel tempo omogeneo <strong>del</strong> progresso<br />

e nella cittadinanza speculativa <strong>del</strong>l’umanesimo, e qui dimentica,<br />

il performativo riaziona le posizioni fluttuanti dei ricordi,<br />

<strong>del</strong>l’agonismo, <strong>del</strong>l’interruzione e <strong>del</strong>la sfida, dove le voci rifiutano<br />

di svanire e persiste la loro dissonanza e insoddisfazione.<br />

Negli scritti recenti sia di Homi Bhabha che di Judith Butler,<br />

l’insistenza foucaultiana sulla cornice pedagogica <strong>del</strong>la formazione<br />

<strong>del</strong>l’identità e dei processi di identificazione spinge a riflettere sulla<br />

costituzione <strong>del</strong> soggetto, sia fisica e strumentale, che legale, politica<br />

(Bhabha 1996; Butler 1990). Contro la rigidità di una soggettività<br />

giuridica e istituzionalmente fondata, entrambi gli intellettuali<br />

sottoscrivono l’indifesa richiesta di una “performance” in cui<br />

un particolare soggetto storico enuncia una complessità che va al<br />

di là <strong>del</strong>la regola pedagogica: il “dovrebbe”, costrutto legalizzato,<br />

si scontra con lo storico “è”. Le certezze astratte e metafisiche <strong>del</strong>l’identità<br />

(nazionale, etnica, di genere, sessuale) vengono affrontate,<br />

sfidate e violate dal continuo perpetrare di un divenire incerto,


CORNICI TERRESTRI 67<br />

un divenire che riafferma (e qui il tono critico, sia di Bhabha che<br />

<strong>del</strong>la Butler, nonché dei loro antesignani foucaultiani, certamente<br />

giustifica l’adozione di una tonalità heideggeriana) l’essere gettato<br />

in un <strong>mondo</strong> che “si rivela non essere pienamente tuo” (Thiele<br />

1995, p. 177). Cercare di sentirsi a casa in un <strong>mondo</strong> ambiguo, arcano,<br />

non nostro, ci porta verso la libertà potenziale che scaturisce<br />

dalla comprensione dei propri limiti.<br />

Pertanto, gli incessanti interrogativi contenuti nella poesia di<br />

Adrienne Rich (1991) intitolata Eastern War Time, che vengono<br />

narrati drammaticamente dal punto di vista <strong>del</strong>l’Olocausto e degli<br />

ebrei, possono e debbono essere interpretati anche come un invito<br />

a penetrare in una dimensione <strong>del</strong>la memoria (nonché <strong>del</strong>l’identità)<br />

in quanto spazio privo di tutela nel quale costruiamo la<br />

nostra casa. La memoria è ciò che rammenta continuamente che<br />

ci troviamo “sulla terra e sotto al cielo”, che ci ricorda la condizione<br />

di ritrovarci nel <strong>mondo</strong> privi di protezione. La memoria rivela<br />

questa dimensione, rifiutandosi di soddisfare il nostro desiderio<br />

di chiarezza soggettiva e di eternità temporale di una verità<br />

immutabile, perché quando parla, la memoria ci dice:<br />

Non è possibile ripristinarmi o inquadrarmi<br />

Non posso restare ferma – Sono qui<br />

nel tuo specchio – fianco a fianco con te<br />

Impicciona impertinente aspra balenante<br />

di ciò che mi rende impossibile da uccidere, anche se uccisa (Rich<br />

1991, p. 43).<br />

Tutti vivono la memoria, eppure nessuno la possiede. La memoria<br />

non risiede semplicemente nelle nostre tradizioni, nei nostri<br />

rituali, nei nostri costumi, nei nostri corpi, nelle nostre istituzioni<br />

e nei nostri monumenti, e nemmeno nel profondo di noi<br />

stessi e <strong>del</strong>l’inconscio individuale. Questo sito di essenza concentrata<br />

è la sostanza storica <strong>del</strong> nostro ambiente terreno.<br />

Ecco che forze al di là <strong>del</strong>la strumentalità immediata <strong>del</strong> <strong>mondo</strong><br />

profferiscono parole e mi instradano verso l’altro lato <strong>del</strong> linguaggio.<br />

Vengo diretto verso l’insistenza tacita <strong>del</strong> terrestre e la<br />

presenza di un altro, e questo alimenta un pensiero che non è<br />

ostile né all’ascolto, né all’accettazione dei limiti. Mi ritrovo nuovamente<br />

sull’orlo <strong>del</strong> vuoto ontologico tra la rassicurazione <strong>del</strong>l’i-


68 IAIN CHAMBERS<br />

dentico e lo slittamento indotto dall’alterità. Questo è il vuoto che<br />

si attraversa nel passaggio dal familiare al non familiare, dal consueto<br />

all’eccezionale. È contrassegnato dall’interruzione di un<br />

tempo cangiante ed estatico che, come eccesso di linguaggio (nella<br />

memoria, nella poesia, nella musica, nell’arte, nel terrore, nell’amore…)<br />

interrompe drasticamente il continuum <strong>del</strong> prevedibile,<br />

esortandomi a rivedere la relazione tra me e i linguaggi nei<br />

quali risiedo.<br />

Nuovamente, questo significa, se non sciogliere, quantomeno<br />

allentare i nodi che mi tenevano saldo nel mio senso <strong>del</strong>l’appartenenza,<br />

che in apparenza tenevano unite le differenze <strong>del</strong> <strong>mondo</strong><br />

in una valutazione unilaterale e fornivano i legami che mi<br />

spingevano verso la conferma perenne <strong>del</strong>la mia casa. Gli strettissimi<br />

legami tra lo storicismo, lo scientismo e l’imperialismo, la<br />

concezione <strong>del</strong>la conoscenza che, fin dal tramonto <strong>del</strong> Rinascimento,<br />

hanno istituzionalizzato e diffuso l’egemonia <strong>del</strong>l’ego occidentale,<br />

si destano e cominciano ad avvertire la pressione <strong>del</strong><br />

dubbio e <strong>del</strong>l’interruzione. Il desiderio purista che questi discorsi<br />

sorreggevano (è il sogno ancestrale di realizzare l’assoluto epistemologico<br />

e politico) è stato interrogato da ciò che la modernità<br />

ha represso nella collettivizzazione violenta e nell’oblio simultaneo<br />

<strong>del</strong>le storie, <strong>del</strong>le vite e dei corpi sfruttati, colonizzati,<br />

schiacciati, resi schiavi, sterminati.<br />

La tecnologia è l’umanesimo<br />

È proprio questo il punto in cui il nodo modernista stringe<br />

con maggiore forza metafisica, umanesimo e tecnologia. Contrariamente<br />

alla concezione popolare e al sentimento superficiale, la<br />

tecnologia e l’umanesimo coincidono e assumono la connotazione<br />

di termini equivalenti. Non sono antagonisti, l’una dipende dall’altro,<br />

perché la tecnologia rappresenta il culmine <strong>del</strong>la metafisica<br />

occidentale e la sua appropriazione <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> ruotante attorno<br />

a un “io” sovrano. La metafisica e la tecnologia occidentali coesistono<br />

in una volontà comune di mondeggiare il <strong>mondo</strong> in<br />

un’immagine soggettiva e soggiogata. Il <strong>mondo</strong> viene inquadrato<br />

cognitivamente, per apparire dinanzi al soggetto come oggetto,<br />

pronto per essere afferrato e dominato, condotto nella propria so-


CORNICI TERRESTRI 69<br />

vranità e sotto il suo controllo. Questo soggettivismo è l’anticamera<br />

<strong>del</strong> successivo uso strumentale <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> che ci circonda. Si<br />

tratta <strong>del</strong>la struttura metafisica, <strong>del</strong> presupposto che il <strong>mondo</strong> sia<br />

subordinato alla volontà, al linguaggio e al dominio <strong>del</strong> soggetto<br />

“che esperisce la propria relazione essenziale come reificazione<br />

(intesa come padronanza) di ciò in cui si imbatte” (Heidegger<br />

1939), che chiarisce nella maniera più succinta l’espressione di<br />

Heidegger (1962a, p. 5) secondo cui “l’essenza <strong>del</strong>la tecnica non è<br />

affatto qualcosa di tecnico”. Ma il discorso non si limita al pensiero<br />

che rende straordinariamente vicini i poli in apparenza diametralmente<br />

contrapposti <strong>del</strong>l’umanesimo e <strong>del</strong>la tecnologia. Soffermandosi<br />

sul soggettivismo che passa per oggettività estrema, Heidegger<br />

riconduce drammaticamente la nostra attenzione su quella<br />

tendenza <strong>del</strong>la conoscenza e <strong>del</strong> potere, comunemente messa in<br />

relazione con l’opera di Michel Foucault, che ci garantisce la nostra<br />

centralità, il nostro <strong>mondo</strong>.<br />

Come dice Heidegger (1950a) in L’epoca <strong>del</strong>l’immagine <strong>del</strong><br />

<strong>mondo</strong>: “il <strong>mondo</strong> diviene immagine e l’uomo subiectum” (p.<br />

97), e questo costituisce “il tratto fondamentale <strong>del</strong> Mondo<br />

Moderno” (p. 99). Ridotte a una cornice comune, a un oggetto<br />

che riflette quelle che dovrebbero essere le mie necessità, le distanze<br />

e le tecnologie <strong>del</strong> mio alveo terrestre, le sue forze differenziate,<br />

incalcolabili e persistenti trovano immediata espressione<br />

nei calcoli, nelle tecniche e nelle tecnologie che rappresentano<br />

me e soltanto me: le altre modalità di pensare e di essere<br />

vengono bandite dalla narrazione. Leslie Paul Thiele (1995,<br />

p. 199) osserva giustamente: “l’immagine <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> assurge al<br />

ruolo di principale misura <strong>del</strong>l’umanità. In pratica, si identifica<br />

con la realtà stessa”.<br />

E prosegue:<br />

A questo punto, con un ironico colpo di coda, l’oggettività stessa<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong> scompare. Tutto ciò che esiste ora viene a esistere, da<br />

un punto di vista tecnologico, perché è rappresentato o prodotto<br />

da noi. Come afferma Heidegger, “tutto ciò che si frappone al senso<br />

non si frappone più davanti a noi in quanto oggetto”. Pertanto,<br />

noi non parliamo più unicamente di un antropocentrismo che oggettiva<br />

il proprio <strong>mondo</strong> al fine di sfruttarlo: noi parliamo di un<br />

“antropomorfismo incondizionato” che crea un <strong>mondo</strong> a sua immagine<br />

(p. 200).


70 IAIN CHAMBERS<br />

Tutto ciò che non si inquadra in questo “antropomorfismo<br />

incondizionato”, tutto ciò che non riesce a riprodurne la logica,<br />

viene escluso dal pensiero e bandito dalla comprensione 1 . Il<br />

mio divenire viene soppiantato e, infine, spostato dalla mia<br />

identificazione col <strong>mondo</strong>: l’umanesimo si rivela essere il soggettivismo<br />

occidentale. Tuttavia, quando il <strong>mondo</strong> diviene mio,<br />

ricondotto a una logica unica che serve unicamente per riflettere<br />

me stesso, la mia libertà subisce una drastica limitazione.<br />

Non si tratta <strong>del</strong>l’impetuosa libertà che mi consegna il <strong>mondo</strong><br />

affinché ne disponga a mio piacimento, bensì <strong>del</strong>la libertà di essere<br />

nel <strong>mondo</strong> e quivi di trovare la mia strada. Non è la libertà<br />

di dominare, bensì la libertà di essere nel <strong>mondo</strong>, di scontrarmi<br />

con i limiti <strong>del</strong> mio egotismo e provare la meraviglia che va al di<br />

là di esso. È la libertà di rispondere alla vita nel <strong>mondo</strong>, nonché<br />

assumersene la responsabilità, non in qualità di padrone, bensì<br />

come custode. O per dirla con Heidegger, in qualità di amorevole<br />

pastore. Evidentemente, ciò approfondisce l’annosa tematica<br />

<strong>del</strong>la relazione tra metafisica, tecnologia e capitalismo nella<br />

creazione <strong>del</strong> sistema <strong>mondo</strong> contemporaneo. Se l’attenzione<br />

critica si è concentrata sul terzo termine <strong>del</strong>l’elenco, inteso come<br />

modalità fondamentale di produzione <strong>del</strong>l’epoca moderna, i<br />

primi due sono stati relegati all’ambito <strong>del</strong>la sovrastruttura e<br />

<strong>del</strong>le relazioni sociali <strong>del</strong>la produzione, entrambi assoggettati<br />

all’onnisciente pulsione <strong>del</strong> capitale. Nondimeno, la tecnologia<br />

non scaturisce semplicemente da un mo<strong>del</strong>lo unico di produzione.<br />

Il sogno leniniano di coniugare elettricità e socialismo in<br />

una collettività futura, e la produzione di massa fordiana <strong>del</strong>la<br />

mobilità individuale, pur indipendenti da un punto di vista<br />

ideologico, separati, erano affini da un punto di vista tecnologico<br />

(nonché metafisico). Quantunque la storia, in maniera cinica,<br />

abbia ribadito perentoriamente che si trattava sempre di capitalismo,<br />

non essendo altro il socialismo di Stato che un modo<br />

diverso di denominarne l’instaurazione, mi pare che ascoltando<br />

Heidegger relativamente alle tematiche <strong>del</strong>la metafisica e <strong>del</strong>la<br />

tecnologia sia possibile comprendere in maniera più precisa la<br />

volontà <strong>del</strong> capitale, al fine di metterlo in discussione, preve-<br />

1 L’espressione “antropomorfismo incondizionato” è tratta da Heidegger 1961.


CORNICI TERRESTRI 71<br />

dendo di interrompere la sua affascinante e, apparentemente,<br />

omogenea storia <strong>del</strong> “progresso”. Con questo si vuole proporre<br />

un senso <strong>del</strong>l’essere che non sia né un idolo, né una forza religiosa<br />

(per quanto possa attenere alla sfera <strong>del</strong> sacro); si vuole<br />

proporre un senso <strong>del</strong>l’essere che esiste al di là <strong>del</strong>l’umanesimo<br />

soggettivista <strong>del</strong>l’essere umano e che a esso non possa essere ricondotto.<br />

Questo perché ciò che esiste e che continua al di là di una<br />

ratio imposta sulla rivelazione calcolata, e la conseguente realizzazione<br />

di ciò che ormai è un progetto planetario, pone una domanda<br />

assillante. Fornisce l’occasione per interrompere un linguaggio<br />

la cui particolare differenziazione nella storia, nella<br />

scienza, nella tecnologia e nel mercato è secondaria al suo comune<br />

desiderio e progetto metafisico. Significa porre in discussione<br />

una logica astratta che si ritiene capace di trascendere<br />

ogni particolare, ogni luogo, ogni persona ed esperienza, al fine<br />

di giungere al quadro completo, alla spiegazione piena e totale.<br />

Per rifiutare di inquadrare il <strong>mondo</strong> in un reticolo unico concepito<br />

da un punto di vista unitario dobbiamo riconoscere, o meglio,<br />

ascoltare l’altra campana <strong>del</strong>la particolare storia che ha inculcato<br />

questo desiderio e questa pulsione per l’omogeneità. Significa<br />

confrontare lo sterile conforto di fare ritorno a casa (la<br />

conferma <strong>del</strong>le premesse che disegnano la mappa e garantiscono<br />

il viaggio metafisico e la sua realizzazione tecnologica) con<br />

ciò che cozza con la spiegazione, ne fuoriesce e la disturba, con<br />

ciò che non trova una facile collocazione, con ciò che in questo<br />

particolare ordine di cose rimane senza tetto. Ecco che allora<br />

ciò che chiamiamo “storia”, l’ideologia <strong>del</strong>la conoscenza che ritiene<br />

di poter afferrare, a livello globale, la dinamica <strong>del</strong> nostro<br />

essere, prende coscienza dei propri limiti.<br />

Di fronte a un <strong>mondo</strong> che pare sopraffatto dalla volontà di<br />

una razionalità strumentale che si chiama ragione, scienza, tecnologia,<br />

progresso, nonché loro configurazione globale nel capitalismo<br />

contemporaneo, esiste al contempo un ethos, un<br />

aspetto terrestre, una base che sfugga alla sua logica? Per Heidegger,<br />

come per i poeti, i musicisti, gli artisti e i custodi <strong>del</strong>lo<br />

straordinario e <strong>del</strong>l’estatico, la risposta va cercata nell’erranza<br />

<strong>del</strong> linguaggio. Il linguaggio apre all’enigma di ciò che resiste e<br />

si ritira dalla struttura esclusivamente razionalista <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>.


72 IAIN CHAMBERS<br />

Proprio l’erranza <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> rende possibile che la domanda<br />

perseveri in quanto domanda, facendo ripetutamente capolino<br />

per recare la promessa <strong>del</strong>l’interruzione.<br />

Un’altra modernità<br />

Uno scenario <strong>del</strong> genere richiede che si dia ascolto alle ombre,<br />

laddove l’orecchio interiore <strong>del</strong>la storia percepisce il non<br />

detto e l’indicibile mentre il tempo divora se stesso nella ricerca<br />

di una salvezza irraggiungibile nelle prosaiche inezie <strong>del</strong> <strong>mondo</strong><br />

(Buci-Glucksmann 1990, pp. 16-17). Forse la modernità ombreggiata<br />

<strong>del</strong> Barocco, un richiamo che si insinua continuamente<br />

nelle mie osservazioni, è proprio l’ambiente in cui si può scorgere<br />

e udire un’estetica alternativa, soggetta a manifestarsi tra l’inquadramento<br />

terrestre e il divenire <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>. Il mutevole connubio<br />

tra corpo e mente, tra sensualità finita <strong>del</strong>le passioni e infinito<br />

agognato <strong>del</strong>la ragione, tra l’insistenza fisica <strong>del</strong>la danza e la<br />

geometria astratta <strong>del</strong> razionalismo, questione che il classicismo<br />

avrebbe poi risolto a favore <strong>del</strong> secondo elemento di ognuna di<br />

queste dicotomie, trova qui forte e continuo sostegno (Angoulvent<br />

1994). Esplorando le contingenze mondane (si vedano El<br />

Greco, Caravaggio, Giordano, Ribera, Rubens, Rembrandt,<br />

Velázquez), ove la visione è sempre meno che trasparente, e il<br />

suono rievoca sensibilità indomabili, si riscontra una notevole<br />

eco <strong>del</strong>l’esperienza <strong>del</strong>la tarda modernità. Che la si interpreti<br />

dall’una o dall’altra estremità <strong>del</strong>l’epoca storica, dai suoi inizi putativi<br />

e dalla presunta conclusione, è una vicinanza catturata, in<br />

maniera suggestiva, nell’assonanza <strong>del</strong> passaggio tra “barocco” e<br />

“rock”. Nel liuto di John Dowland e nella chitarra di Jimi Hendrix,<br />

si insiste nella promessa di inquadrare i suoni in maniera<br />

netta contro l’astrazione oltremondana <strong>del</strong>l’estetica classica, per<br />

la quale la forma è atemporale, il dettaglio esclusivamente femminile,<br />

l’ornamento decadente (Schor 1987). Inoltre, ascoltare il<br />

Barocco, esattamente come ascoltare il jazz, significa cogliere<br />

l’annuncio di un passaggio critico dalla visione unilaterale <strong>del</strong>lo<br />

sguardo imperioso alla dispersione <strong>del</strong> tono, dalle fantasticherie<br />

<strong>del</strong>la trasparenza in cui tutto si rivela all’interminabile odissea<br />

<strong>del</strong> suono e all’infinito <strong>del</strong> non finito.


CORNICI TERRESTRI 73<br />

Ascoltare questo aspetto <strong>del</strong> linguaggio vuole dire trasgredire<br />

al rigido sistema <strong>del</strong>la logica, nel quale ci troviamo apparentemente<br />

fissati. Significa evocare una risposta storica che si esprime<br />

in termini che non possono essere circoscritti a una sola epoca in<br />

particolare. Le generazioni trapassate scalpitano e incalzano. Parlare<br />

significa sempre parlare sulla scia <strong>del</strong> linguaggio. Il linguaggio<br />

registra e parla di questa quiescenza. In questo intervallo si profila<br />

la nostra casa. Il linguaggio fornisce il riparo e, in quanto poesia,<br />

musica, musa, memoria, canta “l’accordo, sempre lo stesso,<br />

sempre cangiante, che in ogni istante attraversa l’essere-nel-<strong>mondo</strong><br />

nella sua interezza, modulando la differenza tra cose e <strong>mondo</strong>,<br />

tra Terra e <strong>mondo</strong>” (Harr 1993, p. 114). Nell’apertura <strong>del</strong> linguaggio<br />

mi imbatto nella fragranza di ciò che non potrò mai afferrare<br />

appieno: l’imperscrutabile cuore <strong>del</strong>l’abitare “la casa <strong>del</strong><br />

<strong>mondo</strong> sulla Terra e sotto al cielo” (Heidegger, citato in Harr<br />

1993, p. 115). È qui che si colloca l’etica.<br />

Questo arrivo imprevisto e inatteso riporta la storia ad ascoltare<br />

quell’aspetto <strong>del</strong>la narrazione, spesso tacito, o forse percepito<br />

come mormorio incomprensibile, che riceve e riconosce l’altro.<br />

L’estensione <strong>del</strong>la “mia” storia a un’altra equivale ad accettare<br />

questa integrazione nei suoi termini irruenti. È lì che l’astrazione<br />

<strong>del</strong>l’alterità viene resa vitale, concreta, e la mia narrazione<br />

temporale viene resa responsabile. Ciò significa far affrontare alla<br />

tradizione ciò che non è in grado di contenere, perché l’ospite<br />

è chiaramente l’ambasciatore <strong>del</strong>le “ambiguità <strong>del</strong>la traduzione”<br />

(Clifford 1988, pp. 45-46). Una storia che si espone prevedendo<br />

un simile arrivo è una storia <strong>del</strong>l’interruzione introdotta dall’estraneo,<br />

dall’altro. Si tratta di una storia di passaggio e di traduzione,<br />

nella quale la continuità <strong>del</strong> regime <strong>del</strong>la rappresentazione,<br />

mediante il quale comprendo il “politico”, la tradizione e la<br />

democrazia, la cittadinanza e lo Stato, i limiti e la legge, viene posta<br />

in un punto critico e privo di garanzie (Derrida 1996). L’altro<br />

introduce l’altro aspetto <strong>del</strong>la politica, oppure un’altra politica:<br />

l’aspetto represso <strong>del</strong>la mia rappresentazione. In questo discorso,<br />

in questa precisa situazione storica, culturale e politica, si insinua<br />

il fatto che non esiste più l’altro per me, ma soltanto l’altro accanto<br />

e al di là di me.<br />

Ecco, questa è la “tragedia” <strong>del</strong>l’ascolto, contrapposta al rilassamento<br />

<strong>del</strong>la prospettiva chiusa, ed è proprio questo che, come


74 IAIN CHAMBERS<br />

rileva Edmond Jabès (citato in Christine Buci-Glucksmann 1992),<br />

apre una relazione con l’infinito, l’impensato, proponendo di misurare<br />

il silenzio per mezzo <strong>del</strong>l’ignoto e <strong>del</strong>l’insondabile. È qui<br />

che l’estetico e l’etico divengono una sola cosa. La proposta di<br />

Lévinas è di instaurare una responsabilità tendente all’infinito. In<br />

prossimità di un altro, il fragile cerchio <strong>del</strong>l’autoconferma si spezza<br />

e il linguaggio rifugge dalla semantica <strong>del</strong> sé. Per Lévinas non è<br />

solo dai nostri limiti e dalla nostra finitezza, in ultima istanza dalla<br />

nostra morte, che dovrebbe scaturire il nostro pensiero, ossia<br />

l’ontologia, bensì da ciò che non potremo mai esperire o spiegare<br />

appieno. Se il primo tipo di origine riafferma l’unicità <strong>del</strong> pensiero<br />

e il suo potere anche sull’ignoto e sull’insondabile, il secondo<br />

abbisogna di una risposta che non viene mai ricambiata, che è incapace<br />

di parlare per una differenza inquietante e una distanza incolmabile,<br />

pur accettandone la responsabilità. È un ritorno alla<br />

ragione, al pensiero, <strong>del</strong>l’alterità che la ragione tenta di cancellare<br />

per confermare la sua sovranità.<br />

A questo punto ciò che appare più evidente non è una conclusione,<br />

un edificio pianificato <strong>del</strong>la teoria che ammaestra la pratica,<br />

bensì un percorso nel <strong>mondo</strong> che rifugge sistematicamente da<br />

queste chiusure verso la regione aperta in cui apprendiamo che la<br />

nostra capacità di comprensione è sempre minore <strong>del</strong>la storia che<br />

abitiamo, e che il linguaggio che abitiamo va al di là <strong>del</strong>le nostre<br />

aspettative. Un senso <strong>del</strong>l’essere che mi appoggia e al contempo<br />

mi supera in quanto individuo, attraversa e va oltre il pensiero<br />

che tenta di afferrarlo, che rimane irriducibile a una volontà strumentale.<br />

Questa è la situazione, per tornare ai versi di Rilke con<br />

cui si apre il presente capitolo, in apparenza tanto fragile e precaria,<br />

che ci può sostentare. Come apprendimento dei limiti questo<br />

inquadramento <strong>del</strong>le tematiche che mi configurano propone che<br />

le maniere di pensare che ho ricevuto in eredità dalla modernità<br />

siano procrastinate in maniera radicale e irreversibile. Il senso si<br />

lascia alle spalle una semantica rigida per apprendere la direzione,<br />

il movimento, l’incompleto:<br />

(…) non come ‘significato’ <strong>del</strong>l’essere, ma come la sua direzionalità.<br />

Il ‘senso’ va inteso qui come direzione nella quale si situa qualcosa,<br />

ad esempio il movimento (questa accezione sia <strong>del</strong>l’inglese sense che<br />

<strong>del</strong> francese sens ovvero <strong>del</strong>l’italiano ‘senso’ – senso di un fiume o


CORNICI TERRESTRI 75<br />

<strong>del</strong> traffico – non deriva dal latino, ma da un verbo indo-europeo<br />

che significa viaggiare, seguire un sentiero) (Schürmann 1990, p. 41).<br />

I capitoli seguenti analizzeranno questo “senso” nel contesto<br />

sia <strong>del</strong>la musica barocca che di quella contemporanea, nelle tematiche<br />

architettoniche, in varie letterature… nei ricordi <strong>del</strong>la modernità<br />

affidati alla custodia <strong>del</strong> linguaggio, <strong>del</strong> suono, degli edifici<br />

e <strong>del</strong>le nostre vite che si dipanano tra di essi.


Capitolo terzo<br />

La storia, il Barocco e il giudizio degli angeli<br />

Non c’è salute. I medici dicono che al meglio<br />

possiamo godere di una neutralità. C’è malattia<br />

peggiore <strong>del</strong> sapere che non c’è salute, né<br />

mai ci sarà?<br />

John Donne (1611a, p. 155)<br />

Le parole di Donne riecheggiano con la “caduta nel tempo secolare”,<br />

con la caduta in un <strong>mondo</strong> che “è frantumato in una serie<br />

di entità diverse, disgregato da un qualche presunto stato di<br />

trascendenza di unità primaria ed eterna” (Docherty 1986, pp.<br />

37-38). L’universo antropomorfo, la cui verità conclusiva e irraggiungibile<br />

veniva garantita dalla rivelazione di Dio, si decentra<br />

per effetto di un eliocentrismo indifferente. L’umanità si ritrova<br />

imprigionata in uno stato di esilio perenne, esposta al morbo che<br />

impazza nel <strong>mondo</strong>, in cui il tempo, la verità e il corpo vengono<br />

violentati dalla storia e dall’errore dei suoi metodi 1 .<br />

Risuona col suo alveo nell’universo come arte <strong>del</strong>la testimonianza.<br />

Dispersa nello spazio (Keplero, Pascal), decentrata, l’uniformità<br />

<strong>del</strong>la logica e <strong>del</strong>la natura è disseminata di aspetti accidentali:<br />

l’ornamentale, il decorativo e il monumentale. Il continuum<br />

<strong>del</strong>lo spazio urbano viene interrotto e deviato dall’effimero<br />

e dalla sorpresa che minaccia di far persistere un siffatto ordine<br />

(Sarduy 1975). In qualità di “apparenza pura e semplice”, di facciata,<br />

l’ornamentale svela la “struttura <strong>del</strong>la sensazione”, essenziale<br />

nel Barocco. Ecco che, nell’estetica <strong>del</strong>l’abbellimento, nel<br />

rifiuto di concludere e riconoscere un ordine naturale, nell’insistere<br />

su una testimonianza temporale e nella provocazione accidentale<br />

<strong>del</strong>l’evento, osserviamo i sensi all’opera mentre si dispiegano,<br />

si interrompono e dirottano il predestinato e l’ordinato.<br />

1 Sul Barocco in quanto periodo di “crisi generale”, che l’assolutismo monarchico ha<br />

tentato di controllare e gestire, si veda Maravall 1975.


78 IAIN CHAMBERS<br />

La facciata e l’ornamento<br />

Santa Maria <strong>del</strong> Giglio a Venezia è stata inaugurata nel 1683. Al<br />

cospetto <strong>del</strong>l’osservatore si presenta una facciata in cui i riferimenti<br />

religiosi vengono sostituiti interamente da un peana scultoreo (“statue<br />

nell’attitudine teatrale ormai consueta”, Ruskin 1853, p. 214)<br />

celebrativo di Antonio Barbaro e <strong>del</strong>la sua famiglia 1 . Domina la facciata,<br />

opera di Giuseppe Sardi, la statua di questo ammiraglio <strong>del</strong>la<br />

Serenissima. Ai suoi piedi si collocano sei scene di battaglie navali<br />

contro i turchi, statue dei suoi fratelli, e le carte topografiche di sei<br />

città (Zara, Candia, Padova, Roma, Corfù, Spalato) significative<br />

nella vita militare e diplomatica <strong>del</strong> comandante veneziano. Incorona<br />

l’opera intera la statua <strong>del</strong>la Gloria, affiancata dalle Virtù Cardinali,<br />

e accompagnata dall’Onore, dalla Virtù, dalla Fama e dalla<br />

Saggezza. In questa ostentazione pubblica di trionfo storico, un’apparente<br />

trascendenza viene intenzionalmente compromessa da una<br />

pompa e da una vanità basate sugli emblemi effimeri <strong>del</strong>la mortalità<br />

2 . Ciò che vediamo è una facciata, uno spettacolo, una tela, uno<br />

schermo, nel quale osserviamo come il Barocco riflette se stesso. Inchiodata<br />

nella storia, senza alcuna garanzia a parte quella di morire,<br />

questa sensibilità fa scaturire un senso <strong>del</strong>l’essere dal dialogo continuo<br />

coi suoi limiti. Il suo scopo risiede all’interno di se stessa: l’erotismo<br />

<strong>del</strong> gesto, la frustrazione pianificata <strong>del</strong>la forma e la funzione<br />

che integra e sovverte la chiusura <strong>del</strong> logos, e rende il linguaggio un<br />

evento la cui verità artificiale, storica riecheggia per tutta l’estensione<br />

<strong>del</strong>la grammatica <strong>del</strong>l’epoca.<br />

Tra la melodia malinconica e i foschi accordi <strong>del</strong>l’opera di<br />

John Dowland Semper Dowland, semper dolens (1604), e il riecheggiante<br />

ostinato <strong>del</strong> basso e gli arpeggi inquietanti <strong>del</strong>l’opera<br />

di Silvius Leopold Weiss Tombeau sur la mort de M’ Comte d’Logy<br />

(1721), tra questi due componimenti per liuto, percorriamo<br />

per intero il prisma musicale <strong>del</strong> Barocco. Il liuto stesso, <strong>del</strong>icato<br />

e intricato nella sua struttura, nella melodia e nell’esecuzione <strong>del</strong>la<br />

propria musica, è un’allegoria <strong>del</strong> traballante ponticello che<br />

1 John Ruskin (1853, p. 230) considerava “le chiese erette in questo periodo (…) così<br />

basse e grossolane che persino i critici italiani (…) usano dei peggiori termini di rimprovero”.<br />

2 Si veda Mario Perniola, “L’essere-per-la-morte e il simulacro <strong>del</strong>la morte”, in Perniola<br />

1983.


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 79<br />

congiunge gli estremi <strong>del</strong> razionale e <strong>del</strong> non rappresentabile che<br />

caratterizza tanto profondamente questa epoca. Già nel 1750, nell’anno<br />

in cui si spensero sia Weiss che Bach, lo strumento era già<br />

un pezzo d’antiquariato, il suo ruolo essendo stato assunto dalla<br />

razionalità più resistente e più razionale <strong>del</strong>la chitarra.<br />

I liutisti <strong>del</strong>l’Inghilterra, <strong>del</strong>la Francia e <strong>del</strong>la Germania hanno<br />

proiettato le loro sonorità nelle forme e nei ritmi forniti dalle danze<br />

preesistenti, raccolte in seguito sotto forma di suite: la gagliarda,<br />

l’allemande, il gigue, e poi la courante, il minuetto, la gavotta,<br />

la bourée e la sarabanda. Non si tratta di prestiti puramente imitativi,<br />

bensì di innovazioni che attirano l’attenzione sulla creazione<br />

<strong>del</strong>la musica nel metro preso a prestito:<br />

L’atteggiamento consueto <strong>del</strong> virtuoso strumentale che adibisce i mo<strong>del</strong>li<br />

metrici, armonici e melodici <strong>del</strong>le musiche da ballo ad un uso<br />

esclusivamente sonoro e cameristico (e non coreico) inclina volentieri,<br />

è vero, verso l’elaborazione artificiosa, la dissimulazione sottile <strong>del</strong><br />

mo<strong>del</strong>lo, la sua sublimazione nel giuoco <strong>del</strong>le figure e dei passaggi<br />

idiomatici: il musicista si impossessa <strong>del</strong>la musica da ballo e, riproducendola<br />

sul suo strumento, tende a denaturarla, a farne il mero oggetto<br />

d’un trattamento esecutivo e compositivo al quale consegna<br />

l’interesse artistico <strong>del</strong> brano (Bianconi 1982, pp. 98-99)<br />

Accanto all’analisi di queste strutture preesistenti, un’analoga<br />

importanza ha avuto la libertà musicale <strong>del</strong>lo stile e <strong>del</strong>l’esecuzione,<br />

sviluppata da Dowland a Weiss, da René Mésangeau a Denis<br />

Gaultier e Robert De Visée, nei capricci, nei preludi, nelle fantasie<br />

e nel loro fosco apice <strong>del</strong>l’orazione funebre <strong>del</strong> tombeau. Mi<br />

interessa <strong>del</strong> liuto e <strong>del</strong>l’ultima tipologia di composizioni il fatto<br />

che questi spartiti si avvalgono insistentemente <strong>del</strong>la malinconia.<br />

Emblematica dimostrazione di questa sensibilità sono i titoli dei<br />

componimenti di Dowland: Lachrimae antiquae, Forelorne Hope<br />

Fancy, Farewell 1 ; tuttavia, è col tombeau secentesco dei liutisti<br />

francesi e tedeschi che tale tendenza raggiunge lo zenit. Queste<br />

composizioni (Monsieur Bianrocher di Dufaut, Monsieur de Lenclos<br />

di Gaultier, Baron d’Hartig di Weiss) contrassegnano il tempo<br />

1 Lacrime antiche (latino), Fantasia <strong>del</strong>la speranza perduta e Addio (inglese) (N.d.T.).


80 IAIN CHAMBERS<br />

come dialogo perenne coi defunti. Interpretare il passato significa<br />

anche, come afferma Michel de Certeau, incorporarlo: onorarlo<br />

ed esorcizzarlo ascrivendolo alle potenzialità <strong>del</strong> linguaggio (de<br />

Certeau 1975, p. 120). Dare un nome e un contrassegno al tempo<br />

passato e recuperarlo per il presente significa produrre un tombeau,<br />

una commemorazione funebre che al contempo celebra la<br />

vita 1 . Perché significa<br />

fare un posto al morto, ma anche ridistribuire lo spazio dei possibili,<br />

determinare negativamente quello che c’è da fare, e dunque utilizzare<br />

la narratività [narrativité] che seppellisce i morti come mezzo per fissare<br />

un posto ai vivi (de Certeau 1975, p. 119; corsivo nell’originale).<br />

Forse è da questo connubio, lungo i confini di mondi differenti,<br />

di vita e morte, in cui le certezze si trasformano in limiti<br />

circoscritti e l’ego viene deriso, destabilizzato e temporaneamente<br />

preso dalla malinconia prima di essere disfatto in maniera irreversibile<br />

dalla mortalità, che la poetica <strong>del</strong> Barocco trova la sua<br />

risorsa principale.<br />

Nell’ornamentale, il Barocco svela la pietra angolare su cui<br />

poggia la sua struttura: “significazione sublime in luogo e al posto<br />

<strong>del</strong> non-essere soggiacente e implicito, è l’artificio che sostituisce<br />

l’effimero” (Kristeva 1987, p. 89). Un’appoggiatura sostenuta<br />

nella melodia, variazioni ritmiche nella parte <strong>del</strong> basso, una<br />

dissonanza indugiante che si libra sulle note (acciaccatura), un<br />

breve trillo o una breve nota accidentale, il tremolo, il mordente<br />

<strong>del</strong> morso, sono tutti ornamenti che registrano le incertezze tonali;<br />

ombre di una discordia potenziale che ci conduce nei<br />

meandri <strong>del</strong> suono. Per quanto in apparenza sembrino ausiliari,<br />

si rivelano essere obbligatori (Donington 1978) 2 . L’ornamentale,<br />

asserisce Lorenzo Bianconi (1982, p. 94), è “aggettivo, questo,<br />

che sarà non improprio usare soltanto a patto di riconoscere all’ornamento<br />

nella musica strumentale una funzione strutturale<br />

decisiva”. Come un gioiello, l’ornamento o “fioritura” non è un<br />

1 Sull’eco <strong>del</strong>l’idea <strong>del</strong> tombeau nel ragionamento storico, si veda Chambers 1994.<br />

2 Si noti la risonanza illuminante nei commenti di Edward Said sulla musica classica<br />

araba nel capitolo seguente.


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 81<br />

ripensamento, un abbellimento successivo aggiunto all’opera finita,<br />

bensì è il punto fondamentale su cui si basa l’opera stessa 1 .<br />

Come le finestrelle alla sommità <strong>del</strong>la cupola barocca, le note<br />

ornamentali gettano luce sull’interno, ci guidano tra le pieghe<br />

<strong>del</strong> corpo <strong>del</strong> suono. Attraversiamo la melodia e scendiamo nel<br />

basso continuo <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> 2 . Un’incertezza fosca, che aleggia sull’abisso<br />

informe che costituisce il baratro <strong>del</strong>l’essere, ci trascina<br />

giù attraverso il suono per rilasciare una visione tragica <strong>del</strong><br />

<strong>mondo</strong> e la redenzione musicale <strong>del</strong>la verità 3 . Sopra di noi il<br />

“centro” continua a oscillare nell’arabesco <strong>del</strong>la sua elaborazione<br />

che non è mai un “di più”, ma è fondamentale per l’esecuzione,<br />

nello spiegarsi che dissemina la tonalità (Buci-Glucksmann<br />

1990, p. 202). Come un’apertura nel suono, di solito improvvisata,<br />

esso sorprende la forma con la responsabilità e la libertà<br />

individuali <strong>del</strong>l’esecuzione.<br />

Il corpo, in particolare la mano direttamente coinvolta nella musica<br />

dalla intavolatura <strong>del</strong> liuto, sostiene la produzione e il mantenimento<br />

dei suoni tra le dita e le corde, e fornisce anche un codice<br />

immediato e intimo per gli iniziati. Come afferma Marin Mersenne:<br />

Forse pensavano di ottenere maggiore gloria mantenendo segreta<br />

quest’Arte piuttosto che divulgandola: ecco perché i brani su cui<br />

mettiamo le mani non vengono mai eseguiti come erano concepiti in<br />

origine, a meno che non siano stati ascoltati e orecchiati 4 .<br />

Necessariamente, ciò ci ricorda che il linguaggio <strong>del</strong> Barocco è<br />

ellittico, non finge di essere trasparente, né pretende di essere eterno.<br />

Il senso si dispiega in una sensibilità, viene in-corporato in un<br />

“qui” temporale in cui il linguaggio diviene l’arte <strong>del</strong>l’interruzione.<br />

1 La disquisizione sull’origine <strong>del</strong> termine “Barocco” nel contesto <strong>del</strong>l’oreficeria e <strong>del</strong>la<br />

lingua portoghese (barrucco, perla di taglio irregolare) è bene espressa in Sarduy 1975.<br />

2 Si veda la descrizione di Leibniz <strong>del</strong>la “casa <strong>del</strong>la risonanza” multipiano in apertura<br />

di Deleuze 1988, p. 17. Il basso continuo onnipresente e in continua evoluzione è paragonabile<br />

alla “sezione ritmica” odierna <strong>del</strong>la chitarra, <strong>del</strong> basso, <strong>del</strong>le tastiere e <strong>del</strong>la batteria<br />

sia nel jazz che nel rock; si veda Dart 1963, p. 78.<br />

3 Buci-Glucksmann 1990, p. 230, “De la musique, comme art de l’émotion sans concept,<br />

comme Affect de tout affect”.<br />

4 Citato nel libretto <strong>del</strong> compact disc di Denis Gaultier - La Rhétorique des Dieux. Suite<br />

pour le luth I, II, XII, Astrae, 1989, esecutore: Hopkinson Smith.


82 IAIN CHAMBERS<br />

La magia, la mortalità e la sfiducia <strong>del</strong>la mimesi<br />

L’idea platonica <strong>del</strong>la forma perfetta, il cerchio che funge da<br />

garanzia trascendentale di un’armonia a cui si ritiene che corrispondano<br />

i cieli, viene infranta dalla scoperta di Keplero <strong>del</strong>l’orbita<br />

ellittica descritta dai pianeti. Il cerchio si spezza. Il centro si<br />

sdoppia e si disperde all’interno <strong>del</strong>l’ellissi. L’archetipo si infrange,<br />

l’orbita vacilla, la mente trasvola. L’ordine chiuso <strong>del</strong>la cosmologia<br />

cede il posto all’infinito <strong>del</strong>l’astronomia 1 . Sospeso tra le certezze<br />

<strong>del</strong> passato – quelle <strong>del</strong>l’umanesimo rinascimentale – e <strong>del</strong><br />

futuro – le convinzioni <strong>del</strong>la logica e <strong>del</strong> razionalismo di matrice<br />

scientifica – il Barocco comporta l’atto cosciente di gettare le fondamenta<br />

<strong>del</strong> proprio edificio sul nulla. Solitari e responsabili <strong>del</strong>le<br />

nostre azioni e <strong>del</strong>la creazione di noi stessi, riconosciamo l’“eresia”<br />

di Giordano Bruno nella gioia di Zarathustra.<br />

Nella parabola <strong>del</strong>l’eresia di Giordano Bruno sono insiti i semi<br />

<strong>del</strong> dilemma che proietterà un’ombra sul secolo che si apre<br />

con la sua esecuzione, avvenuta in pubblico a Roma, nel febbraio<br />

<strong>del</strong> 1600. Accanto al mito popolare <strong>del</strong>l’uomo di ragione e di<br />

scienza perseguitato, che alza la voce contro l’oscurantismo papale,<br />

forse è più significativo proporre, a suo nome, un’altra rivendicazione,<br />

ossia quella contro l’Inquisizione per una libertà<br />

che consenta a un mago di grande cultura di esprimere il proprio<br />

pensiero senza per questo finire bruciato sul rogo. Si tratta, ovviamente,<br />

<strong>del</strong> punto di vista espresso in maniera magistrale da<br />

Frances Yates nel suo libro Giordano Bruno e la tradizione ermetica<br />

(1964). Tuttavia, laddove l’autrice vede in Bruno (nonché in<br />

Campanella), per esempio, la conclusione pubblica di un discorso<br />

rinascimentale esoterico prima che scompaia tra le ombre, in<br />

un ambiente più sicuro (i Rosacrociani, i Framassoni) e la sua<br />

inevitabile sostituzione a opera <strong>del</strong>la formazione scientifica e post-copernicana<br />

<strong>del</strong>l’era moderna, preferisco pensare che il pensiero<br />

di Bruno costituisca una perturbazione eterna. La provocazione<br />

di Bruno che pensa all’infinito attira la nostra attenzione<br />

sia sui linguaggi ambigui <strong>del</strong> Barocco che sulle ombre represse<br />

1 Per i dettagli relativi a questa “frattura cosmologica” nella creazione <strong>del</strong>la sensibilità<br />

barocca, si veda in particolare Sarduy 1975.


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 83<br />

<strong>del</strong> razionalismo. In fondo, Giordano Bruno venne condannato<br />

in quanto “uomo di lettere”. I suoi “errori” derivavano dall’ermeneutica<br />

testuale, dalla sua interpretazione di certi testi gnostici,<br />

in particolare quelli che vanno, collettivamente, sotto il nome<br />

di Ermete Trismegisto. Era un semiotico cinquecentesco che proponeva<br />

una lettura erudita, per quanto mistica, di un infinito decentrato<br />

che formalmente coincideva con la geometria scientifica<br />

<strong>del</strong>lo spazio che si stava affermando.<br />

Nondimeno, l’approccio magico alla lettura <strong>del</strong>la logica <strong>del</strong>l’universo<br />

non si limita a scomparire, ma bracca e pedina l’indagine<br />

posteriore. Prima di morire, nel pieno <strong>del</strong> nuovo secolo,<br />

Isaac Newton consegnò i suoi manoscritti a un baule, che venne<br />

scoperto da Keynes nel 1936. Gli scritti in esso contenuti trattano<br />

di esegesi biblica e di opere di alchimia e magia e forniscono<br />

una chiara illustrazione di come il “fisico più famoso fosse altresì<br />

il più grande mago” (Verlet 1993). Ci troviamo di fronte, come<br />

afferma Loup Verlet stesso nel suo libro sul contenuto di quel<br />

baule, alla conclusione <strong>del</strong>la discontinuità iniziale, con l’occultamento<br />

<strong>del</strong>le fondamenta lesionate <strong>del</strong> discorso. Ci viene fornita<br />

una versione che esclude fratture e rotture, una versione in cui i<br />

contenuti <strong>del</strong> baule vengono ignorati e negati. Gli anni che Newton<br />

trascorse a studiare il “linguaggio mistico” vengono inevitabilmente<br />

separati e in seguito cancellati dalla sua produzione<br />

scientifica. Tuttavia, come sostiene Verlet, la matematicizzazione<br />

<strong>del</strong>la realtà trova forse il suo momento genetico nell’ambito <strong>del</strong>la<br />

problematica religiosa da cui trae ispirazione e prosegue cercando<br />

risposte in altre forme “non scientifiche” <strong>del</strong>la conoscenza.<br />

Ed ecco che, sospesi tra le coordinate <strong>del</strong>la matematica e <strong>del</strong>la<br />

magia, siamo ritornati a Bruno.<br />

Il senso di perdita, il rozzo dislocamento, la caduta dallo stato<br />

di grazia nell’immenso scenario di un (dis)ordine incomprensibile<br />

e infinito, nel quale “l’uomo rotola dal centro verso la X” (Nietzsche<br />

1906, p. 8), dà certamente il via alla geografia <strong>del</strong>la malinconia<br />

barocca, all’insediamento <strong>del</strong>l’ironia, nonché alla sensibilità<br />

moderna <strong>del</strong>la secolarizzazione storica. Intrappolato nella fragilità<br />

di un anelito alla trascendenza, alla completezza, al ripristino <strong>del</strong>la<br />

verità, il Barocco riconosce nel tessuto stesso <strong>del</strong> linguaggio,<br />

nell’accoglienza voluttuosa <strong>del</strong>la perdita, un destino di interminabili<br />

peregrinazioni che rivela continuamente, in “tutte le mattine


84 IAIN CHAMBERS<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong>”, la follia d’una siffatta presunzione 1 . Ogni affermazione,<br />

gesto o espressione viene immediatamente raddoppiato dal<br />

dubbio, ogni decisione dalle ombre incerte di una dissoluzione<br />

imminente. Si realizza “essenzialmente, una nozione temporale”<br />

(de Man 1983, p. 211) che anima così profondamente la divulgazione<br />

barocca <strong>del</strong>l’allegoria e <strong>del</strong>l’ironia.<br />

In questo raddoppiamento, in cui il soggetto rifiuta di rispondere<br />

in maniera inequivocabile alle proprie affermazioni, l’ironia<br />

ostenta sia il rifiuto di rinunciare al discorso espositivo che l’impossibilità<br />

di accoglierlo nella sua interezza. L’interazione tra le<br />

affermazioni sugli oggetti e la riflessione su queste affermazioni<br />

come oggetti è di natura ambigua. Il soggetto si pone in una posizione<br />

trascendentale relativamente al discorso, ma esclusivamente<br />

per negare la possibilità di essere il garante <strong>del</strong>la trascendenza<br />

(Hallyn 1993, p. 22).<br />

Le orbite vuote di un teschio, fiori freschi tra i denti, fissano<br />

assenti la strada di tutti i giorni 2 . Il <strong>mondo</strong>, le parole, le donne…<br />

la verità, sono diventati incostanti, relitti di una cosmologia deposta:<br />

stelle cadenti, bambini generati con la radice <strong>del</strong>la mandragora,<br />

il canto <strong>del</strong>le sirene. Segnali che riveleranno la falsità “prima<br />

ch’io venga, a due o tre” (Donne 1611b, p. 35). La quiescenza<br />

temporanea <strong>del</strong>le garanzie trascendentali, precedenti il razionalismo<br />

impetuoso che ribadisce le proprie pretese sull’universo a<br />

nome <strong>del</strong>l’umanità, consente di riconoscere la piena autonomia<br />

<strong>del</strong>le rappresentazioni, la cui unica ragione è insita in esse stesse.<br />

Ricaduti sulla terra, il linguaggio, le immagini e i segni “assordantemente<br />

uniti al nulla” non possono rispondere che al proprio<br />

passaggio e alla propria presenza in queste spoglie mortali (Hélène<br />

Cixous, con allusione a Shakespeare, in Cixous, Clément 1987,<br />

p. 98). Riconoscere l’immagine <strong>del</strong>la costruzione temporale <strong>del</strong>l’artificio,<br />

<strong>del</strong> simulacro, in e per se stessa, “implica la chiusura<br />

<strong>del</strong>la metafisica e l’accettazione piena <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> storico” (Perniola<br />

1983b, p. 122). Eppure questo trova alimento, invece che<br />

1 Il riferimento è a Tutte le mattine <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> di Pascal Quignard (1992) e alla successiva<br />

realizzazione filmica <strong>del</strong>lo stesso, su sceneggiatura di Quignard, di Alain Courneau,<br />

1992. <strong>Sulla</strong> “triste voluttuosità”, si veda Kristeva 1987.<br />

2 Si tratta <strong>del</strong>la chiesa di Santa Maria <strong>del</strong>le Anime <strong>del</strong> Purgatorio (1604), a Napoli, in<br />

via dei Tribunali. I fiori vengono cambiati ogni giorno.


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 85<br />

contraddizione, nella simultanea insopportabilità <strong>del</strong>la perdita,<br />

perché la feroce consolazione <strong>del</strong> Protestantesimo e l’aggressione<br />

<strong>del</strong>l’Inquisizione sono sintomi di una profonda riluttanza alla rinuncia,<br />

soltanto in apparenza contrapposti: entrambi operano l’istituzionalizzazione<br />

<strong>del</strong>l’insopportabilità <strong>del</strong>la perdita. Rifiutando<br />

di cedere l’oggetto perduto, l’elemento primario, la garanzia <strong>del</strong>l’eterna<br />

verità, le firme terrestri dei segni e dei suoni continuano a<br />

gesticolare sull’abisso <strong>del</strong> tempo in un lutto continuo che apporta<br />

un contributo diretto all’animo Barocco:<br />

Come un tratto d’unione teso fra la Cosa e il Senso, l’innominabile e la<br />

proliferazione dei segni, l’affetto muto e l’idealità che lo designa e lo<br />

supera, l’immaginario non è né la descrizione oggettiva che culminerà<br />

nella scienza né l’idealismo teologico che si accontenterà di culminare<br />

nell’unicità simbolica di un aldilà. L’esperienza di una melanconia nominabile<br />

apre lo spazio di una soggettività necessariamente eterogenea,<br />

divisa tra i due poli co-necessari e compresenti <strong>del</strong>l’opacità e <strong>del</strong>l’ideale.<br />

L’opacità <strong>del</strong>le cose come quella <strong>del</strong> corpo disabitato dalla significazione<br />

– corpo represso pronto al suicidio – si trasferisce sul senso <strong>del</strong>l’opera,<br />

che si rivela a un tempo assoluto e corrotto, insostenibile, impossibile,<br />

da rifare. S’impone a quel punto una sottile alchimia dei segni<br />

– musicalizzazione dei significanti, polifonia dei lessemi, disarticolazione<br />

<strong>del</strong>le unità lessicali, sintattiche, narrative… – che viene immediatamente<br />

vissuta come una metamorfosi psichica <strong>del</strong>l’essere parlante<br />

tra i due bordi <strong>del</strong> non-senso e <strong>del</strong> senso, di Satana e di Dio, <strong>del</strong>la Caduta<br />

e <strong>del</strong>la Resurrezione (Kristeva 1987, pp. 89-90).<br />

Pertanto, il <strong>mondo</strong> non solo subisce un decentramento, ma anche<br />

un raddoppiamento a causa <strong>del</strong>l’insistenza coeva sul dogma e<br />

sul dubbio in ogni ambito. Aperto alla costruzione e al determinismo,<br />

il <strong>mondo</strong> diviene altresì soggetto a una poetica <strong>del</strong>l’ambiguità,<br />

a una fenditura nella ragione in cui il concetto razionale può<br />

scivolare nei contorni allitterativi <strong>del</strong> sogno 1 . Le linee rette di cui si<br />

avvalgono l’astronomia e l’architettura per la razionalizzazione<br />

1 Il Sogno di Keplero, pubblicato postumo dal figlio nel 1634, descrive i fenomeni celesti<br />

come apparirebbero dalla luna. Sotto forma di manoscritto, anche precedentemente<br />

circolavano alcune versioni <strong>del</strong>l’opera, e sembra che John Donne fosse al corrente <strong>del</strong><br />

pensiero di Keplero. Si veda al proposito Hallyn 1993. A Dream (Un sogno) è anche il titolo<br />

di una bella fantasia per liuto di John Dowland.


86 IAIN CHAMBERS<br />

geometrica <strong>del</strong> tempo e <strong>del</strong>lo spazio vengono sfumate, mimate e<br />

imitate dall’alchimia e dalla negromanzia, dalle equazioni magiche,<br />

dalle decorazioni emblematiche e dalle restrizioni terrestri <strong>del</strong>la vita,<br />

prima che tutto evapori nell’ingannevole ordine <strong>del</strong>la musica: la<br />

nota fluttua nell’aria, indi svanisce. Svanendo… in quel momento<br />

di transizione, di scomparsa, in quell’eccesso di rappresentazione,<br />

il funzionale e il razionale vengono esposti come credenze fragili:<br />

logiche che, malgrado la propria dichiarata neutralità, sono sempre<br />

circoscritte dal desiderio umano. In nessun luogo ciò si nota in<br />

maniera più forte che nell’applicazione reiterata <strong>del</strong>la “scienza” alla<br />

musica che si riscontra nelle opere di Pierre Gassendi, Marin<br />

Mersenne e René Descartes. Nella ricerca di un’armonia universale<br />

nella geometria <strong>del</strong> suono e di un’aritmetica <strong>del</strong>le passioni, essi<br />

si avvalevano <strong>del</strong>la matematica mitica di origine greca e bizantina,<br />

la quale tradisce inevitabilmente le pulsioni alchemiche, astrologiche<br />

e magiche che permeano perennemente la ragione barocca (si<br />

vedano Mersenne 1985 e Gassendi 1992) 1 .<br />

Se la distanza più breve tra due corpi è la linea retta, la scossa<br />

<strong>del</strong>l’allegorico fornisce il trasporto più celere dall’ovvio al geroglifico<br />

e all’altro fuoco oscurato <strong>del</strong>l’ellissi. Qui Nicholas Dyer, architetto,<br />

responsabile <strong>del</strong>l’edificazione di sette nuove chiese nelle<br />

città di Londra e di Westminster nel 1711, ci rivela una logica che<br />

si concilia con una concezione insospettata:<br />

E così completerò la Figura: Spittle-Fields, Wapping e Lime-house<br />

hanno composto il triangolo; Bloomsbury e St. Mary Woolnoth hanno<br />

poi creato il pentacolo maggiore e, con Greenwich, tutti quanti<br />

formeranno la dimora sestupla di Baal-Berith ovvero il Signore <strong>del</strong>l’Alleanza.<br />

A quel punto, con la chiesa di Little St. Hugh, la Figura<br />

<strong>del</strong>l’Ettagono s’ergerà dominando Black Step Lane e, in tal guisa,<br />

ogni linea retta verrà arricchita con un punto verso l’Infinito e ogni<br />

Piano con una linea verso l’Infinito. Chi è in grado, conti il Numero:<br />

le sette Chiese sono edificate in congiunzione coi sette Pianeti nell’Orbita<br />

Celeste inferiore, i sette Cerchi dei Cieli, le sette Stelle <strong>del</strong>l’Orsa<br />

Minore e le sette Stelle <strong>del</strong>le Pleiadi. Little St. Hugh è stata<br />

scagliata nell’Abisso assieme ai sette Segni sulle sue Mani, Piedi,<br />

1 Descartes scrisse un Compendium Musicae, pubblicato postumo a Utrecht nel 1650,<br />

disponibile nella versione italiana <strong>del</strong> 1990.


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 87<br />

Fianchi e Petto che mostrano i sette Demoni: Bey<strong>del</strong>us, Metucgayn,<br />

Adulec, Demeymes, Gadix, Uqizuz e Sol. Ho architettato un Ordine<br />

eterno, che posso contemplare ridendo: ora nessuno può eguagliarmi<br />

(Ackroyd 1985, p. 186).<br />

Nella sua oramai classica descrizione <strong>del</strong> pensiero intellettuale<br />

inglese di quel periodo, La cultura inglese <strong>del</strong> Seicento e <strong>del</strong> Settecento,<br />

Basil Willey (1953) ritorna a più riprese sull’ambiguità<br />

profonda insita nella sua voce. Egli mescola con cura discorsi sull’alba<br />

<strong>del</strong>l’era <strong>del</strong>la ragione e sul trionfo <strong>del</strong>la scienza, insistendo<br />

sulla qualità bifronte <strong>del</strong>l’epoca, con la sua capacità di vivere in<br />

“mondi distinti e separati” (Sir Thomas Browne, ib., p. 48). Perché<br />

ciò che era nuovo non sottintendeva necessariamente una frattura<br />

irreparabile <strong>del</strong> tempo, bensì una nuova contestualizzazione di elementi<br />

che al contempo incoraggiavano e sviavano la possibilità di<br />

una verità indivisibile da localizzare nell’ambito di un razionalismo<br />

meccanico che “immagina stabile ciò che invece è mutevole” (Francis<br />

Bacon, ib., p. 42). Scrivendo in un’epoca in cui, con Werner<br />

Heisenberg, l’incertezza era assurta al ruolo di principio nel paradigma<br />

<strong>del</strong>le scienze naturali, Willey (p. 48), giustamente, interroga<br />

la visione razionalista <strong>del</strong> periodo precedente, asserendo:<br />

Si iniziava solo allora la formulazione <strong>del</strong>le distinzioni che nelle età<br />

successive separarono la poesia dalla scienza, la metafora dal fatto,<br />

l’immaginazione dal raziocinio. L’aspetto più importante di questi<br />

mondi diversi non era che essi erano divisi, ma che erano validi contemporaneamente.<br />

Questo inquadramento <strong>del</strong> pensiero e <strong>del</strong>la vita rimaneva sospeso<br />

in un equilibrio fluttuante e ambiguo tra luce e tenebre, tra<br />

l’impalcatura piatta e tabulare <strong>del</strong>la ragione e le pieghe infinite e<br />

stratificate <strong>del</strong>la spiegazione. Scrive Fernand Hallyn (1993, p. 20):<br />

Possiamo considerare il Seicento e il Settecento come il periodo di<br />

transizione dalla predominanza <strong>del</strong>l’asse verticale, che collega i vari<br />

livelli <strong>del</strong>la realtà, alla predominanza <strong>del</strong>l’asse orizzontale, che riconduce<br />

tutto a un solo livello.<br />

Tra lo spiegare (ossia fornire una spiegazione, ma anche svolgere<br />

qualcosa di avvolto) e il piegare (avvolgere, avviluppare, incar-


88 IAIN CHAMBERS<br />

tare), emerge lo spiegamento (spiegazione, apertura <strong>del</strong>l’involucro,<br />

svolgere un incartamento). Contrariamente al punto fisso <strong>del</strong><br />

razionalista a priori, che cercava Cartesio, qui c’è il mutevole punto<br />

di vista <strong>del</strong> corpo, nel quale dare una spiegazione significa aprire<br />

l’involucro, svelando una complessità e rintracciando l’in-finito<br />

nelle pieghe, nelle sgualciture e negli anfratti <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, nella finitezza<br />

<strong>del</strong> nostro inquadramento fisico, <strong>del</strong> tempo e <strong>del</strong>lo spazio,<br />

nel <strong>mondo</strong> <strong>del</strong>le nostre possibilità 1 .<br />

Piegare-spiegare non significa più semplicemente tendere-distendere,<br />

contrarre-dilatare, ma avviluppare-sviluppare, involgere-evolvere.<br />

L’organismo si definisce per la sua capacità di piegare le sue parti all’infinito,<br />

e di spiegarle, non all’infinito, ma fino al grado di sviluppo<br />

concesso alla specie (Deleuze 1988, p. 13).<br />

Ciò significa che la centralità <strong>del</strong>la retorica <strong>del</strong> Barocco non è<br />

una questione frivola o “ornamentale”. L’arte di vedere e di comprendere<br />

deve essere montata e fabbricata, è distinta dall’informazione.<br />

Nella violenta instabilità <strong>del</strong>la Controriforma e nel <strong>mondo</strong><br />

incerto dovuto al nuovo ordine sociale, la conoscenza richiede una<br />

certezza articolata piuttosto che il semplice consenso 2 . Talvolta la<br />

costruzione, tanto in architettura quanto nel teatro e nel pensiero,<br />

pendeva più verso la luce, talvolta più verso l’ombra; senza fallo,<br />

riconosceva che la propria origine ibrida si situava in entrambe. I<br />

limiti <strong>del</strong>la mortalità sono stati iscritti tanto nelle fughe razionali<br />

quanto nel vivido movimento di corpi e luci ritratti di sbieco da<br />

Caravaggio: catturati temporaneamente, ma non centrati, stanno<br />

per cadere fuori dalla cornice (Sarduy 1975, p. 50).<br />

Proprio nell’arte di Caravaggio si avverte, nella maniera più<br />

drammatica, il senso di incertezza che caratterizza il centro e la<br />

certezza. Ecco che la prospettiva <strong>del</strong>la mimesi viene ribaltata e si<br />

annuncia la morte <strong>del</strong>la rappresentazione. Il neoclassicista Poussin<br />

dichiarò che Caravaggio era venuto al <strong>mondo</strong> per uccidere la<br />

1 “Il punto di vista si trova nel corpo”, Leibniz, lettera a Lady Masham, giugno 1704,<br />

citato in Deleuze 1988, p. 17.<br />

2 Su questo punto concorda Marc Fumaroli (1994), secondo il quale la diversità <strong>del</strong><br />

Barocco europeo tende in buona misura a fiorire sotto l’egida italianizzata <strong>del</strong>la Controriforma.


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 89<br />

pittura 1 . Frustrando un’appropriazione razionalista e la piacevole<br />

misura <strong>del</strong>l’ordine e <strong>del</strong>l’interpretazione classici, la pittura “dal<br />

vivo” di Caravaggio minaccia la nobiltà <strong>del</strong>lo sguardo (theoria)<br />

mostrando ciò che si vede, invece di ciò che la ragione compone<br />

e condona. La “bellezza mortale <strong>del</strong>la teoria”, la configurazione<br />

sepolcrale <strong>del</strong> discorso e il razionalismo di una rappresentazione<br />

che rende leggibile e possedibile il <strong>mondo</strong>, viene distrutta da Caravaggio,<br />

il quale rivolge lo sguardo all’interno di se stesso e <strong>del</strong>la<br />

cornice mortale che annuncia (Marin 1977). Come sostiene<br />

Louis Marin, in Caravaggio non incontriamo la verità <strong>del</strong>l’oggetto<br />

rappresentato, bensì la verità <strong>del</strong>la rappresentazione. Eliminando<br />

la distanza e intrappolando l’occhio nell’apparenza, tutto<br />

avviene sulla superficie <strong>del</strong> dipinto, il<br />

piano in cui l’esterno e l’interno si sovrappongono in una linea sfocata<br />

e indecifrabile. Ecco che l’esterno e l’interno raggiungono la maggiore<br />

intensità e il maggiore potere, un potere tanto schiacciante che<br />

non è possibile opporvisi (Marin 1977).<br />

L’“idea” <strong>del</strong>la pittura come mimesi fe<strong>del</strong>e, come “fe<strong>del</strong>e” alla<br />

natura, come giudizio storico e prospettiva storica, viene sostituita<br />

dall’atto <strong>del</strong>la pittura come “il momento in cui la vista prorompe<br />

dalla rappresentazione”. Marin conclude: ciò che si staglia dal<br />

fondo nero di queste tele è che “il momento di autoriflessione nei<br />

dipinti <strong>del</strong> Caravaggio rivela come la pittura sia una rappresentazione<br />

senza base, senza fondamenta”. In Caravaggio, “lo sguardo<br />

è un gesto che indica, un ‘questo’ che fa a meno dei discorsi e <strong>del</strong>la<br />

descrizione integrativa, che ha luogo hic et nunc”.<br />

Come la nota agonizzante <strong>del</strong> liuto o <strong>del</strong>la viola da gamba, la<br />

trama e la tonalità sono decentrate, transitorie, malinconiche. La<br />

visuale appassionata <strong>del</strong>le cose scaturisce dall’evento <strong>del</strong>la storia<br />

sofferente (“apposto su una ruota di fuoco”), non dalla sigillata<br />

saldezza <strong>del</strong>la logica. Nella sua violenta affermazione, questa disposizione<br />

annuncia altresì lo spazio precario <strong>del</strong>l’emergere <strong>del</strong><br />

1 Nella sua storia <strong>del</strong>la pittura e <strong>del</strong>l’architettura <strong>del</strong> 1725, André Félibien scrisse:<br />

“Poussin non sopportava Caravaggio e diceva che fosse venuto al <strong>mondo</strong> per distruggere<br />

la pittura”, citato in Marin 1977. La citazione di Caravaggio in questa sede è solo un riflesso<br />

<strong>del</strong> suggestivo saggio di Marin.


90 IAIN CHAMBERS<br />

<strong>mondo</strong> urbano moderno, e funge da precursore di ciò che, nei secoli<br />

futuri, verrà denominato “cultura di massa” (Maravall 1975).<br />

Lo stile e la sensibilità <strong>del</strong>l’eccessivo e <strong>del</strong>l’ornamentale acquisisce<br />

vieppiù una dimensione pubblica, parallelamente all’ascesa<br />

<strong>del</strong>l’assolutismo. Per tutto l’arco <strong>del</strong> Seicento, nella musica, per<br />

esempio, si <strong>del</strong>inea la distinzione tra esibizione privata ed esibizione<br />

di corte. La musicalità e l’accoglienza domestica <strong>del</strong>la musica<br />

francese per liuto svaniscono dinanzi all’autorità <strong>del</strong>l’assolutismo.<br />

Il patrocinio crescente sulla musica da parte <strong>del</strong>la borghesia<br />

cittadina, spesso in contrasto con gli stili che godono dei favori<br />

<strong>del</strong>la corte, provoca un ulteriore spostamento <strong>del</strong> teatro dai contesti<br />

privati, di palazzo, verso la sfera pubblica. Nulla manifesta<br />

questa esplosione <strong>del</strong> pubblico più <strong>del</strong>lo spettacolo offerto dall’opera.<br />

Se l’opera lirica come tipologia musicale ha inizio nel 1600 a<br />

Firenze, con l’Euridice di Ottavio Rinuccini, essa assurge per la<br />

prima volta al ruolo di spettacolo di massa a Venezia nel 1637, in<br />

occasione <strong>del</strong>l’inaugurazione <strong>del</strong> primo teatro pubblico. Nello<br />

slittamento dall’opera di corte a quella pubblica, si riscontra il<br />

passaggio dall’evento unico, dalla creazione una tantum, a un’esecuzione<br />

concepita per essere prodotta in serie, ossia concepita per<br />

essere riprodotta quasi tre secoli prima che Walter Benjamin applicasse<br />

la medesima definizione al cinema 19 . L’opera era un evento<br />

pubblico, con tutti gli annessi e connessi di natura ideologica,<br />

economica e politica che caratterizzano il “pubblico”. Dipendeva<br />

da un pubblico sia in termini estetici (per completarne il dramma<br />

partecipando al suo dispiegarsi) che economici: l’acquisto di biglietti,<br />

poltrone, palchi. Tra il 1600 e il 1637, l’opera sposta l’attenzione<br />

dall’antico (la presunta musica <strong>del</strong>l’antica Grecia) alla<br />

produzione teatrale moderna, commerciale, in cui l’antico si perde<br />

(Bianconi 1982, p. 166). Si tratta di uno spostamento dal tramonto<br />

<strong>del</strong>la cultura umanista (e con essa, di Firenze) verso un’altra<br />

cultura moderna, urbana, pubblica (Venezia). Qui la società è<br />

in grado di contemplare se stessa (Clément 1988). Si ha un’ulteriore<br />

accentuazione nell’infrazione <strong>del</strong>le categorie estetiche precedenti<br />

con un ibrido di vernacolo e sublime, sempre più rielaborati<br />

nella mancanza generale di rispetto per i canoni precedenti <strong>del</strong>-<br />

1 Gran parte di questa discussione è tratta direttamente da Bianconi 1982.


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 91<br />

la composizione, <strong>del</strong> teatro e <strong>del</strong>la rappresentazione. Non si vuole<br />

sostenere, come afferma Lorenzo Bianconi, che l’opera nel Seicento<br />

fosse un mezzo popolare (condizione che si verificherà soltanto<br />

nell’Ottocento), bensì si trattava di un mezzo popolarizzato<br />

e pubblicizzato come manifestazione attiva, pubblica <strong>del</strong> potere<br />

culturale e secolare (Bianconi 1982, p. 191). In quanto tale, accanto<br />

ai suoi sentimenti, alle sue strutture e ai suoi eccessi instabili,<br />

l’opera è stata il mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong> Barocco.<br />

Accanto all’instaurazione sistematica <strong>del</strong> governo centralizzato<br />

e <strong>del</strong>la vita di corte (Madrid, Versailles, Londra), nonché alla razionalizzazione<br />

pubblica <strong>del</strong> controllo finanziario, giuridico, militare<br />

e <strong>del</strong>l’istruzione, la rinnovata imposizione dei diritti feudali<br />

incoraggiò (e talvolta impose con la forza) la migrazione di contadini,<br />

coltivatori e piccoli proprietari terrieri dalla campagna verso<br />

le città. Ne derivò una crescita <strong>del</strong>la popolazione urbana priva di<br />

proprietà: i volti anonimi <strong>del</strong>le future “folle”, “marmaglie” e<br />

“masse” urbane, nonché <strong>del</strong> sottobosco <strong>del</strong>la criminalità urbana.<br />

Oltre a queste dislocazioni violente ci fu un’interminabile serie di<br />

guerre e persecuzioni religiose, a causa <strong>del</strong>le quali le regioni rurali<br />

furono flagellate da banditi e bande erranti di soldati in rotta e<br />

di ex mercenari. Si completi il quadro con periodiche riproposizioni<br />

<strong>del</strong>la caccia alle streghe e <strong>del</strong>le pestilenze. In “un periodo<br />

ebbro di violenze immaginarie ed effettive” (Benjamin 1928, pp.<br />

158-159), questi erano tutti campioni diretti <strong>del</strong>la “pedagogia barocca<br />

<strong>del</strong>la violenza” (Maravall 1975), spaventosi promemoria di<br />

un <strong>mondo</strong> fragile e di una mortalità precaria.<br />

Nella prima metà <strong>del</strong> diciassettesimo secolo, Londra è stata flagellata<br />

dalla peste (1603: 33.500 vittime; 1625: 35.500 vittime;<br />

1636: 10.500 vittime), nonché, nel 1665-1666, dalla Grande Peste<br />

(69.000 morti), cui fece seguito il Grande Incendio <strong>del</strong> 1666 (Hill<br />

1969, p. 278). Analogamente, la Napoli barocca pullula di guglie e<br />

obelischi allegorici eretti per esorcizzare le pestilenze, i terremoti e<br />

le eruzioni vulcaniche: l’eruzione <strong>del</strong> Vesuvio <strong>del</strong> 1631, le pestilenze<br />

<strong>del</strong> 1656 e <strong>del</strong> 1657, i terremoti <strong>del</strong> 1688 e <strong>del</strong> 1694 (Cantone<br />

1992). Ciò che prima veniva tenuto a una certa distanza con la<br />

promessa di un’altra vita, di un altro <strong>mondo</strong>, <strong>del</strong>la salvezza, si appropinqua<br />

in maniera drammatica: viene rappresentato (vor-stellen)<br />

e ri-cordato, in-corporato e incarnato. Diventa una “cosa”<br />

(res) che ci turba e ci sgomenta (Heidegger 1954a). In questo mo-


92 IAIN CHAMBERS<br />

do le cose ultime (la morte e il giudizio) divengono cose <strong>del</strong>l’immediato<br />

(Heidegger 1950b, p. 7). Il filosofo italiano Mario Perniola<br />

mette in relazione questo riconoscimento barocco <strong>del</strong>la traslazione<br />

storica e ontologica <strong>del</strong>la morte nella vita, che si oppone a<br />

un concetto separato ed estraneo all’esistenza terrestre, con Loyola<br />

e i gesuiti. Non si tratta di una testa pensante, bensì di un corpo<br />

inscritto nei limiti terrestri, che risiede nel mortale rifugio <strong>del</strong>la<br />

Terra ed è destinato ai vermi <strong>del</strong> tempo, che fornisce il corpus costante<br />

e tragico <strong>del</strong>la teatralità barocca, <strong>del</strong>l’estetica e <strong>del</strong>l’ascesi<br />

<strong>del</strong>l’epoca.<br />

La malinconia e lo spazio coloniale<br />

Tuttavia, in questa potente vicinanza, includendo con forza la<br />

mortalità nella verità, emerge altresì una notevole fiducia 1 . Quasi<br />

come contropartita per la perduta centralità, il secolo <strong>del</strong> Barocco<br />

testimonia anche l’elaborazione violenta e capillare <strong>del</strong>l’egotismo in<br />

espansione, che cerca di mo<strong>del</strong>lare e foggia il resto <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> a sua<br />

immagine e immaginario. Nel momento stesso in cui il pensiero europeo<br />

si considera prigioniero <strong>del</strong> tempo, gettato nelle sguarnite vicissitudini<br />

<strong>del</strong>la storia, scopre una terribile libertà. L’“ansia coloniale”<br />

che immancabilmente accompagna la scoperta <strong>del</strong>l’alterità radicale<br />

in Africa, Asia e nel Nuovo Mondo ha rapidamente trovato accoglienza<br />

nell’ambito <strong>del</strong> linguaggio e <strong>del</strong>la ragione europei (Hulme<br />

1992) 2 . Negli ampi viali, nell’enorme piazza e nell’imponente<br />

facciata <strong>del</strong>le chiese realizzate durante il Barocco nelle zone urbane<br />

<strong>del</strong> Messico e nel Sud America, è stata eretta un’architettura che ha<br />

inglobato corpi e storie non europei solamente per negarli spietatamente,<br />

analogamente a quanto avveniva nelle piantagioni, nei disboscamenti,<br />

nelle stazioni commerciali più a nord. Il silenzio, l’intrattabile<br />

e l’intraducibile sono stati costretti a recare testimonianza<br />

di un narcisismo europeo che tentava “di rappresentare anche le<br />

esperienze che gli oppongono resistenza con testarda opacità”<br />

1 Ringrazio di cuore Kathy Biddick per avermi ricordato questa “fiducia”.<br />

2 Sulle diverse iscrizioni cerimoniali dei possedimenti e <strong>del</strong>le conquiste inglesi, spagnole,<br />

portoghesi e olandesi nelle Americhe, si veda Patricia Seed 1995.


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 93<br />

(Chow 1993, p. 38). Questa presenza invisibile ha lasciato tracce<br />

nel lavoro, nella schiavitù, nel sangue, nella tortura e nella morte<br />

dei soggetti amministrati e reclusi dal governo coloniale, dalla repressione<br />

militare e dall’Inquisizione. Mantenuti ai margini nelle<br />

colonie con la forza, la paura e il terrore, i limiti dei possedimenti<br />

europei e <strong>del</strong>la posizione europea venivano al contempo instaurati<br />

e repressi mentre l’Occidente insisteva, brutalmente, nel suo tentativo<br />

di identificarsi col <strong>mondo</strong> intero.<br />

In Europa, il saccheggio iniziale, i metalli preziosi <strong>del</strong> Nuovo<br />

Mondo e il conseguente sfruttamento, per mezzo <strong>del</strong> lavoro degli<br />

schiavi, hanno fornito l’impalcatura immediata per l’ascesa <strong>del</strong>lo<br />

Stato centralizzato, <strong>del</strong>la cultura urbana moderna e <strong>del</strong> sistema economico-finanziario<br />

che avrebbe promosso la modernità europea.<br />

Questo incontro lacerante con l’alterità ha lasciato inevitabilmente<br />

il segno, sotto forma di segnali, suoni e ombre ambigui che caratterizzano<br />

sia l’economia politica che quella culturale <strong>del</strong>l’epoca. Ci si<br />

può persino azzardare a suggerire che la malinconia maschile <strong>del</strong>l’epoca<br />

(Donne, Dowland, Amleto…) sia meno una conseguenza<br />

<strong>del</strong> tramonto <strong>del</strong>l’umanesimo rinascimentale che non una risposta<br />

al progressivo restringimento <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> conosciuto, ora spaesato<br />

dall’eliocentrismo e dalla nuova presenza costituita dall’America:<br />

quest’ultima sempre ritratta come una donna indomita, mostruosa,<br />

vergine, la cui presenza minacciosa deve essere sottomessa, conquistata<br />

e addomesticata. Non si riscontra alcuna correlazione necessaria<br />

o immediata tra una miniera d’argento peruviana e La resurrezione<br />

di Lazzaro <strong>del</strong> Caravaggio, tra il consiglio di guerra degli irochesi<br />

e la pavana sul liuto elisabettiano. Eppure, nella disillusione<br />

che parla <strong>del</strong> crollo di un ordine cosmico unitario che getta l’umanità<br />

nella sguarnita eterogeneità <strong>del</strong>la differenziazione <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>,<br />

emerge un linguaggio che, fatalmente, prende atto, sconsolato, dei<br />

limiti: ecco che la soggettività europea subisce una battuta d’arresto,<br />

potenzialmente slitta. Nell’anatomia <strong>del</strong>la malinconia certamente<br />

risiede la concentrazione che consente agli occidentali di ricollocarsi<br />

al centro. Ecco che si registra un radicale spostamento<br />

nella percezione <strong>del</strong> tempo storico, accompagnata dal manifestarsi<br />

<strong>del</strong>l’individuo come soggetto circoscritto. Riconoscendo i limiti, la<br />

ragione e il tempo rispondono alla finitezza (Heidbrink 1994).<br />

In questa costellazione, ovviamente, si fa comunemente riferimento<br />

all’epoca barocca come epoca <strong>del</strong>la malinconia. Dal celebre


94 IAIN CHAMBERS<br />

trattato di Robert Burton sulla questione, datato 1621, allo studio di<br />

Walter Benjamin di questo “teatro <strong>del</strong> lutto”, tre secoli più tardi<br />

(1928), l’argomento si riscontra ovunque, e viene amplificato, in<br />

maniera più sintetica, nella musica di quel periodo. Tuttavia, se la<br />

malinconia rappresenta l’infinito <strong>del</strong> dolore, una perdita mai accettata<br />

come un lutto, cosa cerca di trattenere e incorporare esattamente<br />

la malinconia barocca nella sua incessante proiezione <strong>del</strong>la<br />

sofferenza? Per quale motivo, in tutto il suo eccesso teatrale, la nota<br />

conclusiva è una nota diminuita, un’eco dissonante <strong>del</strong>la privazione<br />

che scompare? Se le qualità <strong>del</strong> Barocco vengono generalmente ritratte<br />

nella malinconia maschile, che cosa traspira in questo lutto<br />

annunciato eppure incompleto? Ripudiando la sicurezza cosmica, la<br />

divinità sicura e la certezza religiosa, si ha certamente una perdita<br />

che non è mai possibile riconoscere pubblicamente o elaborare privatamente,<br />

poiché la proibizione è di natura culturale e storica. Per<br />

darne annuncio, non esiste alcuno spazio pubblico, fuorché l’eresia.<br />

L’eresia, come riconoscimento differito <strong>del</strong>la perdita, comporta l’essere<br />

sospesi tra la mancanza e lo stato che deve essere ancora raggiunto.<br />

Muoversi in un ordine secolare che continua a negare la<br />

possibilità di seppellire il suo predecessore significa rimanere intrappolati<br />

nel trauma di “mimare la morte che non si può piangere”<br />

(Butler 1997, p. 142). Ma c’è <strong>del</strong>l’altro, qualcosa inerente alla malinconia<br />

maschile e al corpo barocco, che ha a che fare con la definizione<br />

di limiti e confini, <strong>del</strong>l’essere costretto entro il vincolo <strong>del</strong>l’ineluttabilità<br />

<strong>del</strong>la morte, entro l’orizzonte potenziale <strong>del</strong>la morte e<br />

<strong>del</strong>l’alterità, che, nella maniera più drammatica possibile, è strettamente<br />

connesso allo spazio coloniale.<br />

Tuttavia, questo è anche il corpo che oltrepassa i limiti precedenti,<br />

che sorvola e supera la sua posizionalità nell’epoca precedente,<br />

non si sente più limitato dalla geografia di un’autorità unica.<br />

Ormai questo corpo europeo è altresì l’oggetto <strong>del</strong>lo sguardo<br />

<strong>del</strong>l’estraneo, e pertanto diviene al contempo un soggetto centrato<br />

e limitato: “io non vedo che da un punto, ma nella mia esistenza<br />

sono guardato da ovunque” (Lacan 1964, p. 74) 1 . Nei confini e<br />

1 L’idea di essere contemporaneamente centrato e limitato viene discussa nella maniera<br />

più dettagliata nel racconto di Michel de Certeau di Jean de Léry, protagonista <strong>del</strong>la<br />

modernità, il quale in Brasile, negli anni Sessanta <strong>del</strong> Cinquecento, fu testimone oculare<br />

di una scena primaria nella costruzione <strong>del</strong> discorso etnologico. Si veda al riguardo il capitolo<br />

intitolato Etno-grafia: l’oralità, o lo spazio <strong>del</strong>l’altro: Léry, in de Certeau 1975.


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 95<br />

nei punti di contatto di questo “nuovo <strong>mondo</strong>”, un siffatto corpo<br />

viene “reso un altro” dal “nativo” (Chow 1993). In questo stato<br />

limite <strong>del</strong>l’ansia, lo sguardo europeo, per quanto imperiali siano<br />

le sue presunzioni, si piega nell’esercizio più frantumato e scomodo<br />

<strong>del</strong>l’egemonia coloniale nell’oscillante palcoscenico <strong>del</strong> potere:<br />

“noi siamo degli esseri guardati, nello spettacolo <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>. Ciò<br />

che ci fa coscienza ci istituisce al tempo stesso come speculum<br />

mundi” (Lacan 1964, p.77). In questa oscillazione, nello spazio in<br />

cui ogni soggetto è potenzialmente un oggetto, e nel ritorno alle<br />

sue ansie, il Barocco offre “i rituali esecutivi <strong>del</strong> primo contatto<br />

interculturale” (Carter 1996, p. 229). Stando così le cose, Paul<br />

Carter continua dicendo che il Barocco annuncia:<br />

Una controtradizione nell’ambito <strong>del</strong>la ragione occidentale, e noi abbiamo<br />

proposto che questa controtradizione sia profondamente invischiata<br />

nella poetica <strong>del</strong>la colonizzazione e pertanto, forse, nella continua<br />

critica <strong>del</strong> Logos occidentale che caratterizzerà la nascita <strong>del</strong>la<br />

politica e <strong>del</strong>la poetica postcoloniale (p. 302).<br />

Ecco che si ritorna allo sguardo <strong>del</strong> nativo, alle origini mitiche<br />

<strong>del</strong>la modernità occidentale, ai suoi miti di conoscenza; si fa ritorno<br />

a casa provvisti di un vantaggio fondamentale che mette in<br />

scena l’opposto <strong>del</strong>l’analisi antropologica, che ora si guarda alle<br />

spalle cercando le proprie “origini”. L’intrusione violenta<br />

<strong>del</strong>l’“estraneo” si attua in casa propria, nell’Occidente, provocando<br />

una disposizione critica che ricolloca la precedente strutturazione<br />

in un’altra storia. Inevitabilmente, questo ritorno non richiesto<br />

implica una revisione <strong>del</strong>la storia e <strong>del</strong>le discipline che in<br />

precedenza reggevano lo spazio coloniale e che ora tentano di<br />

spiegarne le conseguenze (Lambert 1995).<br />

Nell’ostentazione pubblica <strong>del</strong> Barocco (il teatro, gli spettacoli<br />

pirotecnici, le fontane, gli obelischi, le chiese e, soprattutto, l’opera<br />

lirica) si riscontra l’orchestrazione culturale di una presenza eccessiva<br />

registrata in un potere che scende a patti per la prima volta<br />

col pubblico di massa, col pubblico urbano (Maravall 1975).<br />

Questa disposizione non viene semplicemente impartita a un<br />

pubblico passivo: lo spettatore, l’ascoltatore, viene richiamato<br />

perché faccia scattare la molla <strong>del</strong> dramma, la forza emotiva <strong>del</strong>la<br />

musica, perché completi l’evento e non si limiti a osservarne il di-


96 IAIN CHAMBERS<br />

spiegamento. È possibile interpretare questo sfoggio pubblico e<br />

stravagante come sintomo <strong>del</strong>l’ansia politica e culturale che insorge<br />

allorché si oltrepassa un precedente ordine conosciuto. Un’alleanza<br />

religiosa ed epistemologica è stata infranta dal dissenso,<br />

dalla guerra e dalla controconoscenza: tutto si riconduceva alla<br />

disagevole elaborazione di una politica decentrata alla ricerca di<br />

un nuovo assoluto. Qui, persino nella teatralità <strong>del</strong>l’emergente<br />

centralizzazione <strong>del</strong>lo Stato e <strong>del</strong>la sua monarchia assoluta, il Barocco<br />

rivela una disposizione ansiosa <strong>del</strong> potere, da cui derivano<br />

l’eccesso violento e l’istituzione drammatica in un <strong>mondo</strong> che minaccia<br />

di sfuggire a confini e controlli. Questa minaccia è sia interna<br />

(la scienza, la secolarizzazione e una modernità urbana che<br />

sboccia) che esterna: l’inquietante immissione di altri mondi.<br />

Cortés, dinanzi a Tenochtitlan (in seguito nota come Città <strong>del</strong><br />

Messico) e prima <strong>del</strong>la sua distruzione, la definì “la più bella città<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong>”. Lo spazio barocco è anche lo spazio coloniale, e l’intrusione<br />

di nuovi mondi, da dentro quanto da fuori, è un palinsesto<br />

<strong>del</strong>l’estetica barocca <strong>del</strong>la meraviglia, <strong>del</strong> terrore, <strong>del</strong>la paura,<br />

<strong>del</strong> dolore e <strong>del</strong>lo spettacolo 1 .<br />

Lo stile <strong>del</strong> tempo<br />

La leggenda talmudica assegna a ogni istante <strong>del</strong> tempo un suo angelo<br />

specifico, cioè una sua propria qualità, <strong>del</strong>le insostituibili virtualità<br />

messianiche (…). Questa paradossale figura di pensiero, secondo<br />

la quale la fine può compiersi già ora, “nell’ambito storico”,<br />

sovverte i fondamenti stessi <strong>del</strong>la Ragione storica. Essa implica, infatti,<br />

che il tempo non sia più pensato come un asse orientato lungo<br />

il quale il dopo succede inevitabilmente al prima, oppure come un<br />

fiume che scorre dalla sorgente alla foce, bensì come una giustapposizione<br />

di istanti sempre unici, non totalizzabili, che – dunque –<br />

non si succedono come tappe di un processo irreversibile. Il passato,<br />

il presente e il futuro non si dispongono, qui, in sequenza su di<br />

1 In assenza di un ritorno domestico, e ritrovandosi perduto nell’El Dorado di un<br />

orizzonte nuovo, l’ego può essere trascinato via in un’economia infinita di segnali, da cui<br />

sgorga il linguaggio e i sensi scorrono, incontrollati, verso la morte. Forse l’esemplificazione<br />

migliore di quanto appena detto è data dalle inutili spedizioni di Sir Walter Raleigh e<br />

dal film di Werner Herzog, Aguirre. Furore di Dio (1972).


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 97<br />

una linea retta che uno spettatore potrebbe osservare dall’esterno,<br />

bensì coesistono come tre stati permanenti <strong>del</strong>la coscienza (Mosès<br />

1992, pp. 24-25).<br />

Tutto il discorso manifesto è la repressione di ciò che non viene detto,<br />

che a sua volta mina alle fondamenta ciò che viene detto (O’Connor<br />

1988, p. 59).<br />

Il complesso gioco di luci e di ombre <strong>del</strong> Barocco, coi suoi limiti<br />

e con le sue domande, apre uno spazio critico che torna ad<br />

abitare il nostro presente. Pone un quesito, crea un’apertura<br />

nella struttura <strong>del</strong>la nostra comprensione, una lacerazione nel<br />

tessuto <strong>del</strong>la nostra conoscenza. Ci trascina nelle ombre <strong>del</strong>l’illuminazione,<br />

nelle zone represse da cui il nostro essere tenta di<br />

tenersi alla larga, perché ci obbliga a confrontarci e a dialogare<br />

con ciò che più disperatamente tentiamo di ignorare: i nostri limiti<br />

e la nostra mortalità. La critica barocca <strong>del</strong>la permanenza e<br />

<strong>del</strong>l’essenzialismo, integrata dal contemporaneo decentramento<br />

e ricentramento <strong>del</strong>l’Europa cinquecentesca secondo direttive<br />

coloniali, ricompare nelle vesti di un fantasma (“Ricordati di<br />

me”) per infestare il tramonto <strong>del</strong> modernismo occidentale e<br />

sfocia nella sfida eterotopica alla concezione razionale e utopistica<br />

di quest’ultimo. Invoca una risposta etica alle necessità di<br />

un’altra scena, di un’altra storia, di un’altra possibilità, che ci ricordi<br />

che la ragione storica deve essere, essa stessa, soggetta a<br />

giudizio, perché dietro all’“assolutismo perverso” (Lévinas) <strong>del</strong>la<br />

conoscenza occidentale e al suo desiderio universale di una<br />

logica intatta, unitaria, di una teleologia razionale <strong>del</strong> tempo e<br />

<strong>del</strong>la casualità, si pone l’evasione di un siffatto giudizio. Rifiutare<br />

di registrare le ombre enigmatiche, discontinue, represse e fameliche<br />

<strong>del</strong>l’oblio, e dissiparle nella violenta insistenza sulla<br />

coerenza, significa fuggire dalla vita e dall’angoscia <strong>del</strong>la morte,<br />

nonché rigettare la responsabilità per queste situazioni (Robberechts<br />

1992).<br />

Quando la terra viene rifiutata e ridotta violentemente a un accordo<br />

etereo tra il pensiero e la logica trascendentale, quando il<br />

<strong>mondo</strong> viene abolito e distillato nello spirito puro e nella trasparenza<br />

di una frase razionale, tutti quei linguaggi titubanti, mutevoli, incompleti,<br />

arcani, incrinati, silenziosi e disfatti che contribuiscono


98 IAIN CHAMBERS<br />

all’insistente “mondeggiare il <strong>mondo</strong>” vengono negati (Heidegger<br />

1954a). Ritirandoci da questa prospettiva miope, deviando da quell’angusto<br />

sentiero e assumendo nuovamente la responsabilità <strong>del</strong>la<br />

nostra vita e di ciò che la sostiene, le altre vite, cogliamo gli echi degli<br />

antesignani <strong>del</strong> Barocco nella duplicità, nell’inquietudine, nell’eccesso,<br />

nelle pieghe e nell’opacità <strong>del</strong>la conoscenza, mentre al<br />

contempo ascoltiamo il contrappunto <strong>del</strong>l’amnesia culturale e <strong>del</strong><br />

narcisismo europeo. Ricordiamo, nel messaggio 1 mortale e nella<br />

storia di quel periodo di ombre, le domande che ci consentono di<br />

continuare a domandare, di continuare a esistere.<br />

Ecco perché certuni ritengono che gli schemi sbrin<strong>del</strong>lati e incompleti<br />

<strong>del</strong> chiaroscuro <strong>del</strong> Barocco siano assai più prossimi alle<br />

attuali sensibilità e configurazioni mondane <strong>del</strong>la successiva fede<br />

nella ragione strumentale e nel fiducioso soggettivismo. Ricordare<br />

quell’intervallo precedente significa rammentare a noi stessi la<br />

complessa, talvolta indifferente, necessità <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> prima che il<br />

positivismo si manifestasse e ci rassicurasse con gli dei secolari<br />

<strong>del</strong>la “scienza” e <strong>del</strong>l’“informazione”. La vicinanza dei paesaggi<br />

allegorici <strong>del</strong> Barocco e <strong>del</strong>le esperienze radicali e distruttive <strong>del</strong>la<br />

tarda modernità è stata colta elegantemente da Christine Buci-<br />

Glucksmann:<br />

come si vede, dunque, prima <strong>del</strong>l’arte moderna, l’allegoria testimonia<br />

<strong>del</strong> predominio <strong>del</strong> frammento sul tutto, <strong>del</strong> principio distruttivo su<br />

quello costruttivo, <strong>del</strong> sentimento, come vuoto di un’assenza, sulla<br />

ragione come padronanza. Solo il frammento è in grado di mostrare<br />

che la logica <strong>del</strong> corpo, <strong>del</strong> sentimento, <strong>del</strong>la vita e <strong>del</strong>la morte non<br />

coincide con quella <strong>del</strong> potere né con quella <strong>del</strong> concetto. In essa si<br />

configura precisamente ciò che è muto (donde la musica), ciò che è<br />

nuovo (sia pure la morte), ciò che non è padroneggiabile ed è<br />

profondamente ingovernabile: le catastrofi, come messa in scena <strong>del</strong>la<br />

stessa azione <strong>del</strong> rappresentare.<br />

Con ciò essa consegna la realtà a una perenne antinomia, al gioco<br />

illusorio <strong>del</strong>la realtà come illusione, in cui il <strong>mondo</strong> è valorizzato e<br />

svalutato al tempo stesso: “Il <strong>mondo</strong> profano, considerato dal punto<br />

1 Qui l’autore si avvale di un sottile gioco di parole: sillabando la parola inglese “message”<br />

(messaggio) in “mess-age”, induce il lettore a interpretare il termine come l’espressione<br />

“epoca <strong>del</strong>la confusione” (N.d.T.).


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 99<br />

di vista allegorico, è simultaneamente valorizzato e svalutato”. Di qui<br />

la specifica seduzione <strong>del</strong> barocco, in cui il primato <strong>del</strong>l’estetica – <strong>del</strong><br />

gioco, <strong>del</strong>le apparenze – si unisce alla miseria metafisica su uno sfondo<br />

di afflizione e di melanconia. La metafora <strong>del</strong> teatro – <strong>del</strong> <strong>mondo</strong><br />

come teatro e <strong>del</strong> teatro <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> – raffigura la temporalità specifica<br />

<strong>del</strong> barocco (…). Su questo eterno rinvio <strong>del</strong>le apparenze regna<br />

uno spettatore onnipresente, ma già lontano: Dio. L’abisso tra realtà<br />

e illusione è tuttavia incolmabile: il teatro sa di essere teatro (Buci-<br />

Glucksmann 1984, pp. 52-53, corsivo nell’originale; l’autrice cita<br />

Walter Benjamin).<br />

Ecco l’esposizione e l’avanzamento <strong>del</strong>la barocchizzazione<br />

contemporanea <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> in cui la pulsione razionalista e una<br />

semplicistica fede nell’accumulo lineare nel “progresso” vengono<br />

forse considerati un intervallo anormale. Inserito in un contesto<br />

assai più vasto, il Barocco seicentesco, con le sue allegorie<br />

<strong>del</strong>l’eccesso e <strong>del</strong>la mortalità, con il suo malinconico riconoscimento<br />

dei limiti <strong>del</strong>la ragione e <strong>del</strong>la vita, viene messo in una<br />

relazione profonda con la ricomparsa di stili neobarocchi sul finire<br />

<strong>del</strong> ventesimo secolo, dove lo “stile”, come nel caso <strong>del</strong>l’ornamento<br />

nel primo Barocco, non è un elemento superfluo,<br />

bensì esemplifica il pathos autocosciente dei linguaggi nei quali<br />

risediamo.<br />

Nell’enfasi che pone sul nostro essere prigionieri <strong>del</strong> tempo,<br />

assoggettati alla storia e alla mortalità, nel rendere il senso dalla<br />

crisi e la fragilità <strong>del</strong>l’esistenza umana, la sensibilità barocca divampa<br />

in un’immagine che getta luce sul nostro <strong>mondo</strong>. Come<br />

l’irradiazione che promana dalle stelle morte, il Barocco giunge<br />

a far parte <strong>del</strong>le nostre vite, come qualcosa che al contempo è<br />

presente e assente (Benjamin 1928). L’instabilità palpabile di ciò<br />

che siamo usi chiamare “conoscenza” e “verità” fornisce un legame<br />

telescopico tra due costellazioni storiche, porta all’impressione<br />

che la specificità storica non risieda nel rilevamento fattivo<br />

<strong>del</strong> passaggio <strong>del</strong> tempo, ma nel ricevere e riconoscere un momento<br />

discontinuo interpretando esso e noi stessi alla luce <strong>del</strong><br />

suo presente. Quel momento è sia unico che ripetitivo, irreversibile<br />

e ricorrente “nel punto di confluenza di due movimenti di<br />

senso assolutamente opposti” (Mosès 1992, p. 145), perché la<br />

sua verità non è insita in una “chiusura mediante i fatti”, bensì<br />

nell’evento e nella risonanza <strong>del</strong> linguaggio (Dori Laub, in Fel-


100 IAIN CHAMBERS<br />

man, Laub 1992, p. 73). La verità non è una mia proprietà personale,<br />

non è limitata alle possibilità e allo scopo <strong>del</strong>la mia volontà<br />

(Lévinas 1961), è qualcosa che mi investe e poi mi sfugge:<br />

è discontinua (Mosès 1992, p. 138). In questo modo il passato<br />

transitorio, in apparenza perduto per sempre, può ritornare e ritorna<br />

per azionare un altro senso, spesso nuovo, <strong>del</strong> presente, e<br />

con esso apre al futuro.<br />

Con questo si vuole suggerire un paradigma etico e complesso,<br />

piuttosto che positivista e distaccato, <strong>del</strong>la conoscenza (p.<br />

133). In questa maniera, il passato non viene mai ricatturato<br />

“così com’era”, sebbene, in un’inversione <strong>del</strong> tempo, possiamo<br />

semplicemente ritornare sui nostri passi lungo il sentiero <strong>del</strong>l’evoluzione<br />

omogenea di un momento precedente. Il passato non<br />

si limita ad arrivare a noi docilmente attraverso il passare <strong>del</strong><br />

tempo, bensì esplode e riecheggia nel nostro tempo come evento<br />

sconcertante e separato: come la voce e il corpo <strong>del</strong>l’altro che<br />

sfida il nostro corpo e il nostro tempo. Il passato è la scena di<br />

tracce persistenti. Come segni, silenzi e risonanza, veniamo indirizzati<br />

verso ciò che è irrimediabilmente perduto, e che pure<br />

continua a perseguitare il nostro linguaggio e i nostri pensieri, e<br />

quindi interroga il nostro senso <strong>del</strong> presente. Tradurre (e trasformare)<br />

il passato in tal maniera può facilmente equivalere a<br />

tradire come le cose “erano davvero”, ma anche rifiutare di liberarsi<br />

<strong>del</strong> suo corpo. Se dovessimo ridurre il Barocco all’incedere<br />

uniforme, e all’oblio definitivo, <strong>del</strong> “progresso”, cancelleremmo<br />

la possibilità che esso ritorni: la possibilità <strong>del</strong>le generazioni<br />

passate di continuare a interrogare, inquietare e sfidare il nostro<br />

tempo e il modo in cui custodiamo il loro tempo.<br />

Temprare e mettere alla prova il tempo in questa maniera significa<br />

interromperlo di continuo per sentire il respiro degli altri<br />

modi di essere nel tempo. Significa riconoscere la nostra<br />

precarietà in cui il passato non è dato e il futuro non è prevedibile:<br />

tutto deve essere disfatto, inter-pretato, contestato, di continuo…<br />

Spalancare il corpo <strong>del</strong>la storia ed esporlo alla rivendicazione<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong> implica l’adozione di un tipo di tempo, di conoscenza,<br />

che è anche un tipo di discorso, di scrittura, capace di mantenere<br />

sospesa l’ambigua “verità” che si appoggia sul linguaggio<br />

nella nostra riscrittura continua <strong>del</strong> passato mentre noi ricer-


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 101<br />

chiamo il potenziale storico <strong>del</strong> presente. Questo perché lo stile<br />

è il corpo, la fisicità <strong>del</strong> linguaggio. Pertanto, noi riconosciamo<br />

nel gesto di uno stile (di pensiero, di scrittura, di discorso) la<br />

com-presenza e la responsabilità di passato, presente e futuro.<br />

Qui l’intrattabile qualità sibillina <strong>del</strong>l’allegoria barocca, come il<br />

discorso e la scrittura di una sensatezza, di un’espressione epocale,<br />

suggerisce ben più di una semplice tecnica letteraria o poetica<br />

arcaica. Scrive Walter Benjamin (1928, p. 141):<br />

L’allegoria mostra agli occhi <strong>del</strong>l’osservatore la facies hippocratica<br />

<strong>del</strong>la storia come irrigidito paesaggio originario. La storia in tutto<br />

ciò che essa ha fin dall’inizio di immaturo, di sofferente, di mancato,<br />

si imprime in un volto, anzi: nel teschio di un morto. E se è vero<br />

che ad esso manca ogni libertà “simbolica” <strong>del</strong>l’espressione, ogni<br />

armonia classica <strong>del</strong>la figura, ogni umanità, in questa figura – che è<br />

fra tutte la più degradata – si esprime significativamente sotto forma<br />

di enigma, non solo la natura <strong>del</strong>l’esistenza umana in generale,<br />

ma la storicità biografica di una singola esistenza. È questo il nucleo<br />

<strong>del</strong>la visione allegorica, <strong>del</strong>la esposizione barocca, profana <strong>del</strong>la<br />

storia come via crucis mondana: essa ha significato solo nelle stazioni<br />

<strong>del</strong> suo decadere.<br />

Nell’interregno tra la fede religiosa garantita dalla stabilità<br />

divina <strong>del</strong>l’universo precopernicano e la successiva consolazione<br />

<strong>del</strong>l’idolatria <strong>del</strong>la scienza, il Barocco ostenta un essere nudo,<br />

sguarnito, in cui ogni “persona, ogni oggetto, ogni relazione può<br />

significare assolutamente qualunque altra cosa. Con questa possibilità,<br />

viene emesso un giudizio distruttivo, benché giusto, sul<br />

<strong>mondo</strong> profano” (p. 149). Privato di un’ovvia funzione simbolica,<br />

intrappolato nella caduta <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, nella profanità <strong>del</strong>la<br />

decadenza e <strong>del</strong>la rovina, il Barocco indica un’altra direzione,<br />

scavando nel corpo, nella fisicità <strong>del</strong> linguaggio. Come sostiene<br />

Benjamin, gli estremi tipografici e le metafore pompose <strong>del</strong> Barocco<br />

sono soltanto i sintomi più ovvi di un linguaggio che tende<br />

verso il visivo, verso l’illuminazione che scaturisce da un’immagine<br />

indipendente e autonoma. Si tratta però di un’autonomia<br />

segnata, ferita, perché:<br />

Nel campo <strong>del</strong>l’intuizione allegorica, l’immagine è frammento, runa<br />

(p. 150).


102 IAIN CHAMBERS<br />

L’immagine è sia frammento, rovina, che runa, geroglifico.<br />

La falsa apparenza <strong>del</strong>la totalità si spegne. Poiché l’eidos si oscura,<br />

entra in campo la metafora, e il cosmo che vi è contenuto si inaridisce.<br />

Nelle rebus inaridite, che ancora rimangono, è presente un senso<br />

che si lascia cogliere solo da colui che medita, rimuginando (ib.).<br />

Dietro la facciata di questa profusione di fasti, il Barocco punta<br />

i riflettori sull’imperfezione e sull’incompletezza <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, insiste<br />

sulla nostra limitazione fisica e terrestre, sull’ineluttabilità<br />

<strong>del</strong>la decadenza e <strong>del</strong>la rovina, e così facendo conquista per se<br />

stesso, dagli abissi <strong>del</strong> suo linguaggio, un concetto destinato a<br />

permanere: “dove il simbolo riassorbe in sé l’uomo, dal fondo<br />

<strong>del</strong>l’essere l’allegorico va incontro all’intenzione sulla sua strada e<br />

la colpisce in fronte” (p. 157) 1 .<br />

L’idea che il tempo storico possa essere multiplo e discontinuo,<br />

che la storia sia un costrutto allegorico che espone le rovine<br />

<strong>del</strong> tempo, non è solo l’anello di congiunzione tra Benjamin e l’aspetto<br />

eccessivo e poetico <strong>del</strong> modernismo (Bau<strong>del</strong>aire, Kafka),<br />

ma è anche il trait d’union tra questo pensatore ebreo tedesco e il<br />

Barocco con la sua lettura meravigliosa e profondamente allegorica<br />

<strong>del</strong>la modernità. I testi fondamentali al riguardo sono il volume<br />

sul teatro <strong>del</strong> lutto (Trauerspiel) <strong>del</strong> Barocco tedesco (pubblicato<br />

nel 1928), il solo libro che Benjamin abbia portato a compimento,<br />

il corposo e incompleto progetto sulle arcate parigine su<br />

cui lavorò durante gli ultimi anni <strong>del</strong>la sua vita in esilio, e le Tesi<br />

sulla Filosofia <strong>del</strong>la Storia (1955a).<br />

Sovvertire e scartare gli anelli <strong>del</strong>la catena temporale <strong>del</strong>la<br />

causalità irreversibile, riportare il tempo contro se stesso e far<br />

scaturire un’altra storia, nonché un altro modo di narrare: questa<br />

è la motivazione <strong>del</strong> continuo interesse di Benjamin per i<br />

linguaggi <strong>del</strong> tempo e <strong>del</strong>l’essere, per la scrittura <strong>del</strong>la storia.<br />

Significa dare un nome agli sconfitti e ai defunti, ritornare nuovamente<br />

sui trascurati e sulle ombre, e rivelare in una diversa<br />

1 José Maravall (1975) insiste altresì sulla centralità <strong>del</strong>l’interruzione e sull’incompletezza<br />

<strong>del</strong> Barocco, ipotizzando che offra, per esempio, una chiave di lettura per le ultime<br />

opere “incomplete” di Shakespeare.


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 103<br />

scansione <strong>del</strong> tempo gli istanti dettagliati che compongono il<br />

pathos eterno <strong>del</strong>l’esistenza terrestre nelle ripetitive discontinuità<br />

<strong>del</strong>la mortalità. Nel gesto ambiguo <strong>del</strong> collezionista (che<br />

salva e reifica a un sol tempo il passato), Benjamin tenta di ricordare<br />

attivamente, invece che ricordare soltanto, queste tracce<br />

e questi frammenti 1 . Come il tombeau barocco, egli tenta di<br />

ritagliare nel linguaggio e nel tempo uno spazio in cui possa<br />

comparire una nuova storia e, con essa, un futuro alternativo in<br />

cui ogni momento storico possa essere separato per rivelare<br />

un’apertura verso sentieri e possibilità non ancora intrapresi.<br />

Ecco che il tempo storico, contrapposto alla tirannia lineare <strong>del</strong><br />

tempo fisico, diviene reversibile. Rende possibile un ricordo,<br />

un ritorno che produce il tempo “aperto” <strong>del</strong>la scrittura, <strong>del</strong>la<br />

politica, <strong>del</strong>l’estetica e <strong>del</strong>l’etica, pronto per essere giudicato in<br />

qualsiasi circostanza (Emmanuel Lévinas) 2 . È la storia degli<br />

“intempestivi, dolorosi, infruttuosi”, nelle storie discontinue,<br />

scartate e disperse degli sconfitti, che Benjamin tentava continuamente<br />

di strappare dalle mani dei vincitori, di strappare<br />

dall’oppressione <strong>del</strong>la continuità <strong>del</strong> loro tempo e <strong>del</strong> “progresso”,<br />

perché questo “progresso” si basa sulla continuità <strong>del</strong>la catastrofe,<br />

sulla sconfitta dei corpi negati e <strong>del</strong>le storie degli<br />

esclusi: le rovine <strong>del</strong>la storia.<br />

In questo modo si stabilisce un nuovo tipo di intelligibilità storica<br />

che ci lega al tempo <strong>del</strong>l’altro, che ci lega a una risposta e a<br />

una capacità di rispondere per gli esclusi, per l’oblio (Shoshana<br />

Felman, in Felman, Laub 1992). Nell’atto di transizione <strong>del</strong>la<br />

scrittura sotto il segnale eterno <strong>del</strong>la redenzione etica, Benjamin,<br />

come Franz Rosenzweig (ma in questo contesto non dovrebbero<br />

essere sottovalutati nemmeno gli echi di Heidegger), cercava<br />

un’intelligibilità che non fosse chiusa, “scientifica”, o metafisica,<br />

bensì posta sotto la tutela <strong>del</strong> linguaggio, <strong>del</strong> dispiegamento vitale<br />

<strong>del</strong> mio essere nel linguaggio, e <strong>del</strong> mio linguaggio nell’essere, in<br />

cui il respiro dei viventi attizza le ceneri <strong>del</strong> passato che divampano<br />

per gettare luce sul futuro.<br />

1 Sulle ambiguità politiche <strong>del</strong> collezionismo e sulla sua posizione nell’articolazione e<br />

sulla disarticolazione <strong>del</strong>la modernità, si veda Chow 1993, pp. 43-44.<br />

2 Ho tratto il concetto di “tempo vuoto” da Mosès 1992, p. 183.


104 IAIN CHAMBERS<br />

Suoni impronunciabili<br />

Una nota di passaggio. Nella centralità <strong>del</strong>la musica per le<br />

esperienze di modernità <strong>del</strong>l’Atlantico Nero, veniamo a contatto<br />

non soltanto con un archivio storico e culturale, un ripostiglio<br />

vitale di ricordi, ma anche con una contro-storia e con una costellazione<br />

di potenziale redenzione (Gilroy 1993a). È qui che<br />

passato, presente e futuro si fondono in un’interruzione brusca<br />

(la nota triste sulla corda <strong>del</strong>la chitarra, l’urlo, il borbottio <strong>del</strong><br />

sassofono, la storia <strong>del</strong> basso, il rap) che sfida le circostanze<br />

contingenti per svelare la presenza di altre storie. Qui il rap invoca<br />

un’interruzione <strong>del</strong> linguaggio, una spaccatura che ripiega<br />

il linguaggio su se stesso, quindi lo dispiega in una variante <strong>del</strong>la<br />

lingua inglese, la musica rock angloamericana, in altre colonne<br />

sonore e stili urbani <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>. Costituisce l’atto <strong>del</strong>la testimonianza,<br />

<strong>del</strong>la conferma, che svela una scansione diversa <strong>del</strong> tempo<br />

storico, una differente iscrizione culturale e una segnatura<br />

musicale. Affrancando questi linguaggi dai loro presunti referenti,<br />

l’integrazione <strong>del</strong> rap propone un altro centro. Normalmente<br />

considerata un’appendice, un ornamento rispetto alla<br />

centralità <strong>del</strong>la musica rock, se vista da un punto di vista differente<br />

la musica rap attua una ricollocazione fondamentale e riposiziona<br />

la partitura musicale (nonché culturale) (Swedenburg<br />

1992). In questa scissione <strong>del</strong> suono dal significato precedente,<br />

penetriamo nel “topos <strong>del</strong>l’Indicibilità” (Carl Dalhaus, Die Idee<br />

der absoluten Musik, citato in Bowie 1989, p. 70). Come l’enfasi<br />

<strong>del</strong> Barocco sull’ornamento, che ci consente di rivolgere lo<br />

sguardo verso l’interno e testimoniare il “sottosuolo <strong>del</strong> linguaggio”<br />

(Shoshana Felman, in Felman, Laub 1992, p. 15), la decorazione<br />

<strong>del</strong> rap e il decentramento dei linguaggi e degli stili<br />

prontamente disponibili suggeriscono che la musica rifletta più<br />

di quanto si possa carpire grazie alle categorie <strong>del</strong>la riflessione,<br />

ed evoca lo “sforzo di dire ciò che non si può dire” (Theodor<br />

Adorno, citato in Bowie 1989, p. 80). Su questo punto, rileva<br />

Andrew Bowie (1989, p. 83):<br />

L’importanza <strong>del</strong>la musica nella storia <strong>del</strong>la modernità mi pare che si<br />

spieghi, almeno in parte, col ruolo che svolge in quanto oppositrice<br />

<strong>del</strong> discorso sulla modernità, il discorso che di fronte alla volontà di


LA STORIA, IL BAROCCO E IL GIUDIZIO DEGLI ANGELI 105<br />

bloccare il soggetto con regole, codici e sistemi, palesa sempre fino a<br />

che punto questi sistemi non possono giustificare se stessi.<br />

Casa<br />

In esso [nel <strong>mondo</strong>] il pensiero ha diritto di cittadinanza, ma il<br />

<strong>mondo</strong> non è lui stesso il tutto, bensì una dimora (Rosenzweig<br />

1971, p. 14).<br />

Fare ritorno all’armonia perduta <strong>del</strong> cerchio. Nel cerchio <strong>del</strong>l’indagine<br />

partiamo, fiduciosi di ritornare al punto di partenza,<br />

avendo completato l’analisi e reperito le soluzioni. Nell’ellisse diveniamo<br />

coscienti <strong>del</strong> nostro decentramento, non facciamo mai<br />

ritorno al punto di partenza. Come una colonna barocca che sale<br />

a spirale dando vita a una struttura vorticosa, ci troviamo imprigionati<br />

in un moto in cui inizio e fine non combaciano. Ci imbattiamo<br />

in altri centri, altre prospettive, sparse lungo l’ellisse spiralizzata<br />

<strong>del</strong>la nostra traiettoria.<br />

Bloccato nella morsa <strong>del</strong> tempo, si apre uno spazio tra il passato<br />

e il futuro che svela il corpo <strong>del</strong> linguaggio, sempre presente:<br />

“l’essenza <strong>del</strong> linguaggio, il linguaggio <strong>del</strong>l’essenza” (Heidegger,<br />

L’essenza <strong>del</strong> linguaggio, in Heidegger 1959, p. 140). Io “così vivo,<br />

e sempre prendo congedo”, chiamato a porgere l’orecchio e il<br />

corpo al miracolo <strong>del</strong>la chiamata terrestre:<br />

Non fu un miracolo? Stupisciti angelo, ché noi siamo così, e tu,<br />

Grande, raccontalo, che questo potemmo, ché il mio fiato non basta<br />

alla lode. Così non abbiamo nemmeno disperso gli spazi, questi spazi<br />

che ci proteggono, che sono nostri. (E quanto terribilmente grandi<br />

devono essere, se in millenni il nostro sentire non li ha potuti colmare)<br />

(Rilke 1922, p. 83) 1 .<br />

Il Barocco annuncia un confine, in maniera lampante sotto<br />

forma di linea di demarcazione tra gli “antichi” e i “moderni”, tra<br />

la cosmologia religiosa e la scienza secolare, ma anche nella sua<br />

1 Dalla Settima <strong>del</strong>le Elegie duinesi. L’espressione “così noi viviamo, e sempre prendiamo<br />

congedo” è tratta degli ultimi versi <strong>del</strong>l’Ottava Elegia (p. 89).


106 IAIN CHAMBERS<br />

costruzione drammatica di una <strong>soglia</strong> ambigua tra ciò che è conosciuto<br />

e ciò che rimane estraneo. Una presenza inquietante all’interno<br />

<strong>del</strong>le narrazioni <strong>del</strong>la modernità, una modernità che apparentemente<br />

essa fonda e rinnega allo stesso tempo. Gli eccessi di<br />

energia e le diverse direzioni <strong>del</strong> Barocco commentano in maniera<br />

sregolata il “progresso” unilaterale consolidato successivamente<br />

dalla mitologia moderna. Tutta la conoscenza attiene alla narrazione,<br />

a una maniera di raccontare che ci riporta al conosciuto, in<br />

cui il nuovo, la scoperta, il “là” viene ricondotto a un “qui”, viene<br />

reso riconoscibile nell’economia condivisa <strong>del</strong> senso. Tuttavia, sarebbe<br />

stolto, e forse persino micidiale, negare, ignorare le voci<br />

perturbanti, instabili e percettive che ci chiamano a narrare la storia<br />

ripetutamente, nel tentativo di conciliare ciò che la narrazione<br />

precedente trascurava e reprimeva. Ecco perché la narrazione<br />

non è mai completa: la “verità” che contiene è sempre aperta a ulteriori<br />

interrogativi. La storia pensa di essere tornata a casa, ma<br />

solo per scoprire che ha fissato un nuovo punto di partenza.


Capitolo quarto<br />

Voce nell’oscurità, mappa <strong>del</strong>la memoria<br />

Potrei cominciare<br />

Música<br />

Dormida en el caracol de la memoria.<br />

Musica<br />

Dormiente nel guscio <strong>del</strong>la memoria.<br />

Octavio Paz (1988)<br />

Car tout étant aujourd’hui “recorder” et la mémoire,<br />

la même toujours, n’étant plus tout la même.<br />

Perché oggi ormai si registra tutto, e la memoria,<br />

sempre la stessa, non è proprio più la stessa.<br />

Jacques Derrida (“Lettre à Peter Eisenman/Letter to<br />

Peter Eisenman”, in Moriarty, Neuman 1994, p. 31)<br />

“Quindi una frase musicale è un riferimento geografico?”<br />

“La musica” rispose Arkady “è una banca dati per<br />

trovare la strada quando si è in giro per il <strong>mondo</strong>”.<br />

Bruce Chatwin (1987, p. 147)<br />

La musica si basa sull’accordo tra oscurità e luce.<br />

Trinh T. Minh-ha<br />

(dal film Naked Spaces – Living is Round)<br />

Potrei cominciare da una tarda serata invernale inglese, nel<br />

1967. In una città georgiana color panna lungo il fiume Avon, incastonata<br />

tra i pendii collinari <strong>del</strong> Somerset, mi ero recato al concerto<br />

pop che si teneva ogni settimana al Bath Pavillion. Avevo<br />

già visto Gene Pitney, Cliff Bennett e i Rebel Rousers, gli Animals,<br />

i Byrds… Quella sera avevo pagato cinque scellini per vedere<br />

l’ancora relativamente sconosciuto Jimi Hendrix Experience 1 .<br />

1 Il chitarrista nero statunitense Jimi Hendrix giunse in Gran Bretagna ancora sconosciuto<br />

nel settembre <strong>del</strong> 1966. Venne invitato da Chas Chandler, chitarra basso degli Animals,<br />

durante l’ondata britannica che aveva invaso le classifiche <strong>del</strong> pop in America. Nei<br />

precedenti cinque anni, lo stesso Hendrix aveva suonato con frequenza discontinua negli<br />

Stati Uniti con molti gruppi itineranti e band R&B, accompagnando, tra gli altri, Little Richard,<br />

gli Isley Brothers e Curtis Knight. Nel giro di sei mesi dal suo arrivo in Inghilterra,<br />

aveva raggiunto il successo ed era destinato, in breve tempo, a diventare una star a livello<br />

mondiale. Negli ultimi tre brevi anni <strong>del</strong>la sua vita consolidò la sua fama di chitarrista più<br />

importante <strong>del</strong> ventesimo secolo.


108 IAIN CHAMBERS<br />

Era appena uscita Hey Joe e io avevo visto la prima, straordinaria<br />

esibizione televisiva su Ready, Steady, Go!, in cui un bellissimo<br />

nero indemoniato suonava la chitarra coi denti e produceva i suoni<br />

più ipnotici che si potessero immaginare. Quella sera, nell’arco<br />

di quaranta minuti, il terzetto sul palco eseguì molti dei pezzi che<br />

avrebbero fatto parte <strong>del</strong> primo album, Are You Experienced?<br />

L’immagine svanisce, i dettagli <strong>del</strong>l’abbigliamento e <strong>del</strong>l’esecuzione<br />

si fanno confusi. Rimane soltanto una sensazione di stupore, di<br />

sorpresa, un’emozione condensata nell’intensità viscerale <strong>del</strong>la<br />

chitarra di Hendrix. La testimonianza di quella sconcertante elettricità,<br />

di quel temporaneo sovvertimento <strong>del</strong>le coordinate <strong>del</strong>la<br />

cultura locale, avvampa ancora come fuoco vivo nei miei ricordi.<br />

L’evento, come gran parte <strong>del</strong>la musica di quel tempo, ha<br />

aperto la porta alla possibilità di nuovi mondi, ha svelato che potevano<br />

esserci altri spunti più eccitanti, ritmi più intensi da cui attingere<br />

per costruire l’immagine <strong>del</strong>la propria vita. Le lusinghe<br />

<strong>del</strong>la città, non necessariamente quelle vere, ma quelle immaginarie,<br />

con le strade pullulanti di libertà trasgressiva, che va al di là<br />

<strong>del</strong>la scuola, <strong>del</strong>la famiglia, di ciò che ti è stato inculcato e ciò che<br />

ti è stato imposto di essere, coincidevano anch’esse, nel mezzo degli<br />

anni Sessanta, col tripudio <strong>del</strong>la gioventù nella “Swinging London”.<br />

Il corpo, il mio corpo, smanioso di sesso, ma anche arso dal<br />

desiderio di soffrire per qualcosa di più dei ristretti orizzonti che<br />

potevano offrire la mediocrità e la compiacenza istituzionali, accettava<br />

di buon grado di entrare in sintonia con queste possibilità.<br />

Jimi Hendrix, come gran parte <strong>del</strong>la musica pop <strong>del</strong>l’epoca,<br />

esprimeva la sensualità e la sessualità <strong>del</strong> corpo, particolarmente<br />

ma non esclusivamente per i giovani di sesso maschile, proponendo<br />

un percorso di significato culturale in cui suoni, desideri e ribellione<br />

si potevano fondere in uno stile di vita pronto a contestare,<br />

a fare a pugni con i codici <strong>del</strong> comportamento imposti. Ma<br />

perché proprio Jimi Hendrix, e non il sublime Otis Redding o l’esplosivo<br />

James Brown? Solo perché si trovava in Inghilterra, protetto<br />

dalla cricca <strong>del</strong> rock londinese, e riscuoteva successo per la<br />

prima volta in Inghilterra, come se fosse un figlio di questa terra,<br />

prima di essere riesportato negli Stati Uniti? Certamente, egli era<br />

un uomo di colore diverso da tutti gli altri uomini di colore. Era<br />

diverso da tutti i (pochissimi) neri che avevo incontrato in vita<br />

mia, nell’Inghilterra sud-occidentale, e non era nemmeno come


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 109<br />

gli artisti americani di colore che avevo visto e sentito in televisione,<br />

che suonavano il blues, il rhythm and blues (R&B) e il soul.<br />

Forse solo il trasgressivo stile effeminato di Little Richard si poteva<br />

considerare un accenno stravagante alla possibilità di avere in<br />

futuro un Hendrix, ma lo stesso non si può dire, certamente, di<br />

Otis Redding, Sam e Dave o Wilson Pickett. Tuttavia, se avessi<br />

deciso di soffermarmi di più sui suoni <strong>del</strong>la musica soul degli anni<br />

Sessanta, inevitabilmente avrei finito per incappare in varie <strong>del</strong>le<br />

traiettorie sonore e dei percorsi musicali che hanno contribuito<br />

alla costruzione <strong>del</strong>l’itinerario di Hendrix.<br />

Oggi ascoltare Hendrix apre a un tipo di esistenza in cui la<br />

musica testimonia una scansione <strong>del</strong> tempo alternativa (il tempo<br />

<strong>del</strong>la modernità, <strong>del</strong>la città e <strong>del</strong>l’Occidente), che mi trasporta in<br />

una narrazione, in una canzone, in un pianto, in cui il suono svela<br />

una storia che mette in discussione la propensione a ridurre la<br />

musica a una moribonda genealogia di influenze stilistiche. Se il<br />

linguaggio è la dimora <strong>del</strong>l’essere, allora gli stili musicali sono, essi<br />

stessi, dichiarazioni ontologiche: un’eco che rimbomba al di<br />

fuori <strong>del</strong>le circostanze che tradiscono ben più di una semplice<br />

modifica <strong>del</strong>la sintassi musicale. Di questa più vasta potenzialità<br />

all’epoca coglievo soltanto un barlume, che pure ha continuato ad<br />

attirare la mia attenzione, a tormentarmi nei miei interessi successivi.<br />

Jimi Hendrix continua a perseguitare la mia vita. Al di là <strong>del</strong>la<br />

tragedia <strong>del</strong>la sua scomparsa improvvisa, c’è la questione <strong>del</strong><br />

suono che ho ereditato, che continua a esistere, a vivere, ponendo<br />

un enigma che mi sprona a rispondere.<br />

Per molti di coloro che facevano parte <strong>del</strong> suo pubblico, all’epoca<br />

in prevalenza costituito da bianchi, la sua musica ribelle e la<br />

sua capigliatura altrettanto ribelle identificavano Hendrix con “il<br />

selvaggio” che da sempre popolava l’immaginario europeo, mettendone<br />

a repentaglio l’ordine. Provenendo da qualcosa che andava<br />

oltre l’esperienza immediata, il suo stile musicale e la sua<br />

sessualità rivelavano per alcuni la seduzione, per altri l’orrore <strong>del</strong>l’Es.<br />

Io però ritengo che ci fosse anche un sottile esotismo (ed<br />

erotismo) che avvolgeva questo chitarrista nero di Seattle, che<br />

contribuiva a confondere sia lo stereotipo eurocentrico che l’immaginario<br />

nero. Sul palco, nell’amplesso pubblico con la propria<br />

chitarra prima di raggiungere il culmine, in cui lo strumento veniva<br />

dato alle fiamme in un sacrificio simbolico, l’eccesso <strong>del</strong> rock


110 IAIN CHAMBERS<br />

infiammava la notte e temporaneamente alludeva all’ibridazione<br />

musicale e culturale. Ciò toccava le corde più profonde <strong>del</strong>la sottaciuta<br />

ambivalenza culturale nella musica popolare moderna e<br />

nella vita urbana contemporanea, in cui spesso all’amore per la<br />

musica nera non corrispondeva, talvolta in maniera violenta, l’amore<br />

per la gente di colore.<br />

Agghindato con caffettano, fascia attorno al capo e pantaloni a<br />

zampa di elefante, Hendrix venne tuttavia sulle prime messo in<br />

relazione agli smunti corpi psiche<strong>del</strong>ici, al proliferare degli hippy<br />

e all’estate <strong>del</strong>l’amore. Verso la fine degli anni Sessanta, in Europa<br />

e nel Nord America, la gioventù e la sua musica avevano trionfato<br />

pubblicamente. C’erano una musica pop, una moda pop, una cultura<br />

pop, una pop art… una vita pop. Per quanto ancora frequentemente<br />

osteggiata, la cultura popolare americana al di fuori degli<br />

Stati Uniti, o per dirla con una parola sola, “l’americanizzazione”,<br />

imperava ovunque. Era sinonimo <strong>del</strong> trionfo <strong>del</strong>la gioventù e dei<br />

suoi schemi di consumo. Eppure, questa apparenza scintillante e<br />

questa positività, tutti riflessi ironicamente nello specchio artistico<br />

dei dipinti in serie di Warhol e nelle tele a fumetto di Lichtenstein,<br />

presentavano anche un altro lato <strong>del</strong>la medaglia. Quando,<br />

nello sforzo di perseguire l’autorealizzazione, il linguaggio <strong>del</strong>la<br />

gioventù, il consumismo e l’individualismo vennero spinti fino al<br />

punto di frantumarsi, allora l’economia politica di queste stesse<br />

categorie venne messa bruscamente in discussione dalla portata<br />

ambigua <strong>del</strong> loro potenziale culturale 1 .<br />

Tra il festival di Monterey (1967) e quello di Woodstock<br />

(1969), si definì la parabola <strong>del</strong>l’odissea ribelle nel cuore<br />

<strong>del</strong>l’“Amerika”, nelle configurazioni psichiche, estetiche e politiche<br />

<strong>del</strong> capitalismo più sviluppato. Questa parabola era un tentativo<br />

di trovare uno stile di vita alternativo e più “autentico”, simulato<br />

in un simbolismo arcaico tratto dai mondi preindustriali<br />

dei nativi americani, <strong>del</strong> buddismo zen e di un’Arcadia immaginaria<br />

evocata dal ritorno ai ritmi naturali <strong>del</strong>la terra. Ad aprire le<br />

porte a questa alternativa, paradossalmente, furono i frutti industriali<br />

degli elisir chimici e <strong>del</strong>la riproduzione tecnica <strong>del</strong> suono.<br />

Nel suo campo d’azione totalizzante e consapevole di sé, nella sua<br />

1 Questo capoverso e il seguente sono in buona parte tratti da Chambers 1985.


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 111<br />

evocazione soggettiva <strong>del</strong>l’utopia e di un erotismo di liberazione,<br />

questa controcultura ha segnato un inconfondibile slittamento al<br />

di là <strong>del</strong>la sua precedente acquisizione dei momenti stilizzati dai<br />

confini <strong>del</strong>la settimana lavorativa. Insistendo sull’utopia, la parabola<br />

<strong>del</strong> movimento studentesco in Europa, <strong>del</strong> radicalismo universitario<br />

negli Stati Uniti e la generalizzazione di una cultura che<br />

“aveva dato forfait” per abbracciare esperienze on the road, era<br />

destinata a essere interrotta da altre versioni <strong>del</strong> sogno. Le quali<br />

altre versioni, poste nell’emarginazione quotidiana dei corpi incasellati<br />

per razza e per sesso, in origine si scatenarono nelle lunghe<br />

e afose estati, quando la pressione fuoriusciva dal Sud, nonché dai<br />

ghetti. È lì che le musiche nere, in particolare la richiesta assidua<br />

<strong>del</strong> soul, hanno creato il più poderoso “connubio di erotico e politico”<br />

(Lefebvre 1968) 1 .<br />

Proprio in questa imprevista congiuntura di utopismo occidentale<br />

e <strong>del</strong> ritorno <strong>del</strong> suo passato represso, la musica di Hendrix<br />

ci invita a considerare una scena che va al di là <strong>del</strong>le sue rappresentazioni<br />

<strong>del</strong>la controcultura.<br />

È risaputo, e tuttavia significativo, che le origini <strong>del</strong>lo stile<br />

“psiche<strong>del</strong>ico” di Hendrix si possono identificare nella tradizione<br />

<strong>del</strong> blues urbano e <strong>del</strong> rhythm and blues presso gli afro-americani<br />

nel secondo dopoguerra. Si tratta di una tradizione che frustrava<br />

continuamente i tradizionalisti, dato che, in apparenza, passava irriverentemente<br />

da ciò che molti osservatori bianchi ritenevano<br />

“autentico” al “non autentico”: dall’immediatezza personale degli<br />

strumenti acustici all’anonima mediazione <strong>del</strong>l’amplificazione<br />

elettrica. Esplorata liberamente, questa tradizione nera rifiutava<br />

di restare prigioniera di un passato prescrittivo, e quindi si esponeva<br />

ai linguaggi <strong>del</strong> cambiamento, <strong>del</strong> catalizzatore culturale<br />

proposto dalla città e dalle sue culture urbane.<br />

Emerse così un’estetica urbana radicalmente innovativa. Nelle<br />

strade tortuose, improvvisate, <strong>del</strong> jazz o nelle autostrade diritte,<br />

elettriche <strong>del</strong> rhythm and blues, questa estetica forniva apertamente<br />

una risposta alla metropoli e alla modernità in maniera alquanto<br />

diversa dalla chiusura nervosa di un canone di derivazione<br />

europea che voltava sistematicamente le spalle alla città e cercava<br />

1 Qui Lefebvre commenta Herbert Marcuse.


112 IAIN CHAMBERS<br />

altrove la dimora <strong>del</strong>la cultura. Furono i critici musicali e <strong>culturali</strong><br />

bianchi, ansiosi di salvaguardare il proprio concetto di musica<br />

nera “autentica” (nonché la posizione subalterna che essa rappresentava)<br />

che, per esempio, persuasero Big Bill Broonzy, durante la<br />

sua tournée inglese negli anni Cinquanta, ad abbandonare la chitarra<br />

elettrica contemporanea e il suono <strong>del</strong>la Chicago band per<br />

abbracciare uno stile acustico solista precedente. A questo punto,<br />

l’“autenticità” aveva chiaramente un significato maggiore per i<br />

guardiani <strong>del</strong>la cultura egemone, bianca, e <strong>del</strong>la sua estetica, piuttosto<br />

che per chi si supponeva la incarnasse.<br />

Passare al rhythm and blues equivaleva a passare a un tipo di<br />

musica in cui la presunta antitesi tra musica nera “autentica” (il<br />

blues rurale <strong>del</strong>l’anteguerra) e la diavoleria “artificiale” <strong>del</strong>la città<br />

(la chitarra elettrica e la voce amplificata) veniva spesso volutamente<br />

ignorata da gran parte dei professionisti. Come pratica in<br />

fieri e interrogativo culturale <strong>del</strong>le possibilità storiche, questa musica<br />

formulava un’estetica che lasciava poco tempo alla nevrosi<br />

culturale sulla città e alle possibilità <strong>del</strong>la riproduzione tecnica. Si<br />

rifiutava di subire limitazioni a opera di siffatte preoccupazioni. I<br />

suoni e gli stili <strong>del</strong>le cantanti blues urbane (Ma Rainey, Bessie<br />

Smith, Memphis Minnie, Billie Holiday), che usavano tutte il microfono<br />

e la cui musica veniva amplificata per mezzo dei dischi,<br />

<strong>del</strong>la radio e <strong>del</strong>la pubblicità, aprirono nuovi orizzonti nella creazione<br />

di questa cultura urbana moderna.<br />

Quantunque spesso aspramente biasimato per ragioni di razza<br />

e di classe, il blues non era un fenomeno isolato, autoctono, “folcloristico”,<br />

bensì parte integrante <strong>del</strong>la modernità, centrale nella<br />

creazione <strong>del</strong>la cultura contemporanea e urbana. Ma mentre talvolta<br />

l’incursione di Hendrix nella musica rock pare che evochi<br />

un ritorno al blues maschile errante degli anni Venti e Trenta<br />

(Charlie Patton, Robert Johnson) foraggiato dalla tecnologia, le<br />

musiciste nere (come testimoniano le assai più difficili parabole di<br />

Chaka Khan con Rufus, o di Nona Hendryx) raccontavano una<br />

storia diversa, e caratterizzata da un successo minore. Ancora una<br />

volta, la sottocorrente romantica <strong>del</strong>l’autenticità, il bluesman itinerante,<br />

forniva un’angusta apertura, mentre la centralità <strong>del</strong>le<br />

voci <strong>del</strong>le cantanti nere nella musica urbana moderna continuava<br />

a limitarsi alle categorie, in gran parte inquadrate per razza, <strong>del</strong>la<br />

musica soul, oppure al successo <strong>del</strong>lo spettacolo sfarzoso <strong>del</strong>la


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 113<br />

Tamla Motown, entrambi generi per lo più snobbati dalla comunità<br />

<strong>del</strong>la musica rock bianca e dai suoi critici.<br />

Hendrix, in quanto chitarrista nero isolato nel <strong>mondo</strong> perfettamente<br />

bianco <strong>del</strong>la musica rock, ha subito inizialmente un doppio<br />

ostracismo: scacciato dal contesto africano-americano <strong>del</strong>la fine<br />

degli anni Sessanta e al contempo isolato nell’ambiente che l’aveva<br />

temporaneamente adottato <strong>del</strong>la musica rock angloamericana.<br />

In quanto esecutore nero riconosciuto nel <strong>mondo</strong> <strong>del</strong> rock<br />

bianco, Hendrix era una presenza turbante, ma fortemente esotica,<br />

che nella sua vita è stata esclusa dalla possibilità di crearsi una<br />

propria identità all’interno degli schemi storici di entrambe le patrie<br />

potenziali. Il suo suono, la sua firma sonica iconoclasta, i graffiti<br />

che tracciava con la chitarra, rappresentavano una fastidiosa<br />

interruzione nel copione culturale prescrittivo. Era una costellazione<br />

culturale e musicale che sfidava i presupposti <strong>del</strong>le identità<br />

facilmente disponibili. A prescindere dallo sguardo culturale che<br />

si voglia adottare, la presenza di Hendrix disturba la vista <strong>del</strong><br />

paesaggio culturale. Come la presenza e l’assenza simultanee <strong>del</strong>la<br />

sua chitarra con distorsore che raddoppia, trasferisce e tormenta<br />

la festa <strong>del</strong>la musica rock come un ospite indesiderato, la sua musica<br />

è un tratto obliquo che ha lasciato un segno inquieto, di disturbo,<br />

sulla storia dei nostri tempi.<br />

Il doppio scandalo <strong>del</strong>la musica di Hendrix era che attingeva<br />

da tutte le risorse <strong>del</strong>l’eredità musicale nera per portare il rock più<br />

in là di dove potessero prevedere i suoi progenitori e, infrangendo<br />

i limiti e spingendosi fuori dal seminato, si apriva al contempo a<br />

un ulteriore insieme di possibilità per la musica nera contemporanea.<br />

Come l’interrogativo culturale e il disorientamento creato dai<br />

dipinti di Jean-Michel Basquiat nelle sale bianche <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> <strong>del</strong>l’arte,<br />

Hendrix offriva una mascherata (e una maschera) culturale,<br />

azionava contemporaneamente l’espressione e la repressione di<br />

questa sua contestualizzazione culturale 1 . Come un’interruzione<br />

drastica, un lampo di perturbazione che tagliava trasversalmente le<br />

consuete creazioni sonore sia <strong>del</strong>la musica bianca che di quella nera<br />

<strong>del</strong>l’epoca, trasformò quei linguaggi in un istante di libertà.<br />

1 Sull’uso e sull’abuso <strong>del</strong>l’identità nera nell’arte mondiale contemporanea, si veda<br />

Mercer 2000. Su Jean-Michel Basquiat, si veda Hebdige 1992.


114 IAIN CHAMBERS<br />

Proprio per questa ragione non mi sento spinto ad ascoltare la<br />

musica di Hendrix in termini di nostalgia, o semplicemente registrandone<br />

il significato storico nella narrazione <strong>del</strong>la musica popolare,<br />

bensì a scorgere nel suo suono, nel suo acquisire la forma e il<br />

timbro nello stordimento culturale <strong>del</strong>la fine degli anni Sessanta,<br />

una serie di passaggi sonori e <strong>culturali</strong> che continuano a proiettare<br />

una risonanza, nonché una dissonanza, sia nel passato che in avanti,<br />

verso il mio presente, per iscriversi in futuri possibili.<br />

Pur proiettato all’indietro, verso le sue radici blues, si riteneva<br />

però al contempo che Hendrix avesse generato le schiere di chitarristi<br />

neofiti che sono venuti dopo di lui e che sciamavano per<br />

gli altipiani <strong>del</strong>la musica rock degli anni Settanta (da Jimmy Page<br />

dei Led Zeppelin a Eddie Van Halen), creando il genere di rottura<br />

<strong>del</strong>l’heavy metal. Tuttavia questo suono sperimentale, la sua<br />

forma libera e le tecniche estese elettronicamente (distorsione,<br />

feedback, risonanza, eco) sarebbero anch’esse divenute onnipresenti<br />

nelle musiche nere urbane: dal soul al jazz alle colonne sonore<br />

<strong>del</strong> cinema; da Sly Stone e Bobby Womack a Isaac Hayes, a<br />

Miles Davis, Ornette Coleman, Sonny Sharrock e James Blood<br />

Ulmer, e così via, passando per tributario di James Brown, a<br />

George Clinton e Bootsy Collins, a Prince e ai Living Colour. Se,<br />

dopo Hendrix, la musica rock bianca ha subito una radicale trasformazione,<br />

lo stesso si può dire <strong>del</strong> suono nero. Hendrix non<br />

era tanto una mina vagante nel <strong>mondo</strong> <strong>del</strong> rock bianco, quanto<br />

un complesso e traballante ponticello che mette in comunicazione<br />

opportunità nuove che prima viaggiavano in contesti <strong>culturali</strong> differenti<br />

e, in apparenza, <strong>del</strong> tutto separati.<br />

Ascoltare la sua musica in quest’ottica non mi consente soltanto<br />

di parlare di Jimi Hendrix negli ambiti, in apparenza distinti,<br />

<strong>del</strong>le musiche africano-americane e <strong>del</strong> rock bianco, ma anche di<br />

fare ritorno al tema <strong>del</strong>le culture urbane moderne e di mettere in<br />

discussione e rimo<strong>del</strong>lare l’estetica contemporanea. In questo modo<br />

acquisisco i mezzi per spezzare il cerchio chiuso <strong>del</strong>la caratterizzazione<br />

esotica (Hendrix il gitano nero, il “selvaggio” nomade),<br />

e di apprezzare al contempo la ricchezza <strong>del</strong> suo spirito musicale<br />

e culturale. In questo modo si estende la provocazione di Hendrix,<br />

che sfidava le autorità <strong>culturali</strong> esistenti su ambo i lati degli<br />

spartiacque <strong>culturali</strong>. L’ambiguità <strong>del</strong> talento musicale di Hendrix<br />

blocca e fa slittare la semplicistica applicazione <strong>del</strong>le contrapposi-


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 115<br />

zioni binarie, non solo di quelle tra le musiche “autentiche” e<br />

“non autentiche”, ma anche di quelle tra identità “autentiche” e<br />

“non autentiche”.<br />

Una provocazione quasi contemporanea che si orienta su linee<br />

simili e che riceve l’influenza diretta di Hendrix è stata la posizione<br />

di sfida che Miles Davis ha assunto tra la musica nera urbana e<br />

il rock bianco dopo l’uscita di In a Silent Way (1969). Come sfidando<br />

“l’evidente inclinazione per la medesimezza e la simmetria”<br />

(Gilroy 1993a, p. 186), Hendrix e Davis fanno parte di un’avanguardia<br />

musicale nera alla quale si potrebbero aggiungere nomi<br />

e stili tanto eterogenei come quelli di Sun Ra, John Coltrane,<br />

George Clinton, Sly and the Family Stone, Prince, la quale ha<br />

perturbato l’ovvietà di siffatte distinzioni, alleviando la musica<br />

dalle pretese <strong>culturali</strong> (ed etniche) precedenti senza allentare la linea<br />

di basso, il “nero continuo”, <strong>del</strong>la loro storia, <strong>del</strong>le loro cronologie,<br />

e la sua particolare maniera di raccontare. Diventa una<br />

musica che resta sospesa nelle configurazioni storiche e <strong>culturali</strong><br />

<strong>del</strong>l’etnicità, perché indiscutibilmente è africano-americana, ma<br />

che non è più il punto di arrivo, bensì il punto di partenza di una<br />

serie di aperture che porta a una riconfigurazione radicale <strong>del</strong>l’estetica<br />

e <strong>del</strong>l’etica urbane. Accolta lungo questa direttiva, la predilezione<br />

di Hendrix per i suoni extraterrestri e per i mondi fantascientifici<br />

(in brani come Third Stone from the Sun, Up from the<br />

Skies, 1983… A Merman I Shall Turn To Be) riecheggia lungo uno<br />

spettro che certamente si estende dai viaggi cosmici <strong>del</strong>la Solar<br />

Arkestra di Sun Ra a Interstellar Space di John Coltrane, e poi attraversa<br />

il funk cibernetico di George Clinton per arrivare alle<br />

“radici” ritoccate digitalmente e sintetizzate nel dirottamento<br />

contemporaneo <strong>del</strong> rap urbano e <strong>del</strong>l’hip hop.<br />

Nel sorprendente lirismo <strong>del</strong>la “voce” musicale di Hendrix,<br />

veniamo costantemente attirati in un linguaggio che parla con accenti<br />

di un altro <strong>mondo</strong> di una redenzione culturale che in apparenza<br />

viene sempre rimandata a domani e spostata in altro luogo.<br />

Da questo disincanto (il blues in senso più profondo <strong>del</strong> termine<br />

come “struttura <strong>del</strong>la sensazione”, Raymond Williams), e non<br />

semplicemente dalla figura musicale, Hendrix intesse una poetica<br />

elettrica che riesce a spezzare la sua eredità musicale e culturale e<br />

non formula soltanto una promessa, ma anche un’efficace rielaborazione<br />

<strong>del</strong>le condizioni che costituiscono la sua complessa collo-


116 IAIN CHAMBERS<br />

cazione. Raggiunge il suo zenit musicale nella sua famosa scomposizione<br />

<strong>del</strong>l’inno americano <strong>del</strong>l’identità, La bandiera a stelle e<br />

strisce, portata in scena a Woodstock.<br />

Si potrebbe quindi ritenere che il fatto che Hendrix, Sun Ra e<br />

George Clinton abbiano rappresentato personaggi e scenari extraterresti<br />

suggerisca una duplice fuga: dalla rigida base etnica e<br />

storica, ma anche, più in profondità, verso le possibilità di abitare<br />

un sublime moderno, urbano. Qui è presente un’elaborazione di<br />

una tendenza musicale ironica in cui la prescrizione viene sopraffatta<br />

dall’iscrizione, la tradizione dalla traduzione e dalla trasformazione,<br />

mentre la musica migra altrove, oltre i confini <strong>del</strong>la sua<br />

presunta identità e posizione culturale. Suoni che fondono l’eterogeneità<br />

<strong>del</strong>le esperienze, rigettano gli incontri storici e <strong>culturali</strong><br />

nel particolare corpo e nel particolare respiro <strong>del</strong>l’evento, in tal<br />

modo confermando e infrangendo al contempo le regole <strong>del</strong>la<br />

musica, <strong>del</strong>la cultura e <strong>del</strong>la storia. Andando alla ricerca <strong>del</strong> tuo<br />

posto nel <strong>mondo</strong>, è inevitabile che le norme imposte (i motivi musicali,<br />

i valori estetici, le collocazioni etniche) vengano punzecchiate,<br />

parodiate, sabotate e deviate. Non c’è tradizione, non c’è<br />

linguaggio immune da questo processo. Pertanto, quando Hendrix<br />

suona il blues (Red House, Voodoo Chile), inevitabilmente<br />

scava in profondità, mentre si spinge oltre col suono, espandendo<br />

l’orbita, prolungando l’interrogativo <strong>del</strong>l’odissea.<br />

Ecco che qui, sul ciglio <strong>del</strong>la memoria culturale, mi ritrovo a<br />

considerare la musica non soltanto come suono che contrassegna<br />

e rende omaggio al tempo che fu, ma anche come un momento<br />

<strong>del</strong>la narrazione continua che consente di ricordare e ri-raccontare,<br />

che rende possibili nuove configurazioni <strong>del</strong> senso e <strong>del</strong>la sensibilità,<br />

capaci di interagire col mio tempo, di emergere. Difatti,<br />

sulla strada verso l’ascolto <strong>del</strong>la musica di Jimi Hendrix, forse è<br />

necessario lasciare in sospeso alcune <strong>del</strong>le domande che inizialmente<br />

collocavano e interrogavano la figura di Hendrix in vita, al<br />

fine di udire meglio ciò che era stato passato sotto silenzio, o persino<br />

estromesso da questo schema. Che sia identificato come un<br />

menestrello nero le cui selvagge bizzarrie hanno confermato i<br />

peggiori stereotipi bianchi, o come uno Zio Tom che aveva tradito<br />

la sua razza, nell’eccesso <strong>del</strong> linguaggio ricevuto in eredità,<br />

quel che irrompe nella mascherata culturale che egli aveva messo<br />

in atto e penetra attraverso le maschere rituali che indossava, è il


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 117<br />

suono; è la testimonianza poetica che non è possibile ricondurre<br />

all’argomentazione che cercavano di proporre i suoi commentatori<br />

e critici.<br />

Ovviamente il frastuono di queste controversie <strong>del</strong> passato<br />

non deve essere semplicemente messo a tacere come se oramai<br />

fosse uno statico anacronismo storico, ma invece di tenere in<br />

ostaggio Hendrix, adesso è possibile trasformare queste polemiche<br />

in un’ulteriore apertura: perché queste circostanze, queste<br />

contingenze, inevitabilmente fanno parte <strong>del</strong> linguaggio musicale<br />

eclettico di Hendrix, di quello che diceva musicalmente e <strong>del</strong>la<br />

maniera in cui lo diceva. In ultima istanza, ciò che resta è il far<strong>del</strong>lo<br />

<strong>del</strong> suono, il suo peso storico, che reca testimonianza di un<br />

tempo e di una figura che continua a parlarci.<br />

La musica di Hendrix deve certamente essere collocata nell’ambito<br />

degli sviluppi <strong>del</strong>l’estetica nera avanguardista e urbana<br />

che ha continuamente sfidato le conoscenze ereditate <strong>del</strong>la cultura,<br />

<strong>del</strong>la tecnologia e le possibilità storiche ed estetiche di vivere<br />

nella città moderna. A questo punto, la sua musica assume un<br />

ruolo centrale nella comprensione <strong>del</strong>l’emergenza <strong>del</strong> sublime urbano<br />

contemporaneo. Posta in questa maniera, la musica di Hendrix<br />

è cruciale nello slittamento dalla marginalità (blues, jazz,<br />

R&B, soul, rap) a una posizione centrale nella dispersione di<br />

un’estetica astratta e nella comprensione astorica <strong>del</strong>la cultura.<br />

È a questo punto che il passaggio dai ritmi ipnotici <strong>del</strong>la chitarra<br />

elettrica di Bo Diddley ai paesaggi sonori futuristi impressi lungo<br />

il manico <strong>del</strong>la chitarra di Hendrix dieci anni più tardi potrebbe<br />

cominciare a essere considerato parte di un repertorio comune. In<br />

entrambi i casi, bisogna fare i conti con la città, con la vita urbana,<br />

con un immaginario metropolitano e una riproduzione tecnica.<br />

Probabilmente non c’era altra scelta, se non cercare di appropriarsi<br />

di quello spazio. Ma qui ciò che è significativo per la storia <strong>del</strong>la<br />

modernità è come una cultura subalterna e discriminata sia riuscita<br />

nell’impresa di trasformare i linguaggi <strong>del</strong>la presunta alienazione<br />

(quelli <strong>del</strong>la città, <strong>del</strong>le sue tecnologie e <strong>del</strong>le sue tecniche) in un’affermazione<br />

inattesa. Nella sua codificazione sonora <strong>del</strong>lo spazio urbano,<br />

nel renderlo un luogo intimo e protettivo, la musica nera ci<br />

ha insegnato a esperire e a vivere diversamente, ossia, al di là <strong>del</strong>la<br />

condanna ossessiva <strong>del</strong>la chiusura patriarcale rigida e <strong>del</strong> suo rifiuto<br />

<strong>del</strong>la cultura urbana e <strong>del</strong>le tecnologie relative.


118 IAIN CHAMBERS<br />

Ascoltando questa musica in quest’ottica diviene possibile<br />

considerare la storia <strong>del</strong>le moderne musiche africano-americane<br />

come una forma di dialogo perpetuo con le possibilità (nonché<br />

con i limiti, che quando vengono riconosciuti offrono nuove<br />

aperture o spaccature nella forma esistente) <strong>del</strong>la città moderna:<br />

dal blues al jazz, dal soul al rap. Non sono forse tutte queste<br />

musiche modi diversi di esplorare la modernità (come lamento,<br />

protesta, gioia e rabbia, come poetica), invece che di respingerla<br />

categoricamente? Significativamente, ascoltare questa storia in<br />

questo modo significa invertire l’emarginazione frequentemente<br />

romantica <strong>del</strong>le sue voci. Qui le musiche nere non occupano più<br />

le annotazioni a margine <strong>del</strong>l’esotico, ma diventano centrate e<br />

centrali. Invece di essere considerate un abbellimento <strong>del</strong>la colonna<br />

sonora urbana, un ornamento emozionante che rivive e<br />

scuote il prevedibile tran-tran <strong>del</strong>la musica rock bianca <strong>del</strong> dopoguerra<br />

e la corrente principale per mezzo di una serie di “prestiti”<br />

e “ispirazioni”, in questi suoni neri, in questa “corrente<br />

nera”, si sente qualcosa di più. Scaturisce uno spostamento,<br />

un’altra versione culturale <strong>del</strong> “taglio” storico, che svela un altro<br />

centro <strong>del</strong>la produzione musicale metropolitana, un altro modo<br />

di stare nella città e di abitare il <strong>mondo</strong> moderno. A questo punto<br />

le musiche africano-americane ribaltano il presunto mo<strong>del</strong>lo<br />

<strong>del</strong>l’emarginazione sottoculturale e le loro culture <strong>del</strong>la resistenza<br />

(in eterno destinate alla subalternità e alla negazione), e divengono<br />

istanti che decentrano e ricentrano la partitura <strong>del</strong>la<br />

storia. L’ubiquità <strong>del</strong> reggae e <strong>del</strong> rap a livello globale, che si<br />

sparge in una miriade di varianti e traduzioni locali, è forse il<br />

sintomo più eloquente e resistente di questo riallineamento nella<br />

grammatica musicale metropolitana.<br />

Ma anche qualora venga riconosciuto questo adattamento<br />

strutturale, dando luogo a una differente mappatura e comprensione<br />

<strong>del</strong>la scena culturale, la presenza di Hendrix continua a essere<br />

fastidiosa. Pur spostando il centro <strong>del</strong>la musica moderna metropolitana,<br />

rimane una figura enigmatica. Come per il personaggio<br />

<strong>del</strong> gitano errante che egli aveva adottato per se stesso, talvolta<br />

è difficile mettere a fuoco o contestualizzare la sua posizione,<br />

tanto negli ambiti <strong>culturali</strong> degli anni Sessanta quanto in quelli<br />

odierni. Che sia proprio questa difficoltà, l’impossibilità di essere<br />

facilmente inquadrabile o scartabile, l’aspetto più istruttivo?


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 119<br />

Questo perché la musica di Hendrix evoca una complessità e<br />

una molteplicità di forme che trapassa le distinzioni convenzionali:<br />

si pone al crocevia, e per quanto abbia percorso una strada<br />

particolare, una strada <strong>del</strong>ineata dalla schiavitù e dalla sottomissione<br />

di stampo razzista, rifiuta di farsi incasellare in quel percorso.<br />

Elabora un’estetica urbana (in ambo i sensi) che non si limita<br />

a costruire particolari generi musicali, ma che suona ai limiti, vive<br />

tra mondi musicali e <strong>culturali</strong>, rielaborando e ridirigendo le<br />

loro possibilità nell’ambito <strong>del</strong>l’eredità storica <strong>del</strong>la modernità.<br />

Se vogliamo insistere sul senso “radicato” <strong>del</strong>la cultura e <strong>del</strong>la<br />

tradizione come un continuum di identità ed esperienze autonome,<br />

allora Coltrane, Hendrix, Davis e Prince sono tutti “esiliati”.<br />

La loro musica ci intrappola nelle configurazioni slittanti, erranti,<br />

come insieme di suoni inter o trans<strong>culturali</strong>, i quali esplorano i<br />

limiti ereditati, o da essi “sconfinano”, mentre di continuo ci trascinano<br />

altrove.<br />

Le comprensioni politiche ed etiche che si possono trarre da<br />

queste storie, da questi suoni, mentre percorrono la nostra vita e<br />

risuonano nel nostro senso <strong>del</strong> divenire non consistono soltanto<br />

nel fatto che essi proiettano l’ombra <strong>del</strong>la loro influenza sulla<br />

modernità, ma anche che al contempo svelano una maniera differente<br />

e più sperimentale di vivere e di testare le possibilità <strong>del</strong>l’esistenza.<br />

Mentre cozzano contro le divisioni <strong>del</strong> nostro tempo,<br />

cui agognano, aprono spazi all’interno di quanto abbiamo ricevuto<br />

in eredità che estendono e strappano quanto abbiamo accettato,<br />

perturbano e ritagliano ciò che è pianificato, per suonare<br />

il <strong>mondo</strong> in una chiave diversa.<br />

Citare il passato<br />

Citare il passato vuol dire ricollocare il presente e rivelare all’interno<br />

<strong>del</strong>lo stesso l’istanza di sentieri contingenti che ci riconducono<br />

indietro mentre ci trasportano avanti. I ricordi… <strong>del</strong>l’infanzia a<br />

Berlino, di un giardino zoologico, di una città dove “smarrirsi in essa<br />

come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare”<br />

(Benjamin 1950, p. 9)… <strong>del</strong>l’adolescenza a Belfast, “dove riesci ad<br />

avvertire il silenzio alle undici e mezza nelle lunghe notti estive,<br />

mentre parlava Radio Luxembourg, e sussurravano le voci dall’al-


120 IAIN CHAMBERS<br />

tra parte di Beechie River” (Van Morrison 1991). Nel dicembre<br />

1993, al Masonic Auditorium di San Francisco, Van Morrison canta<br />

In the Garden, che si trasforma in una canzone più datata, Real,<br />

Real Gone, che ricorda You Send Me di Sam Cooke.<br />

Qui c’è un corpo maschile che si adatta alla musica e poi si<br />

esprime per mezzo di essa, la “grana” di una voce che richiama i<br />

limiti dove si estende per superarli, mentre il canto scende nel respiro<br />

<strong>del</strong>l’essere, penetra nell’infinito <strong>del</strong> suono. Sempre in California,<br />

a sud di Big Sur, volgendo lo sguardo attraverso la pineta<br />

verso il mare, nella speranza di avvistare balene, sento dentro di<br />

me risuonare un’altra canzone:<br />

Sirene che suonano nella notte<br />

La salata aria di mare nella brezza mattutina<br />

Macchine che percorrono tutta la costa<br />

Dev’essere di questo che si tratta (Morrison 1990).<br />

Tentare di descrivere tale musica significa intraprendere<br />

un’impresa persa in partenza, destinata a fallire prima di raggiungere<br />

l’obiettivo: significa ritrovarsi a balbettare dinanzi all’ineffabile.<br />

E allora, a che serve scrivere? Forse soltanto a lasciare un segno,<br />

una traccia e quindi a cercare un sentiero nel <strong>mondo</strong>. E allora<br />

la canzone stessa non tratta necessariamente di nulla, è un<br />

evento sonoro in cui si combinano fortuito e intenzionale. Non si<br />

tratta quindi di approssimazione verbale, di spiegare il suono, come<br />

fosse contenuto nel guscio di un senso e di un scopo stabili,<br />

bensì di cercare in esso una risposta che faccia appello al mio senso<br />

<strong>del</strong>l’essere.<br />

Un altro momento. In fondo a un vicoletto scuro nei Quartieri<br />

Spagnoli di Napoli, in uno sfolgorio di luci si erge il teatro Galleria<br />

Toledo. Stasera sono venuto qui per vedere e ascoltare il ballerino<br />

algerino El Hadi Cheriffa, accompagnato dalla voce e dalle<br />

percussioni di Moussa Belkacemi. I suoni, il corpo, la poetica <strong>del</strong>la<br />

grazia visiva e uditiva raccolgono la musica e le forme tradizionali<br />

in una commistione mutevole (beduino, berbero, tuareg), le<br />

cui caratteristiche e la cui composizione rientrano a ugual titolo<br />

nel Maghreb contemporaneo. La tematica <strong>del</strong>la loro composizione<br />

e <strong>del</strong>la composizione di una siffatta tematica permea la danza,<br />

risuona nel canto…


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 121<br />

Pensare<br />

la voce che canta<br />

come la mano che scrive<br />

è il corpo nel linguaggio<br />

che risponde<br />

all’appello<br />

e<br />

alla cura<br />

<strong>del</strong>l’essere.<br />

Pensare. La maggior parte di noi ha ricevuto in eredità un<br />

modo di pensare che si basa sulla separazione fondamentale <strong>del</strong><br />

soggetto dagli oggetti <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>; una netta divisione tra il senso<br />

di se e le cose che in seguito il pensiero reclama e garantisce per<br />

se stessa. Per mezzo di questa distinzione, la ragione sfugge alla<br />

finitezza <strong>del</strong> pensatore, la conoscenza sfugge al tempo. Sebbene<br />

comporti libertà di pensiero e di autovalutazione, si tratta, paradossalmente,<br />

di un modo di pensare che, persino nei momenti di<br />

maggiore attenzione e riflessione, non può mai mettersi davvero<br />

in discussione. Il pensiero orbita attorno alla premessa e alle asserzioni<br />

prive di verifica <strong>del</strong> cogito. Si mette in discussione soltanto<br />

ciò che non rientra immediatamente nella soggettività: il<br />

<strong>mondo</strong> esterno degli oggetti e <strong>del</strong>l’alterità. Tuttavia, il pensiero<br />

critico, contrapposto al pensiero consolatorio, rinnega necessariamente<br />

il desiderio di questa completezza soggettiva. Cancellando<br />

la pulsione a essere “schiacciati dalla coerenza”, il pensiero<br />

critico non è affatto concettuale (Tsing 1993). Il suo rigore non è<br />

né egocentrico, né geometrico, perché viene a essere disciplinato<br />

da un imperativo ben più grande e ambiguo: quello di essere già<br />

e sempre al <strong>mondo</strong>. Da questo ha origine la nostra comprensione.<br />

La redenzione non è più in cima alla strada, ma ai nostri piedi,<br />

nei passi che facciamo tutti i giorni, nel linguaggio in cui viviamo,<br />

nella finitezza dei nostri corpi, nei limiti <strong>del</strong> nostro essere.<br />

Contestare i modi d’essere <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> non può contemplare la<br />

procrastinazione, una conoscenza ancora da venire. Dove è giunto<br />

ognuno di noi, il posto che occupa, è il risultato di un dialogo<br />

continuo, che si estende attraverso le generazioni. Il nostro pote-


122 IAIN CHAMBERS<br />

re, il nostro essere, viene da quel passato per incontrare e configurare<br />

il nostro futuro.<br />

L’asimmetria dei poteri, <strong>del</strong>le loro rappresentazioni politiche e<br />

<strong>culturali</strong>, nonché <strong>del</strong>la loro appartenenza a discrepanze e discriminazioni<br />

di vario tipo, struttura un <strong>mondo</strong> in cui la coerenza e la<br />

conoscenza che esso sposa divengono inevitabilmente la metonimia<br />

di un’imposizione violenta. Per quanto collegata, in maniera<br />

esplicita, all’evocazione linguistica <strong>del</strong> plurale, questa tendenza<br />

sociale e politica costituisce necessariamente una sottile rete che<br />

cattura ed emargina sistematicamente la differenza, spesso, e in<br />

maniera alquanto sintomatica, nel nome <strong>del</strong> liberalismo, <strong>del</strong>la politica<br />

<strong>del</strong>l’identità e <strong>del</strong> multi<strong>culturali</strong>smo. Trarre dalle situazioni<br />

che ricevo in eredità e in cui vivo un linguaggio che mi invita a<br />

pensare diversamente mi incoraggia a interrompere e a mettere in<br />

discussione questi precetti ereditati, anche quelli di provenienza<br />

radicale. In questo modo posso ammettere una diversa configurazione<br />

<strong>del</strong> “politico”, e forse anche risiedervi.<br />

La musica e i ricordi: la perenne traduzione <strong>del</strong>lo spazio (lo<br />

spazio di un linguaggio, di un suono, di un’immagine, di una vita)<br />

nelle particolarità di un luogo, nell’asse <strong>del</strong>l’esistenza, costituito<br />

dall’“adesso” sfuggente, fa inevitabilmente appello alla traduzione<br />

<strong>del</strong>la geografia in ontologia, <strong>del</strong>la sintassi <strong>del</strong> suono e <strong>del</strong>l’immagine<br />

nell’evento <strong>del</strong> canto e <strong>del</strong>la visione, <strong>del</strong>l’astratto nel corpo.<br />

Considerare queste tematiche nel contesto <strong>del</strong> suono, anche<br />

nell’epoca <strong>del</strong>la riproduzione tecnologica globale, significa prestare<br />

attenzione al potere metaforico e cangiante <strong>del</strong>la musica, che<br />

dà voce al dilemma. In quanto linguaggio, istituzione economica e<br />

insieme di pratiche <strong>culturali</strong>, in quanto modalità di ascoltare il<br />

<strong>mondo</strong> e farlo risuonare, la musica non contribuisce solamente alla<br />

creazione dei paesaggi, ma anche ai variegati orizzonti <strong>culturali</strong><br />

in cui ci muoviamo. In questo senso è anche “un ricettacolo <strong>del</strong>la<br />

nostra conoscenza e <strong>del</strong>la nostra memoria” (Fry 1993, p. 12).<br />

Potremmo considerare la musica<br />

Potremmo considerare la musica uno dei linguaggi che viviamo,<br />

in cui risiediamo, e in cui noi, le nostre storie, culture e identità<br />

sono costituite. Come linguaggio è apparentemente incorpo-


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 123<br />

reo, eppure profondamente terrestre (Celan 1978). Il linguaggio è<br />

la costellazione <strong>del</strong>la presenza e <strong>del</strong>l’assenza, <strong>del</strong>la perdita, che<br />

fornisce le coordinate invisibili <strong>del</strong> nostro essere: ciò che, dopo<br />

tutto, rimane come ferita <strong>del</strong>la realtà è proprio il linguaggio, quel<br />

mai più e sempre più che ci spinge avanti lungo direttive raramente<br />

rilevabili esposte ai venti <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> dove non c’è un punto<br />

di riferimento o di origine unico. Forse, come dice Foucault<br />

verso la fine di Le parole e le cose, questa è la nostra “origine senza<br />

origini”. A questo punto chiedersi che cosa sia la musica equivale<br />

a chiedersi che cosa sia la nostra cultura, chi siamo noi, che<br />

cosa ci facciamo qui? Come giustamente osserva Antoine Hennion<br />

(1993, p. 12): “la musica è una sociologia”.<br />

Proporre questo momento di riflessione, questo silenzio che<br />

precede il canto, significa contrapporsi all’acquisizione teorica <strong>del</strong><br />

<strong>mondo</strong>, intenta a ridurre il linguaggio, che sia la musica o il discorso<br />

quotidiano, a un mezzo trasparente, disposto dopo il nostro<br />

arrivo, un semplice servo <strong>del</strong>la nostra soggettività. Il linguaggio<br />

non viene dopo il soggetto: è già in attesa, e già ci chiama,<br />

perché i linguaggi, che siano letterari, musicali o quotidiani, o anche<br />

se spesso dipendono da sistemi tecnico-<strong>culturali</strong> alquanto<br />

precisi, non si accendono e spengono premendo un interruttore:<br />

essi persistono e permeano il nostro <strong>mondo</strong>, perseguitano la nostra<br />

presenza e circolano al di là <strong>del</strong>la nostra volontà. In quanto<br />

parte integrante <strong>del</strong>l’economia <strong>del</strong>le nostre vite, precedono la nostra<br />

conoscenza e quindi informano il nostro essere e divenire.<br />

Non si possono ridurre a un mezzo o alla tecnologia: fanno parte<br />

<strong>del</strong>la nostra comprensione.<br />

Per esempio, dove finisce l’immagine o il suono e comincia il<br />

sociale? Oppure, in un lessico diverso, dove comincia il commerciale<br />

e finisce l’estetico? L’impossibilità di <strong>del</strong>ineare questi limiti<br />

ci porta al di là <strong>del</strong>le miopi distinzioni che tentano di prendere le<br />

distanze, critiche quanto sociali, da questi mezzi, linguaggi e tecnologie.<br />

Da loro non possiamo ritrarci, sono sempre a portata di<br />

mano. Siamo costretti a riconoscere la loro centralità ontologica<br />

rispetto a chi siamo, a ciò che potremmo voler diventare 1 .<br />

1 Ho trattato diffusamente <strong>del</strong>l’economia politica <strong>del</strong>la musica popolare nelle configurazioni<br />

storiche <strong>del</strong>la modernità in Chambers 2000.


124 IAIN CHAMBERS<br />

Forse questa mancanza di distanza, che determina una propensione<br />

a rimanere invischiati e trasformati in questi linguaggi di modo<br />

che, al di là <strong>del</strong>l’ovvia portata strumentale <strong>del</strong> profitto politico,<br />

entrano anche profondamente in risonanza con l’ambiguo peregrinare<br />

<strong>del</strong> nostro essere nel <strong>mondo</strong>, viene segnalata in maniera più<br />

acuta, per quanto raramente presa in considerazione, nel dominio<br />

<strong>del</strong> suono. Il passaggio <strong>del</strong> suono – e il pensiero inquietante <strong>del</strong>l’inconcludente<br />

– frustra le nostre pretese di afferrare e ridurre i<br />

nostri ambienti a una cornice comune. Questo è il luogo in cui<br />

l’immediatezza dei regimi visivi e la sorveglianza <strong>del</strong>la vista sono<br />

usurpate dall’infinita alternanza di canto e silenzio, dove ascoltare<br />

può essere tanto significativo quanto cantare.<br />

Ciò che chiamo “trasgressione” è qualcosa di completamente letterale<br />

e secolare al contempo: quella facoltà che la musica ha di viaggiare,<br />

attraversare, fluttuare da luogo a luogo nella società, anche se<br />

molte istituzioni e ortodossie hanno tentato di porle un freno (Said<br />

1992, p. XV).<br />

Per quanto continuamente inserito nelle apparenze <strong>del</strong>l’economia<br />

visiva, il corpo evade continuamente da questo schema quotidiano<br />

attraverso le migrazioni <strong>del</strong> suono. La memoria si aggrappa<br />

allo schema mentre segue le evoluzioni <strong>del</strong>la musica. I suoni si fanno<br />

beffa <strong>del</strong>le costrizioni unilaterali <strong>del</strong>l’egemonia oculare e minacciano<br />

costantemente di spezzare i confini e di circolare senza destinazione<br />

o direzione. La feticizzazione visiva <strong>del</strong>l’oggetto viene trascinata<br />

via dal suono: le note, gli urli, il respiro, il parlato, il silenzio:<br />

lo spazio che offre ospitalità al futuro. La pulsione visiva che<br />

tenta di rendere tutto trasparente, scientifico, clinicamente comprensibile<br />

ed economicamente sfruttabile (qui risiede l’arcana vicinanza<br />

dei discorsi medici e dei media) necessariamente tenta di afferrare<br />

l’essere e il tempo, di trasformare la vita in un istante esemplare,<br />

un’astrazione, una “riserva” di significato sempre a disposizione<br />

(Heidegger 1962a) 1 . L’immagine, con tutta la sua ambiguità<br />

1 Non si vuole negare che i linguaggi visivi possano fornire nuovi inizi in contesti in<br />

cui anche le immagini divengono testimonianze storiche e firme etnografiche per qualcos’altro<br />

e qualcun altro, stabilendo una differenza nell’ambito <strong>del</strong>la crescente credenza globale<br />

nella visibilità <strong>del</strong>la verità come “informazioni” oculari. Si veda Chow 1995.


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 125<br />

potenziale, è strutturalmente più circoscritta e tende alla consolazione<br />

di un punto fermo semantico. È l’economia <strong>del</strong> suono, dal silenzio<br />

al grido, che in ultima istanza infastidisce i regimi visivi e la<br />

repressione che cerca di rendere tutto rappresentativo. Rivolgersi<br />

all’orecchio significa altresì riportare le immagini al piacere <strong>del</strong>le<br />

superfici, alla libertà (e ai limiti) <strong>del</strong>la creazione, <strong>del</strong> camuffamento,<br />

<strong>del</strong> mascheramento <strong>del</strong>la rappresentazione. Questo significa contestare<br />

il trionfo <strong>del</strong>l’immagine sull’azione, <strong>del</strong>la forma incorporea sul<br />

flusso corporeo, <strong>del</strong>la firma metafisica sull’evento sregolato, <strong>del</strong> segno<br />

sul suono 1 . Superando una tale immaginazione e un tale inquadramento<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, la conclusione visiva subisce un riposizionamento<br />

e l’immagine è costretta a svelare i propri impulsi logocentrici<br />

come potere e limite, promessa e minaccia, espansione e chiusura.<br />

Tra la “comprensione metafisica che tutta la verità è rappresentativa”<br />

(Thiele 1995, p. 25) e ciò che continua ad agitarsi al di là di<br />

una siffatta cornice c’è un sentiero lungo il quale la poiesi <strong>del</strong> suono<br />

mantiene la promessa <strong>del</strong>l’irreprimibile.<br />

Una voce nell’oscurità, la cadenza di un sassofono per strada,<br />

la saliva sulla lingua, il respiro che si fa strada tra le parole, la sospensione<br />

rappresentata dal silenzio: tutto questo è musica, e tutto<br />

questo muta le motivazioni immediate e le interrompe con la<br />

memoria, perché domandare il significato <strong>del</strong>la musica, il significato<br />

<strong>del</strong> suono, significa forse distillare dalle profondità dei nostri<br />

sensi l’inafferrabile essenza <strong>del</strong>l’essere. Scrive George Steiner<br />

(1992, p. 55, corsivo nell’originale): “Nella musica, essere e significato<br />

sono inestricabili. Rifiutano ogni parafrasi. Ma essi sono, e<br />

la nostra esperienza di questa essenzialità è certa quanto quella di<br />

ogni consapevolezza umana”. Intessendo ritmo ed essere, musica<br />

e memoria, il desiderio, il rinvio <strong>del</strong> suono intona un contrappunto<br />

interno nello stato prelinguistico <strong>del</strong> linguaggio, nell’indeterminabile<br />

semiosi dei nostri corpi 2 .<br />

La musica ci permette di viaggiare. Soprattutto, ci trascina nei<br />

meandri <strong>del</strong>la memoria e nella sua “disgiunzione improvvisa <strong>del</strong><br />

1 Per una discussione coraggiosa e ponderata <strong>del</strong>le implicazioni politiche e <strong>del</strong>la cecità<br />

critica <strong>del</strong>l’egemonia oculare nel contesto <strong>del</strong>la musica nera contemporanea, si veda<br />

Gilroy 1994.<br />

2 Si tratta di un riferimento alla distinzione, a opera di Julia Kristeva (1984), tra semiotico<br />

e simbolico nel linguaggio.


126 IAIN CHAMBERS<br />

presente” (Bhabha 1994, p. 300). Qui il tempo oltrepassa la restrizione<br />

dei nostri concetti, perché il tempo <strong>del</strong>la memoria è un<br />

tempo reversibile che ci consente di ritornare, rivisitare e re-visionare<br />

altri tempi. La presenza coeva di questo tempo reversibile e<br />

<strong>del</strong>la natura irreversibile dei nostri corpi provoca una lacerazione<br />

nella nostra esperienza, nelle nostre vite. Il tempo lineare, irrevocabile<br />

viene interrotto dall’intervallo e dall’intrusione <strong>del</strong> ritorno<br />

eterno <strong>del</strong> tempo trasversale: il ritorno <strong>del</strong> sintomo, <strong>del</strong> ricordo,<br />

<strong>del</strong>la registrazione e <strong>del</strong> riordino <strong>del</strong> passato, e il desiderio perpetuo<br />

di ritornare a ciò che è stato registrato. Il luogo mutevole <strong>del</strong>la<br />

memoria esplode nello spazio <strong>del</strong>le nostre storie come insieme<br />

di frammenti sospesi nel tempo, come perdita che viene vissuta<br />

come essenziale per la nostra comprensione <strong>del</strong> presente. La memoria<br />

viene alimentata e tenuta in custodia (sia catturata che difesa)<br />

dalle fragili catene <strong>del</strong> linguaggio, dalla cadenza e dalla respirazione<br />

<strong>del</strong> corpo che costituisce l’ambigua apertura e il programma<br />

<strong>del</strong>la nostra identità. E la musica, in quanto canto, danza e ritmo,<br />

in quanto mappe musicali e versi di canzoni, forma uno spartito<br />

che fa da contrappunto interrogando la contingenza per la<br />

creazione di un’individuazione mobile e <strong>del</strong>la collettività.<br />

Danza gitana sotto un albero<br />

Una giovane gitana balla sotto le fronde di un albero nel deserto<br />

<strong>del</strong> Rajasthan. Il suo abito chiaro e i gioielli che indossa<br />

scintillano nelle ombre <strong>del</strong>la sera. La scena è ipnotica e allo stesso<br />

tempo emblematica. Mi ritrovo sulla <strong>soglia</strong> di qualcosa di diverso,<br />

che apre il mio <strong>mondo</strong> alla dirompente presenza di qualcosa<br />

che riconosco ma che si sottrae al mio desiderio di comprensione.<br />

Qui c’è un evento che sfugge alla chiusura <strong>del</strong>la mia<br />

comprensione. È tutto chiaro (la figura danzante nel deserto, i<br />

suoni che ne accompagnano i movimenti), ma qualcosa rimane<br />

opaco, nascosto, fuori dalla mia visuale, muto. È la scena di apertura<br />

<strong>del</strong> film e <strong>del</strong> viaggio musicale intitolato Latcho Drom (1993)<br />

<strong>del</strong> regista algerino Tony Gatlif. L’itinerario ha inizio nel Nord-<br />

Ovest <strong>del</strong> subcontinente indiano e prosegue attraversando un arcipelago<br />

di memorie storiche svelate nei suoni che emergono<br />

lungo il cammino: India, Egitto, Turchia, Romania, Ungheria,


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 127<br />

Auschwitz, La Camargue, Andalusia. Questa storia di un popolo<br />

senza casa (i rom, gli zingari) illumina di colpo un’asserzione di<br />

Heidegger (1946), secondo cui il linguaggio è la dimora <strong>del</strong>l’essere.<br />

Questa storia periferica si mantiene e si nutre nel viaggio interminabile<br />

di una canzone cangiante che passa di orizzonte in<br />

orizzonte, trasformando il passaggio in musica, la terra in storia,<br />

uno spazio e un’identità nomadi in luoghi <strong>del</strong>la casa <strong>del</strong> linguaggio.<br />

La storia “verticale”, che dipende dal terreno che troviamo<br />

sotto ai piedi, dal suolo ancestrale, qui viene fatta slittare dal persistente<br />

viaggio di un linguaggio (incorporato nel suono, nel canto<br />

e nella danza), che cerca una sistemazione nel <strong>mondo</strong>. Qui,<br />

paradossalmente, incontro una fenditura nel topos naturalista<br />

<strong>del</strong>l’identità mentre ciò che appare arcaico interseca le coordinate<br />

stabili <strong>del</strong>la casa e <strong>del</strong>la patria per trasformare la modernità in<br />

molteplici modernità, esponendo nel bel mezzo un altro senso<br />

<strong>del</strong>la casa. In questa nomadologia <strong>del</strong> suono sono attratto ad<br />

ascoltare la scintilla <strong>del</strong>la contingenza che si trova tra i regni consci<br />

e inconsci <strong>del</strong>la storia. In questa iscrizione musicale <strong>del</strong>la terra,<br />

acquisisco consapevolezza di uno stato in cui una musica e un<br />

<strong>mondo</strong> si incontrano e si intrecciano nel corpo, rendendo esplicita<br />

l’alterità che rende ognuno di noi soggetto.<br />

Questo perché l’identità stessa è uno slittamento, una figura<br />

combinatoria, una fase musicale nella partitura <strong>del</strong>l’essere. Cominciamo<br />

a udire il suono, nasciamo, ma una volta per strada esso<br />

non si conclude finché la mortalità impone una coda individuale.<br />

L’identità è una linea di basso sempre presente, in continuo<br />

dispiegamento, una figura rizomatica, una fuga tratta dai linguaggi<br />

che ci trasportano e ci sostengono, un assolo e un’improvvisazione<br />

sulle energie che si dispiegano e si trasmettono nel <strong>mondo</strong><br />

(anziché un’opera isolata che ritratta e rielabora il <strong>mondo</strong> lungo la<br />

nota unica e costante <strong>del</strong> sé).<br />

Concepire la musica come memoria significa afferrare la natura<br />

vitale e fisica <strong>del</strong>la ripetizione, e come, secondo Freud, il ricordo<br />

(Erinnerung) sia legato alla ripetizione (Wiederholen). Nel<br />

1914 il padre <strong>del</strong>la psicanalisi scrisse un breve saggio intitolato<br />

Ricordare, ripetere e rielaborare. Egli osservò l’importanza <strong>del</strong>la<br />

ripetizione “al fine di orientarli [i processi psichici] verso la scarica<br />

grazie all’attività cosciente” (p. 353). Inoltre, egli sottolineò<br />

che la ripetizione può fornire sia l’accesso alla memoria che una


128 IAIN CHAMBERS<br />

modalità di resisterle, rifiutarla e reprimerla. La musica, come<br />

linguaggio <strong>del</strong>la ripetizione, propone di continuo questo gioco<br />

tra il ricordo e la resistenza al passato. Nel ritorno <strong>del</strong> suono, la<br />

musica riempie gli intervalli nella memoria, provocando un superamento<br />

temporaneo <strong>del</strong>la resistenza alla sua presenza e al corpo<br />

che la incarna. Nell’istante <strong>del</strong>la ripetizione, che non sia tanto il<br />

caso di ricordare ciò che è stato dimenticato, quanto di esporre<br />

l’atto stesso <strong>del</strong>l’oblio? L’oblio viene dimenticato, ma il linguaggio<br />

<strong>del</strong>la ripetizione al contempo lo prende in mano e lo trasforma.<br />

Questa continuità <strong>del</strong> canto, “non va trattata come una faccenda<br />

<strong>del</strong> passato, ma come una forza che agisce nel presente”<br />

(Freud 1914, p. 357), fornisce coerente tutela <strong>del</strong>la presenza-assenza<br />

<strong>del</strong>la memoria <strong>del</strong>l’essere: rivelando nell’evento <strong>del</strong> suono<br />

quel contemporaneo dischiudersi e celarsi che è il ruolo fondamentale<br />

<strong>del</strong>l’arte secondo il filosofo <strong>del</strong>la Foresta Nera 1 .<br />

La memoria, attorno alla quale<br />

La memoria, attorno alla quale orbita e fa ritorno gran parte<br />

<strong>del</strong> senso di noi stessi, è la pelle tesa sul <strong>mondo</strong> attraverso la quale<br />

scorrono il desiderio, le emozioni e l’espressione. La memoria<br />

evoca l’erotizzazione <strong>del</strong> passato, ma non esiste in quanto entità<br />

autonoma: viene sostenuta e ispezionata dal linguaggio. Giacché<br />

mette in discussione l’apartheid <strong>del</strong>la memoria e gli agenti <strong>del</strong>l’oblio<br />

che tentano di consegnare il passato al complotto <strong>del</strong> silenzio,<br />

la musica sostiene una risonanza etica che ci consente di recuperare<br />

frammenti <strong>del</strong> suo corpo disperso. Al di là <strong>del</strong> monologo<br />

rigido <strong>del</strong>la lettura, <strong>del</strong>la catalogazione e <strong>del</strong>l’interpretazione <strong>del</strong><br />

precedente, al di là <strong>del</strong>lo smembramento accademico e istituzionale,<br />

la musica fonda un luogo potenziale che ispira una risposta:<br />

un lavorio <strong>del</strong>la memoria che ci dirige altrove. La musica ci consente<br />

di invertire temporaneamente il corso <strong>del</strong> tempo e di considerare<br />

la storia una testimonianza reversibile (pertanto mai sicura,<br />

come sostiene Walter Benjamin) che reca testimonianza <strong>del</strong>la re-<br />

1 Sul “dischiudimento” e sul “nascondimento” <strong>del</strong>l’arte, si veda Heidegger 1950b.


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 129<br />

denzione sciupata <strong>del</strong>l’umanità, di una fede tristemente messa alla<br />

prova eppure eterna nel nostro ambiente. Ascoltata in questa<br />

chiave, la musica dà vita a un’etica. Attirandoci attraverso il vuoto<br />

nell’implacabilità <strong>del</strong> tempo e nei dettami <strong>del</strong> significato, la musica<br />

ci consente di uscire temporaneamente dalle narrazioni che ci<br />

inquadrano per ri-negoziare la nostra “appartenenza” alle stesse.<br />

Noi accediamo alla memoria mediante il linguaggio, mediante<br />

la scrittura sulla pagina, mediante il corpo, e nello spazio in cui<br />

parliamo e ascoltiamo. Non solo ricordiamo il nostro passato nella<br />

musica, ma anche le tecniche stesse che ci consentono di farvi ritorno,<br />

le registrazioni, sono esse stesse una forma di scrittura. In<br />

The Aesthetics of Recorded Sound, il critico giapponese Shuhei Hosokawa<br />

(1990) scrive: “Non è un caso che, inizialmente, ai dispositivi<br />

come il fono-grafo e il grammo-fono siano stati dati nomi derivati<br />

dalla congiuntura <strong>del</strong>le radici ‘suono’ e ‘scrittura’”. La musica<br />

sopravvive, va avanti, perché viene ri-scritta, re-iscritta.<br />

Mostrati mediante i linguaggi immediati <strong>del</strong>la fotografia, <strong>del</strong>la<br />

pellicola, <strong>del</strong>le immagini registrate e digitali, i nostri ricordi si avvicinano<br />

sempre più a noi. Vengono catturati, amplificati e diffusi. Le<br />

tecnologie e le tecniche di riproduzione rendono possibile un “ritorno<br />

eterno”. Tuttavia, rimane anche una tensione più profonda<br />

che nessuna tecnica o tecnologia sarà mai pienamente in grado di<br />

tradurre. Anelando al tempo, alla vita, i nostri ricordi si protendono<br />

per proteggerci dall’oblio, e nelle modalità mobili ma ripetitive<br />

<strong>del</strong>la nostra obbedienza al suono, quel desiderio chiaro ma indecifrabile<br />

raggiunge l’apice <strong>del</strong>l’ubiquità. La musica serve come mappa<br />

multidimensionale, a un tempo in relazione con la moda (ripetizione<br />

<strong>del</strong> nuovo) e con la memoria (momenti perduti nel tempo).<br />

Ci permette di mantenere un esile ponticello tra la coscienza e l’oblio,<br />

introduce la storia <strong>del</strong>l’evento nel regime fluttuante e atemporale<br />

<strong>del</strong>la memoria consentendoci di segnare il tempo e di ricordarlo,<br />

ammettendo che il passato sia presente e permettendoci di rintracciare<br />

nella sua eco altri sogni, ulteriori futuri.<br />

La musica, pertanto, quantunque in origine sia espressione di<br />

un momento storico e culturale, comincia a compiere viaggi interminabili<br />

non appena compare nel <strong>mondo</strong>; non ha un luogo solo,<br />

continua a continuare, senza alcuna ragione apparente. Si trova<br />

ovunque e da nessuna parte: il buco nel tempo, la frattura nello<br />

spazio, l’apogeo <strong>del</strong>l’esperienza.


130 IAIN CHAMBERS<br />

Ma per quanto onnipresenti, i suoni vengono sempre trascritti<br />

nella poetica particolare di un luogo. Come linguaggio, come scrittura,<br />

memoria, musica e mormorio <strong>del</strong>l’essenza, il suono implica<br />

sempre un atto di traduzione. Nel trasferimento, nel ricordo invocato<br />

nel passaggio, l’intenzione di rappresentare qualcosa che in<br />

precedenza esisteva altrove viene interrotta, superata in un processo<br />

(l’opera storica, l’opera immaginaria, l’opera <strong>del</strong> sogno) che trasforma,<br />

perché nel trasportare qualcosa da un luogo a un altro, la<br />

sostituisce 1 . L’auspicata mimesi tra realtà e rappresentazione, tra<br />

passato e presente, viene deviata dalla storicità radicale <strong>del</strong>la situazione<br />

che esiste nell’eterno vuoto tra l’eccesso <strong>del</strong> senso e i limiti di<br />

ogni istante di traduzione, memoria, significato, narrazione e riconoscimento.<br />

La traduzione svela lo smantellamento nelle fondamenta<br />

stesse <strong>del</strong>la traduzione, poiché essa non può parlare in termini<br />

di significato universale e trasparenza <strong>del</strong>la verità, bensì può<br />

farlo con gli accenti <strong>del</strong>le contestualizzazioni <strong>culturali</strong> e degli interstizi<br />

sociali in cui il linguaggio, la rappresentazione e la realtà sono<br />

destinati a trovare continuamente trascrizione, trasformazione e ricomposizione<br />

nella loro ricerca di una sistemazione 2 .<br />

Non esiste un modo semplice o diretto per recuperare le cose<br />

“così com’erano”, ma solo come sono state ricordate e tradotte,<br />

non ciò che è avvenuto, ma ciò che sta avvenendo. Tutto, pertanto,<br />

viene sia ricordato che represso, ogni testimonianza è viziata, ogni<br />

ricordo è destinato a un altro ritorno, perché la memoria è anche<br />

l’arte <strong>del</strong>l’oblio, <strong>del</strong> sopprimere la perdita, negare la mancanza,<br />

cancellare l’insuccesso <strong>del</strong> linguaggio, registrare il destino incompleto<br />

<strong>del</strong>l’intenzione. La memoria non è quindi un’origine, un ordine<br />

o una destinazione, bensì una risorsa, una tavola di scrittura, un<br />

luogo di iscrizioni… in cui la pregnanza e il dolore <strong>del</strong> passato vengono<br />

sia enunciati che riscritti nell’insistenza psichica <strong>del</strong> presente.<br />

La memoria risiede in un paesaggio ambiguo che per Walter<br />

Benjamin si estende per inglobare la storia 3 . Vuol forse dire che la<br />

1 Per un’importante trattazione di questa tematica nel contesto <strong>del</strong>la traduzione culturale<br />

contemporanea, si veda Chow 1995, pp. 182-195.<br />

2 “Anche la più grande <strong>del</strong>le traduzioni è destinata a entrare (e ad essere assorbita)<br />

nello sviluppo <strong>del</strong>la lingua, e a perire nel suo rinnovamento” (Benjamin 1955c, p. 43).<br />

3 Gran parte di questo capoverso si basa su una stimolante relazione su Walter Benjamin<br />

tenuta da Sigrid Weigel nella primavera <strong>del</strong> 1994 alla University of California a Santa<br />

Cruz.


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 131<br />

memoria significativa è soltanto una configurazione storica collettiva<br />

che esclude qualsiasi padronanza <strong>del</strong>l’offuscante scivolamento e<br />

<strong>del</strong>la repressione che tradisce l’inconscio <strong>del</strong>l’individuo? Oppure<br />

queste distinzioni sono troppo fumose, forse impossibili da fare? Se<br />

è così, rimango con un interrogativo che in entrambi i modi interferisce<br />

con la mia comprensione sia <strong>del</strong>l’“individuale” che <strong>del</strong> “collettivo”,<br />

per mettere in discussione il loro reciproco coinvolgimento<br />

e la loro reciproca iscrizione nel linguaggio che nomina queste divisioni.<br />

È possibile che ciò consenta altresì di proporre un inconscio<br />

storico in cui il racconto esplicito, razionale viene pedinato, raddoppiato<br />

e spostato permanentemente da un’altra storia, un’altra<br />

scena. Ma questa strada non consente anche di contemplare una<br />

configurazione individuale <strong>del</strong> passato nella maniera suggestiva ma<br />

differente di Proust o <strong>del</strong>l’infanzia berlinese di Benjamin? La storia<br />

non come scienza, bensì come memoria, non come legge, bensì come<br />

linguaggio. La storia come atto di testimonianza: l’atto di piangere<br />

la perdita irreparabile (perché non potremo mai più farvi ritorno)<br />

che sostiene il nostro divenire.<br />

La memoria non è né fissa, né eterna: si trasforma. Come costellazione<br />

culturale, rende possibile rivolgere uno sguardo obliquo<br />

che analizza diversamente il tempo storico, proponendo una<br />

redenzione in cui il discorso culturale e l’azione storica vengono<br />

ri-scritti mediante l’introduzione <strong>del</strong> potere instabile <strong>del</strong>la metafora<br />

e lo spargimento e la distruzione contemporanei <strong>del</strong> linguaggio.<br />

Per esempio, questo è ciò che offre Benjamin col metodo<br />

di rivoltare la storia contro la sua stessa provenienza. (In ciò è insita<br />

la sua affinità con la poetica disincantata <strong>del</strong> Barocco <strong>del</strong> naufragio<br />

di parole che si schiantano contro l’innominabile, il vortice<br />

di note che scivola via verso l’infinito). Poiché, se la storia e la<br />

memoria hanno una struttura comune, allora la storia si fonde in<br />

un’ambientazione: non nelle regolarità prescrittive di una struttura<br />

fissa o rappresentativa, bensì nelle iscrizioni discontinue <strong>del</strong>la<br />

scena. Pertanto, la lettura di Benjamin <strong>del</strong>le immagini implica necessariamente<br />

una rottura <strong>del</strong>le immagini, un risveglio critico per<br />

mezzo <strong>del</strong> quale tenta di recuperarle, raccoglierle e allentarle da<br />

un continuum mai messo in discussione. Anche questo ha a che<br />

fare con la memoria: è necessario penetrarvi, interromperne le<br />

consolazioni e “scoprire ciò che potrebbe essere stato il presente<br />

per mezzo di una ricognizione <strong>del</strong> passato” (Hays 1986, p. X).


132 IAIN CHAMBERS<br />

Nell’accordo segreto tra passato e presente, il corpo <strong>del</strong>la storia,<br />

la storia <strong>del</strong> corpo… la storia come corpo, fa irruzione nel passato<br />

per ri-contestualizzare e in-corpo-rare il presente non in termini<br />

di continuità e di conferma, bensì come interruzione.<br />

L’esteticizzazione <strong>del</strong>la tradizione e la vita preindustriale (scialbo<br />

romanticismo la cui successiva confluenza nella “esteticizzazione<br />

<strong>del</strong>la politica”, per avvalersi di una nota espressione di Benjamin,<br />

non si è affatto limitata al fascismo) si basano necessariamente<br />

sulle premesse di una società non alienata che in seguito è stata<br />

offuscata e oscurata 1 . L’essenza <strong>del</strong> presente è una carenza, un’assenza,<br />

perché non riesce a riportarci a un’unità perduta e organica.<br />

Ma se l’alienazione, come la contraddizione, non fosse tipica <strong>del</strong>la<br />

vita industriale moderna e <strong>del</strong> capitalismo metropolitano? Se l’alienazione<br />

non provasse mai Aufhebung? Se l’alienazione fosse un limite<br />

terrestre destinato a frustrare il “progresso” implicato in tutte<br />

le teleologie? In altre parole, e se le contraddizioni fossero ontologiche,<br />

e ci tenessero prigionieri nel tempo <strong>del</strong> nostro essere? Riconoscere<br />

questa condizione, mentre al contempo la combattiamo,<br />

vuole dire avanzare meno e muoversi di più lateralmente, rifiutando<br />

di eseguire i precetti rielaborandoli e ri-programmandoli in maniera<br />

diversa. Significa proiettarsi non in avanti verso l’utopia (che<br />

è il bambino umanista di un “progresso” eurocentrico che si basa<br />

sulla scoperta di nuovi mondi), bensì lateralmente verso l’atopia:<br />

un altro luogo, una maniera diversa di stare al <strong>mondo</strong>. L’utopico<br />

viene usurpato dall’eterotopico, dalla proliferazione <strong>del</strong>lo spazio in<br />

differenti luoghi, linguaggi, suoni, ritmi…<br />

Ecco che il ritorno al passato non è il ritorno a un futuro potenziale<br />

già conosciuto e perduto, bensì a una storia soggetta a interruzione,<br />

a una tradizione che prosegue inaugurando il discontinuo.<br />

L’ineffabile essenza <strong>del</strong>la musica è forse il migliore aiuto a nostra<br />

disposizione per eludere temporaneamente l’insistenza razionale<br />

<strong>del</strong> “progresso” per mezzo di viaggi trasversali collaterali nell’espansione<br />

<strong>del</strong> presente, nell’architettura <strong>del</strong> suono utilizzato<br />

1 Qui l’enfasi è su un romanticismo generico, non sul momento storico <strong>del</strong> Romanticismo.<br />

Andrew Bowie (1995) ha convincentemente asserito che il Romanticismo tedesco<br />

post-kantiano (Novalis, Jacobi, Fichte, Schlegel e Schelling) ha conferito una serie di risposte,<br />

raramente apprezzate, alla questione <strong>del</strong>la nostra essenza nella tecnologia.


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 133<br />

nella costruzione di patrie temporali, nella strutturazione degli<br />

ambienti e nella ricerca di una collocazione nel <strong>mondo</strong>. In quanto<br />

portatrice di alterità, la musica è in grado di rendere esplicita una<br />

relazione che altrove viene non di rado condannata al silenzio storico.<br />

I suoni e le voci che giungono dai margini <strong>del</strong>la mia vita, dalle<br />

frontiere <strong>del</strong>la mia esistenza, riescono a imporre un intervallo<br />

nella mia comprensione. Qui la musica mi proietta in un altro posto,<br />

aprendo una breccia nelle istituzioni e nei costumi quotidiani.<br />

Sospendendo le prescrizioni, la musica consente una possibile<br />

iscrizione in un vuoto in cui si può prendere congedo dal prevedibile<br />

per recitare, e quindi ricollocare, un linguaggio, una storia, in<br />

un altro contesto. Ascoltiamo brevemente cosa afferma Edward<br />

Said (1992, p. 98) di questo intervallo potenziale:<br />

La prima volta che assistetti a uno spettacolo musicale, quand’ero<br />

ancora un ragazzino (metà degli anni Quaranta) si trattava di un<br />

concerto ambiguo, che non finiva mai, eppure affascinante, di Umm<br />

Kalthoum, già allora esponente di punta <strong>del</strong>la canzone araba classica.<br />

Non avevo modo di sapere che quel particolare rigore esecutivo<br />

derivava da un’estetica il cui segno distintivo era una variazione sfaldante,<br />

in cui la ripetizione, una specie di ponderazione meditativa<br />

su uno o due brevi schemi, e l’assenza quasi completa di tensione<br />

<strong>del</strong>lo sviluppo (nel senso che le attribuisce Beethoven) erano gli elementi<br />

focali. Lo scopo <strong>del</strong> concerto, come ho capito in seguito, non<br />

era di arrivare alla fine di una struttura logica ben congegnata (elaborandola),<br />

bensì di abbandonarsi a ogni genere di deviazione, soffermarsi<br />

su dettagli e cambiamenti nel testo, digredire e quindi aprire<br />

una digressione in seno alla digressione. E, poiché la mia formazione<br />

eminentemente occidentale (sia musicale che accademica),<br />

sembrava destinarmi a un’etica <strong>del</strong>la produttività e <strong>del</strong> superamento<br />

degli ostacoli, l’arte di cui era maestra Umm Kalthoum diminuiva di<br />

importanza ai miei occhi.<br />

La memoria è ciò che ci difende dal passato che altrimenti ci<br />

inonderebbe e provocherebbe il ristagno <strong>del</strong> presente. Come<br />

costruzione, rifugio che erigiamo, storia che narriamo, la memoria<br />

spezza e dà forma al caos che altrimenti ci schiaccerebbe.<br />

Nell’autoritratto intitolato Le ombre, scritto nel 1925 per Martin<br />

Heidegger, Hannah Arendt scrive: “Tutti i dolori possono<br />

essere sopportati se vengono messi in un racconto, o se si narra


134 IAIN CHAMBERS<br />

di loro in un racconto” (citato in Elisabeth Young-Bruehl 1982,<br />

p. 79. La Arendt sta citando Isak Dinesen). Questo perché la<br />

memoria non viene semplicemente formata, viene inquadrata e,<br />

sottilmente, falsata, romanzata. Fornisce un luogo che apparentemente<br />

consente di accedere al passato, ma che non riesce mai<br />

a sfuggire all’interrogazione e alla forma <strong>del</strong> presente. La memoria<br />

è un meccanismo che opera una selezione. Nel nostro ricordo<br />

ri-portiamo alla mente certe cose, mentre ne dimentichiamo,<br />

neghiamo e sopprimiamo altre. La memoria è autentica (o<br />

priva di autenticità) come tutto ciò che facciamo. Tutte le memorie,<br />

tutte le scritture, tutte le storie sono fallaci e frammentate.<br />

Ogni ricordo è una versione di ciò che è perduto irrimediabilmente,<br />

è sempre un riassemblare, un mettere assieme temporaneamente<br />

i disparati elementi di un corpo che non può mai<br />

formare un intero, che è sempre interlocutorio, illuminato dalla<br />

luce <strong>del</strong>l’oblio. Perché la memoria non è un monumento immutato<br />

al passare <strong>del</strong> tempo, bensì una configurazione instabile<br />

che sfida il tempo e che si può raggiungere per vari sentieri, svelando<br />

lungo la strada storie diverse. La memoria, pertanto, è<br />

sempre in discussione, e quindi può essere altresì il luogo <strong>del</strong>l’amnesia<br />

e <strong>del</strong>la cancellazione. Riconoscere il passato come<br />

economia scrivibile, blocco per gli appunti o palinsesto, significa<br />

altresì riconoscere che è sottoposto a interpretazioni variegate,<br />

sottomesse ai poteri che tentano di conferire autorità al passato<br />

e, mediante di esso, al presente. Il ritorno, la rappresentazione<br />

<strong>del</strong> passato è sempre soggetto agli “assassini <strong>del</strong>la memoria”<br />

(Yosef Havim Yerushalmi, citato in Rossi 1991, p. 28), e<br />

quindi “ci obbliga a diventare sensibili al fatto <strong>del</strong>l’oblio”<br />

(Clarke, Doel, McDonough 1996).<br />

La musica come linguaggio (come tutti i linguaggi) mantiene<br />

questa tensione mediante l’uso comune e quello individuale. La<br />

sua facilità di fruizione, paragonata ad altri linguaggi caratterizzati<br />

da una istituzionalizzazione più formale, come la letteratura,<br />

la storiografia e le arti visive, consente di punteggiare ovunque e<br />

in maniera inattesa i copioni che dobbiamo recitare. La musica,<br />

nella sua fruizione anonima e negli innumerevoli momenti di articolazione<br />

(dalla cerimonia nel deserto alla radura nella foresta,<br />

al bar, all’angolo <strong>del</strong>la strada, alla stazione <strong>del</strong>la metropolitana e<br />

alla consacrazione moderna <strong>del</strong>lo studio di registrazione) offre


VOCE NELL’OSCURITÀ, MAPPA DELLA MEMORIA 135<br />

probabilmente una configurazione più estesa e indiscutibile di<br />

un linguaggio che canta il tempo e l’essere mentre registra la<br />

memoria. Se la musica sovente dà ospitalità alla nostalgia conservatrice<br />

e alla memoria ufficiale, essa propone altresì un ritorno<br />

a ciò che può costituire un insieme di nuovi punti di partenza.<br />

Rendendo l’ordinario straordinario, la musica provoca un’uscita<br />

dall’immediatezza opprimente <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> quotidiano. Catturato<br />

in un vortice di suoni, ognuno di noi riconfigura quella<br />

presenza, quel presente.<br />

Iscrivere la memoria nella musica<br />

Iscrivere la memoria nella musica, nonché la musica nella memoria,<br />

significa riconfigurare l’esperienza estetica. L’esperienza<br />

estetica diviene una cosa opaca, composta di ciò che pensiamo di<br />

aver già vissuto, di quei frammenti di memoria che sono anche la<br />

memoria di ciò che si agita attraverso e al di là <strong>del</strong>lo strumentale e<br />

<strong>del</strong>l’istituzionale. Nel ricordo e nel ripristino di ciò che supera la<br />

soggettività e la volontà individuale, scaturisce l’interrogativo dirompente<br />

e distruttivo <strong>del</strong>l’imperscrutabile. Questa tendenza fluttuante<br />

e indecifrabile (che non implica che non sia anche una<br />

composizione storica e culturale) è priva di fondamenta immediate,<br />

perché trascende la definizione, sfida l’intenzionalità e spezza<br />

la continuità <strong>del</strong>la comprensione. Si situa al limite tra conscio e<br />

inconscio: un ritmo che risiede nel rumore <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> tra le melodie<br />

sbrin<strong>del</strong>late <strong>del</strong> nostro essere e il battito strumentale <strong>del</strong> pensiero<br />

che porta quell’eccesso che minaccia di irrompere, schiacciarci,<br />

infastidirci e decentrarci nella nostra comprensione, in apparenza<br />

spiegandola. Ma l’arte non illumina il <strong>mondo</strong>, lo oscura,<br />

portando alla ragione ciò che la ragione respinge e ricusa. Non<br />

annuncia la rivelazione di ciò che si può dire, vedere e giudicare,<br />

bensì l’insistenza ritmica di ciò che non si può sempre rappresentare,<br />

bensì sentire. Nella musica è riposto il rifiuto <strong>del</strong>la mimesi.<br />

Come costrutto nel tempo e attraverso il tempo, la memoria<br />

non è pertanto solamente un involucro trasparente che contiene<br />

(e limita) ciò che pensiamo di conoscere e che siamo in grado di<br />

ricordare, perché proietta la nostra attenzione verso il passato, ci<br />

spinge altresì nelle ombre, dove avvertiamo ciò che non possiamo


136 IAIN CHAMBERS<br />

spiegare o annunciare pienamente. In questo trasferimento tra<br />

passato e presente, tra ciò che alla ragione è concesso e ciò che va<br />

al di là di essa, e dove ognuno dà un contributo alla costituzione<br />

<strong>del</strong>l’altro, come possiamo sapere ciò che pensiamo di sapere? Ciò<br />

a cui possiamo aggrapparci e a cui ci aggrappiamo sono i linguaggi<br />

che ci consentono di prendere in considerazione queste domande.<br />

La memoria <strong>del</strong>l’arte, e l’arte <strong>del</strong>la memoria, vengono resi<br />

temporaneamente coerenti in questo interrogativo.


Capitolo quinto<br />

Architettura, amnesia e il ritorno <strong>del</strong>l’arcaico<br />

Dopo aver dimorato, come essere concreto, in esso,<br />

andando al di là <strong>del</strong> sapere, <strong>del</strong> pensiero e <strong>del</strong>l’idea<br />

in cui il soggetto vorrà, a cose fatte, racchiudere il fato<br />

di dimorare che non ha misura comune con un sapere<br />

(Lévinas 1961, p. 156).<br />

Nel 1924 Walter Benjamin e Asja Lacis scrivevano, in un<br />

commento in seguito molto citato, che la città di Napoli è fatta<br />

di un’“architettura porosa” (Buck-Morss 1989; Burgin 1996;<br />

Leslie 1999). Il principale materiale da costruzione è il tufo giallo,<br />

materia vulcanica che scaturisce dagli abissi marini e si solidifica<br />

a contatto con l’acqua di mare. Trasformata in abitazione,<br />

questa roccia porosa riporta gli edifici all’umidità <strong>del</strong>le loro origini.<br />

In questo incontro drammatico con gli elementi dei tempi<br />

antichi (terra, aria, fuoco e acqua), sono già presenti gli estremi<br />

incalcolabili che coordinano la vita quotidiana dei napoletani. Il<br />

tufo friabile, figlio <strong>del</strong> violento connubio di vulcano e mare, fuoco<br />

e acqua, è sintomatico <strong>del</strong>l’instabile edificazione <strong>del</strong>la città.<br />

Inoltre, l’utilizzo <strong>del</strong> tufo rivela un evidente imbroglio nella<br />

struttura stessa <strong>del</strong>la città. Avendo le autorità spagnole, nel tentativo<br />

di tenere sotto controllo lo sviluppo urbano, proibito di<br />

importare materiale da costruzione, i napoletani hanno estratto<br />

la pietra vulcanica letteralmente da sotto i loro piedi, ricacciando<br />

nuovamente questo materiale verso il cielo. Il suolo sottostante<br />

la città è cavo, crivellato dalle caverne che ne sono derivate.<br />

Non soltanto la vita di oggi è costituita da materiali instabili<br />

e fisicamente inaffidabili, ma anche le sue fondamenta sono sospette<br />

da un punto di vista legale e geologico. Per citare il libro<br />

Il Dramma barocco tedesco <strong>del</strong> 1928, che Benjamin scrisse sul<br />

teatro barocco tedesco <strong>del</strong> lutto mentre si trovava a Capri, Napoli<br />

è un’allegoria <strong>del</strong>le forze precarie <strong>del</strong>la modernità. Come<br />

negazione perpetua <strong>del</strong>la presunta ineluttabilità <strong>del</strong> “progresso”,<br />

come continuo mettere in discussione le sue fondamenta, la<br />

città propone continuamente un suolo fisico e filosofico che


138 IAIN CHAMBERS<br />

mette a dura prova i principi <strong>del</strong>la stabilità 1 . Vissuta come un<br />

ambiente di “crisi”, anziché come un ambiente pianificato, Napoli<br />

si presenta sia come città barocca che come città abissale. I<br />

suoi innumerevoli edifici seicenteschi e le incerte fondamenta<br />

sono testimoni silenziosi <strong>del</strong>la continua distruzione <strong>del</strong>lo sviluppo<br />

lineare mentre il progetto urbano e architettonico si dissolve<br />

in suoni, strade e corpi che non si piegano facilmente alla stabilità<br />

strutturale cui anela la volontà moderna.<br />

Camminando per la città, percorro gli angusti vicoletti che si<br />

piegano verso l’interno, verso la piazza, verso una chiesa, o che mi<br />

portano ai monumenti eretti in nome <strong>del</strong>la morte e <strong>del</strong>la disgrazia<br />

(le guglie decorate o gli obelischi che commemorano eruzioni vulcaniche,<br />

terremoti e pestilenze); di rado le strade mi portano verso<br />

l’apertura <strong>del</strong> mare. È come se la città traesse le proprie energie<br />

dall’oscurità, dalle ombre, risucchiando la luce dalle cose in<br />

un riflesso di se stessa irreprimibile, che serve a illuminarne la<br />

passione e l’egocentrismo. Il mare è relegato al ruolo di accessorio,<br />

di appendice da cui un tempo giungeva il pesce e ora promanano<br />

gli effluvi urbani.<br />

Napoli è soprattutto una città verticale, che si riflette sia nella<br />

sedimentazione archeologica che nella stratificazione sociale. La<br />

scala sociale ha inizio con i monolocali al pianterreno (i bassi) e<br />

raggiunge gli attici e le terrazze <strong>del</strong>le classi di professionisti e dei<br />

residui di aristocrazia che rimangono aggrappati alla propria altezza.<br />

Il cielo e il mare vengono catturati in squarci, difficilmente<br />

è consentita la prospettiva laterale (democratica?); lo sguardo è<br />

bloccato dai vicoletti angusti oppure viene sviato verso l’alto, verso<br />

l’autorità laica e religiosa. Le aperture conducono con rapidità<br />

alla chiusura introspettiva: il luogo <strong>del</strong>l’iscrizione psicosomatica.<br />

Nell’etnografia <strong>del</strong>lo spazio, la scena urbana dimostra di essere un<br />

ambiente sia fisico che psichico.<br />

Forse l’aspetto che a prima vista colpisce maggiormente il turista,<br />

lo straniero, è che Napoli è una città che esiste soprattutto<br />

1 Prima Heidegger, poi Derrida hanno insistito sul fatto che sia un costrutto <strong>del</strong>la metafisica<br />

a cercare di velare l’abisso e ignorare l’instabilità <strong>del</strong> suolo incerto su cui gli edifici<br />

occidentali poggiano la propria filosofia, i propri progetti e i propri principi; si veda Wigley<br />

1996. Nella “demolizione critica” (kritischer Abbau, termine usato da Heidegger nelle<br />

sue prime lezioni nel 1920) o decostruzione, che scavano nella precarietà di quella tradizione,<br />

Napoli funge da luogo allegorico ideale.


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 139<br />

nell’enigma <strong>del</strong> rumore. Oltre al mormorio perenne che l’intellighenzia<br />

locale riversa nei lamenti letterari e nel conservatorismo<br />

critico attorno alla rovina, la nostalgia e il decadimento urbani, ci<br />

sono i suoni che si levano dalla strada tra le sgommate interminabili<br />

dei motorini e gli stizzosi clacson <strong>del</strong>le macchine: le urla dei<br />

pescivendoli, le grida di saluto, i camion di passaggio e le voci<br />

amplificate dal megafono che offrono cocomeri, giocattoli, cristallerie<br />

e cassette pirata di canzoni napoletane; il fruttivendolo che<br />

commenta pubblicamente la sua merce e i suoi prezzi, a suo dire<br />

bassissimi, in terza persona: “Che belle pesche. Duemila lire…<br />

Ma questo è pazzo”; il venditore ambulante di bacche selvatiche<br />

alle sette di mattina a luglio che riempie i vicoli vuoti con le sue<br />

grida stridule. Queste lacerazioni <strong>del</strong> silenzio confermano la punteggiatura<br />

fisica <strong>del</strong>lo spazio per mezzo <strong>del</strong>la voce, <strong>del</strong> corpo, ed è<br />

il corpo che fornisce una grammatica fondamentalmente gestuale<br />

in cui le mani diventano punti interrogativi, le braccia segnali tormentati,<br />

e le facce maschere contorte. Scaturisce un’economia<br />

prelinguistica nello spazio urbano che rivela tra i suoni una sfiducia<br />

che affonda le radici nelle parole, la loro promessa di fornire<br />

una spiegazione e di custodire la ragione.<br />

Il piano nascosto <strong>del</strong>la città è sito nell’architettura <strong>del</strong>l’introspezione<br />

che si rivela negli edifici che si sgretolano e nelle facciate<br />

rivestite di sudiciume, ma anche nelle facce silenziose e nei<br />

sentimenti scettici dei suoi abitanti. Qui, dove la linearità <strong>del</strong><br />

tempo gira vorticosamente in ritmi differenti, il residuo, l’arcaico<br />

e il premoderno possono rivelarsi come dettagli viscerali e le distorsioni<br />

mettono a repentaglio la purezza sognata <strong>del</strong>la pianificazione<br />

razionale e <strong>del</strong> design funzionale. Nella sua arte di arrangiarsi,<br />

accontentarsi e risistemare gli elementi disponibili come<br />

sostegno per una fragile esistenza urbana, la presenza di Napoli<br />

(come città europea, mediterranea e contemporanea) propone<br />

un ritorno eterno al lessico enigmatico <strong>del</strong>la vita urbana moderna,<br />

alle contingenze di un linguaggio instabile in cui tutti gli abitanti<br />

<strong>del</strong>la città trovano posto e contestualizzazione. Napoli è<br />

quindi altresì un paradigma potenziale <strong>del</strong>la città dopo la modernità.<br />

Legata nei suoi ritmi diseguali e nelle sue abitudini effimere<br />

ad altre città non occidentali e all’emergente globalità metropolitana,<br />

propone un’interruzione nella comprensione <strong>del</strong>la vita, <strong>del</strong>l’architettura<br />

e <strong>del</strong>la pianificazione urbane lasciateci in eredità.


140 IAIN CHAMBERS<br />

Partecipando al progresso senza sentirsi davvero assorbita nel<br />

suo programma, Napoli, in quanto città composita, reintroduce<br />

il diseguale e il non programmato, il contingente, lo storico. Vista<br />

e, soprattutto, vissuta in questo modo, l’interrogativo posto da<br />

Napoli riconduce la questione <strong>del</strong>la città alla relazione tra politica<br />

e poetica nel determinare il nostro senso <strong>del</strong>l’etica e <strong>del</strong>l’estetica<br />

(ma si possono davvero separare?): il nostro senso <strong>del</strong> possibile<br />

e <strong>del</strong>l’immaginare la posizione che occupiamo all’interno di<br />

esso (Donald 1999).<br />

Le nostre prospettive e le nostre voci recano l’impronta di<br />

storie diverse, parlano di un luogo particolare. Pertanto, qualunque<br />

cosa io abbia da dire sulla questione <strong>del</strong>l’architettura risiede<br />

senza dubbio nella mia risposta all’ambiguo, finanche enigmatico<br />

contesto nel quale lavoro e vivo: la città di Napoli. Al contempo,<br />

tuttavia, nominare il luogo dove si trovano il mio corpo, la mia<br />

voce e i miei pensieri, desideri e ossessioni nei termini di una<br />

città particolare significa anche inevitabilmente mettere le mie<br />

osservazioni in relazione all’ambiente urbano come luogo privilegiato<br />

<strong>del</strong>l’esistenza moderna. Sia in termini economici che di<br />

esperienza, sembra che la città comprima, nella maniera più immediata,<br />

la storia, la cultura e le identità in configurazioni che richiedono<br />

l’attenzione critica. Ciò che viene escluso da questa<br />

comprensione metropolitana <strong>del</strong>la nostra essenza (i mondi non<br />

urbani <strong>del</strong> nomadismo, <strong>del</strong>la vita contadina, rurale, anche le<br />

frange periferiche), per quanto popolosi e necessari siano questi<br />

spazi per la nostra esistenza (dall’agricoltura al turismo, alla residenza,<br />

al sostentamento <strong>del</strong> nostro corpo e <strong>del</strong>la nostra immaginazione),<br />

viene considerato secondario rispetto alla città, se non<br />

una semplice appendice <strong>del</strong>la stessa.<br />

Ma se Napoli si ritrova involontariamente al centro dei riflettori<br />

critici e globali <strong>del</strong>l’indagine metropolitana, essa dona<br />

la propria forma di disturbo, un contributo speciale alla formazione<br />

simultanea di concentrazione e dispersione, quel Unheimlichkeit<br />

o ritorno perturbante – forse il sintomo più profondo<br />

<strong>del</strong>la vita moderna – che raddoppia e sposta di continuo la geometria<br />

urbana con le storie insubordinate dei repressi (Vidler<br />

1992).<br />

Spesso Napoli viene accusata di esistere, o perlomeno di sembrare<br />

di esistere, ai limiti <strong>del</strong>l’urbanesimo europeo e moderno,


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 141<br />

aderendo in modo discontinuo agli stili di vita più ordinati di<br />

Londra, Parigi, Milano e New York. Tuttavia, nella sua apparente<br />

vicinanza alle città più “tipiche” <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> e allo scompiglio civico<br />

<strong>del</strong> Cairo, di Città <strong>del</strong> Messico, di São Paulo e di Shanghai,<br />

questa città mediterranea, paradossalmente, si ritrova altresì trascinata<br />

in prossimità <strong>del</strong>la struttura cosmopolita di una Los Angeles<br />

o di una Londra, dato che la sua storia interna viene sempre<br />

più interessata dall’intrusione <strong>del</strong>l’immigrazione extraeuropea e<br />

dalle imposizioni <strong>del</strong>la mondializzazione sulle sue preoccupazioni<br />

locali. Nello spazio di questo “più alto sviluppo <strong>del</strong>le forze produttive,<br />

e per ciò stesso (…) il più ricco sviluppo degli individui”<br />

(Marx 1953, p. 183) che ci invita forzatamente a riconsiderare in<br />

maniera radicale le divisioni spaziali <strong>del</strong> centro e <strong>del</strong>la periferia,<br />

tra un “Primo” e un “Terzo” Mondo, la particolare configurazione<br />

storica di una città come Napoli esercita un’insistenza di cui<br />

non è facile liberarsi. Per quanto drammaticamente impressa sullo<br />

sfondo di un vulcano e <strong>del</strong> mare Mediterraneo, l’interrogativo<br />

che Napoli inserisce nella tarda modernità e nel capitalismo globale<br />

non è affatto tipico soltanto di quella città, anzi si ripropone<br />

per porre in discussione e turbare l’omogeneità proiettata <strong>del</strong><br />

programma <strong>del</strong>ineato dagli ansiosi poteri metropolitani, che anelano<br />

a una simmetria impeccabile.<br />

Paradossalmente, questa tanto agognata simmetria si riflette,<br />

addirittura si amplifica in chiarezza, nelle versioni rispecchiate dei<br />

precetti <strong>del</strong>lo spazio urbano moderno che ci offrono le letture<br />

marxiste contemporanee di Fredric Jameson, Mike Davis e, in misura<br />

minore, David Harvey. Queste interpretazioni tendono a rimuovere<br />

il poetico dal politico, giungendo così a una denuncia<br />

che non annuncia null’altro 1 . Consente all’osservatore, al critico,<br />

di raggiungere una simmetria mortale, ma rende ciò che è osservato<br />

una vittima pura e semplice <strong>del</strong> piano, <strong>del</strong> progetto, <strong>del</strong>la logica<br />

1 Jameson 1992; Davis 1992; Harvey 1989. La lettura di Harvey viene in qualche modo<br />

moderata dalla presenza <strong>del</strong>l’opera di Henri Lefebvre sulla politica <strong>del</strong>lo spazio, sul<br />

quotidiano e sulla città. Ovviamente è possibile trasferire queste rappresentazioni apocalittiche<br />

<strong>del</strong> capitalismo catastrofico e le “ecologie <strong>del</strong>la paura” che lo accompagnano a migliaia<br />

di città sparse per tutto il pianeta. Los Angeles, per quanto sia la più pubblica <strong>del</strong>le<br />

metropoli, non ha certo l’esclusiva al riguardo. C’è sempre un inevitabile provincialismo<br />

nelle mappe di cui ci avvaliamo individualmente nelle nostre spiegazioni; si veda al riguardo<br />

Davis 1999.


142 IAIN CHAMBERS<br />

esposta dalla critica. Con questo rifiuto di considerare i linguaggi,<br />

lo stile, la realizzazione in fieri <strong>del</strong>le possibilità vissute <strong>del</strong>la città, al<br />

termine <strong>del</strong>la giornata non è ben chiaro che tipo di politica liberatoria<br />

venga proposta. La critica consente certamente di articolare<br />

alcuni racconti assai potenti <strong>del</strong>la capitalizzazione <strong>del</strong>l’esistenza<br />

contemporanea, ma quel potere si ricava per l’appunto dal silenzio<br />

degli attori, dall’assenza critica degli agenti sociali e dalle vite di<br />

coloro che vengono rappresentati. Spinto dal desiderio utopistico<br />

di proporre un’alternativa autonoma (se non altro offrendo una<br />

totalità negativa), conduce ironicamente a un idealismo dematerialista.<br />

Tanto Marx quanto Gramsci ribadivano che il nuovo sarebbe<br />

scaturito dal ventre <strong>del</strong>la società vecchia. Quanto detto sembrerebbe<br />

indicare una concezione atopica piuttosto che utopica, in<br />

grado di leggere nel presente un potenziale capace di modificarlo,<br />

e quindi di scardinarne sia la logica strutturale che le immediatezze<br />

verso un altro senso <strong>del</strong>la posizione e <strong>del</strong>la possibilità. L’economia<br />

politica <strong>del</strong>lo spazio non rappresenta un punto d’arrivo finale,<br />

bensì un punto di partenza. Viviamo tutti certamente in “condizioni<br />

che non abbiamo scelto di nostra spontanea volontà”, ma da<br />

quel momento in poi che cosa succede?<br />

“L’arte <strong>del</strong> vuoto”<br />

Nella città, il mito e il desiderio perenni <strong>del</strong>le origini, di un luogo<br />

di spiegazione sicuro, di una stabilità <strong>del</strong>le fondamenta, vengono<br />

sempre procrastinati per mezzo <strong>del</strong>la ri-scrittura e <strong>del</strong>la ri-narrazione.<br />

Questo ritorno eterno ritaglia un intervallo, ossia “l’arte<br />

<strong>del</strong> vuoto” (Carter 1996), che rende possibile una riconfigurazione<br />

tale da intrappolare e sviare il “progresso”. Narrare la città nel<br />

passaggio fisico <strong>del</strong> nostro corpo, oppure percorrerla a piedi e misurarci<br />

con e contro di essa, significa indubbiamente cercare nei<br />

nostri circondari il paradigma ragionato <strong>del</strong>l’antica polis, la promessa<br />

primaria <strong>del</strong>l’agora. Ma quel disegno e desiderio viene ineluttabilmente<br />

attraversato da motivi e temi moderni: velocità, efficienza,<br />

razionalizzazione, in una parola, la parsimoniosa gestione<br />

<strong>del</strong>la tecnologia, guidata dal telos <strong>del</strong>lo sviluppo economico nella<br />

sua direzione politica. La maggior parte di noi non percorre la<br />

città a piedi, bensì con un mezzo di trasporto: la macchina, la me-


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 143<br />

tropolitana, l’autobus. Il tempo viene considerato uniforme e lo<br />

spazio omogeneo: il luogo dei principi geometrici e di un terreno<br />

concettuale apparentemente autoesplicativo. L’intersezione di queste<br />

traiettorie metropolitane multiple – l’origine mitica <strong>del</strong> suo<br />

spazio e gli imperativi moderni <strong>del</strong>la sua organizzazione – crea un<br />

luogo complesso e composito in cui ciò che pare arcaico può anche<br />

diventare la rabbia contemporanea degli sfruttati e dei diseredati.<br />

Il represso gorgoglia attraverso le fenditure nei marciapiedi e<br />

occupa il vuoto tra le case per increspare, contestare e talvolta lacerare<br />

la volontà amministrativa e architettonica. In questa prospettiva,<br />

l’architettura non si limita a possedere una metafisica, è<br />

essa stessa metafisica, perché progettare, razionalizzare lo spazio,<br />

incarna la promessa <strong>del</strong>l’escatologia: l’annuncio profetico <strong>del</strong> paradiso<br />

futuro, la negazione <strong>del</strong>l’alterità, <strong>del</strong>l’altro. Questo perché anche<br />

solo cercare di iscrivere l’alterità nel progetto, di rispondere<br />

alla presenza <strong>del</strong>l’altro, significa già negare questo altro riconducendolo<br />

al medesimo, ai protocolli <strong>del</strong> progetto (Lyotard 1996).<br />

Se “costruire è già in se stesso un abitare”, allora l’interrogativo<br />

<strong>del</strong>l’architettura non può che fuoriuscire dagli schemi disciplinari<br />

imposti. Criticare la pratica e i progetti <strong>del</strong>l’architettura<br />

significa inevitabilmente avere a che fare con modalità diverse di<br />

abitare, con modi differenti, talvolta persino conflittuali, di occupare,<br />

abitare e attraversare la terra (Heidegger 1954b, p. 97). Significa<br />

rompere uno stampo e rinnegare certe premesse. Rivisitare<br />

e rielaborare un’eredità non più limitata ai fiduciosi protocolli<br />

<strong>del</strong>l’architettura significa penetrare nel lessico assai più indefinito<br />

<strong>del</strong> vivere storico. In quanto linguaggio autoreferente che tenta<br />

di controllare la costruzione che articola, l’architettura viene<br />

infranta di continuo dalle contingenze <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> che le danno<br />

inizio e la sostengono. Notare l’immancabile presenza <strong>del</strong>la metafora<br />

<strong>del</strong> linguaggio nel discorso architettonico potrebbe voler<br />

dire prendere sul serio la metafora e insistere sull’altro lato <strong>del</strong><br />

linguaggio (architettonico). Ci si chiede se il concetto <strong>del</strong> linguaggio<br />

sia sfruttato semplicemente per la comunicazione e la razionalizzazione<br />

codificate <strong>del</strong>lo spazio, che rendono trasparente<br />

il <strong>mondo</strong> e lo sottomettono alla grammatica <strong>del</strong>l’architettura, o<br />

se segnali un ambito assai più ambiguo e poetico <strong>del</strong>l’abitare.<br />

Nella pragmatica <strong>del</strong> primo caso risiede l’immediatezza di un<br />

edificio finito, nell’indeterminazione <strong>del</strong> secondo caso esiste uno


144 IAIN CHAMBERS<br />

sforzo che si concentra attorno al problema di abitare, incorporare<br />

ed elaborare uno spazio astratto in un luogo concreto. Nondimeno,<br />

l’architettura continua a insistere in una maniera che in<br />

gran parte si dimostra dimentica di quest’ultimo inquadramento.<br />

Perché mai?<br />

Impalcature invisibili, vite invisibili<br />

Per quanto l’arroganza <strong>del</strong>la visione che annulla il <strong>mondo</strong> a seconda<br />

<strong>del</strong> suo disegno, definendo e destinando lo spazio per far<br />

fronte alle necessità che confermano un progetto, sia apparentemente<br />

infinita nelle sue variazioni, viene coerentemente riaffermata<br />

al singolare. L’egocentrismo <strong>del</strong>l’edificio che ne deriva riguarda<br />

molto da vicino la maniera in cui viene percepito lo spazio, e<br />

spesso ha poco a che fare con l’abitarci. Marcos Novak (1997, p.<br />

75), critico d’architettura di Los Angeles, ha dichiarato che: “Le<br />

idee sono impalcature invisibili su cui si costruisce il vero. La storia<br />

<strong>del</strong>l’architettura è una storia <strong>del</strong>l’elaborazione crescente <strong>del</strong>le<br />

impalcature invisibili”.<br />

Questa asserzione riecheggia, sebbene dall’altro lato <strong>del</strong>lo<br />

spartiacque <strong>del</strong>la critica, la definizione <strong>del</strong>l’architetto giapponese<br />

Arata Isozaki (1995, p. VII) <strong>del</strong>l’architettura come “il nome <strong>del</strong><br />

meccanismo mediante il quale la metafisica su cui poggia il pensiero<br />

occidentale inevitabilmente viene a esistere”. Una metafisica<br />

<strong>del</strong> genere, incarnata nel soggettivismo unilaterale <strong>del</strong>l’umanesimo<br />

occidentale che, come ci ricorda Heidegger, raggiunge il culmine<br />

nella tecnologia moderna, qui viene resa esplicita nel lessico<br />

<strong>del</strong> design e <strong>del</strong> desiderio. Gli edifici che accolgono carne, corpi,<br />

vivi e morti, svaniscono per essere sostituiti da impalcature invisibili<br />

e altrettanto invisibili… vite.<br />

Nell’ambito <strong>del</strong>l’architettura stessa il connubio metafisico di<br />

pensiero e tecnologia <strong>del</strong> giorno d’oggi ha un nome nuovo: TransArchitettura.<br />

Ha un programma gemello al Trasnmodernismo.<br />

La TransArchitettura cerca di superare la distinzione tra fisico e<br />

virtuale mediante la trasformazione di design e progetto, architettura<br />

e abitazione, in informazioni (Novak 1997). Ritiene che<br />

l’informazione sia la terza dimensione <strong>del</strong>la materia (dopo l’energia<br />

e la massa). In questo aumento tecnologico <strong>del</strong>lo spazio e nel-


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 145<br />

la relativa frontiera <strong>del</strong>la retorica <strong>del</strong>le infinite permutazioni digitali,<br />

non è possibile udire la reiterazione di quel perpetuo desiderio<br />

occidentale di incorporare tutto nell’ambito <strong>del</strong>l’illusione <strong>del</strong>la<br />

gestione trasparente? Non si tratta <strong>del</strong>la manifestazione finale di<br />

una metafisica che, nonostante la sua retorica di chiarezza e di accesso<br />

democratici (ma per chi, dove, quando e come?), si abbina<br />

in ultima analisi al dominio intellettuale, alla disciplina gerarchica<br />

e al controllo strategico? È un <strong>mondo</strong> popolato da corpi unidimensionali<br />

che rimangono, nello stato asessuale, atemporale e<br />

muto, <strong>del</strong> tutto subordinati al piano architettonico, al progetto e<br />

alle sue asserzioni. Il fisico viene nominato solamente per essere<br />

immediatamente classificato e subordinato nel potere <strong>del</strong> simulato.<br />

Il Panopticon di Bentham, la prigionia controllata di esseri insubordinati,<br />

ormai resa infinitamente modulare e flessibile nei<br />

contorni privi di resistenza dei corpi smaterializzati posti nel cyberspazio,<br />

viene qui tenuto saldamente al suo posto. Nella virtuosità<br />

<strong>del</strong>l’architettura virtuale, il disegno penetrante <strong>del</strong>l’occhio<br />

che tutto vede, che colloca e disciplina tutto nell’ambito <strong>del</strong> campo<br />

onnipotente <strong>del</strong>la visione, rimane non solo indisturbato, bensì<br />

aumenta, e grazie alla tecnologia di cui si avvale, si affina ancor<br />

più e viene messo a fuoco con fermezza.<br />

In questa critica potenziale <strong>del</strong>lo spazio generato al computer<br />

<strong>del</strong>l’abitazione simulata, non si intende avanzare l’invito a tornare<br />

indietro, ad abbandonare la tecnologia, e riappropriarsi <strong>del</strong>l’immediatezza<br />

fasulla <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> “vero”. Piuttosto, c’è un’insistenza<br />

sulla tendenza critica – quell’eredità storica insita nei linguaggi<br />

che ci sostengono – da perseguire nell’ambito <strong>del</strong>le mediazioni<br />

che ci costituiscono nel <strong>mondo</strong> al quale rispondiamo. Contro la<br />

teleologia <strong>del</strong> “fondamentalismo tecnico”, questo atteggiamento<br />

potrebbe suggerire una serie ben più esitante e incerta di indizi,<br />

in cui l’entusiasmo iniziale viene stemperato dal disturbo di domande<br />

che rifiutano ostinatamente di promettere una rappresentazione<br />

e una risoluzione immediate. Quello che viene omesso ed<br />

escluso dal quadro, dalla cornice, dallo schermo, dall’immagine,<br />

dalla rappresentazione, dal piano, continua a disseminare interrogativi<br />

che ricollocano la tecnologia e continua a riposizionare il<br />

desiderio metafisico entro limiti temporali e terrestri. Seguire<br />

questa strada significa accedere a un progetto assai più incerto,<br />

perché le nostre risposte alla tecnologia e alle sue rappresentazio-


146 IAIN CHAMBERS<br />

ni dipendono dalla contingenza <strong>del</strong> nostro essere in una situazione<br />

terrena che nessuna tecnologia, nessun anelito intellettuale potranno<br />

mai svelare o rappresentare appieno:<br />

Il cyberspazio non è una fatalità, è un dato di fatto. Fatale sarebbe rimanere<br />

nell’ignoranza teorica e critica <strong>del</strong> fenomeno attuale. Non<br />

siamo nemmeno pronti a <strong>del</strong>ineare una tipologia dei cambiamenti<br />

apportati dalla “rivoluzione digitale” all’architettura. Tra un fondamentalismo<br />

tecnico che prospera nell’intossicazione estetica di nuove<br />

proposizioni precise e il disincanto scettico o catastrofico di fronte al<br />

potere <strong>del</strong> vero tempo digitale, è possibile che si faccia largo a forza<br />

una terza strada, basata su un atteggiamento critico, teorico e anche<br />

storico (Girard 1997).<br />

In questo modo si segue Heidegger nella questione <strong>del</strong>la tecnologia,<br />

malgrado il pregiudizio comune secondo cui il filosofo<br />

tedesco si schieri contro la tecnologia in nome di un’autenticità rimossa.<br />

Per essere più precisi, e quindi per dire qualcosa di più inquietante<br />

e difficile da mandare giù, Heidegger prende posizione<br />

all’interno <strong>del</strong>la tecnologia 1 . Egli riconosce che siamo sospesi nei<br />

linguaggi <strong>del</strong>la tecnologia moderna, e questo conduce alla proposizione<br />

critica che da questo punto di partenza dobbiamo trovare<br />

la nostra strada.<br />

La volontà di architettare<br />

Come costruire, edificare, in un’epoca priva di telos? Che cos’è,<br />

esattamente, un edificio post-metafisico? Ponendo domande<br />

di questo tipo si opera già uno spostamento dall’Architettura alle<br />

architetture. Significa trasformare la tradizione in un luogo di traduzione,<br />

rendere la potenziale universalità <strong>del</strong> progetto particolare<br />

e specifica: dove costruire non vuol dire semplicemente impor-<br />

1 Questo punto viene ribadito, ad esempio, nel lavoro, per altri aspetti interessante, di<br />

John Run<strong>del</strong>l 1997. Nell’intervista televisiva <strong>del</strong> 1969 a cui si è già accennato, Heidegger<br />

afferma in maniera inequivocabile di non essere avverso alla tecnologia. Il filosofo prosegue:<br />

“Si tratta invece di comprendere l’essenza <strong>del</strong>la tecnica e <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> tecnico. A mio<br />

avviso, ciò non può accadere fintantoché la filosofia si muove nell’ambito <strong>del</strong>la relazione<br />

soggetto-oggetto” (Neske, Kettering, a cura, 1988, p. 57).


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 147<br />

re una visione, bensì narrare e costruire un habitat (Isozaki 1995).<br />

Quanto appena detto richiede che si prendano le distanze dalla<br />

rassicurante grammatica <strong>del</strong>l’Architettura e si parlino i linguaggi<br />

condizionali <strong>del</strong>le architetture. Rendere critica una siffatta situazione<br />

capovolge sia la tradizione che la tendenza <strong>del</strong>lo sguardo architettonico;<br />

tradotta nei sintomi di un potere messo in discussione,<br />

la storia <strong>del</strong>l’architettura si trasferisce da un editto allo stato di<br />

una cura, che somministra un farmaco e si prende cura <strong>del</strong> presente.<br />

Si tratta di un presente e di un futuro potenziali, di cui non<br />

è più possibile pretendere di avere una competenza totale. La<br />

contingenza terrestre, i problemi <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, impongono un vuoto,<br />

un’interruzione, che non è mai possibile chiudere o passare<br />

sotto silenzio, perché ormai l’architettura implica un incontro con<br />

l’altro “che, per definizione, non segue lo stesso insieme di regole”<br />

(Karatani 1995, p. XL). Il solipsismo <strong>del</strong> progetto architettonico,<br />

<strong>del</strong>l’edificio metafisico, dipende da “un’omissione <strong>del</strong>l’asimmetria<br />

che identifica l’io con il noi” (p. 137). Come afferma il critico<br />

giapponese Kojin Karatani (p. 112):<br />

Per interiorizzare l’altro, l’altro deve disporre di un insieme comune<br />

di regole. Ma l’altro non designa, per definizione, solo chi non dispone<br />

di un insieme comune di regole? Il dialogo non si instaura solamente<br />

con un altro di questo tipo?<br />

In quanto spazio moderno, la città viene considerata, in maniera<br />

opprimente, uno spazio razionalizzato. È un ambiente stabilito<br />

secondo la logica che la mobilità si può ricondurre “a spostamenti,<br />

origini e destinazioni prevedibili, provvisti di uno scopo” (Imrie<br />

2000, p. 1644). Questa proiezione <strong>del</strong>la vita urbana rivela che:<br />

i pregiudizi <strong>del</strong> movimento e <strong>del</strong>la mobilità illimitati nelle società occidentali<br />

contemporanee sono egemoniche nello stabilire le priorità<br />

di corpi specifici e di modalità di mobilità e movimento. In particolare,<br />

la mobilità e il movimento vengono definiti mediante discorsi che<br />

servono ad alienare corpi menomati e a conferire la priorità <strong>del</strong> movimento<br />

di ciò che si potrebbe definire il corpo mobile (p. 1642).<br />

Nondimeno, in questo luogo esiste altresì ciò che trabocca e va<br />

al di là <strong>del</strong>la struttura pianificata e progettata <strong>del</strong>l’edificio e <strong>del</strong>la<br />

città. In questa integrazione insospettata, che si aggiunge al piano


148 IAIN CHAMBERS<br />

e minaccia di distruggerlo, a volte capita che si contravvenga alla<br />

razionalizzazione, perché siamo io, tu, loro che esistiamo in questo<br />

spazio, in questo passo al di là degli schemi. È nel passaggio<br />

attraverso questo spazio, a piedi o su ruote, che il corpo diviene<br />

soggetto, che io divengo ciò che sono.<br />

Io, con i miei miti, la mia sensazione <strong>del</strong>l’essere, ho origine qui,<br />

in questo passaggio. Questo è il luogo <strong>del</strong>l’arché, l’instaurazione<br />

degli inizi, che costruisce e custodisce l’architettura. Costruire,<br />

Abitare, Pensare (Heidegger 1954b) diviene quindi una questione<br />

di come instaurare, come cominciare, come concepire, costruire<br />

ed edificare noi stessi. Sebbene non siamo noi a decidere le condizioni,<br />

non si tratta di un atto arbitrario. Questo spazio viene prodotto<br />

e costituito al contempo dai linguaggi, dalle storie, dalle culture<br />

e dalle tradizioni che ci avvolgono nella città, nella vita quotidiana.<br />

Il fatto che noi abitiamo in questa apertura costituisce gli<br />

strati mobili, le possibilità cangianti, la maniera variegata di abitare<br />

la città. Tuttavia, questo spazio è stato già configurato, in attesa <strong>del</strong><br />

nostro arrivo, e contemporaneamente accompagnato da margini<br />

vuoti, da quel che resta radicalmente irriducibile sia alla chiusura<br />

che al controllo <strong>del</strong> piano e alla soggettività <strong>del</strong>l’abitante individuale.<br />

Si tratta pertanto di una familiarità spaziale che viene sempre<br />

perseguitata dall’alterità. In ultima analisi, seppure anche inconsapevolmente,<br />

tentiamo di adeguarci al perturbante.<br />

Nello scambio tra edifici e corpi, ciò che risponde a quest’ultima<br />

esigenza e la rappresenta è la potenziale continua interruzione<br />

<strong>del</strong> piano. Questo perché abitare, nel suo accogliere<br />

e promuovere il soggetto, annuncia altresì la frantumazione <strong>del</strong><br />

<strong>mondo</strong>. Proprio questa intrusione spezza e si allontana da una<br />

concezione umanista <strong>del</strong>l’abitazione, in cui si sottintende che<br />

abitare abbia inizio e fine nell’ambito e nel consenso <strong>del</strong> soggetto.<br />

Si tratta di una condizione assai più esposta <strong>del</strong> soggetto<br />

che emerge e diviene. Quello che rende effettivamente umano<br />

l’essere umano consiste, come ci ricorda Heidegger, nella sua<br />

mancanza di fondamenta, di stabilità. C’è una persistenza non<br />

rappresentata, persino non rappresentabile, che interroga la<br />

città, la sua architettura e tutte le discipline che tentano di <strong>del</strong>imitarne<br />

e determinarne il destino. Il modo in cui rispondiamo a<br />

questo spazio suscettibile e ce ne assumiamo le responsabilità ci<br />

induce a porre interrogativi che ci riguardano tutti nella valuta-


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 149<br />

zione <strong>del</strong> costruire, <strong>del</strong>l’abitare, <strong>del</strong> pensare e… <strong>del</strong> vivere nel<br />

<strong>mondo</strong>.<br />

Tenendo a mente queste osservazioni diviene possibile cominciare<br />

a formulare un interrogativo di più ampio respiro: mettere<br />

in discussione ciò che Kojin Karatani (1995) chiama “la volontà<br />

di architettare”. Interrogare il desiderio di costruire (sia fisicamente<br />

che metafisicamente) vuole dire soprattutto accorgersi di<br />

come la comprensione <strong>del</strong>l’uno sia indissolubilmente legata alla<br />

comprensione <strong>del</strong>l’altro. Al riguardo, prestando nuovamente attenzione<br />

a Heidegger, dissento dalla certezza <strong>del</strong>l’assioma cartesiano<br />

cogito ergo sum, per abbracciare l’incerta prospettiva di ciò<br />

che va al di là <strong>del</strong> mio pensiero <strong>del</strong>l’evento <strong>del</strong>l’essere: ich bin, “io<br />

sono” adesso equivale a “io abito” (Heidegger 1954b) 1 . A partire<br />

da ciò estendo all’architettura gli interrogativi che scaturiscono<br />

incessantemente dall’applicazione all’ambiente <strong>del</strong>le forze storiche,<br />

<strong>del</strong>lo sforzo sociale e <strong>del</strong> desiderio individuale di fabbricare<br />

una domus, un habitat, una casa.<br />

L’architettura in quanto disegno programmato e pianificato,<br />

ossia come “fondo” (Bestand) <strong>del</strong> tempo e <strong>del</strong> lavoro, <strong>del</strong>le energie<br />

storiche e <strong>culturali</strong>, come proiezione simultanea e conservazione<br />

<strong>del</strong>le risorse, come spazio di un piano, di una costruzione,<br />

di un edificio viene sempre trasformata in un luogo contingente,<br />

nell’edificio, precario il cui esito storico non può essere predetto<br />

da alcun progetto architettonico. L’architettura non comprende<br />

semplicemente la costruzione fisica degli edifici: risalta o si espone,<br />

svelando l’essenza di qualcosa in termini contemporaneamente<br />

economici, politici, storici ed estetici. Articola una posizione<br />

tra queste coordinate: dischiude e allo stesso tempo offusca la natura<br />

di questo luogo nel <strong>mondo</strong>.<br />

L’edificio, per quanto possa essere drammatico o monumentale,<br />

non si erge mai da solo, non è mai un fatto isolato: tutti, ma<br />

proprio tutti gli edifici, a prescindere dalle intenzioni <strong>del</strong>l’architetto<br />

e <strong>del</strong> costruttore, evocano la relazione che frustra di conti-<br />

1 Queste considerazioni scaturiscono dall’analisi <strong>del</strong>l’etimologia <strong>del</strong> verbo bauen, “costruire”.<br />

Questa logica etimologica trova la seguente giustificazione: “L’uomo si comporta<br />

come se fosse lui il creatore e il padrone <strong>del</strong> linguaggio, mentre è questo, invece, che rimane<br />

padrone <strong>del</strong>l’uomo. Forse è proprio anzitutto il rovesciamento, operato dall’uomo, di<br />

questo rapporto di sovranità che spinge l’essere <strong>del</strong>l’uomo verso una condizione di estraniamento”<br />

(Heidegger 1954b, p. 97, corsivo nell’originale).


150 IAIN CHAMBERS<br />

nuo la mera rappresentazione tecnologica (Heidegger 1962b, p.<br />

29). Nel vuoto tra intenzione astratta e investimento corporeo si<br />

manifesta l’apertura coeva e il nascondimento <strong>del</strong>la vita quotidiana,<br />

la cui portata va ben al di là <strong>del</strong>le categorie astratte o anche<br />

<strong>del</strong>la voce radicale <strong>del</strong>la soggettività. Queste vite annunciano una<br />

configurazione storica sostenuta in un habitat definito, sospesa<br />

tra passato e futuro, tra terra e cielo, perché gli edifici si avvalgono,<br />

nella maniera più evidente, di una tecnologia che come Gestell<br />

o “im-posizione” si erge al di sopra di noi e ci sfida, e tuttavia<br />

ci svela o ci espone alla verità <strong>del</strong>la nostra situazione (Heidegger<br />

1962a, pp. 14-16). La città, con i suoi edifici e la sua architettura,<br />

è una <strong>del</strong>le modalità principali che inquadrano la nostra posizione<br />

paradossale nello spazio chiuso e finito che al contempo costituisce<br />

un’apertura attraverso cui è possibile pensare a questi limiti e<br />

andare al di là di essi.<br />

Sebbene le nostre storie, culture, memorie e soggettività siano<br />

inevitabilmente proiettate nella sintassi e nei linguaggi <strong>del</strong>la costruzione<br />

simbolica e fisica <strong>del</strong> nostro habitat, oggi sempre più inquadrato<br />

dalla città (essa stessa metafora <strong>del</strong>la tecnologizzazione<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong>), la prosa quotidiana <strong>del</strong>la vita metropolitana ci offre<br />

tuttavia l’opportunità di pensare e vivere diversamente la nostra<br />

condizione. Il problema <strong>del</strong>la città e <strong>del</strong>la sua architettura è un<br />

problema di costruzione: tanto la costruzione fisica che viene<br />

eretta quanto quella culturale, storica e simbolica che viene elaborata.<br />

Pertanto, il problema <strong>del</strong>l’architettura, come quello <strong>del</strong>l’estetica,<br />

è anche un problema di etica. L’architettura, per dirla con<br />

l’architetto americano Peter Eisenman, riguarda il significato, e<br />

ciò che noi intendiamo per “significato” è legato indissolubilmente<br />

a come rispondiamo alla domanda <strong>del</strong> senso <strong>del</strong> nostro essere<br />

al <strong>mondo</strong>, al nostro vivere la città costruendo un senso di dimora.<br />

Lettere <strong>del</strong> tempo<br />

Gli edifici in quanto abitazioni storiche sono lettere <strong>del</strong> tempo,<br />

destinate a deperire. In Europa e nelle culture comunque europee<br />

si è diffusa, dal Seicento e dall’epoca <strong>del</strong> Barocco, la pratica di<br />

sfruttare le potenzialità <strong>del</strong>le rovine. Di conseguenza, alcuni hanno<br />

abbracciato un’estetica che dà per scontato che un edificio


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 151<br />

non sia mai nuovo, che le sue pareti e le sue decorazioni siano<br />

sempre già logore, battezzate dalla sporcizia e dal sudiciume, che<br />

non ci sia mai stato un punto zero o un giorno uno dalla costruzione<br />

<strong>del</strong>l’edificio. A questo punto la città, come sito di vite precedenti,<br />

diventa un accumulo mobile di tracce, un palinsesto da<br />

leggere e riscrivere di continuo. Ovviamente ci sono altri che hanno<br />

scelto di nascondere e reprimere queste iscrizioni <strong>del</strong>la transizione<br />

nell’anonima trascendenza permessa dalle superfici piatte e<br />

dalle linee rette <strong>del</strong> modernismo, sempre nuovo e sempre bianco.<br />

Qui il tempo, privato <strong>del</strong> colore e <strong>del</strong>l’ornamento, viene reso invisibile.<br />

Scegliere di prestare attenzione alla prospettiva precedente,<br />

senza cadere nella nudità <strong>del</strong>la disperata nostalgia o <strong>del</strong>l’ottundente<br />

storicismo, significa rifiutare di arrestarsi nella schiavitù<br />

emotiva o nella rassegnazione dinanzi allo spettacolo <strong>del</strong>la mortalità.<br />

Significa, se diamo ascolto a Benjamin, cogliere nel Barocco<br />

un lampo che balugina in un momento di pericolo per illuminare<br />

il nostro presente, consentendoci di considerare una relazione tra<br />

costruzione ed essere. Qui l’architettura assurge al ruolo di arte<br />

<strong>del</strong> ricordo, che raduna le storie nella sua costruzione e nel suo<br />

progetto materiale, e svela nella concatenazione di regimi economici,<br />

politici e <strong>culturali</strong> un senso <strong>del</strong>l’abitare 1 .<br />

Tuttavia, non si può nemmeno negare che gran parte <strong>del</strong>l’architettura<br />

contemporanea – spesso autoreferente per stile e contenuto<br />

– si distingua e al tempo stesso venga inquadrata nel contesto<br />

che testimonia il rimpicciolimento <strong>del</strong> luogo, una diminuzione<br />

che si spinge fino a svanire <strong>del</strong> tutto nel vuoto tra le autostrade, i<br />

centri commerciali e il deserto al termine <strong>del</strong>l’Occidente, da qualche<br />

parte nella California meridionale. Qui le possibilità sregolate<br />

e arcane <strong>del</strong>la città si trasformano in ciò che Edward Soja chiama<br />

exopolis, città senza “cittadinanza”, spazi intensi <strong>del</strong> capitale in<br />

apparenza intenti a confondere tutti i tentativi di trasformarli nell’incertezza<br />

sociale e nelle vicissitudini <strong>culturali</strong> <strong>del</strong> luogo (Soja<br />

1992). Perché porre il problema <strong>del</strong>l’architettura significa interrogare<br />

la città come luogo simultaneo <strong>del</strong>la memoria e <strong>del</strong>l’amnesia<br />

1 Condensare il tempo nel momento <strong>del</strong> pericolo allude chiaramente alle Tesi di filosofia<br />

<strong>del</strong>la storia di Walter Benjamin (1955a), nonché alla sua intuitiva disposizione <strong>del</strong>le<br />

logiche <strong>del</strong> Barocco nella sua lettura <strong>del</strong>la modernità.


152 IAIN CHAMBERS<br />

in un’epoca che spesso sembra voler fare a meno <strong>del</strong>la società civile,<br />

che forse si ritira persino dai requisiti <strong>del</strong>la democrazia, mentre<br />

i centri commerciali e le collettività controllate si riproducono<br />

nel bagliore paranoico <strong>del</strong>la sorveglianza ininterrotta. Questi insediamenti,<br />

appollaiati tra il deserto e il Pacifico, ricordano stranamente<br />

le antiche fortezze collinari. Vivendo <strong>del</strong>le acque di sussidio<br />

<strong>del</strong>le Sierras e <strong>del</strong> sistema pubblico di collegamenti stradali<br />

(stato assistenziale non riconosciuto a capitale privato), questi insediamenti<br />

forniscono gli ambiti <strong>culturali</strong> agli sviluppi globali previsti<br />

nei mondi fantascientifici descritti in romanzi come Negromante<br />

di William Gibson e Snow Crash di Neal Stephenson, per<br />

non parlare <strong>del</strong>lo sviluppo intensivo <strong>del</strong> capitalismo in altre zone<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong> d’oggi: da Santiago a Pechino.<br />

La riduzione <strong>del</strong> luogo è anche la riduzione <strong>del</strong>la memoria.<br />

Ma poi esistono edifici privi di memoria? L’ultramodernismo<br />

ubicato ai limiti <strong>del</strong>l’Occidente, nel deserto <strong>del</strong>la California meridionale,<br />

ci offre forse oggetti che incarnano unicamente la memoria<br />

sfuggente dei materiali di cui sono composti: vetro, acciaio,<br />

plastica, fibra ottica, cemento, madacam, neon. In questi deserta<br />

pragmatica i critici ci informano, amaramente, che la memoria,<br />

troppo dispersiva per iscrivere, che richiede troppo tempo per riconoscere,<br />

viene sbiancata, purgata. Soltanto la statua bronzea di<br />

John Wayne (dal film western di John Ford preferito da Jean-Luc<br />

Godard, Sentieri selvaggi) nel foyer <strong>del</strong>l’aeroporto di Orange<br />

County lascia una traccia. Ma forse l’apparente rigidità <strong>del</strong>l’oblio<br />

invita a ripensarci. Forse qui la memoria viene resa spaziale invece<br />

di sedimentarsi in strati verticali, pertanto la città apparentemente<br />

priva di memoria di Irvine viene sia duplicata che ombreggiata<br />

dall’insediamento prevalentemente ispanofono di Santa<br />

Ana. La luce razionale <strong>del</strong>la pianificazione <strong>del</strong>la memoria e la sua<br />

gestione dipendono dalle ombre che regolano coloro che la servono<br />

e la sostengono da dietro le quinte. Considerare la memoria in<br />

termini spaziali, come luoghi diversi, persino separati, significa<br />

inevitabilmente opporre all’esperienza <strong>del</strong>la città verticale (Napoli)<br />

quella orizzontale (Irvine). La prima è in debito, e a volte oppressa,<br />

rispetto alla storicità: a Napoli il tempo è un suggello che<br />

non ci ricorda solamente il nostro corpo, la nostra mortalità, ma<br />

divora altresì ogni spiegazione, ragione e giudizio. Irvine, invece,<br />

è una città che in apparenza esiste alla fine <strong>del</strong> tempo; qui le spie-


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 153<br />

gazioni non sono introspettive (memoria, narcisismo), bensì<br />

proiezioni (fantasia, desiderio). La città sedimentata, verticale viene<br />

governata dalle sue fondamenta (mitiche, storiche, <strong>culturali</strong>);<br />

l’altra dal suo orizzonte (deserto, mare, cielo). Si potrebbe essere<br />

tentati di suggerire che mentre l’una è una città, l’altra è un insediamento,<br />

provvisorio per natura: solo le autostrade hanno una<br />

parvenza di permanenza. Una città rappresenta il tempo, l’altra<br />

apparentemente lo reprime. Tuttavia, il rifiuto è anche l’affermazione<br />

inevitabile <strong>del</strong>l’impossibilità di scartare questi limiti temporali<br />

e storici. Sull’orlo <strong>del</strong> deserto, gli uffici, le autostrade, i complessi<br />

residenziali e i centri commerciali vengono a contatto con<br />

l’inviolato. Il deserto, in quanto suolo intrattabile e vacuità immaginaria,<br />

resiste all’appropriazione, va al di là <strong>del</strong>la razionalizzazione,<br />

fornendo un’esperienza <strong>del</strong>l’impossibile, una memoria <strong>del</strong> perenne:<br />

“il deserto al di là di ogni deserto” (Derrida 1996). La sua<br />

apparente nudità blocca e disfa la visione calcolatrice, promettendo<br />

la possibilità di riscoprire qualcos’altro in noi stessi e nei piani<br />

e progetti che abitiamo.<br />

In apertura de Il disagio <strong>del</strong>la civiltà, Freud (1930) si riferisce<br />

alla città, e in particolare alla città di Roma, come metafora <strong>del</strong>la<br />

memoria, come illustrazione <strong>del</strong>la vita psichica in cui tutto, in<br />

una maniera o nell’altra, si conserva. La stratificazione e le tracce,<br />

la sedimentazione e le rovine, rivelano la presenza e la persistenza<br />

<strong>del</strong>la memoria. Tuttavia, una città concepita in tempi recenti,<br />

che si estende sulle sabbie <strong>del</strong> deserto, un insediamento<br />

come Irvine, nella Orange County (California meridionale), esiste<br />

in una scala temporale che esclude la memoria di una Roma,<br />

di un’Alessandria, di una Londra, di una Canton e persino di<br />

una New York. Se la città è anche il mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong>la psiche, che cosa<br />

risiede nella differenza tra la memoria sedimentata di Napoli e<br />

i ricordi giovanili di Irvine?<br />

La memoria, ancora una volta secondo il fondatore <strong>del</strong>la psicoanalisi,<br />

non è mai un semplice continuum che permette di effettuare<br />

un repentino viaggio nel tempo dal presente al passato: è<br />

una costruzione affidata alla vigilanza <strong>del</strong> linguaggio, è determinata<br />

in maniera schiacciante dalla sua rappresentazione presente. La<br />

memoria implica la selezione, la repressione e la successiva articolazione,<br />

pertanto una conservazione sistematica <strong>del</strong> passato in una<br />

conservazione acritica di edifici, strade e quartieri coincide anche


154 IAIN CHAMBERS<br />

con la repressione <strong>del</strong>la salute ambigua e <strong>del</strong> potere guaritore <strong>del</strong>la<br />

memoria, perché la memoria è sia il luogo <strong>del</strong>la costruzione che<br />

<strong>del</strong>la conservazione nonché <strong>del</strong>la distruzione, <strong>del</strong>la riformulazione.<br />

Una memoria che opera senza ricostruzione è una memoria<br />

sterile, incline alla nostalgia. Talvolta, dimenticare è importante<br />

quanto ricordare.<br />

Il terreno sotto i nostri piedi<br />

Dietro l’architettura si situa la spaccatura che inaugura la divisione<br />

tra le modalità di vita sedentaria e nomade, tra le pareti<br />

costruite e il soffitto <strong>del</strong>la stanza e la membrana tesa di una tenda<br />

o di un equivalente rifugio coperto di foglie. Forse è più facile<br />

afferrare questo concetto di “casa” al di fuori <strong>del</strong>le coordinate<br />

europee e nordamericane. Le abitazioni sedentarie, anche nelle<br />

loro aspirazioni più umili, implicano un’azione di fondazione,<br />

inaugurano una struttura che coprirà il terreno, che modificherà<br />

fisicamente e trasformerà materialmente il suolo. Ciò comporta<br />

che un luogo venga trasformato e un edificio elaborato, modificato,<br />

esteso, decorato e rinnovato, o altrimenti rimosso per lasciare<br />

spazio a un altro edificio. Verranno conficcati pali nel terreno,<br />

si effettueranno scavi, si accumuleranno materiali, elementi<br />

ed energie sul posto, si provvederà a rimuovere il materiale di<br />

scarto, e così facendo si svilupperà un edificio, un villaggio, un<br />

paese, una città.<br />

Sebbene la prospettiva idealista che alcuni di noi hanno ereditato<br />

abbia incoraggiato un pensiero diviso tra la “naturale” domesticità<br />

<strong>del</strong>l’esistenza rurale e la presunta “alienazione” <strong>del</strong>la vita<br />

cittadina, tanto la fattoria, il casolare di campagna e la pieve,<br />

quanto il grattacielo, il condominio e il terminal <strong>del</strong>l’aeroporto,<br />

sono caratterizzati dalla medesima relazione con il terreno su cui<br />

vengono edificati: dipendono da una relazione con la terra, il suolo,<br />

il terreno, che viene coltivato, lavorato, appropriato, sfruttato.<br />

Questa eredità profondamente ambigua accomuna la tutela e lo<br />

sfruttamento <strong>del</strong> terreno sotto i nostri piedi. Insistere su questa<br />

disposizione ambigua significa infrangere la distinzione netta tra<br />

un “naturalismo” romanzato <strong>del</strong> rurale e l’“alienazione” a scopo<br />

di lucro <strong>del</strong>l’urbano.


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 155<br />

Sullo sfondo <strong>del</strong>le città industriose, il paesaggio rurale non<br />

può che essere considerato materiale muto, grezzo, la scorta resa,<br />

o la riserva residua, rappresentata dalla natura. Eppure il paesaggio<br />

contiene la storia <strong>del</strong>la terra: sia la narrazione millenaria <strong>del</strong><br />

tempo geologico che la storia sociale <strong>del</strong>l’insediamento umano.<br />

La razionalizzazione <strong>del</strong>lo spazio è spesso immemore di entrambe.<br />

A livello più immediato si riscontra, come dice Don Mitchell<br />

richiamandosi a Marx, un “plusvalore <strong>del</strong> paesaggio” che si deposita<br />

sul terreno come “lavoro morto” (Mitchell 1999; si veda anche<br />

Henderson 1999). La prospettiva rurale, che provenga dal<br />

vecchio <strong>mondo</strong> o da quello nuovo, dall’Italia o dalla California, è<br />

anche il registro di uno scenario servito e rifornito dal sudore, dal<br />

sangue e dalla vita dei lavoratori, una volta di quelli che vivevano<br />

sul posto, oggi sempre più degli emigrati. Il regno rustico, sempre<br />

e comunque ritratto nelle grida nostalgiche <strong>del</strong>la sintassi preindustriale<br />

e “autentica” <strong>del</strong> “primitivo”, è tanto una testimonianza<br />

complessa <strong>del</strong>le violente geografie <strong>del</strong>l’economia politica contemporanea<br />

(con i suoi fabbisogni di materie prime e di economia<br />

agricola, il turismo e lo sviluppo immobiliare) quanto la scena urbana<br />

più banalmente citata.<br />

Sia il rurale che l’urbano, nella loro costruzione, nella loro economia<br />

e nella loro organizzazione sociale, coltivano e sfruttano,<br />

elaborano e integrano il terreno su cui vengono edificati e da cui<br />

dipendono. La violenza di questa azione di appropriazione su cui<br />

si instaura l’architettura è ciò che, in ultima analisi, viene represso<br />

nella razionalizzazione <strong>del</strong>la costruzione. Questo discorso vale<br />

tanto per il tempio antico quanto per il granaio o per i moderni<br />

uffici o per le metropolitane.<br />

Questo perché costruire non è soltanto abitare, come ci dice<br />

Heidegger, bensì riconoscere l’autorità <strong>del</strong>l’architettura. Ovviamente<br />

questa autorità passa in gran parte inosservata, sebbene<br />

sia ugualmente presente, nello schema profano <strong>del</strong>le abitazioni<br />

umili, i cui materiali, la cui costruzione e la cui proiezione raramente<br />

sopravvivono alla contingenza immediata. L’autorità architettonica,<br />

l’inaugurazione di nuovi materiali, di uno stile, <strong>del</strong>l’iscrizione<br />

di un ordine religioso, commerciale e politico nella<br />

pietra, tende a essere prerogativa <strong>del</strong>l’innovativo e <strong>del</strong> monumentale,<br />

di oggetti eretti sulla terra contro il cielo, che risaltano e<br />

durano nel tempo. Paradossalmente questi oggetti, il risultato


156 IAIN CHAMBERS<br />

<strong>del</strong>l’esproprio razionale <strong>del</strong> terreno e <strong>del</strong>le sue risorse, aprono a<br />

una forma di soggettivismo acuto. Nell’oggettività <strong>del</strong>la sua arte,<br />

nei numeri, nei calcoli, nei progetti, nelle misurazioni e nei materiali,<br />

l’architetto impone una logica unilaterale sul terreno che<br />

fornisce lo spazio per la costruzione finale. In questo umanesimo,<br />

cioè in questa riduzione <strong>del</strong> suolo all’appropriazione razionalista<br />

che conferma l’ego, l’architettura si difende dall’interrogativo<br />

che farebbe vacillare le fondamenta <strong>del</strong>la sua pratica.<br />

Certamente un rapporto alternativo con la terra, in cui il suolo è<br />

il luogo di sentieri, percorsi, risorse stagionali mutevoli e abitazioni<br />

transitorie, non è un’opzione contemporanea, ma come esistenza<br />

vissuta, cultura sostenuta, modalità di vita, continua a porre una serie<br />

di interrogativi a tutti coloro che stanno sulla terra.<br />

Nondimeno, la decisione di stabilirsi e di costruire, di inaugurare<br />

l’architettura e di trasformare il suolo in una dimora fissa, e<br />

di conseguenza di definirlo e reclamarlo in termini sanguinosi, religiosi,<br />

militari, legali e politici, è ciò che per molti ha posto le<br />

fondamenta <strong>del</strong> senso di casa e di patria. La questione non si limita<br />

mai a passeggiare sulla terra in modo nomadico, si tratta sempre<br />

di subentrare e prendere possesso. La terra viene necessariamente<br />

considerata vuota, una tabula rasa, in attesa di essere inaugurata<br />

dall’insediamento e dall’edificio: è una pagina intonsa, su<br />

cui non è ancora stata scritta la storia:<br />

Fondare la colonia, inaugurare la storia lineare e il suo teatro <strong>del</strong>le<br />

marionette di soldatini in marcia e il lavoro meccanizzato ha significato<br />

abbracciare l’amnesia ambientale, dimenticare attivamente la<br />

saggezza che il suolo e la sua gente possiedono (Carter 1996, p. 6) 1 .<br />

La terra è benedetta, battezzata. Ricevere un nome “comporta<br />

la cancellazione <strong>del</strong> nome nativo – l’obliterazione <strong>del</strong>l’identità<br />

aliena, forse demoniaca – e dunque una sorta di rigenerazione”<br />

1 La relazione <strong>del</strong>la Camera dei Comuni <strong>del</strong> 1835 sulla colonizzazione <strong>del</strong>l’Australia<br />

rileva che gli aborigeni “di ogni terra hanno un diritto inalienabile al proprio territorio: un<br />

diritto semplice e sacrosanto, tuttavia, che non pare sia stato compreso. Gli europei hanno<br />

varcato i loro confini, senza invito, e una volta sul posto non solo si sono comportati<br />

come signori incontrastati <strong>del</strong>la terra, ma hanno anche punito i nativi come aggressori<br />

qualora evidenziassero una tendenza a vivere nella loro terra”. (Citato in Pedersen, Woorunmurra<br />

1995, p. 15).


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 157<br />

(Greenblatt 1992, p. 140). Stephen Greenblatt prosegue rilevando<br />

che questa annessione e al contempo attribuzione d’identità si<br />

fonda formalmente nella nomina linguistica <strong>del</strong>la conquista e nel<br />

prendere possesso <strong>del</strong> terreno selvaggio, incolto (ib.) 1 . La violenza<br />

di questi atti di inaugurazione, in cui lo spazio si svuota <strong>del</strong>la sua<br />

storia precedente e viene azzerato, oggi si ripropone per infestare<br />

gli insediamenti contemporanei, mettendo in discussione la fiduciosa<br />

sistemazione apparentemente realizzata dall’architettura<br />

precedente. La stabilità <strong>del</strong>la domus non è solo strappata alla terra,<br />

ma anche agli altri esseri la cui esternalizzazione, talvolta il cui<br />

sterminio, prende la forma di una subordinazione economica,<br />

culturale e politica che appoggia e conferma un luogo specifico<br />

nella sua separazione (che sia una regione, una città o una nazione)<br />

dai luoghi degli altri.<br />

La spazializzazione porta inevitabilmente all’evacuazione <strong>del</strong>la<br />

contingenza e alla dispersione <strong>del</strong>la storia lungo le linee guida neutrali<br />

di una geometria universale che riflette e incarna il tempo<br />

vuoto, omogeneo. O quasi, visto che la storia continua ad aleggiare<br />

su quel luogo. La terra, anche nella più nuda <strong>del</strong>le apparenze, come<br />

il deserto, la natura selvaggia e le distese desolate, è sempre e<br />

comunque già stata nominata da qualcun altro (Snyder 1990). La<br />

terra, come asseriscono sempre gli indigeni fin dai primi contatti, è<br />

sacra. Di sacralità è intriso il suolo, e questo rende impossibile che<br />

sia oggetto di proprietà individuale o che sia ceduto. Queste relazioni<br />

con la terra, non con una materia inerte di cui appropriarsi e<br />

da lavorare e sfruttare, bensì con un humus circoscritto che sostiene<br />

e rafforza il nostro modo di essere, sono gli spettri che risiedono<br />

nel terreno e fanno ritorno per contagiare l’edificio <strong>del</strong>la modernità<br />

2 . In questo modo si insiste su un’eredità più complessa di<br />

una banale differenza binaria o <strong>del</strong>l’opposizione tra agricoltura e<br />

nomadismo, perché spostarsi sulla terra, invece di rimanere fissi,<br />

non esclude né che si gestisca l’ambiente, né che se ne raccolgano i<br />

frutti (Darian-Smith, Gunner, Nuttal 1996, p. 8).<br />

1 Per ulteriori analisi di questo “momento” formativo, si vedano de Certeau 1975, Todorov<br />

1984. <strong>Sulla</strong> differenziazione nazionalista negli espedienti europei per prendere possesso<br />

retoricamente <strong>del</strong>le Americhe, si veda Seed 1995.<br />

2 L’interrogativo posto dal nomadismo alla modernità viene discusso in maniera esemplare<br />

da Islam 1999-2000.


158 IAIN CHAMBERS<br />

Non esiste lo stato puro, il grado zero. Lo spazio, come sostiene<br />

Gaston Bachelard (1957), è sempre saturato. Sebbene lo<br />

sguardo euroamericano di norma svuoti lo spazio per riempirlo<br />

con una teleologia <strong>del</strong>lo sviluppo e <strong>del</strong> progresso, il territorio è<br />

sempre già connotato come luogo: anche il nomadismo, a prescindere<br />

dalla gittata <strong>del</strong>l’errare, si situa all’interno di una località. Lo<br />

spazio è già un habitat, un’abitazione per qualcun altro. È evacuando<br />

altre storie, e con questo gesto di inaugurazione <strong>del</strong> “nuovo”,<br />

che l’intreccio di modernità occidentale e colonialismo viene<br />

condensato nella maniera più impietosa. È questo che, alla fine,<br />

legittima l’instaurazione e il mantenimento violento <strong>del</strong>lo Stato<br />

nazione moderno. Nella volontà di rappresentare (“l’architettura<br />

come oggettivazione <strong>del</strong> desiderio”) i linguaggi <strong>del</strong>la pianificazione<br />

e <strong>del</strong>la costruzione attingono necessariamente da questa grammatica<br />

(Lozanovska 1997) 1 .<br />

Non esiste cura per queste ferite, esiste solo la possibilità di fare<br />

i conti, comprendere e accettare gli spettri che rifiutano di sparire,<br />

che ritornano ripetutamente per infestare la costruzione <strong>del</strong>le identità<br />

e l’enunciazione <strong>del</strong> luogo e <strong>del</strong>l’appartenenza. Le certezze precedenti<br />

sperimentano aperture sgradite e le ferite rimangono ferite<br />

che sanguinano in una comprensione più sperimentale, meno sicura,<br />

<strong>del</strong> suolo fisico e simbolico che ci sostiene.<br />

La tecnologia e i limiti terrestri<br />

Nell’odierno distacco metropolitano <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> <strong>del</strong> lavoro dal<br />

senso <strong>del</strong> luogo, la vita civica si svincola sempre più dalla presenza<br />

immediata e dalle pressioni <strong>del</strong>la produzione organizzata, e il<br />

lavoro viene ristrutturato in altri corpi (solitamente femminili,<br />

non di razza bianca e non <strong>del</strong> “Primo” <strong>mondo</strong>) e poi disperso<br />

spazialmente nella specificità frammentata <strong>del</strong> servizio metropolitano<br />

e <strong>del</strong>le industrie <strong>del</strong> piacere, oppure trasferito in luoghi re-<br />

1 Non che la volontà di rappresentare sia automaticamente compresa o abbia effetti<br />

omogenei. L’azione <strong>del</strong>l’architettura (chi viene rappresentato, che cosa viene rappresentato)<br />

chiaramente costituisce anch’essa il suolo contestato su cui opera l’architettura. Queste<br />

argomentazioni sono tratte da Gülsüm Bantoglu e dal suo intervento alla conferenza<br />

Global/Local: Postcolonial Questions, University of Western Sydney, 24 giugno1997.


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 159<br />

moti <strong>del</strong>la produzione trans-nazionale, nelle piantagioni di caffè<br />

<strong>del</strong>l’America Latina, nelle fabbriche tessili <strong>del</strong>l’Indonesia, nelle<br />

catene di montaggio di microchip a Singapore. In quest’economia,<br />

Napoli e Irvine sono effettivamente più vicine di quanto potrebbe<br />

inizialmente sembrare a una prima occhiata. Entrambe esistono<br />

sullo stesso piano, forniscono soluzioni storicamente diverse<br />

in un’ontologia occidentale condivisa in cui l’architettura <strong>del</strong>l’accumulo<br />

sedentario, pianificato è sia costante che centrale. Entrambe<br />

sono città per cui l’imperialismo europeo ieri e il neocolonialismo<br />

oggi sono stati centri focali <strong>del</strong>lo sviluppo. La città contemporanea,<br />

che sia un insediamento storico sedimentato come<br />

Napoli o un modulo flessibile e orizzontale come Irvine, continua<br />

a schiudere e contemporaneamente a offuscare queste coordinate<br />

mentre vengono concentrate nel suo linguaggio, nei suoi edifici,<br />

nella sua prassi e nel suo stile quotidiani, nella sua sicura occupazione<br />

<strong>del</strong>lo spazio.<br />

Se per Le Corbusier le case sono macchine in cui vivere, Heidegger<br />

(1950a, p. 72) ci ricorda che “la tecnica meccanica è il primo<br />

frutto <strong>del</strong>l’essenza <strong>del</strong>la tecnica moderna, che fa tutt’uno con<br />

l’essenza <strong>del</strong>la metafisica moderna”. Come schema, progetto e desiderio<br />

strumentale, l’architettura opera una mediazione tra la trasmissione<br />

<strong>del</strong>l’intenzione e la realizzazione e l’utilità, nonché la finalità<br />

culturale e l’iscrizione storica. In quanto tale, si ritrova intrappolata<br />

nella pulsione di ridurre la contingenza terrestre alla<br />

logica causale e controllabile di un linguaggio trasparente in cui il<br />

“politico” e il “sociale” vengono assorbiti pienamente in un regime<br />

mondano <strong>del</strong> razionalismo, che oggi si traduce sempre più<br />

nella neutralità, in apparenza leggera, <strong>del</strong>l’“informazione”.<br />

Ci sono però dei limiti che circoscrivono le proiezioni di questi<br />

futuri, tanto quello <strong>del</strong>la trascendenza promessa dalla tecnologia<br />

che la sospensione relativa <strong>del</strong>l’educazione civica urbana e <strong>del</strong> conseguente<br />

ottundimento <strong>del</strong>la scelta politica. Mentre la California<br />

meridionale fa parte dei nostri futuri, non è necessariamente il futuro,<br />

perché, e qui riecheggiano Martin Heidegger e Richard Sennett,<br />

il luogo non è semplicemente il prodotto <strong>del</strong>l’elaborazione<br />

globale. Nel suo celebre saggio chiamato Costruire, Abitare, Pensare<br />

(1954b), il filosofo tedesco scrive: “gli spazi ricevono la loro essenza<br />

non dallo spazio, ma dai luoghi” (p. 103). Lo spazio è una<br />

produzione sociale, ci ricorda Henri Lefebvre, avrà sempre una


160 IAIN CHAMBERS<br />

storia: “Nessuno spazio scompare in fase di crescita e di sviluppo: il<br />

mondiale non abolisce il locale” (Lefebvre 1991, p. 86, corsivo nell’originale).<br />

Il luogo è sempre il sito di appropriazione culturale e<br />

trasformazione storica, il sito di una maniera e di un’economia specifiche<br />

di costruire, abitare e pensare. Per quanto sia l’oggetto di<br />

uno schema astratto, che si avvale <strong>del</strong>la sintassi <strong>del</strong> capitalismo, <strong>del</strong>la<br />

tecnologia, <strong>del</strong> governo, <strong>del</strong>la pianificazione e <strong>del</strong>l’architettura,<br />

ciò che emerge non è mai semplicemente l’oggetto alienato di questi<br />

processi: ciò che emerge è un soggetto che introduce l’agonismo<br />

nell’agora, costruendo un luogo particolare fuori da questo spazio,<br />

confutando la regolata trasparenza <strong>del</strong> piano per mezzo <strong>del</strong>l’inattesa<br />

opacità <strong>del</strong>l’evento insubordinato (Sennett 1995).<br />

Ciò significa insistere sulla disposizione profondamente eteronomica<br />

<strong>del</strong>la modernità, di ciò che rimane represso nelle strozzature<br />

<strong>del</strong>la coerenza razionalista e nazionalista. Significa disfare i<br />

legami di linearità e la teleologia di un tempo chiamato “progresso”.<br />

Significa gingillarsi mentre si palesa l’inquietante presenza di<br />

ciò che la modernità reprime, pur effettivamente dipendendo da<br />

essa: lo sfruttamento di chi è stato dimenticato, privato <strong>del</strong>la libertà,<br />

<strong>del</strong>l’alieno e <strong>del</strong> negato. Questi ultimi sono condannati a<br />

sobbarcarsi il far<strong>del</strong>lo <strong>del</strong>la modernità in nome <strong>del</strong> progresso, <strong>del</strong><br />

sottosviluppo, <strong>del</strong>l’arretratezza, <strong>del</strong>l’illegalità e <strong>del</strong>l’inevitabile attivazione<br />

dei paradigmi <strong>del</strong>la privazione economica, <strong>del</strong> pregiudizio<br />

sessuale, <strong>del</strong>la discriminazione etnica e <strong>del</strong> razzismo che tendono<br />

a imporsi in uno scenario di questo tipo.<br />

Iscrivere direttamente queste discontinuità nel racconto contemporaneo<br />

<strong>del</strong> tempo, nello stato patrimoniale <strong>del</strong>la modernità,<br />

investe altresì la tematica <strong>del</strong>l’architettura.<br />

L’architettura, nella maniera in cui è stata istituzionalizzata,<br />

praticata e insegnata, incarna la scommessa razionalista (sia in<br />

ambito empirico che idealista) che la conoscenza sia rappresentazione,<br />

che la conoscenza riguardi la capacità di vedere per<br />

rappresentare il <strong>mondo</strong> in una logica e in una struttura misurabili<br />

e immediatamente accessibili. L’architetto mo<strong>del</strong>lo è Iddio<br />

onnisciente che tutto vede e tutto comprende, come prescrisse<br />

Isaac Newton e dipinse William Blake. Alla palese configurazione<br />

<strong>del</strong>l’architettura nelle economie emergenti <strong>del</strong>l’urbanesimo,<br />

<strong>del</strong> colonialismo e <strong>del</strong> capitalismo occorre pertanto aggiungere<br />

la sua appartenenza alle modalità egemoni <strong>del</strong>la conoscen-


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 161<br />

za e <strong>del</strong> potere. In questa formazione moderna, occidentale,<br />

l’architettura è sorella <strong>del</strong>l’antropologia, <strong>del</strong>l’anatomia e <strong>del</strong>l’arte<br />

abietta, ossia “l’arte <strong>del</strong> dissotterratore dei cadaveri” 1 . Queste<br />

relazioni foucaltiane, legate alle possibilità panottiche di disciplinare,<br />

se non anche di “disegnare e ripartire” il corpo <strong>del</strong>la<br />

città, il corpo <strong>del</strong> cittadino, tentano di ridurre tutti i movimenti<br />

e le rotture potenziali alla cornice classificatoria e al tavolo <strong>del</strong>l’autopsia<br />

di una “natura morta”. Tuttavia il corpo, in quanto<br />

carne, sangue e ossa, in quanto storia e fecondità individuali, è<br />

il “dire”, come ribadisce Emmanuel Lévinas, che precede e va<br />

al di là <strong>del</strong>la coscienza, <strong>del</strong> sistema, <strong>del</strong>la struttura e <strong>del</strong>la rappresentazione.<br />

Nell’incarnazione <strong>del</strong> soggetto è l’alterità radicale<br />

<strong>del</strong> corpo stesso, relativamente al desiderio e allo schema<br />

atemporale <strong>del</strong> pensiero, che rende quest’ultimo vulnerabile ai<br />

limiti e alla ricusazione, perché “mette perennemente in discussione<br />

la prerogativa <strong>del</strong>la coscienza di ‘fornire un senso’” (Han<strong>del</strong>man<br />

1991, p. 253).<br />

L’architettura moderna, occidentale, ha dato un contributo diretto<br />

alla diffusione di un’egemonia visiva che non solo nega altre<br />

forme non rappresentative <strong>del</strong>la conoscenza, ma ottiene, anche<br />

nella sua trionfale razionalizzazione <strong>del</strong> punto di vista unilaterale e<br />

<strong>del</strong>la prospettiva astratta, di far passare nel dimenticatoio ciò che il<br />

suo discorso prevede di spiegare e accogliere: corpi e vite diverse.<br />

L’occhio architettonico si concentra sulle tecniche e sulla tecnologia<br />

<strong>del</strong>l’inquadramento che rende lo spazio e il terreno una realtà<br />

vantaggiosa, configurandola nell’identità <strong>del</strong>l’inquadratore, <strong>del</strong><br />

soggetto. Lo sguardo apparentemente obiettivo viene restituito e<br />

trasformato nel punto di vista interno, soggettivo.<br />

Ancora una volta, diviene possibile afferrare l’apparentemente<br />

paradossale affermazione che la tecnologia è l’umanesimo. La presunta<br />

antitesi tra questi due termini, che struttura in profondità<br />

tanta parte <strong>del</strong> pensiero moderno relativo alla tecnologia, prevede<br />

effettivamente una collaborazione tra due corpi concettuali in apparenza<br />

contrapposti e separati, catturati in un balletto i cui passi<br />

espongono le asserzioni universali <strong>del</strong> pensiero occidentale.<br />

Quando si tratta un punto di vista come ugualmente valido in<br />

1 Per questa suggestiva relazione mi sono ispirato a McCarthy 1997.


162 IAIN CHAMBERS<br />

qualunque posizione, di modo che ogni cosa dia il medesimo risultato,<br />

e venga meno il disturbo <strong>del</strong>l’alterità, allora la coscienza<br />

soggettiva passa direttamente nell’oggettività “neutrale” <strong>del</strong>la forma<br />

calcolata.<br />

Non ci vuole una grande immaginazione per mettere in relazione<br />

questi segni relativi al potere <strong>del</strong>l’aspetto, nonché il suo<br />

ruolo di custode <strong>del</strong>la conoscenza, con il potere <strong>del</strong> piano e <strong>del</strong><br />

punto di vista architettonico. Lo sguardo architettonico è altresì<br />

lo sguardo antropologico: costruire, classificare e definire lo spazio<br />

per gli altri; spalleggiato ulteriormente nella pragmatica <strong>del</strong>le<br />

culture anglosassoni dal pregiudizio che il linguaggio stesso sia<br />

cristallino, un semplice strumento per mezzo <strong>del</strong> quale la ragione<br />

riflette la realtà nella strumentalità neutrale <strong>del</strong> mezzo. Come<br />

l’occhio nudo, le lenti <strong>del</strong>la macchina fotografica o la simulazione<br />

al computer, questi esempi di potere visivo traducono la verità<br />

direttamente in regimi di rappresentazione, da cui deriva la presunta<br />

vicinanza <strong>del</strong>l’osservatore a Dio, <strong>del</strong>l’architetto secolare al<br />

progettista divino. Ciò che non riesce a rientrare nel campo ottico,<br />

le sue procedure di classificazione e la sua logica <strong>del</strong>la rappresentazione,<br />

non riesce nemmeno a divenire conoscenza. Qui<br />

lo spazio continua a essere concepito come realtà antropomorfica<br />

i cui limiti (l’orizzonte, il limite <strong>del</strong> campo visivo, l’oscurità)<br />

vengono riconosciuti unicamente per essere resi insignificanti relativamente<br />

a ciò che rientra nel campo di una visione ingrandita.<br />

La relativa stabilità di questa cornice e <strong>del</strong>l’inquadramento o<br />

rappresentazione <strong>del</strong> soggetto (“l’immagine <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>”, come<br />

dice Heidegger, che fa sì che l’occh-ìo sia sempre al centro <strong>del</strong>la<br />

visione e <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, come stabilito per la prima volta con la modernità)<br />

consente di rigettare un punto di fuga o il vuoto che, alla<br />

fine, farebbe slittare e sopraffarebbe la soggettività. Come afferma<br />

Victor Burgin (1990, p. 118):<br />

il punto di fuga non è parte integrante <strong>del</strong>lo spazio <strong>del</strong>la rappresentazione;<br />

posizionato sull’orizzonte, viene continuamente spinto in<br />

avanti di pari passo con l’espansione dei limiti <strong>del</strong> soggetto.<br />

Il linguaggio <strong>del</strong>la trasparenza e l’egemonia oculare qui si fondono<br />

in una relazione di soggetto-oggetto, in una concezione cumulativa<br />

<strong>del</strong> significato e <strong>del</strong>la verità che riafferma eternamente il


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 163<br />

soggetto. Si tratta di una concezione che valorizza lungo un movimento<br />

unilaterale: dall’occh-ìo verso il <strong>mondo</strong>, di cui ci si appropria<br />

in quanto oggetto esterno.<br />

Ora vorrei affiancare a questa generalizzazione epocale e geopolitica<br />

un’affermazione più precisa che riguarda direttamente il<br />

campo <strong>del</strong>l’architettura. Si tratta di una citazione da Urbanistica<br />

(pubblicato per la prima volta nel 1925), di Le Corbusier (1929,<br />

p. 77), che recita:<br />

Combattiamo la trascuratezza, il disordine, l’abbandono, la negligenza<br />

dalle fatali conseguenze; aspiriamo all’ordine e lo raggiungiamo<br />

con il richiamo al nostro principio fondamentale: la geometria.<br />

“La geometria è il nostro principio fondamentale”, ci dice l’architetto<br />

francese proprio in apertura <strong>del</strong> suo libro (p. 5). Ma al di<br />

là <strong>del</strong>la frustrazione costante <strong>del</strong>la geometria a opera <strong>del</strong>le coordinate<br />

storico-politiche, per non citare le pressioni dirette <strong>del</strong> mercato<br />

e <strong>del</strong>la commercializzazione spesso scoordinata degli immobili,<br />

c’è una tensione maggiore dove i progetti rimangono permanentemente<br />

intrappolati nel passaggio tra costruzione e abitazione,<br />

tra la risposta funzionale all’abitazione umana e la proiezione<br />

immaginaria <strong>del</strong>la stessa.<br />

Questo perché il potere <strong>del</strong>lo sguardo si accompagna altresì a<br />

un’intrinseca incapacità: l’incapacità di ascoltare, udire e rispondere.<br />

L’occhio osserva una forma di sapere che né attende né accetta<br />

una risposta. Il piano progettato e contemplato dalle tecnologie<br />

<strong>del</strong>l’appropriazione oculare e dalla loro gestione <strong>del</strong>la conoscenza,<br />

<strong>del</strong> potere, può essere lacerato, perforato o semplicemente<br />

superato da ulteriori regimi <strong>del</strong> senso individuale e collettivo<br />

che, inaspettatamente, confutano le prospettive amministrative.<br />

L’esito <strong>del</strong>la battaglia per avere un terreno comune di significato,<br />

o un quadro condiviso di senso, è insolitamente inevitabile;<br />

la sua politica penetra fin proprio nel cuore <strong>del</strong>la materia a<br />

portata di mano, nel cuore stesso <strong>del</strong> nostro essere nella città,<br />

nella vita moderna.<br />

Inoltre, è possibile che venga restituito lo sguardo per far sentire<br />

a disagio l’osservatore, o per rendere tendenziosa la sua verità.<br />

L’osservatore viene osservato. Registrare la possibilità di una<br />

simile reciprocità significa introdurre una distinzione dirompente


164 IAIN CHAMBERS<br />

tra l’oggettività soggettiva di una visione che abbraccia tutto e un<br />

occh-ìo che reagisce, che incontra resistenza e opacità, disturbo e<br />

offuscamento, un riflesso fosco nella retina. Questo opera un sabotaggio<br />

<strong>del</strong>la distanza critica tra il soggetto che tutto vede e l’oggetto<br />

inerte, la distanza che permette il possesso, con un’interruzione<br />

che rimane insuperabile, una separazione instaurata e mantenuta<br />

dalla finitezza <strong>del</strong>la mortalità, dai limiti <strong>del</strong>la posizione, dai<br />

fastidi <strong>del</strong>l’inconscio e dalle circostanze <strong>del</strong>la differenza: voci diverse,<br />

corpi diversi, storie diverse. È questo passaggio non rappresentabile<br />

che forma la materialità che Platone chiama chora,<br />

che Derrida e altri considerano il luogo eterno e infinito <strong>del</strong>la traduzione,<br />

e che Elizabeth Grosz (1995a) significativamente identifica<br />

come lo spazio <strong>del</strong> femminile. Proprio qui lo schema avviluppante<br />

<strong>del</strong>l’architettura incontra la presenza inquietante <strong>del</strong> non<br />

rappresentato. È qui che la purezza <strong>del</strong> progetto viene frantumata<br />

dall’apertura ai mutevoli linguaggi <strong>del</strong> luogo.<br />

Pertanto, l’archeologia <strong>del</strong>la moderna architettura non svela<br />

semplicemente il suo contratto con una particolare épisteme, bensì<br />

stabilisce anche, e più appropriatamente, limiti storici e soglie <strong>culturali</strong>.<br />

Abitare nei limiti tra l’architettura e ciò che va al di là di essa,<br />

nell’eccesso, nell’integrazione, che rifiuta la sua logica o la contravviene,<br />

significa anche incontrare le altre architetture, o controarchitetture,<br />

che ne disturbano le prescrizioni e scelgono di vivere progetti,<br />

edifici, città, secondo pratiche ulteriori, impreviste.<br />

Sull’orlo <strong>del</strong>la costruzione<br />

A queste necessità si deve aggiungere l’irrefrenabile costanza<br />

di un interrogativo di cui l’architettura pare sempre immemore.<br />

Non troppo tempo fa, in una Lettera a Peter Eisenman, Jacques<br />

Derrida (1994; la lettera è datata 12 ottobre 1989) ha elencato<br />

una serie di relazioni che, in stile heideggeriano, espongono l’architettura<br />

alla provocazione <strong>del</strong> suo inquadramento terrestre, a<br />

ciò che va al di là <strong>del</strong> suo discorso e lo avviluppa: l’architettura e<br />

la povertà, l’architettura e la condizione dei senza tetto, l’architettura<br />

e le rovine, e questo ci riporta al punto di partenza <strong>del</strong>l’interrogativo:<br />

la questione <strong>del</strong>la terra e la provocazione fondamentale<br />

sostenuta dal nostro abitare.


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 165<br />

Le pietre, l’acciaio, il cemento e il vetro che in apparenza forniscono<br />

la conclusione di un discorso, di un progetto, di un piano,<br />

di un edificio, di una città, sono necessari, ma non sufficienti,<br />

punti materiali di partenza nei processi che trasformano lo spazio<br />

in un luogo, perché ogni spazio incarna pratiche storiche e <strong>culturali</strong>,<br />

riceve il sigillo individuale e collettivo di corpi, storie, culture,<br />

ricordi e vite irreprimibili. L’architettura come “sintesi spaziale<br />

<strong>del</strong>l’eterogeneo” non è quindi solo la sintesi di forme e materiali,<br />

come propone Paul Ricoeur (1996): è anche sintesi di forze e relazioni<br />

sociali, storiche e <strong>culturali</strong>. In quanto testo non è soltanto<br />

una trama da leggere, è anche una storia che raccontiamo e in cui<br />

veniamo raccontati. In questo modo si conferiscono alle discipline<br />

e alle pratiche che concepiscono e progettano la città (l’architettura,<br />

l’urbanistica e l’amministrazione comunale, l’investimento<br />

e la speculazione finanziari, l’oligarchia <strong>del</strong> capitale globale e locale)<br />

una ricezione e un ascolto che consentono alle altre città che<br />

esistono all’interno <strong>del</strong>la città di divenire visibili e udibili: gli edifici<br />

di classe, genere, sesso, etnia e razza che costituiscono e investono<br />

lo spazio urbano. Tracciare la mappa <strong>del</strong>la città seguendo<br />

questi assi significa integrare, e talvolta sovvertire, la concezione<br />

di un habitat inteso esclusivamente in termini di popolazione<br />

astratta, spazio civico generico, insieme di forza lavoro anonima o<br />

concentrazione commerciale. Comprendendo la città in quest’ottica<br />

si attua un radicale spostamento <strong>del</strong>l’enfasi dai protocolli prescrittivi<br />

<strong>del</strong> piano urbano, <strong>del</strong> progetto architettonico, <strong>del</strong>l’intenzione<br />

amministrativa e <strong>del</strong>la strategia economica verso quelli<br />

iscrittivi: verso la città che parla, che si racconta nella diversità. Se<br />

a questo punto si presta attenzione a Lévinas, nel passaggio dall’interdizione<br />

<strong>del</strong> detto all’esposizione <strong>del</strong> dire, nell’oscillazione<br />

tra l’astrazione <strong>del</strong>la legge e l’evento non previsto, esiste l’insistenza<br />

<strong>del</strong>l’etica, dove il prescrittivo viene reso responsabile.<br />

Ma che cosa significa: nessuna pianificazione, nessuna architettura<br />

fintanto che non sia possibile recuperare ciò che non è<br />

pianificato eticamente? Per frustrare l’obbligo, il piano viene congelato<br />

in eterno, aspettando che il futuro faccia giustizia? L’architettura<br />

viene dunque ridotta a opere di restauro, di rattoppo <strong>del</strong>l’ambiente<br />

urbano, dilettandosi in esperimenti localizzati, mentre<br />

attende un nuovo mandato? Certamente anch’essa ha subito la<br />

critica <strong>del</strong>le aspirazioni <strong>del</strong> passato, una critica che, insistendo


166 IAIN CHAMBERS<br />

sull’“al di là”, sul supplemento <strong>del</strong>la sua impetuosa razionalità,<br />

rende irreperibile quel progetto precedente.<br />

Qui la città, in quanto esistente, si erge come oggetto e generatore di<br />

un gran numero di futuri possibili, ognuno calcolato a seconda <strong>del</strong>la<br />

natura <strong>del</strong>la sua opposizione a siffatti futuri. Il progetto architettonico,<br />

mentre cristallizza uno o più di questi futuri, viene poi presentato<br />

alla città, per così dire, come un intero, non come una sostituzione o<br />

un rimpiazzo, come nell’urbanesimo utopico <strong>del</strong> modernismo, bensì<br />

come materiale da sottomettere alla vita e al potere consumante <strong>del</strong><br />

contesto. I “tipi” apparentemente onnicomprensivi vengono pertanto<br />

frantumati dalla controforza <strong>del</strong> luogo (Vidler 1992, p. 200) 1 .<br />

Le città, la vita urbana, l’architettura, come le nostre essenze<br />

sociali, di genere, etniche, nazionali e locali, per quanto possano<br />

essere costruite per decreto pedagogico e disciplinare, in ultima<br />

analisi dipendono da una performance o stile d’essere, dall’articolazione<br />

storica e da un’etica iterata nel nostro divenire. La verità<br />

<strong>del</strong> nostro essere è qui, nel fatto che ascoltiamo e rispondiamo a<br />

quel linguaggio. In quello spazio, per quanto eccessivamente determinato<br />

dall’assalto apparentemente irresistibile di capitale e<br />

controllo corporativo (che in questi anni si sostituisce sempre più<br />

alle politiche istituzionali), esiste un eccesso culturale e poetico<br />

che non si può ricondurre al razionalismo e alla logica calcolatrici<br />

di coloro che intendono sovrintendere al nostro futuro. Questa<br />

integrazione interrompe e mette in discussione il desiderio politico<br />

<strong>del</strong>la conclusione, <strong>del</strong>la comprensione universale e l’asservimento<br />

razionalista <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>. Questo desiderio si disperde nello<br />

spazio tra gli edifici, nel vuoto tra proclami misurati, nel silenzio<br />

che la geometria non riesce a codificare, nelle ombre che offuscano<br />

la trasparenza. Infine le energie si riversano per le strade e per<br />

i territori <strong>del</strong>l’incertezza dove i corpi e le voci storici, muovendosi<br />

in uno stato mutevole, ora “arcaico” e ora “cyborg”, coniugano la<br />

tecnologia e l’essenza in un interrogativo comune. Qui la chiarezza<br />

accattivante e il potere <strong>del</strong>l’informazione sono traditi nel perenne<br />

transito e nella traduzione che accompagna un adattamento<br />

differenziato nel <strong>mondo</strong>. Qui c’è la possibilità di varcare i confini<br />

1 Qui Vidler descrive l’architettura sperimentale di Wiel Arets.


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 167<br />

<strong>del</strong> calcolo per correre il rischio di pensare diversamente. Pensare<br />

a ciò che il calcolo non può rappresentare, ciò che i numeri e le linee<br />

reprimono, significa esporre il piano ai rischi incalcolabili che<br />

nasconde, nonché al terreno mobile, la terra, che immancabilmente<br />

trascura.<br />

L’architettura, in quanto tentativo di configurare lo spazio, di<br />

trasformarlo in luogo, edificio, habitat, deve sempre fare i conti<br />

con l’instabilità, l’eruzione narrativa, <strong>del</strong>l’essenza storica quotidiana<br />

e di una finitezza costellata dalla contingenza terrestre. La cognizione<br />

di queste coordinate scaturisce forse nella prospettiva di<br />

un’architettura più transitoria o di un’“architettura debole”:<br />

un’architettura in grado di adeguare, o quantomeno registrare,<br />

l’intervallo tra piano e luogo. Non si vuole suggerire di costruire<br />

strutture meno sicure, bensì che la loro necessaria logica e razionalità<br />

vengano a essere riconosciute come linguaggi limitati invece<br />

che leggi universali. Chiaramente, questo vorrebbe dire ridurre e<br />

ridisegnare il campo d’azione <strong>del</strong>l’architettura spostando l’attenzione<br />

dalla tendenza di una razionalità omogenea e insistendo sulle<br />

storie eterogenee che la costruzione è destinata a ospitare. L’architetto<br />

smette di essere un progettista universale e assume i connotati<br />

di costruttore attento, che edifica l’abitazione umana, se ne<br />

prende cura e la nutre 1 . Il piano, il progetto, l’edificio diviene una<br />

costruzione più leggera: meno monumentale, meno metafisica<br />

nelle sue aspirazioni, più modesta, aperta e disponibila nella sua<br />

risposta al luogo in cui è destinata ad acquisire vite, storie… ricordi,<br />

significati.<br />

Un’architettura di questo tipo diventerebbe forse più vulnerabile<br />

a un senso <strong>del</strong>l’abitare ricevuto dall’eredità storica e dalle<br />

contingenze terrestri che noi chiamiamo <strong>mondo</strong> (Heidegger<br />

1954a, p. 119). In questo modo, l’architettura si metterebbe anche<br />

in comunicazione con le dimore più semplici che rappresentano<br />

l’abitazione e il rifugio per la stragrande maggioranza <strong>del</strong>la<br />

popolazione mondiale che non dispone né <strong>del</strong>l’economia, né <strong>del</strong>la<br />

stabilità quotidiana per permettersi la qualità architettonica degli<br />

edifici occidentali. Questo potrebbe proporre un ponte tra le op-<br />

1 “L’uomo non è il padrone <strong>del</strong>l’ente. L’uomo è il pastore <strong>del</strong>l’essere” (Heidegger<br />

1946, p. 295).


168 IAIN CHAMBERS<br />

zioni individuali circoscritte dalla responsabilità teorica (e dai costi)<br />

di edifici domestici come quelli proposti, per esempio, dall’architetto<br />

australiano contemporaneo Glenn Murcutt, e le soluzioni<br />

standardizzate che prestano attenzione alla storia <strong>del</strong> luogo. Tra le<br />

opere di Murcutt si distingue la famosa casa Marika-Alderton<br />

(1991-1994) nella comunità di Yirrkala nei Territori Settentrionali:<br />

una reinterpretazione <strong>del</strong>lo stile aborigeno <strong>del</strong> rifugio proposta<br />

come alternativa al bungalow governativo standard (Flora, Giardiniello,<br />

Postiglione, a cura, 1999). Qui, per quanto si stia sempre<br />

parlando di una soluzione su misura, non collettiva, non si esclude<br />

la possibilità che quest’ultima venga a essere eticamente ed effettivamente<br />

influenzata dalla prima.<br />

A questo punto, sarebbe possibile chiedersi se gli architetti<br />

siano le vittime o gli esecutori <strong>del</strong> capitale globale e dei suoi<br />

teatri locali <strong>del</strong> potere. I commenti di cui sopra sulla locuzione<br />

storica e sui limiti <strong>del</strong>la volontà architettonica occidentale (ora<br />

trasposta negli skyline di tutto il <strong>mondo</strong>, da Siviglia a Sydney a<br />

Shanghai) vogliono proporre per gli architetti il ruolo di mediatori,<br />

che esercitano il loro potere di riflettere e di deflettere le<br />

relazioni strutturali in cui loro, le loro pratiche e noi veniamo<br />

catturati. L’architettura, come ambito <strong>del</strong>l’opera critica, non è<br />

soltanto il luogo in cui si visualizzano e progettano edifici e<br />

città, ma è anche il luogo dove diviene possibile ascoltare ciò<br />

che i protocolli <strong>del</strong>la professione tendono a passare sotto silenzio<br />

o a reprimere nella sua economia politica di razionalizzazione<br />

<strong>del</strong>lo spazio.<br />

L’architettura si sviluppa necessariamente a partire da un punto<br />

di vista che, a prescindere dal grado di liberalità e pluralismo<br />

<strong>del</strong>le sue intenzioni, è destinato ad attrarre tutto ciò che incontra<br />

nella logica <strong>del</strong> suo piano. Non solo è unilaterale nella sua astrazione<br />

(come si traccia o progetta il contingente e il trasgressivo?),<br />

ma richiede altresì una chiusa arbitraria, un’omogeneizzazione<br />

<strong>del</strong>la visione, se deve passare da un tavolo da disegno al luogo<br />

<strong>del</strong>la costruzione, all’edificio abitato e all’edificazione <strong>del</strong>lo spazio.<br />

È vero che, nella città di tutti i giorni, nella mobilità <strong>del</strong>la vita<br />

quotidiana, le cose non vanno tanto lisce: i detriti lasciati dalle altre<br />

storie e dalle altre maniere di abitare lo spazio urbano possono<br />

lasciare il loro segno sui muri, i loro ripari di cartone nel parco, le<br />

loro ombre distese sui marciapiedi, o concentrare altrove la diffe-


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 169<br />

renza – dal linguaggio e dalla religione alla musica, alla cucina e<br />

all’abbigliamento – in particolari enclavi <strong>del</strong> reticolo urbano. In<br />

che modo risponde l’architettura? E soprattutto, può l’architettura<br />

rispondere affatto? Oppure tra coloro che non rientrano nel<br />

piano, la cui presenza ne infastidisce e sfida la logica, è già innestata<br />

un’altra architettura? Certamente emerge di frequente una<br />

maniera di abitare che intorbida la logica imposta, che riscrive i<br />

termini <strong>del</strong>l’ospitalità secondo un altro design culturale.<br />

La tradizione <strong>del</strong> discontinuo<br />

Come pianificare, concepire e costruire in risposta a queste<br />

pressioni e presenze fluttuanti, come rispondere agli indisciplinati<br />

vortici e mulinelli di una storia che non è né omogenea, né vuota,<br />

bensì occupata con tenacia? Non dispongo di una risposta chiara<br />

e precisa. Ma forse l’architettura riuscirebbe a rispondere meglio<br />

a queste condizioni, che sono intrinseche alle condizioni strutturali<br />

<strong>del</strong>la modernità occidentale stessa, sforzandosi meno di “risolvere”<br />

questi “problemi” e tentando maggiormente di presentarli.<br />

Quello che potrebbe voler dire implica un cambiamento distinto<br />

ed esplicito nelle fondamenta intellettuali e nel linguaggio<br />

<strong>del</strong>l’architettura stessa, perché l’architettura tende a identificare il<br />

terreno soltanto nell’istante <strong>del</strong>l’edificazione. Prima di quel momento<br />

uno spazio di questo tipo è letteralmente privo di significato,<br />

privo di costruzione e quindi non rappresentabile né in termini<br />

propri, né in termini <strong>del</strong>l’epistemologia nella quale è intrappolato.<br />

Che cosa succederebbe se l’architettura dovesse costruire<br />

senza la sicurezza aprioristica che la protegge da ciò che la sua ragione<br />

non è in grado di contenere? A questo punto l’astratta priorità<br />

<strong>del</strong>la geometria verrebbe sfidata dal terreno impregnato di<br />

storia e cultura su cui agisce l’architettura, tanto fisicamente<br />

quanto metafisicamente.<br />

Com’è ovvio, si potrebbe semplicemente obiettare che tutto<br />

ciò non è che un ozioso esercizio in un ilare gioco di parole, che<br />

strappa la metafora <strong>del</strong>l’“architettura” per renderne l’autorità intellettualmente<br />

sospetta e per insinuare che le sue innovazioni siano<br />

semplicemente la decorazione di una ripetizione mondana di<br />

edifici che hanno poco di nuovo da dire sull’abitare, ma molto da


170 IAIN CHAMBERS<br />

guadagnare nella produzione in serie di case, uffici, centri commerciali<br />

e supermercati.<br />

Tuttavia mi pare che domande di questo tipo ci costringano a<br />

ritornare alla questione <strong>del</strong>l’architettura, a prendere sul serio la<br />

storia <strong>del</strong>l’edificio e <strong>del</strong>l’abitazione, per non parlare <strong>del</strong>la forza<br />

<strong>del</strong>la metafora stessa, sia per quanto riguarda i suoi scopi che i<br />

suoi limiti. Questo perché costruire, edificare e abitare un luogo<br />

significa inevitabilmente stabilire dei limiti: come minimo tra un<br />

interno e un esterno, tra i confini controllati <strong>del</strong>la domesticità curata<br />

e l’inclemenza insubordinata <strong>del</strong> disabitato, <strong>del</strong> selvaggio.<br />

Ovviamente, da Freud in poi, o meglio, come ci ricorda Lyotard,<br />

dalla tragedia greca, sappiamo che questa architettura è illusoria,<br />

che il selvaggio, l’indomato, il represso, si infiltra sempre nella<br />

scena domestica: la porta è porosa (Lyotard 1997).<br />

Attraverso la porta, “il limitato e l’illimitato si uniscono reciprocamente,<br />

non nella forma geometrica morta di un semplice<br />

muro separatore, bensì come possibilità di un interscambio permanente”<br />

(Simmel 1997, p. 68). Eccoci di ritorno al luogo in cui si<br />

deve erigere l’edificio, uno spazio che non è vuoto ma saturato, un<br />

terreno che non è neutrale e muto, ma che si trova già iscritto, già<br />

vissuto. Lo ribadiamo: prendiamo alloggio nel perturbante. Ma in<br />

che modo, dato che l’autorità <strong>del</strong>l’architettura è insita nel gesto<br />

<strong>del</strong>la fondazione, dato che apparentemente occorre uno spazio<br />

vuoto per realizzare le sue ambizioni, si può costruire su un terreno<br />

assai più compromesso, irregolare e infestato, ovverosia, com’è<br />

possibile prenderlo in considerazione invece che negarlo?<br />

La risposta va cercata nella tradizione. Non nell’angusta tradizione<br />

di un’architettura occidentale, che è diventata la pratica<br />

globale <strong>del</strong>le tecniche e <strong>del</strong>la tecnologia <strong>del</strong>la costruzione che è<br />

assurta al ruolo di dominatrice <strong>del</strong>la realizzazione <strong>del</strong>l’habitat<br />

moderno e <strong>del</strong>la “clonazione degli skyline americani per tutto il<br />

<strong>mondo</strong>” (Morris 1990). Piuttosto, la tradizione che si evoca qui è<br />

quella inquietante e interrogativa <strong>del</strong>l’abitare la terra sotto il cielo,<br />

in cui le tematiche <strong>del</strong>la “libertà” e <strong>del</strong>l’“azione” esistono in<br />

prossimità <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> invece che essere in debito nei confronti<br />

<strong>del</strong>l’umanesimo astratto <strong>del</strong> soggettivismo occidentale (e <strong>del</strong> suo<br />

culmine metafisico rappresentato dal razionalismo tecnologico).<br />

Questo implicherebbe uno spostamento da un’architettura dedita<br />

a progettare edifici a un’architettura impegnata nell’identifica-


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 171<br />

zione dei luoghi (Unwin 1997). A questo punto, gli architetti potrebbero<br />

essere visti come mediatori tra l’ordine, la disciplina<br />

che incarnano e il dis-ordine e il <strong>mondo</strong> extra-disciplinare cui<br />

tentano di dar casa e sistemazione. Vorrebbe dire suggerire, in<br />

particolare nella cultura eccessivamente determinata, pragmatica,<br />

anglosassone, che gli architetti operano, consapevoli o meno, con<br />

un programma “intellettuale” ed etico.<br />

In questa visione radicalmente diversa <strong>del</strong>la tradizione, la<br />

particolare osservazione architettonica di una disciplina e <strong>del</strong>la<br />

tradizione che, per esempio, auspica ardentemente l’architetto<br />

italiano Vittorio Gregotti (1999), non può più essere considerata<br />

con compiacenza il luogo di una continuità referenziale,<br />

circoscritta da contorni storici, geografici e politici precisi. Diventa<br />

piuttosto un esempio di traduzione e transito. Chiaramente,<br />

fare appello alla tradizione significa fare appello a un<br />

contesto culturale specifico e alla spazialità storica nella realizzazione<br />

<strong>del</strong> piano. Ma se si cerca un dialogo coi presupposti<br />

<strong>del</strong>l’edificio, l’edificio che ne deriva viene costruito secondo linee<br />

radicalmente diverse da quelle associate unicamente alla<br />

conservazione <strong>del</strong>la continuità. Una differenza effettiva scaturisce<br />

dal linguaggio utilizzato nell’appropriazione <strong>del</strong>lo spazio<br />

e nella sua trasformazione in un’identità specifica. Quando la<br />

sintassi utilizzata nell’articolazione <strong>del</strong> progetto architettonico<br />

viene considerata cristallina, di modo che la ragione si manifesta<br />

direttamente nella costruzione, allora ne scaturisce un edificio<br />

(nonché un senso <strong>del</strong> luogo) molto diverso rispetto al<br />

prodotto di una grammatica più incerta e di una sintassi sperimentale<br />

che dialoga con i limiti <strong>del</strong> locale e con i limiti <strong>del</strong>la<br />

stessa ragione architettonica.<br />

Un fatto paradossale è che la critica e la crisi contemporanea<br />

<strong>del</strong>l’architettura europea non derivino dal suo insuccesso e dalla<br />

minaccia <strong>del</strong>la sua estinzione, ma precisamente, così come per<br />

molte altre pratiche occidentali, dalla sua ubiquità, dal fatto che<br />

il suo linguaggio e la sua ragione sono divenuti universali. Nella<br />

razionalizzazione <strong>del</strong>la tecnologia e <strong>del</strong>la tecnica, la sfida <strong>del</strong>l’indecifrabile<br />

viene inevitabilmente sostituita dal concetto <strong>del</strong>l’immediatamente<br />

disponibile, la poetica viene sostituita dal pragmatismo.<br />

In questo modo si arresta pericolosamente lo sviluppo<br />

<strong>del</strong> discorso architettonico, riconducendolo alla razionalizzazio-


172 IAIN CHAMBERS<br />

ne egemonica <strong>del</strong>l’oggettivazione soggettiva <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>. Ma se<br />

l’architettura riguarda la narrazione <strong>del</strong>la tradizione e <strong>del</strong> luogo,<br />

o <strong>del</strong> tempo e <strong>del</strong>lo spazio, e se è contigua all’iscrizione e alla<br />

scrittura in corso <strong>del</strong>la terra, allora non può mai semplicemente<br />

instaurare una relazione “organica” con ciò che sorge dal terreno<br />

locale <strong>del</strong>la cultura europea. La cultura stessa è storicamente<br />

una formazione ibrida e transitoria che prende a prestito e modifica<br />

stili e soluzioni che sono stati imposti, importati, imprestati,<br />

assemblati, adottati e adattati. In questo sganciamento dalla<br />

prospettiva rigida e omogenea <strong>del</strong>l’umanesimo, all’architettura<br />

si richiede di rispondere a ritmi differenziati e a storie che<br />

complicano e confondono i suoi desideri di costruzione.<br />

Ma può bastare il riorientamento generale? La risposta è chiaramente<br />

no, perché inevitabilmente mi porta a mettere in discussione<br />

il desiderio di un insediamento che inevitabilmente trasforma<br />

il luogo nell’ambiente di un’acuta xenofobia quando l’idea di<br />

domus si traduce in quella di dominio. Ecco che emerge il compito<br />

intellettuale, politico di identificazioni che si spostino dal chiuso<br />

ossario storicista di rivendicazioni ancestrali verso un linguaggio<br />

ben più incerto e aperto di siti, traduzioni, transiti e percorsi.<br />

Si vuole auspicare una trasposizione dall’insistenza violenta <strong>del</strong>le<br />

fondamenta alla transizione che accompagna una migrazione di<br />

corpi e storie, e alla consacrazione <strong>del</strong>l’abitazione provvisoria colta<br />

nella cuspide di una perenne ri-collocazione.<br />

Questo tipo di calcoli, ovviamente, non può essere incorporato<br />

in modo immediato. L’atto <strong>del</strong>l’architettura è sempre un problema,<br />

una provocazione: interrompe radicalmente, o più modestamente,<br />

ricontestualizza un luogo già esistente. Anche se si potessero<br />

accantonare gli imperativi <strong>del</strong> capitale e <strong>del</strong> mercato <strong>del</strong>la<br />

proprietà globale, l’architettura non può comunque ritirarsi dal<br />

suo compito. Però la consapevolezza che essa incarna anche qualcosa<br />

che va al di là dei suoi calcoli, qualcosa che esemplifica ed<br />

espone quella condizione supplementare, e che quindi oltrepassa<br />

sempre le tecniche più ovvie <strong>del</strong> design <strong>del</strong>l’ingegneria e <strong>del</strong>la pianificazione,<br />

significa paradossalmente insistere sui suoi limiti. Perché<br />

l’architettura avviene sempre in un luogo, mai in uno spazio<br />

vuoto. Lo spazio <strong>del</strong>l’architettura è sempre iscritto, situato, compreso<br />

e costruito, mai vuoto e innocente. È già il sito di qualcuno,<br />

di qualche essere. L’architettura costruisce sempre su terreno


ARCHITETTURA, AMNESIA E IL RITORNO DELL’ARCAICO 173<br />

frantumato, instabile. Questo significa intersecare l’arte <strong>del</strong>la costruzione<br />

razionale (la volontà di costruire un edificio: la metafisica<br />

<strong>del</strong>la costruzione e la costruzione <strong>del</strong>la metafisica) con l’intercessione<br />

e la salvaguardia <strong>del</strong>la questione <strong>del</strong> nostro essere differenziato<br />

nel <strong>mondo</strong>. Ci sono forze all’interno dei linguaggi <strong>del</strong>l’essere,<br />

<strong>del</strong> costruire e <strong>del</strong> pensare che interrompono, irrompono e<br />

vanno al di là <strong>del</strong>l’imposizione violenta di soluzioni tecniche,<br />

“scientifiche”, “razionali” e unilaterali all’antica e alla più presente<br />

<strong>del</strong>le necessità: la domanda in fieri di come abitare.


Capitolo sesto<br />

Estraneo in casa<br />

Vorrei cominciare trattando un problema che, in un modo o<br />

nell’altro, ci riguarda tutti, tanto nella nostra attività intellettuale<br />

quanto nella vita quotidiana: forse la sovranità nazionale non si sta<br />

sgretolando in quel modo così spettacolare previsto dai profeti <strong>del</strong><br />

capitale trans-globale e <strong>del</strong> flusso di informazioni. Né tantomeno<br />

si sta sfaldando per lasciare il posto a un senso d’identità trans-nazionale.<br />

I curdi, i baschi, i palestinesi, i tibetani, reclamano tutti<br />

quanti il loro diritto all’autogoverno. Si scopre che “la nazione è<br />

sempre una realtà in divenire, piuttosto che una realtà già consolidata”<br />

(Hage 1996, p. 477). Per quanto già istituita, pare sempre<br />

che la nazione stia sempre a un passo dal compimento, ma senza<br />

mai arrivarci <strong>del</strong> tutto (p. 478) 1 . Di certo, come ha asserito Arjun<br />

Appadurai (1996), i media e l’emigrazione dei nostri tempi hanno<br />

alterato profondamente sia l’immaginazione pubblica che quella<br />

privata, in ogni luogo, modificando profondamente gli orizzonti<br />

potenziali <strong>del</strong>l’identità. Eppure, in un <strong>mondo</strong> in cui la volontà di<br />

combattere, uccidere, e persino di morire per un’astrazione chiamata<br />

“patria” o “nazione”, è spesso indissolubilmente legata a una<br />

precisa appartenenza etnica o fede religiosa, le forze complesse<br />

che configurano sostanzialmente il senso <strong>del</strong>l’appartenenza e <strong>del</strong>la<br />

“casa” rimangono prepotentemente al loro posto. Continua a esistere<br />

una vicinanza inquietante e, come osserva Ghassan Hage,<br />

persino un “immaginario nazionalista strutturato in maniera simile”<br />

che accomuna le identità etniche, spesso costituite come “na-<br />

1 Qui Hage commenta Z ˇ izˇek, definendo la nazione come una fantasia lacanica, come<br />

qualcosa su cui si deve sempre lavorare.


176 IAIN CHAMBERS<br />

zioni” e “pulizia etnica”. In altre parole, c’è una vicinanza inquietante<br />

tra apparentamento e sterminio (Hage 1996, p. 466).<br />

Il mistero <strong>del</strong>la casa<br />

Il mistero <strong>del</strong> senso di appartenenza depositato nel desiderio,<br />

nella necessità di far parte di un’unità storica, sociale e culturale<br />

cui ci si riferisce come “casa” o “patria”, malgrado le teorie ottimistiche<br />

elaborate sul nomadismo e sul divenire rizomatico, stenta a<br />

scomparire. Come si è già rilevato, la casa in quanto domus è etimologicamente<br />

affine a dominus: dominio (Benveniste 1973, citato<br />

in Hage 1996, p. 473). La casa è il luogo in cui è possibile dominare<br />

e addomesticare, governare e articolare le cose e le relazioni, i<br />

materiali e i corpi, la fantasia e la realtà. Eppure, siamo tutti ben<br />

consapevoli di quanto sia alto il prezzo che l’umanità paga per<br />

questo desiderio: dall’ostracismo sociale, lo sfruttamento economico<br />

e la discriminazione razziale alla guerra, l’eliminazione fisica e,<br />

perfino, il genocidio pianificato e industrializzato. Non siamo nella<br />

posizione per risolvere questo mistero, il quale chiaramente va al<br />

di là <strong>del</strong>le nostre capacità di raziocinio. Questo significa che lo stato<br />

“irragionevole” <strong>del</strong>la nazione e <strong>del</strong> nazionalismo è irrazionale?<br />

Oppure esprime una disposizione di sentimenti con cui potremmo<br />

imparare a convivere diversamente? 1 .<br />

Una volta Alejandro Morales, romanziere chicano, mi ha domandato:<br />

dove finisce l’esilio e ha inizio la migrazione?”. Chiaramente<br />

questa matura alla luce di quello, ma fluttuare tra i due<br />

termini forse rende possibile focalizzarsi meglio sullo spostamento<br />

politico e ontologico dal restare nelle ombre lunghe di<br />

una patria che si è stati costretti ad abbandonare e il sopravvivere<br />

nei complessi meandri di un paese ospitante che sta anche diventando<br />

casa tua.<br />

Il passaggio dall’esilio alla migrazione, per quanto inevitabilmente<br />

sfumato, implica il movimento dalle certezze perdute <strong>del</strong>la casa precedente<br />

che devono essere preservate dalla dispersione <strong>del</strong> viaggio,<br />

all’assai più ambigua e incerta sistemazione <strong>del</strong> nuovo habitat; questo<br />

perché se anche chi emigra si aggrappa ancora a una comunità im-<br />

1 Per una discussione su questa tematica, si veda Rose 1996.


ESTRANEO IN CASA 177<br />

maginaria, si tratta di una comunità ancora legata alle trasformazioni<br />

<strong>del</strong>la sua cultura, <strong>del</strong>la tradizione, <strong>del</strong> linguaggio, persino dei riti e<br />

dei miti religiosi, nello spazio traslato in cui sia essa che la comunità<br />

ospitante subiscono una trasformazione. In questo contesto, raccontare<br />

la nazione significa anche narrare un’ulteriore storia e applicare<br />

ulteriori interrogativi nel mosaico <strong>del</strong>l’identità individuale e comune.<br />

Al di là <strong>del</strong>le distinzioni fenomenologiche che si potrebbe essere tentati<br />

di <strong>del</strong>ineare cercando di localizzare la differenza tra esilio e migrazione,<br />

vorrei considerare la tematica <strong>del</strong>l’esilio, <strong>del</strong>la migrazione e<br />

<strong>del</strong>lo straniero come argomento che riguarda la comprensione stessa<br />

<strong>del</strong>la modernità occidentale: il suo senso <strong>del</strong>la storia, <strong>del</strong>la cultura,<br />

<strong>del</strong> luogo e <strong>del</strong>l’identità. Significa trarre, dai presunti margini <strong>del</strong>la<br />

modernità, la testimonianza insistente <strong>del</strong>lo spostamento coatto di<br />

genti e culture, che si segnala nella maniera più drammatica nell’instaurazione<br />

violenta, e nella successiva interazione, di schiavitù a<br />

sfondo razzista, capitalismo, nazionalismi moderni e genocidio.<br />

Le economie atlantiche e i rampanti Stati nazionali europei inizialmente<br />

venivano sostentati dal commercio degli schiavi africani.<br />

L’attività <strong>del</strong> colonialismo a livello mondiale che ne conseguì spaziava<br />

da episodi metropolitani come lo svuotamento <strong>del</strong>le Highlands<br />

scozzesi operata nel diciottesimo secolo alla deportazione dei galeotti<br />

verso remote colonie penali, alle migrazioni di massa <strong>del</strong> secolo<br />

successivo, originate dalla povertà rurale <strong>del</strong>l’Europa meridionale,<br />

<strong>del</strong>l’India e <strong>del</strong>la Cina. Tutto questo costituisce una traiettoria che<br />

svolge un ruolo cruciale nella dominazione sistematica che conduce<br />

ai pogrom, al genocidio e al tentativo di sradicare intere popolazioni<br />

dal cuore <strong>del</strong>le Americhe, <strong>del</strong>l’Europa centrale, <strong>del</strong>l’Australia e di altre<br />

regioni. Nel complesso miscuglio di storie inter-etniche e intersubalterne,<br />

il problema di chi sia l’estraneo nella composizione assilla<br />

ogni revisione storica e politica. Gli scozzesi <strong>del</strong>le Highlands che,<br />

espulsi dalle loro case e stabilitisi in altre zone di altri continenti<br />

(America settentrionale, Australia, Nuova Zelanda) espellono altri<br />

dalle loro case, contribuiscono alla subalternità storica che semplicemente<br />

non è uguale per tutti 1 . Il colono bianco, a prescindere da<br />

1 Si veda al riguardo il lucido resoconto <strong>del</strong>la mostra da lui stesso curata, “River Deep<br />

Mountain High: Then and Now – A Story of Cultural Collision using Native American<br />

sources, Commentary from the Highlands of Scotland and Artists from Both Sides of the<br />

Atlantic”, Inverness Museum e Art Gallery (luglio-agosto 1997), in Amery 1997.


178 IAIN CHAMBERS<br />

quanto sia povero e sfruttato, rimane sistematicamente un usurpatore.<br />

La catena <strong>del</strong> dislocamento globale inaugurata dall’imperialismo<br />

moderno è complessa e codificata, producendo subalternità che sono<br />

allo stesso tempo collegate eppure spesso incommensurabili.<br />

Oggi queste storie multiple, represse e ineguali ritornano per<br />

dislocare radicalmente le pretese unilaterali di possedere un linguaggio,<br />

una cultura, una storia, una città, una nazione, una “casa”,<br />

abitando e strutturando diversamente questi linguaggi, raccontando<br />

la modernità con un altro lessico in un’altra chiave.<br />

L’“indigeno” sterminato, l’“esule” bandito, lo “straniero” disprezzato<br />

ritorna continuamente per infestare la modernità e la<br />

confortante protezione <strong>del</strong>la stabilità e <strong>del</strong>la continuiità. Ma non<br />

semplicemente per proporre la disseminazione e la disperzione<br />

<strong>del</strong>la grammatica euroamericana <strong>del</strong> potere da parte <strong>del</strong> subalterno<br />

e di chi prima era escluso; ma, soprattutto, e più precisamente,<br />

per chiedere con insistenza l’interruzione <strong>del</strong>la pretesa <strong>del</strong>la privativa<br />

storica e culturale e <strong>del</strong> “progresso” (chi ha costruito questa<br />

casa, e di chi è questa casa?); un interruzione che mi costringa<br />

a riflettere su come non ci sia storia, cultura o identità che sia immune<br />

dall’esposizione alla risposta e alla responsabilità <strong>del</strong>l’interrogativo<br />

che scaturisce dalla presenza <strong>del</strong>l’estraneo, dalla vicinanza<br />

<strong>del</strong>l’altro. Come ci ha ricordato Johannes Fabian (1999), nell’incontro<br />

con l’alterità, lo sforzo di mantenere una distanza gerarchica<br />

impedisce di ricordare da dove veniamo: una casa ibrida,<br />

infestata da riti storici, pregiudizi <strong>culturali</strong> e superstizioni sociali.<br />

Per citare il suggestivo lavoro di Paul Carter (1996) intitolato<br />

The Lie of the Land, questa prospettiva potrebbe implicare un’inversione<br />

o un rovesciamento <strong>del</strong>le connotazioni generalmente negative<br />

<strong>del</strong>la migrazione e <strong>del</strong>l’esilio, perché la migrazione e l’esilio<br />

vengono immancabilmente considerati eccentrici, indice di impoverimento<br />

culturale. Questo verdetto, asserisce Carter, deriva da:<br />

un programma politico, dalle ambizioni centraliste <strong>del</strong>la polis ateniese<br />

e dai suoi apologisti. La sfida, quantomeno per la poetica postcoloniale,<br />

è vedere in che modo la migrazione potrebbe comportare<br />

una forma di collocazione, potrebbe essere effettivamente costituzionale<br />

e rappresentare una modalità <strong>del</strong> sentirsi a casa nel <strong>mondo</strong>. La<br />

storia <strong>del</strong>la cultura occidentale si limita a una sequenza di recinzioni<br />

scientifiche e tecnologiche sempre più astratte che progressivamente


ESTRANEO IN CASA 179<br />

ci separano dal contatto col suolo e che caratterizzano il moto fisico<br />

come primitivo? Oppure c’è, all’interno di quella sequenza, una controtradizione,<br />

una modalità <strong>del</strong>l’errare che segna il terreno? Pallade<br />

Atena potrà mai prendere il controllo <strong>del</strong>la tempesta? (p. 336).<br />

In questa prospettiva sbalzata, l’oggetto <strong>del</strong> mio sguardo, l’oggetto<br />

<strong>del</strong> mio linguaggio, l’estraneo silenzioso, l’emigrante muto,<br />

diviene un soggetto storico, che non solo risponde e quindi non<br />

esiste limitatamente al mio discorso, alle mie parole e al mio <strong>mondo</strong>,<br />

ma offre altresì un significato che non mi appartiene necessariamente,<br />

e nemmeno riconosce le mie pretese sul suo senso. In<br />

questa ricusazione <strong>del</strong>la distinzione soggetto-oggetto, avviene sia<br />

che la padronanza <strong>del</strong> linguaggio venga messa in discussione, sia<br />

che la distanza critica, che fornisce ospitalità alla mia sicurezza<br />

ontologica, si disperda e si elimini. Se si scopre che il <strong>mondo</strong> che<br />

nomino non mi appartiene, non soggiace al mio controllo, allora<br />

il movimento da casa e dall’ambiente domestico verso un ambiente<br />

estraneo in cui, come dice Edmond Jabès, viaggio ora come<br />

ospite, non dipende dalla mia volontà, bensì dall’ospitalità <strong>del</strong> linguaggio.<br />

Questo altro luogo, questa alterità, non è soggetta ai miei<br />

imperativi, non mi nutre e non alimenta il mio ego. Non fornisce<br />

più la strada per fare ritorno attraverso l’altro. Sostiene Emmanuel<br />

Lévinas (1961, p. 37)<br />

Né il possesso né l’unità <strong>del</strong> piano, né l’unità <strong>del</strong> concetto, possono<br />

legarmi allo Straniero [l’Étranger] (…) lo Straniero che viene a turbare<br />

la mia casa [le chez soi]. Ma Straniero significa anche il libero.<br />

Su di lui non posso potere. Sfugge alla mia presa per un fatto essenziale,<br />

anche se dispongo di lui. Non è interamente nel mio luogo.<br />

Il problema <strong>del</strong>l’altro è sempre il problema <strong>del</strong>l’estraneo, <strong>del</strong>l’outsider,<br />

di chi viene da un altro luogo e inevitabilmente reca il<br />

messaggio di un movimento che minaccia di perturbare la stabilità<br />

<strong>del</strong>l’ambiente domestico. Ciò che cerchiamo di tenere a debita<br />

distanza viene reso vicino, l’esterno (per il quale in passato si<br />

costruivano le mura, e oggi si emanano le leggi) diviene interno,<br />

ineluttabile. Nello scambio ontologico, il mio senso <strong>del</strong>l’essenza si<br />

ritrova ad affrontare un interrogativo, viene reso vulnerabile. Riconoscere<br />

questo stato invece che negarlo, sottometterlo o annientarlo<br />

significa porre non soltanto il problema <strong>del</strong>la tolleranza


180 IAIN CHAMBERS<br />

liberale e <strong>del</strong>la coesistenza pluralista, ma anche un interrogativo<br />

profondo e perenne. Sempre Emmanuel Lévinas aggiunge:<br />

La relazione etica, che sottende il discorso, non è infatti una varietà<br />

<strong>del</strong>la coscienza che si irradia dall’Io. Essa mette in questione l’io.<br />

Questa messa in questione parte dall’altro (p. 201).<br />

Nel viaggio nel futuro, si rivela determinante anche il viaggio a<br />

ritroso, verso il focolare. Il passaggio tra passato e futuro si accompagna<br />

sempre alla ricerca <strong>del</strong>la conferma di casa. Per alcuni si<br />

tratta di un punto di riferimento saldo, di una stabilità rassicurante<br />

rappresentata in termini economici, sociali e storici, per altri è<br />

spesso un’immagine fragile, sbiadita e spesso strappata, nutrita<br />

più dal barlume immaginario <strong>del</strong>la memoria che dall’immediatezza<br />

<strong>del</strong>la conferma materiale. In questo intervallo tra la casa che mi<br />

invita ad andare avanti e quella che mi richiama indietro, emerge<br />

la forza di attrazione multipla <strong>del</strong> tempo, un tempo che non è<br />

semplicemente lineare e progressivo. Se il tempo, come osserva<br />

Akhil Gupta (1994), viene considerato immancabilmente un bene<br />

di consumo, allora il tempo di alcuni viene necessariamente considerato<br />

più ricco e potente <strong>del</strong> tempo di altri.<br />

Contro l’enfasi occidentale posta sul tempo lineare, che misura<br />

assiduamente lo sviluppo e il sottosviluppo sulla scia <strong>del</strong><br />

“progresso”, c’è il tempo <strong>del</strong>la migrazione, e la migrazione <strong>del</strong><br />

tempo da una modalità unica di misura (Bhabha 1994). È mediante<br />

la ricombinazione multipla <strong>del</strong> tempo, Salman Rushdie ci<br />

ricorda nei Versi Satanici (1988), che la novità emerge nel <strong>mondo</strong>.<br />

Il concorso di ritmi differenti nell’ambito <strong>del</strong>la modernità<br />

deforma, svia e distorce la sua unilateralità. Dimensioni diverse<br />

perturbano e interrompono la temporalità produttiva <strong>del</strong>l’accumulo<br />

misurato, lineare. Nella giustizia <strong>del</strong>la differenziazione, il<br />

tempo vissuto <strong>del</strong>la modernità va al di là <strong>del</strong>la singolarità parziale<br />

e astratta <strong>del</strong> “progresso” (Gupta 1994, pp. 172-175). Ciò<br />

perturba, pone in discussione e porta<br />

via il terreno su cui si sono storicamente costruite le distinzioni nella<br />

narrazione occidentale <strong>del</strong> progresso, le distinzioni che continuano a<br />

giustificare, sotto le mentite spoglie <strong>del</strong>lo “sviluppo”, la subordinazione<br />

e la gestione <strong>del</strong> “terzo <strong>mondo</strong>” di oggi (p. 179).


ESTRANEO IN CASA 181<br />

Se l’Occidente è diventato il <strong>mondo</strong>, in questo processo ha<br />

anche subito uno spostamento. Se i suoi linguaggi, le sue tecnologie<br />

e tecniche ormai abbracciano tutta la terra e forniscono il<br />

senso contemporaneo <strong>del</strong>l’abitare, la sua storia e i suoi poteri<br />

vengono vissuti da altri che vi esprimono le loro storie, identità,<br />

ragioni. Il mio (ego)centro viene interrotto, perché qui, quali<br />

che siano i miei desideri, sono costretto ad affrontare, nel linguaggio<br />

stesso che presumo di possedere, l’incommensurabile,<br />

l’intraducibile, il cuore di un’essenza che rifiuta di essere ricondotta<br />

a una misura comune; ossia, alla mia misura e alla mia<br />

concezione <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>.<br />

A prescindere da quando e dove lo si nomini, emerge il legame<br />

represso che rende la “casa” possibile per alcuni, impossibile per<br />

altri. Viaggiando tra l’alloggio e la condizione di senza tetto, le categorie<br />

stesse con cui generalmente si costruisce la “casa” (la tradizione,<br />

il linguaggio, il costume, l’affinità) fanno i conti con altre<br />

versioni inattese. Quando le coordinate di un luogo e di una storia<br />

particolari (quelli <strong>del</strong>l’Occidente) si disseminano per il <strong>mondo</strong>, allora<br />

la particolare connotazione locale <strong>del</strong>la tradizione e <strong>del</strong>la lingua<br />

si ritrova in un viaggio interminabile. Qui, nel transito e nella<br />

traduzione, la natura stessa <strong>del</strong> luogo e <strong>del</strong>la casa subisce una mutazione<br />

irreversibile. Il vicino, ciò che si trova a portata di mano<br />

nella costruzione <strong>del</strong>la mia casa e <strong>del</strong> senso di me stesso, non può<br />

più essere legato al sangue, al suolo, e all’orizzonte chiuso <strong>del</strong>l’immediato<br />

e <strong>del</strong> locale. Il mito <strong>del</strong>le “origini” pure si fonde ormai<br />

con altri, proiettando osservazioni sull’appartenenza (a cosa? dove?<br />

come?) verso l’esterno, in uno spazio vulnerabile. Il tempo e la<br />

tradizione di un’economia culturale locale sono scalfiti da una serie<br />

di interrogativi che toccano tutti, ma proprio tutti i luoghi.<br />

Sono nato tra due onde<br />

e la mia pelle diventa<br />

ancora più scivolosa.<br />

Così scrive il poeta iraniano emigrato Majid Nafici (1996, p.<br />

199). Quando il <strong>mondo</strong> si comprime e il remoto si congiunge al<br />

vicino, il non domestico al domestico, si scatena la repressione<br />

che perseguita e infrange ogni rappresentazione <strong>del</strong>la casa, <strong>del</strong>la<br />

cultura e <strong>del</strong> sé.


182 IAIN CHAMBERS<br />

Nel disfarsi <strong>del</strong> mito <strong>del</strong>la casa, in cui il viaggio conferma<br />

sempre il punto di partenza fissato dall’illusione che alla fine si<br />

tornerà a casa, l’archetipo occidentale di Ulisse viene dirottato e<br />

mandato alla deriva. Il senso greco e omerico di “casa”, esaminato<br />

da Horkheimer e Adorno (1947) nella loro famosa analisi <strong>del</strong>l’Illuminismo,<br />

non fornisce solamente l’ovvia rassicurazione <strong>del</strong>la<br />

familiarità, ma anche la formazione culturale e il sostegno psicologico<br />

che strutturano la conseguente ragione <strong>del</strong>l’ego. Armato<br />

di certezza domestica, l’individuo è in grado di avventurarsi nel<br />

<strong>mondo</strong>, di affrontare tormenti e vicissitudini, indagarne le manifestazioni<br />

e tornare a casa con la conoscenza che ha guadagnato,<br />

perché:<br />

le avventure dànno a ciascun luogo il suo nome; e il loro risultato è il<br />

controllo razionale <strong>del</strong>lo spazio. Il naufrago tremebondo anticipa il<br />

lavoro <strong>del</strong>la bussola. La sua impotenza, a cui nessun posto <strong>del</strong> mare è<br />

più ignoto, tende insieme a destituire le potenze (Horkheimer, Adorno<br />

1947, p. 55) 1 .<br />

Una coscienza centrata nell’Io, una ragione tesa al controllo: un<br />

uomo solo traccia la rotta verso casa. La casa, per lui, non è necessariamente<br />

un rifugio o un riparo fisico; è la casa <strong>del</strong>la conoscenza<br />

la cui forza propulsiva gli promette l’accesso a ciò che deve conoscere,<br />

scoprire e assimilare.<br />

Ciò che intendo è che un viaggio <strong>del</strong> genere (in cui la ragione<br />

autonoma e patriarcale percorre un tragitto attraverso il <strong>mondo</strong>,<br />

immemore <strong>del</strong>la voce e <strong>del</strong>le storie degli altri, rifiutando, per dirla<br />

con Paul Carter “di cedere l’autorità a qualcosa di diverso dalla<br />

propria rappresentazione”) oggi è intellettualmente impossibile:<br />

al termine <strong>del</strong> viaggio non si fa ritorno a casa, non c’è un’Itaca<br />

che aspetta, non c’è Penelope, il viaggio non ha fine (Carter 1996,<br />

p. 309). La prospettiva di addomesticare il <strong>mondo</strong> al fine di confermare<br />

la struttura e l’avarizia <strong>del</strong>l’ego è interrotta per sempre.<br />

Il <strong>mondo</strong>, il senso <strong>del</strong> luogo e <strong>del</strong>l’appartenenza, <strong>del</strong> domestico<br />

e <strong>del</strong>l’estraneo, <strong>del</strong>la stessa modernità occidentale, viene riconfigurato<br />

in modo irreversibile. Il momento di sconcerto indotto<br />

1 Ho lasciato la trattazione <strong>del</strong>la figura cruciale di Ulisse al capitolo seguente.


ESTRANEO IN CASA 183<br />

dal primo contatto e dall’asservimento di altre storie alla teleologia<br />

<strong>del</strong>l’Occidente ritorna a infestare la casa <strong>del</strong>la conoscenza e gli<br />

assetti politici e psicologici che pretende di avere fissato. L’esperienza<br />

perturbante <strong>del</strong>la modernità non è più una sensazione empirica<br />

periferica o transitoria. Di certo non lo è mai stata. La messa<br />

in questione è fondamentale sia per la riproduzione economica<br />

e sociale <strong>del</strong>la modernità sia per le resistenze che diffonde. Significa<br />

abitare una formazione storica differenziata ma condivisa che<br />

rielabora e riprogramma radicalmente il nostro senso <strong>del</strong>l’essere<br />

al <strong>mondo</strong>. Ecco che il riconoscimento <strong>del</strong>la problematicità e <strong>del</strong>la<br />

dislocazione non è costituito unicamente da una sensazione heideggeriana<br />

di non avere una casa, indotta dall’oblio tecnico e<br />

strumentale <strong>del</strong>le modalità <strong>del</strong>l’essere, ma trova anche e più precisamente<br />

espressione nel senso <strong>del</strong>la casa che si costruisce nelle<br />

coordinate temporali <strong>del</strong>le storie incerte e che rendono incerti.<br />

Spesso sottovalutate e più in generale represse nell’acquisizione<br />

<strong>del</strong> benessere locale, sono queste coordinate che costituiscono in<br />

maniera più profonda la nostra precaria dimora nel <strong>mondo</strong>. Proprio<br />

la consapevolezza di una siffatta cognizione non può più essere<br />

negata con facilità.<br />

Il trauma <strong>del</strong>la traduzione<br />

Sia l’essere estraneo, migrante, che un profondo senso di appartenenza<br />

dipendono dalla definizione di luogo. Ci sono sia il<br />

luogo in cui l’esiliato, l’emigrante si presenta come estraneo sia il<br />

luogo o la “casa” che si lascia alle spalle. Affrontare questo problema,<br />

come asserisce l’antropologo urbano messicano Néstor<br />

García Canalini (1995) nel suo libro intitolato Hybrid Cultures:<br />

Strategies for Entering and Leaving Modernity, significa confrontarsi<br />

con qualcosa di più radicale e di portata maggiore <strong>del</strong> multi<strong>culturali</strong>smo<br />

e <strong>del</strong>la politica <strong>del</strong>l’identità. Non si tratta semplicemente<br />

di riconoscere, in ritardo, il corpo precedentemente negato<br />

<strong>del</strong>la storia, la storia di corpi negati, in una narrazione nazionalista<br />

ora intenta a ospitare la diversità. Questo perché al di là<br />

<strong>del</strong>la risposta immediata che può offrire temporaneamente ospitalità<br />

all’alterità, una risposta più adeguata e meno episodica alla<br />

questione <strong>del</strong>l’esilio, <strong>del</strong>la migrazione e <strong>del</strong> dislocamento può


184 IAIN CHAMBERS<br />

emergere senza dubbio solo dalla cosiderazione <strong>del</strong> terreno stesso<br />

evocato dal luogo: il luogo precedente da cui proviene l’emigrante<br />

e il luogo presente che ospita il corpo <strong>del</strong>l’emigrata, la<br />

storia <strong>del</strong>l’esiliato, la loro cultura. Nel movimento attraverso i<br />

vettori economici e politici <strong>del</strong>la modernità, è la concezione diversa<br />

<strong>del</strong> tempo e <strong>del</strong> luogo, al pari di passaporti e permessi di<br />

lavoro, accento e religione, che identifica l’emigrante, l’estraneo<br />

che “si integra” o meno.<br />

Il passaggio <strong>del</strong>la migrazione comporta il trauma di essere tradotto<br />

in un oggetto. Questo trova forzatamente conferma nell’essere<br />

successivamente posto ai margini, in una posizione “minoritaria”,<br />

in quanto migrante: l’estraneo la cui presenza riconferma<br />

la non posizionalità, il movimento liberale di chi abita il centro<br />

nazionale, la principale corrente politica, il consenso culturale. Se,<br />

per definizione, l’emigrato, il migrante e l’estraneo evocano uno<br />

spazio liminale, la loro presenza ha anche la conseguenza compensatoria<br />

di relegare la “casa”, la sensazione di luogo e di appartenenza,<br />

in un particolare luogo storico e ontologico. L’arrivo <strong>del</strong>l’estraneo<br />

genera un confine, una frontiera, sia immaginari che effettivi.<br />

I limiti imposti, le barriere erette, non creano solamente<br />

l’estraneo, che resta fuori: costruiscono, limitano e definiscono la<br />

natura stessa di ciò che sta “dentro”.<br />

Pertanto, mi sembra importante esaminare come si colloca il<br />

luogo sul terreno, come viene costruito e concepito. Tali elementi<br />

potrebbero contribuire a fornire una risposta e un linguaggio in<br />

cui considerare l’esilio e la migrazione, l’arrivo <strong>del</strong>lo straniero.<br />

Vorrebbe dire pensare non in termini di minaccia di fronte alla<br />

quale cerco un riparo immediato, bensì di una risposta improcrastinabile<br />

nei confronti <strong>del</strong>le storie represse che mi consentono di<br />

sentirmi al sicuro mentre mantengo il mio terreno definendo ed<br />

escludendo l’altro.<br />

Il luogo. La cosa più ovvia parlando <strong>del</strong> luogo in compagnia<br />

di stranieri è di riferirsi al suo nome in un linguaggio e una storia<br />

inevitabilmente istituzionalizzati nella grammatica culturale<br />

nevrotica <strong>del</strong>la nazionalità. Il senso moderno <strong>del</strong> luogo, per<br />

quanto rechi ancora i segni di concezioni arcaiche (villaggio,<br />

dialetto locale, città o regione) trova la sua premessa, sia per l’estraneo<br />

che per chi lo ospita, nella nomenclatura nazionale. I<br />

particolari degli abiti, nella lingua, <strong>del</strong>l’accento, <strong>del</strong> cibo, <strong>del</strong>la


ESTRANEO IN CASA 185<br />

religione e <strong>del</strong>le tradizioni trovano un riscontro in questo senso<br />

d’appartenenza. Tuttavia, sappiamo che spesso si tratta di<br />

un’approssimazione, talvolta di una lettura erronea. Molti di<br />

questi particolari precedono il moderno stato nazionale e, per<br />

quanto siano stati smussati per rispettare i requisiti <strong>del</strong>l’identità<br />

nazionale, inevitabilmente debordano da quella limitata cornice<br />

pedagogica. Lo spagnolo non appartiene alla Spagna, come l’Islam<br />

non appartiene all’Iran, né l’inglese è prerogativa <strong>del</strong>l’Inghilterra.<br />

Pertanto, quando si nomina la propria identità, si accetta<br />

e allo stesso tempo si rifiuta una storia di appartenenza<br />

omogenea e nazionale. La grammatica prescrittiva <strong>del</strong> nazionalismo<br />

che tenta, sia a casa che all’estero, di contenere la potenziale<br />

eterogeneità e di appianare la contestazione in nome <strong>del</strong> consenso<br />

pubblico, è potenzialmente superata e sfidata nell’idioletto<br />

che parla di appartenenza individuale 1 .<br />

Ma di quale “luogo” sto parlando? Quello <strong>del</strong>l’emigrante,<br />

<strong>del</strong>lo straniero, o quello <strong>del</strong>l’indigeno, <strong>del</strong> locale, <strong>del</strong> padrone di<br />

casa? Il senso di terreno che si propone qui, non l’astratta unità<br />

<strong>del</strong> tempo lineare e <strong>del</strong>lo spazio vuoto occupato dalla “nazione”,<br />

ma il terreno aspro, sconnesso, resistente e sregolato <strong>del</strong> quotidiano<br />

in cui la storia lascia tracce, proposte e direzioni multiple<br />

e aggrovigliate, non investe forse sia il luogo <strong>del</strong>l’estraneo che il<br />

luogo <strong>del</strong> residente? Queste osservazioni perturbano il tempo<br />

omogeneo di un’identità nazionale unica, deviando il tracciato<br />

lineare <strong>del</strong>la freccia <strong>del</strong> “progresso”, facendo un passo lateralmente<br />

nei multipli luoghi <strong>del</strong>la temporalità coeva e nelle storie<br />

che ci collocano in una collettività variegata. Qui l’aborigeno<br />

australiano, il chicano di città e l’inglese che abita in periferia<br />

occupano un <strong>mondo</strong> condiviso, anche se asimmetrico. Tutti e<br />

tre rientrano nella modernità senza essere riducibili alla narrazione<br />

unitaria che la modernità spesso finge di offrire.<br />

Tuttavia, anche questo senso <strong>del</strong> territorio che rifiuta la cornice<br />

nazionale e mette in discussione la presunta posizione tanto <strong>del</strong>l’emigrante<br />

che <strong>del</strong> residente è soltanto il primo capitolo di una contronarrazione<br />

che promette di riscrivere la comprensione stessa<br />

<strong>del</strong> terreno, <strong>del</strong> luogo e <strong>del</strong>l’identità. Al movimento laterale che<br />

rende multipla la modernità ed eterotopico il <strong>mondo</strong>, occorre ag-<br />

1 Una brillante e pregnante versione di questa argomentazione si trova in Ang 1994.


186 IAIN CHAMBERS<br />

giungere un ritorno in cui le narrazioni privilegiate <strong>del</strong>la modernità<br />

schiudono una formazione ibrida. La migrazione, inevitabilmente<br />

rafforzata dalla schiavitù, dall’imperialismo, dal colonialismo,<br />

dal dominio tecnologico, dall’egemonia economica e politica,<br />

è sempre stata presente come elemento costitutivo <strong>del</strong>la modernità<br />

occidentale fin dalla sua origine, cinque secoli fa (Gilroy 1993a).<br />

Antropologizzare l’antropologo<br />

A questo punto, il problema si manifesta non tanto nello spazio<br />

<strong>del</strong>la congiunzione, nell’“e” posto tra “casa” e ibrido, tra ambiente<br />

domestico e migrazione, tra il “residente” e l’“estraneo”,<br />

bensì nello sforzo di imparare a vivere nell’ibridità come se fosse<br />

casa. Qui viene meno la scelta tra il domestico e la diaspora, si ha<br />

piuttosto la possibilità di occupare un ulteriore spazio in cui familiare<br />

ed estraneo si coniugano e si interrogano scambievolmente.<br />

Qui forse esito di più nel pronunciarmi su dove finisca il domestico<br />

e dove cominci l’estraneo. Qui i lucidi verdetti di “globalizzazione”<br />

vengono deviati e travasati nelle assai più complesse<br />

incertezze di un “mondeggiamento” che è materiale e immaginario,<br />

politico e poetico.<br />

Quanto detto cozza, nella maniera più ovvia, con un’interpretazione<br />

cosmopolita superficiale localizzando le storie e le identità<br />

in una posizione che al contempo ci sorregge e va al di là di<br />

noi; in una cornice terrena che sfugge alla logica <strong>del</strong>la spiegazione<br />

ovvia e alla trasparenza riduttiva… Qui la storia <strong>del</strong>la casa/nazione,<br />

concepita in termini nazionali e nazionalisti, viene intersecata<br />

dal problema <strong>del</strong>l’abitazione. Intrappolati in queste coordinate,<br />

i linguaggi <strong>del</strong>l’identità e <strong>del</strong>la nazione vengono collocati<br />

entro confini che ne limitano le pretese sul <strong>mondo</strong>. Tra questi<br />

linguaggi, primario è il mezzo metropolitano dei mass media: la<br />

stampa, la radio, il cinema e la televisione. Proprio questi media<br />

consentono e avvalorano la base astratta <strong>del</strong> “luogo” nella narrazione<br />

<strong>del</strong>la “collettività immaginata” <strong>del</strong>la nazione. Proprio questi<br />

media operano la fusione di memoria e identità in iscrizioni<br />

che acquistano la firma <strong>del</strong>la storia.<br />

Tuttavia allontanarmi dallo schermo, abbassare gli occhi e ritirarmi<br />

dalla presunzione ontologica, tanto cara a molti in Occi-


ESTRANEO IN CASA 187<br />

dente, che la verità sia rappresentazione, significa rivolgere l’attenzione<br />

a un senso <strong>del</strong> luogo, <strong>del</strong>la storia, <strong>del</strong>l’identità provvisto<br />

di fondamento. Significa rivolgersi a un senso <strong>del</strong> luogo meno<br />

presente nello spazio piatto, bidimensionale <strong>del</strong>la mimesi e<br />

<strong>del</strong> campo visivo panottico <strong>del</strong>la conoscenza, <strong>del</strong> potere, ma più<br />

presente nell’ineguale configurazione <strong>del</strong>la terra, in cui vengono<br />

innalzati questi schermi e le loro particolari proiezioni. Localizzando<br />

la rappresentazione, processo in cui l’ambiente impregnato<br />

di storia sostiene ben più <strong>del</strong>la sua concezione astratta, il linguaggio<br />

non è un’imposizione unilaterale su uno spazio vuoto,<br />

bensì riecheggia sulla terra, rimbomba in un ambiente, riverbera<br />

nel ritmo terreno, si piega in sonorità sociali e nella risonanza<br />

terrestre (Gilroy 1993a).<br />

Ciò detto, mi rivolgo all’opera visiva di Hélène Hourmat: artista<br />

contemporanea, di origini marocchine, cresciuta in Francia.<br />

Donne in abiti nordafricani, uomini in abiti occidentali, scene<br />

familiari e ritratti di strada: le composizioni miste <strong>del</strong>la Hourmat,<br />

eseguite mediante fotografia, pastello, cartoline e inchiostro,<br />

raffigurano il viaggio, tanto il viaggio fisico quanto i complessi<br />

itinerari <strong>culturali</strong>, <strong>del</strong>l’identità nazionale, etnica e di genere<br />

da una costa all’altra <strong>del</strong> Mediterraneo, di un <strong>mondo</strong> (ebreo,<br />

marocchino e magrebino) all’interno di un altro (europeo, francese,<br />

cosmopolita), tra i linguaggi e i limiti <strong>del</strong>l’inquadramento<br />

visivo. Questa corrispondenza visiva insiste sulla traiettoria storica<br />

precisa di una configurazione culturale apparentemente periferica<br />

nella grammatica deterritorializzata <strong>del</strong>la modernità.<br />

Prende in considerazione entrambe trasformandone le rispettive<br />

storie in un elemento di libertà.<br />

Opere di questo tipo invitano a penetrare nell’inconsueto,<br />

non nel nome di un’eccitazione passeggera per l’esotico e <strong>del</strong>l’attrazione<br />

temporanea per l’alterità, bensì per defamiliarizzare<br />

i linguaggi che ci fanno conoscere il <strong>mondo</strong>, che lo sottomettono<br />

e lo rendono nostro; in questa maniera i linguaggi rendono<br />

l’ordinario straordinario, perturbante, e incontrano la repressione<br />

violenta che legittima il nostro discorso. Significa intercettare<br />

la discussione <strong>del</strong> nesso globale-locale, e la glossa esplicativa<br />

<strong>del</strong>la modernità e <strong>del</strong>la modernizzazione, con atteggiamento<br />

scettico nei confronti <strong>del</strong>la teleologia inevitabilmente implicata<br />

nella comprensione di questi processi.


188 IAIN CHAMBERS<br />

Poi c’è un video (Chambers 1993). C’è un video in cui compaiono<br />

sullo schermo le seguenti scritte:<br />

In un’epoca in cui l’antropologia si trasforma sempre più in autobiografia,<br />

l’osservatore, cercando di catturare, inquadrare un altro<br />

luogo, viene ora imprigionato nella rete <strong>del</strong>l’osservazione critica.<br />

L’occh-ìo (organo fisico e stato soggettivo) raggiunge il linguaggio<br />

in esilio.<br />

La nostra casa linguistica viene disfatta, le parole migrano e il linguaggio<br />

si fa ibrido per mostrare lacerazioni nelle mappe e balbuzie<br />

nei discorsi che noi in Occidente siamo soliti utilizzare.<br />

È come se fossi precipitato in una piega <strong>del</strong> tempo, inciampando in<br />

un punto brusco <strong>del</strong>la narrazione, mentre la mia presenza, che una<br />

volta scorreva in apparenza senza sforzo sulla carta geografica, viene<br />

accorciata, sviata, distrutta, dispersa.<br />

Il viaggio, sia in campo metaforico che fisico, non può più essere<br />

considerato una cosa che conferma le premesse <strong>del</strong>la mia partenza<br />

iniziale, che si concluda con una conferma, una sottomissione <strong>del</strong>la<br />

differenza e <strong>del</strong>la deviazione.<br />

Questa dichiarazione si accompagna con l’immagine costante<br />

di un uomo provvisto di telecamera, riflessa nei finestrini di un<br />

treno: l’osservatore osservato, la prospettiva, esterna, oggettiva restituita<br />

e trasformata nel punto di vista interno, soggettivo. Queste<br />

parole e immagini provocano la posa autoriflessiva da parte<br />

<strong>del</strong>l’interrogativo <strong>del</strong>lo sguardo antropologico.<br />

Oppure, forse la voce di cui sopra è soltanto il luogo ingannevole<br />

di uno stratagemma teorico: la sottile messa in atto <strong>del</strong><br />

proprio decentramento per potersi nuovamente centrare. Senza<br />

dubbio, svela l’ambiguità di un potere che parla <strong>del</strong>la propria<br />

perdita. Proprio su questa ambiguità, sul valore <strong>del</strong>l’incertezza,<br />

occorre insistere. Poi c’è l’uomo con la telecamera che cerca di<br />

catturare e inquadrare visivamente il <strong>mondo</strong>. La telecamera, il<br />

video, introduce l’esempio preciso <strong>del</strong> potere visivo in cui la<br />

realtà e la rappresentazione <strong>del</strong>la verità vengono considerati<br />

una cosa sola nella metafisica <strong>del</strong> realismo. Ciò che non rientra<br />

nel campo visivo, nelle sue procedure e nella sua logica <strong>del</strong>la<br />

rappresentazione, non riesce a diventare conoscenza. Il linguaggio<br />

<strong>del</strong>la trasparenza e l’egemonia oculare si uniscono in<br />

una relazione di soggetto-oggetto, nonché nella comprensione


ESTRANEO IN CASA 189<br />

unilaterale <strong>del</strong> significato e <strong>del</strong>la verità, che riconferma il soggetto;<br />

si tratta di una comprensione che ha moto unidirezionale,<br />

dall’occh-ìo al <strong>mondo</strong> percepito come oggetto esterno. Tuttavia<br />

al potere <strong>del</strong>lo sguardo si accompagna anche un intrinseco<br />

insuccesso, l’incapacità di ascoltare, di sentire e di rispondere.<br />

Si tratta di una forma di conoscenza che né chiede né accetta<br />

una risposta. Percorrere criticamente questa strada significa dare<br />

il via al processo di antropologizzazione <strong>del</strong>l’Occidente, al fine<br />

di “dimostrare quanto sia stata esotica la sua costruzione<br />

<strong>del</strong>la realtà (Rabinow 1986). Vorrebbe dire scavare nella tendenza<br />

teorica che ha tentato, storicamente, di catturare e spiegare<br />

la realtà senza esserne incorporata. Si perseguono la distanza<br />

critica, l’oggettività scientifica e l’ordine estetico, mentre<br />

si evita il paradosso <strong>del</strong>l’“oggettività” di un punto di vista specifico<br />

ubicato nella parzialità di una storia e <strong>del</strong> linguaggio partigiano<br />

di una cultura (Geiger 1998). L’apparente libertà <strong>del</strong>l’osservatore<br />

svela involontariamente i confini intellettuali in<br />

cui viene trattenuto a sua insaputa.<br />

Storicamente, è la logica visuale che emana dal centro che<br />

guida la visione <strong>del</strong>le cose, la quale è stata unilaterale e oggettivante<br />

nei suoi effetti. Lo sguardo, però, può essere restituito, per<br />

mettere a disagio l’osservatore. Registrare la possibilità di un siffatto<br />

ritorno significa aprire la distinzione dirompente tra lo<br />

sguardo che tutto abbraccia (l’oggettività soggettiva <strong>del</strong> cogito) e<br />

la visione reattiva, la quale incontra resistenza e opacità, fastidio<br />

e confusione, un riflesso sporco nella retina. Significa disfare la<br />

distanza critica tra il soggetto che tutto vede e l’oggetto inerte (la<br />

distanza che rende possibile il possesso), con un intervallo che rimane<br />

incolmabile, una separazione instaurata e mantenuta dalla<br />

finitezza <strong>del</strong>la mortalità, dai limiti <strong>del</strong>la collocazione e dall’ubicazione<br />

di un corpo, di una voce, di una storia. Nel passaggio tra<br />

l’appropriazione fiduciosa <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, associata alla scienza moderna,<br />

e un riconoscimento assai meno fiducioso, più barocco,<br />

emerge una modalità <strong>del</strong>la percezione che fa appello all’abitare e<br />

al movimento <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> che non si limita al cogito. Si tratta di<br />

una prospettiva che tende a guardare al di là <strong>del</strong>la tirannia strumentale<br />

di un punto di vista unico che vede nella terra, nelle storie<br />

e nei corpi degli altri semplici oggetti di cui disporre a piacimento<br />

(Carter 1996, pp. 303-304).


190 IAIN CHAMBERS<br />

Questo ci riporta all’assillante domanda <strong>del</strong>l’antropologia,<br />

che non si può semplicemente ridurre a una questione di colpa<br />

o responsabilità. Si tratta piuttosto di un sintomo significativo<br />

<strong>del</strong>le tradizioni istituzionali e disciplinari <strong>del</strong>l’Occidente: quell’insieme<br />

eterogeneo di tesi e orientamenti critici che, però, acquista<br />

un’unità contingente e un’epistemologia condivisa nelle<br />

configurazioni <strong>del</strong>la modernità e <strong>del</strong> “progresso” occidentale e<br />

porta il resto sotto gli occhi <strong>del</strong>l’Occidente. L’antropologia occidentale<br />

è il legislatore storico <strong>del</strong> traffico tra i mondi. Una disciplina<br />

di confine, che ha centrato nella maniera più esplicita il<br />

soggetto occidentale stabilendo la distanza temporale e culturale<br />

tra un “noi” e un “loro”. Nondimeno questa tendenza <strong>del</strong><br />

desiderio e <strong>del</strong>la paura, per quanto esposta in maniera più evidente<br />

nei protocolli <strong>del</strong>l’antropologia, non è prerogativa di<br />

questa disciplina: è sedimentata nel cuore stesso <strong>del</strong>le scienze<br />

umane e sociali, nei metodi, nelle modalità e nei mezzi per comunicare<br />

e spiegare il <strong>mondo</strong>.<br />

Ne consegue che la crisi <strong>del</strong>l’antropologia (nonché il richiamo<br />

<strong>del</strong>la vicinanza etimologica <strong>del</strong>la crisi nella pratica e nella<br />

teoria critica) diventa significativa per tutti coloro che agiscono<br />

nell’ambito di questa disposizione <strong>del</strong>la conoscenza. Se, a questo<br />

punto, l’antropologia occidentale diventa l’antropologia <strong>del</strong>l’Occidente,<br />

o forse più precisamente l’antropologia <strong>del</strong>l’occidentalizzazione<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, la possibilità che ci resta non è solo<br />

quella di contemplare narcisisticamente il nostro ombelico e riprodurre<br />

la nostra centralità in un linguaggio elegante. Si apre<br />

anche la strada al più arduo e ambiguo lavoro e impegno che<br />

consiste nell’indebolire e dislocare quella tendenza <strong>del</strong>la conoscenza<br />

e <strong>del</strong> potere che, con le sue tecniche e tecnologie per catalogare<br />

e riordinare la realtà, ha storicamente mondeggiato il<br />

<strong>mondo</strong> per creare le categorie e le “verità” di centro e periferia,<br />

progresso e sottosviluppo, civiltà e primitivismo, “Primo” e<br />

“Terzo” <strong>mondo</strong>, Occidente e resto <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>. Non è possibile<br />

cancellare una storia <strong>del</strong> genere, ma è possibile riscriverla e rielaborarla.<br />

È possibile ri-citarla per ri-situarla, per cavare dai<br />

denti <strong>del</strong>la modernità occidentale la sua potenziale critica e la<br />

suo potenziale dislocazione. Vorrebbe dire registrare e ascoltare<br />

come i suoi linguaggi, le sue tecnologie e le sue tecniche vengono<br />

vissuti in altro modo, e infine vissuti dagli altri.


ESTRANEO IN CASA 191<br />

La sfida <strong>del</strong>l’incompleto<br />

Naturalmente, possibilità e potenzialità di questo tipo devono<br />

trovare la loro collocazione nello scambio iniquo iscritto nella differenziazione<br />

di capitale economico, culturale, storico e politico.<br />

La risposta dalla periferia, il silenzio <strong>del</strong> subalterno, dipende da<br />

un’economia <strong>del</strong> riconoscimento che esclude mentre include.<br />

Non tutti vengono compresi in questo racconto. Non tutti sono<br />

nella posizione storica di tradurre, trasformare, sopravvivere e tirare<br />

avanti. Ci sono sconfitte, perfino la minaccia e la consapevolezza<br />

di cadere nell’oblio, di rimanere nel vuoto dei margini, nel<br />

silenzio dei linguaggi che vengono parlati, cantati, scritti e registrati.<br />

Eppure, la persistenza di queste tematiche, i limiti insuperabili<br />

<strong>del</strong> luogo da cui si parla, ci attirano in quegli spazi, verso i<br />

vuoti e i silenzi che interrogano il nostro linguaggio e ci investono<br />

con la richiesta di una risposta. Perché è anche possibile che le risorse<br />

<strong>del</strong> silenzio rendano gli altri, nella loro separatezza, irriducibili<br />

a una sintassi comune (Cheung 1993). L’intervallo <strong>del</strong> taciuto,<br />

le ombre dei subalterni, degli usurpati, vengono gettate contro la<br />

trasparenza di un linguaggio avvezzo a ignorare l’ontologia <strong>del</strong> silenzio,<br />

un silenzio che inevitabilmente viene colonizzato come assenza<br />

pura, carenza pura.<br />

Al di sotto <strong>del</strong>le carte geografiche, <strong>del</strong>le topografie e <strong>del</strong>le geografie<br />

<strong>del</strong> potere e <strong>del</strong>lo spazio, si palesa ciò che sfugge o rifiuta di<br />

essere segnato sulla carta: la sfida <strong>del</strong> luogo nei confronti <strong>del</strong>lo<br />

spazio, <strong>del</strong> suono nei confronti <strong>del</strong>la visione, <strong>del</strong>la proliferazione<br />

<strong>del</strong>le ragioni nei confronti <strong>del</strong> razionalismo, <strong>del</strong> silenzio sulla scia<br />

di ciò che viene detto. Tra la cornice visiva, tra ciò che viene rappresentato,<br />

ritratto, e la contingenza di ciò che non riesce a essere<br />

rappresentato, compare un vuoto, un intervallo, un’interruzione.<br />

È il luogo inquietante di questo nello spazio <strong>del</strong>la cornice che svela<br />

l’incidenza storica e l’individuazione <strong>del</strong>l’essere variegato.<br />

C’è un’enorme differenza, direi, tra un soggetto stabile, anche<br />

se in continuo movimento, e un soggetto irrimediabimente sconvolto.<br />

Le soggettività sicure di sé possono spostarsi per il <strong>mondo</strong>,<br />

e lo fanno, da uomini d’affari cosmopolitani e da intellettuali, sperimentando<br />

interazioni simboliche in cui la propria cultura e<br />

identità viene messa raramente in discussione. Ma allora, la psiche<br />

occidentale è davvero in crisi? Il suo modo di pensare e il suo


192 IAIN CHAMBERS<br />

slancio istituzionale risultano davvero indeboliti? Oppure si tratta<br />

soltanto di una messinscena per riprodurre sotto forma di contraddizione<br />

le egemonie prevalenti? Qualunque sia il verdetto finale,<br />

ciò che ho da dire vuole mettere a fuoco i limiti e le località<br />

dei processi <strong>del</strong>la globalizzazione e identificazione, rendendo discutibili<br />

le premesse umanistiche da cui dipende gran parte di<br />

questa modalità di pensiero, di razionalismo e di politica.<br />

Avvezzi a riferirci alla complessità, apparentemente crescente,<br />

dei linguaggi <strong>del</strong>l’identità e <strong>del</strong>l’identificazione, <strong>del</strong>l’essere e <strong>del</strong><br />

divenire, al contempo veniamo attratti verso la costanza <strong>del</strong>la psiche,<br />

quell’“io” che racconta la narrazione <strong>del</strong> sé, la quale comunque<br />

sia interpellata, trasformata, frustrata, danneggiata, prosegue<br />

in una maniera resa certa dai meccanismi <strong>del</strong>la memoria, dalla repressione<br />

e dalla sublimazione: continua a insistere, a prescindere<br />

da quanto sia frantumato il <strong>mondo</strong> che abita. In questo modo si<br />

apre una prospettiva in cui forse devo chiedermi se le identità di<br />

oggi siano davvero più complesse, per esempio, di quelle <strong>del</strong>la<br />

modernità emergente <strong>del</strong>l’Europa seicentesca e <strong>del</strong>le certezze tentennanti<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong> barocco, con le sue violente affermazioni e il<br />

suo dissenso su argomenti cosmologici, religiosi e secolari; e questo<br />

solo per parlare di un <strong>mondo</strong>, di una storia, di una cultura di<br />

cui in qualche modo sono consapevole. Pertanto, io provo una<br />

certa esitazione dinanzi alla teleologia proposta per il progresso,<br />

secondo cui il <strong>mondo</strong> d’oggi sarebbe automaticamente più complesso<br />

di quello di ieri, e quindi anche le identità. Forse, è più<br />

prudente esprimersi in termini di articolazione e configurazione,<br />

di complessità mobili che esprimono certe verità mentre ne annebbiano<br />

altre, dei linguaggi modificati <strong>del</strong>le identità, di orizzonti<br />

d’attesa diversi anziché di un semplice accumulo di conoscenza.<br />

Anche l’inconscio (la ragione che viene, alla fine, repressa dalla<br />

ragione) non è uscito armato dalla testa di Freud: aveva già trovato<br />

espressione, come lo stesso Freud ha ribadito a più riprese, nel<br />

linguaggio poetico.<br />

A questa oscillazione <strong>del</strong>la modernità, forse potrebbe essere<br />

utile aggiungere la voce <strong>del</strong> compianto Raymond Williams, che ha<br />

incoraggiato a riflettere sulle impari e complesse combinazioni<br />

<strong>culturali</strong> di elementi emergenti e residuali, che conducono a nuove<br />

configurazioni, in cui sia la “tradizione <strong>del</strong> nuovo” che le tradizioni<br />

<strong>del</strong> passato vengono rielaborate spesso secondo combinazio-


ESTRANEO IN CASA 193<br />

ni inattese, svelando una grande gamma di poteri e possibilità<br />

(Williams 1977, pp. 110-118).<br />

Tra la costanza psichica e la posizione storica, l’identità non<br />

emerge come una serie di abiti da indossare e buttare a piacimento,<br />

bensì come una composizione mobile in cui elementi differenti<br />

vengono portati in primo piano o spostati sullo sfondo, a seconda<br />

<strong>del</strong>le circostanze, <strong>del</strong>le coincidenze, talvolta per scelta consapevole.<br />

L’identità non è né libera di fluttuare, né eternamente fissa<br />

sul posto. Proprio nell’intervallo tra questi poli ha luogo la storicità<br />

radicale <strong>del</strong>l’identità, in cui le strutture forniscono la scena<br />

per ciò che non è sempre prevedibile, e l’istanza <strong>del</strong>l’essere storico<br />

turba la coesione di qualsiasi razionalità singola.<br />

È qui (ora arriviamo al nodo cruciale <strong>del</strong>la mia argomentazione),<br />

proprio qui che affrontiamo l’oggettività incentrata sul soggetto<br />

<strong>del</strong>l’umanesimo, nonché la presunzione che la conoscenza<br />

sia qualcosa da immagazzinare e accumulare a beneficio <strong>del</strong>l’“io”,<br />

e la conseguente rivelazione nella ragione istituzionale. Di fronte<br />

all’“unità immaginaria” <strong>del</strong>l’identità che cerca di controllare e di<br />

limitare i linguaggi <strong>del</strong> mio divenire, mi trovo a ribadire non soltanto<br />

la persistenza interrogativa <strong>del</strong>l’inconscio, ma soprattutto la<br />

connessa insistenza sull’essere <strong>del</strong> linguaggio che mi precede e va<br />

al di là di me, che rimane irriducibile alla volontà di volere, alla<br />

volontà di potere e di conoscenza.<br />

In termini intellettuali, tentiamo tutti di catturare la pienezza,<br />

la totalità <strong>del</strong>le cose, rifuggendo dal non finito, da ciò che, citando<br />

Adrienne Rich (1991, p. 44), rimane là, insoddisfatto, nei nostri<br />

racconti. Tutti aneliamo a questa immagine coerente e alla<br />

soddisfazione <strong>del</strong>la nostra mappa cognitiva, ma forse esistono anche<br />

il modo e la necessità di registrare i limiti di queste immaginazioni.<br />

Questo renderebbe possibile a ciò da cui ci allontaniamo –<br />

il <strong>mondo</strong> mai finito in cui viviamo – di insistere sul suo diritto di<br />

esistere: ciò che non siamo in grado di quantificare e definire immediatamente,<br />

ciò che oppone resistenza alla rappresentazione<br />

tecnica <strong>del</strong>la realtà, e che pure insiste e persiste a interrogarci.<br />

Questo eccesso o supplemento che sta al di sotto, lungo e al di<br />

là <strong>del</strong>la nostra appropriazione <strong>del</strong>le diverse identità storiche (da<br />

quella nazionale a quella sessuale), è un’alterità che rimane in attesa<br />

di tendere un’imboscata alle procedure fiduciose <strong>del</strong>la rappresentazione<br />

culturale, distruggendone la grammatica e i codici


194 IAIN CHAMBERS<br />

prescrittivi: un potenziale pronto a turbare l’impianto esistente<br />

<strong>del</strong> “politico”. Qui il linguaggio cinge la centralità <strong>del</strong>la narrazione<br />

– narrare la nazione, narrare noi stessi – nel problema <strong>del</strong>l’identità.<br />

Benedict Anderson, Stuart Hall e Homi Bhabha: nei<br />

loro diversi approcci rimane l’attenzione comune alla continuità<br />

<strong>del</strong>la narrazione nella comprensione <strong>del</strong>l’identità nazionale. Proprio<br />

questa continuità consente alla coerenza di manifestarsi, tiene<br />

a bada il turbamento e struttura la contestazione, consentendo<br />

che una vasta serie di elementi venga assorbita nel quadro organico<br />

e nella crescita naturale <strong>del</strong>la nazione. L’organico, col suo<br />

senso <strong>del</strong>le radici, <strong>del</strong>le origini, <strong>del</strong>la crescita, <strong>del</strong> cambiamento e<br />

<strong>del</strong>la continuità, <strong>del</strong>la tradizione e <strong>del</strong>la trasformazione, offre la<br />

costellazione mitica che, come ha affermato una volta Roland<br />

Barthes (1973), trasforma la storia in natura. Forse questa è una<br />

configurazione apparentemente più consona al Vecchio Mondo,<br />

in cui il linguaggio, il sangue e l’appartenenza sembrano sgorgare<br />

già maturi dal suolo natio, dove le identità nazionali vengono<br />

concepite in termini di sovranità anziché di diritti, di affinità invece<br />

che di contratto. Tuttavia l’eredità egemonica è all’opera<br />

ovunque: una cultura nazionale acquisita (il suo linguaggio, la<br />

sua storia, le sue tradizioni e i suoi riti) viene sempre considerata<br />

meno di quella che si ha dalla nascita (Hage 1996, p. 467). Le linee<br />

di sangue e l’etnicità hanno sempre la meglio sul contratto e<br />

sul consenso.<br />

Estraniare l’Occidente<br />

Il punto centrale, quando si pensa alla narrazione <strong>del</strong>la nazione,<br />

in tutte le sue varianti, è il modo in cui, nel rendere conto <strong>del</strong><br />

passato, si finisce con l’espungere l’insita violenza su cui si fondano<br />

la nazione stessa e la modernità occidentale. La violenza viene<br />

sempre scaricata altrove, su un altro paese, su un altro <strong>mondo</strong>.<br />

Nel suo lavoro intitolato Storm from Paradise: The Politics of Jewish<br />

Memory, Jonathan Boyarin (1992) si sofferma sul paradosso<br />

<strong>del</strong>l’obliterazione e <strong>del</strong>la dislocazione <strong>del</strong> genocidio nella creazione<br />

di uno Stato nazionale, in questo caso il genocidio dei nativi<br />

americani in un paese nella cui capitale si trova un museo dedicato<br />

all’Olocausto.


ESTRANEO IN CASA 195<br />

Nella ben architettata coerenza <strong>del</strong>le identità nazionali traspare<br />

la necessità strutturale <strong>del</strong>l’“altro”. Al di là <strong>del</strong>la brutale ovvietà<br />

<strong>del</strong> potere imperiale, questo fatto conferisce alla formazione<br />

e all’esperienza <strong>del</strong> colonialismo e <strong>del</strong>l’imperialismo un ruolo cruciale<br />

nella comprensione <strong>del</strong>la modernità e <strong>del</strong>le identità moderne,<br />

sia nazionali che <strong>culturali</strong>, sia pubbliche che private, sia storiche<br />

che esistenziali. La migliore descrizione di quanto appena<br />

detto ci viene fornita da Catherine Hall (1992) nelle sue analisi<br />

<strong>del</strong>la costruzione <strong>del</strong> concetto di virilità bianca britannica nel diciannovesimo<br />

secolo. Il discorso che vorrei fare, tuttavia, non è di<br />

natura morale, bensì strutturale. La modernità occidentale è una<br />

formazione ibrida fin dalle origini, come testimonia la magistrale<br />

ricostruzione di Paul Gilroy (1993a) <strong>del</strong>la centralità <strong>del</strong>le culture<br />

schiave <strong>del</strong>l’Atlantico nero in tale formazione. Oppure, in scala<br />

diversa, sulle rive di un oceano diverso, c’è la costituzione ibrida<br />

<strong>del</strong>la California, in cui le storie celate e le narrazioni taciute <strong>del</strong> lavoro<br />

fisico, economico, culturale e politico dei nativi americani,<br />

dei messicani, dei chicani e <strong>del</strong>le chicane assumono un ruolo centrale,<br />

come nell’opera storica di Beth Haas (1995) e nei romanzi<br />

di Alejandro Morales (1992). In questo modo, quindi, si asserisce<br />

tra le righe che il tanto discusso postcoloniale non riguarda tanto<br />

l’ibridazione <strong>del</strong>la cultura contemporanea, la diversità che emerge<br />

dall’analisi metropolitana – che sia nell’apparente innocuità di stili<br />

musicali, letterari, sartoriali e culinari, oppure nella più immediata<br />

insistenza di una politica <strong>del</strong>la minoranza – ma è l’imperativo<br />

di rivisitare e riscrivere la stessa modernità occidentale: farla<br />

parlare nuovamente, farle dire qualcosa che non vuole né desidera<br />

dire. Come ribadisce a più riprese Hannah Arendt ne Le origini<br />

<strong>del</strong> totalitarismo (1951), il cuore <strong>del</strong> moderno, <strong>del</strong> metropolitano,<br />

è stato costituito dallo sfruttamento esterno imperialista. È<br />

proprio questa storia deviata, in cui l’etica cede il posto all’economia<br />

e il diritto e il liberalismo cedono alla licenza in luoghi apparentemente<br />

remoti, che perseguita come un fantasma l’Euroamerica<br />

nelle sue tendenze razziste e totalitarie (Prakash 1996, p.<br />

187).<br />

In questo ritorno <strong>del</strong> represso, l’impatto tra mondi e culture diversi<br />

che penetrano nell’Occidente cede il posto alla sfida ben più<br />

radicale <strong>del</strong>l’estraniazione <strong>del</strong>l’Occidente. È a questo punto che noi<br />

potremmo considerare il passaggio dal multi<strong>culturali</strong>smo e da un


196 IAIN CHAMBERS<br />

adattamento liberale <strong>del</strong>la diversità a un diverso modo d’essere nel<br />

<strong>mondo</strong> in cui si punti sul vivere nella diversità, in un’epoca planetaria<br />

in cui l’Occidente che è diventato il <strong>mondo</strong> si scopre, malgrado<br />

i suoi inalterati poteri economici, politici e cultuali, che non è più<br />

padrone di se stesso. Per dirla con Gyan Prakash (1996, p. 201):<br />

<strong>Sulla</strong> base <strong>del</strong>la convinzione che non possiamo dire di no alle condizioni<br />

determinate <strong>del</strong>la storia (la modernità capitalista, i principi di<br />

libertà, cittadinanza, diritti individuali, Stato-nazione), la critica postcoloniale<br />

tenta di identificare nello slittamento <strong>del</strong> funzionamento<br />

storico di questi principi la base per altre articolazioni.<br />

Nel <strong>mondo</strong> <strong>del</strong> capitale transglobale e dei flussi di informazione,<br />

l’accelerazione <strong>del</strong>la vicinanza non conduce necessariamente a<br />

un indebolimento <strong>del</strong>le identità precedenti: il contatto può anche<br />

implicare una ripresa <strong>del</strong>le distanze e un rafforzamento, da ambo<br />

le parti. Oggi siamo testimoni di certe identità nazionali, regionali<br />

e persino di carattere più circoscritto che vengono annunciate e<br />

sostenute dall’inserimento e dalla resistenza alla globalizzazione.<br />

Analogamente, gli esperti di scienze politiche e i teorici <strong>del</strong> diritto<br />

dubitano spesso che i moderni Stati nazionali come gli Stati Uniti<br />

o i paesi <strong>del</strong>l’Europa occidentale stiano effettivamente cedendo la<br />

propria sovranità, e non stiano invece dispiegando, strategicamente,<br />

in maniera diversa i propri poteri nell’ambito <strong>del</strong> gioco<br />

globale (Bromley 1996). L’utilizzo <strong>del</strong>le zone di confine (per<br />

esempio, tra gli Stati Uniti e il Messico), che consentono esperimenti<br />

e sfruttamento economici, e al contempo riconfigurano e<br />

confermano la sovranità nazionale su ambo i lati <strong>del</strong>la frontiera, è<br />

un caso emblematico. Analogamente, il concetto <strong>del</strong> nazionale rimane<br />

un elemento fondamentale per rivendicare un luogo nella<br />

struttura internazionale <strong>del</strong> globale, segnatamente per assicurare<br />

posti di lavoro, mercati e ciò che per molti resta l’ultima, disperata,<br />

soluzione: gli aiuti internazionali (Buchanan 1995).<br />

Naturalmente si tratta ancora una volta di una configurazione<br />

complessa, in cui il potere non si sposta semplicemente con moto<br />

unidirezionale, dall’alto verso il basso. Tra il martellamento pedagogico<br />

<strong>del</strong>l’identità nazionale promossa dallo Stato e le realtà<br />

quotidiane di identificazione con le possibilità mediate che si riscontrano<br />

nei linguaggi <strong>del</strong>le strutture economiche, storiche e cul-


ESTRANEO IN CASA 197<br />

turali, essa indica che, per quanto possa essere potente, la globalizzazione<br />

si accompagna sempre con procedure di ri-localizzazione<br />

(Kevin Robins, citato in Hall 1996, p. 623).<br />

Analizzando il ruolo <strong>del</strong>le telenovele californiane (utopie d’importazione)<br />

nella televisione italiana, Lidia Curti ha studiato la<br />

trasfigurazione <strong>del</strong> globale in termini e in ambiti locali, nella presentazione<br />

(contingente eppure abituale e materiale) <strong>del</strong>la vita<br />

quotidiana italiana e napoletana. Una cultura nazionale e locale<br />

non è solo soggiogata, ma a sua volta soggioga e trasforma ciò che<br />

importa o che addirittura sembra che le venga imposto (Curti<br />

1990). Avviene, come sostiene Rey Chow nel suo studio <strong>del</strong> cinema<br />

cinese contemporaneo, una traduzione reciproca, in cui la disparità<br />

di potere tra l’Occidente e il resto <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> rivela nondimeno<br />

la trasformazione di entrambi i membri <strong>del</strong>l’equazione assieme<br />

alla ricollocazione di globale e locale, moderno e tradizionale;<br />

nessuno dei due rimane solamente oggetto <strong>del</strong>l’altro, ognuno<br />

è soggetto alle iscrizioni prive di sicurezza <strong>del</strong>la traduzione<br />

culturale e <strong>del</strong> transito storico (Chow 1995). La modernità diviene<br />

locale e il locale pone le basi <strong>del</strong>la modernità.<br />

Sia in Le vie dei canti (1987) di Bruce Chatwin che in Bad Aboriginal<br />

Art (1994) di Eric Michaels, sottotitolato Tradition, Media,<br />

and Technological Horizons, si trovano ampie descrizioni e osservazioni<br />

<strong>del</strong>la cultura aborigena australiana, intenta a negoziare le<br />

proprie entrate e le proprie uscite dalla modernità occidentale, a<br />

trasformare lo spazio occidentale in luogo locale (tele destinate a<br />

gallerie d’arte internazionali scambiate per una Toyota Land Cruiser).<br />

Le opere che ritraggono i sogni sacri ancestrali divengono<br />

opere d’arte, i loro significati locali sono trasformati in altri linguaggi<br />

mentre al contempo continuano a esistere, proprio come<br />

la tecnologia occidentale viene trasformata per fornire i mezzi di<br />

sostentamento di una cultura locale nell’ambito <strong>del</strong>la modernità<br />

in termini che non sono tutti opera <strong>del</strong>la modernità. L’artista Cherokee<br />

Jimmie Durham, definendosi “primitivo postmoderno”, ci<br />

costringe a pensare a una traduzione che non è unilaterale, che attiva<br />

e sfida entrambi i versanti <strong>del</strong>lo spartiacque culturale.<br />

Quanto detto sembrerebbe indicare, come asserisce Stuart Hall<br />

(1996), che invece di concepire il globale come un’imposizione sul<br />

locale da parte <strong>del</strong>l’Occidente, sia meno debilitante e importante<br />

considerare il modo in cui il globale emerge e si articola nel locale


198 IAIN CHAMBERS<br />

(p. 623). In altre parole, in che modo il potere <strong>del</strong> globale contribuisce<br />

all’articolazione <strong>del</strong> locale e come, in questo processo, affronti<br />

la trasformazione, la resistenza, il sovvertimento e la dispersione.<br />

Ecco che insistono e persistono altre storie nella configurazione<br />

stessa <strong>del</strong>la terra, per citare Paul Carter (1996), nell’aspetto<br />

<strong>del</strong>le cose che costituiscono un luogo occupato, una località in cui<br />

la storia e il linguaggio si amalgamano con il paesaggio, per citare<br />

il lavoro di Kathleen Stewart (1996). Questo ci aiuta a concentrarci<br />

sulla differenziazione <strong>del</strong>la traduzione nella negoziazione e nella<br />

vita nelle geometrie <strong>del</strong> potere. Esistono contatti e contratti ben<br />

diversi tra le élite metropolitane e nella vita, le popolazioni rurali<br />

nullatenenti, per fare un esempio ovvio, e le loro rispettive relazioni<br />

con la modernità nella fase attuale <strong>del</strong>la globalizzazione.<br />

Ho detto la fase attuale <strong>del</strong>la globalizzazione perché considero<br />

questo processo parte integrante <strong>del</strong>la modernità, dove la modernità,<br />

come insiste Heidegger, segna l’avvento <strong>del</strong>l’“immagine <strong>del</strong><br />

<strong>mondo</strong>”: non una nuova immagine <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, bensì la possibilità<br />

di concepire il <strong>mondo</strong>, per la prima volta, come un’immagine, di<br />

incorniciarlo, di ridurlo a un unico punto di vista. Si tratta <strong>del</strong><br />

punto di vista unico su cui l’umanesimo soggettivo, il cogito razionale,<br />

basa la sua oggettività e intende la realtà. Qui l’intera realtà<br />

viene inquadrata cognitivamente perché appaia dinanzi al soggetto<br />

come oggetto, pronto a essere afferrato e soggiogato, ricondotto<br />

nell’ambito <strong>del</strong>la sua sovranità e <strong>del</strong> suo controllo. Tutto viene<br />

reso immediato nei calcoli che rappresentano me e soltanto me. È<br />

quella narrazione e la sua grammatica <strong>del</strong>l’agire, in cui il soggetto<br />

storico non può mai essere estraniato, che il ripensamento <strong>del</strong><br />

<strong>mondo</strong>, o un diverso modo di mondeggiare il <strong>mondo</strong>, cominciano<br />

a interrompere. A questo punto si ripropone drammaticamente il<br />

giudizio di Jean-Paul Sartre (citato in Prakash 1996) sull’opera di<br />

Frantz Fanon, definita uno “spogliarello <strong>del</strong> nostro umanesimo”.<br />

L’occidentalizzazione <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, ossia la modernità occidentale<br />

e la formazione <strong>del</strong> suo soggetto storico (che oggi talvolta viene<br />

sfidato, minacciato, esposto al dubbio, ma che è sempre al centro<br />

di quella narrazione che si chiama Storia, e si sta ri-storicizzando)<br />

viene anche paradossalmente localizzata, spinta contro i<br />

suoi limiti. La sua voce, il suo occhio, ciò che le permette di parlare<br />

e di definire, scaturisce da una posizione culturale e da una formazione<br />

storica particolari, che una volta consideravano, e spesso


ESTRANEO IN CASA 199<br />

ancora considerano, il loro linguaggio “universale”, e spesso, a<br />

beneficio <strong>del</strong>l’egotismo, confondevano, e ancora confondono, il<br />

razionalismo con la ragione. Insistere su questi limiti storici, che<br />

sono anche limiti ontologici, significa dis-locare e ri-allocare l’Occidente<br />

e i suoi linguaggi (la sua modernità, l’universalismo, l’umanesimo,<br />

l’identità, la soggettività e l’agire) in un’altra storia.<br />

Quantomeno, significa registrare come questi concetti, nonché le<br />

storie <strong>del</strong>la loro appropriazione <strong>del</strong>lo spazio globale e <strong>del</strong> potere<br />

storico, vengono vissuti variamente, esperiti seguendo ritmo e accenti<br />

diversi. Inserite nel <strong>mondo</strong> eterotopico per divenire parte di<br />

un luogo, le asserzioni iniziali diventano soggette a enunciazioni<br />

multiple e contemporanee, che non offrono una soluzione semplice,<br />

bensì richiedono un passaggio politico tra conservazione e riconfigurazione,<br />

tradizione e traduzione, esclusione e inclusione.


Capitolo settimo<br />

<strong>Sulla</strong> <strong>soglia</strong><br />

Dinanzi a noi si apre una nuova strada, alle nostre spalle si<br />

chiude un sentiero. La neve ricopre le nostre tracce e continua<br />

a muoversi come la marea. Non c’è traccia di dove eravamo,<br />

né alcun segnale che indichi la nostra destinazione.<br />

Ora siamo il battito senza passato, la luce invisibile, il pensiero<br />

senza parole da dire. Acqua versata, fiammifero acceso.<br />

Dinanzi al nulla, noi siamo l’istante.<br />

Louise Erdrich (1995, p. 259)<br />

Non posso né prenderla né perderla<br />

Quando taccio, essa proietta<br />

Quando proietto, essa tace.<br />

Trinh T. Minh-ha (dal film Naked Space – Living is Round)<br />

Agosto, più di quaranta gradi all’ombra. Mi trovo sul limitare<br />

<strong>del</strong> Canyon di Chelly nell’alto deserto <strong>del</strong>l’Arizona e osservo la<br />

Roccia <strong>del</strong>la Donna Ragno. Il terreno sotto di me si apre drammaticamente<br />

in un burrone a forma di Y che solca per miglia la faccia<br />

<strong>del</strong>la terra. Fu proprio la Donna Ragno a insegnare ai Navaho<br />

l’arte <strong>del</strong>la tessitura. Tutti i pellerossa <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> sembrano concentrati<br />

in questo stretto sperone di roccia che si erge per centinaia<br />

di metri direttamente dal fondo <strong>del</strong> canyon. Un falco si libra<br />

in cielo prima di scomparire oltre il confine <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>.<br />

Questo incontro di terra e cielo, di divinità e mortali (la “quadratura”,<br />

o das Geviert di cui parla Heidegger) sembra alludere<br />

all’indivisibilità <strong>del</strong>l’essere. Eppure questo spazio in apparenza<br />

comune, questo tempo condiviso, questa risonanza arcana tra un<br />

luogo sacro dei navaho e Martin Heidegger svela un’impossibilità:<br />

quella di ridurre ciò che non si può ridurre, di appiattire le differenze<br />

<strong>del</strong> paesaggio, <strong>del</strong> linguaggio, <strong>del</strong>la cultura e <strong>del</strong>la storia sui<br />

contorni condivisi di una carta geografica comune. Forse proprio<br />

questa irriducibilità è ciò che palesa nello stato stesso <strong>del</strong> nostro<br />

divenire quanto tutto ciò sia meraviglioso. In questo luogo, riconoscendo<br />

nei campi coltivati e nelle abitazioni o hogans dei Navaho<br />

sul fondo <strong>del</strong>la vallata, come nelle rovine antiche degli Anasazi<br />

attaccate alle pareti <strong>del</strong> canyon, la comune e più intrattabile


202 IAIN CHAMBERS<br />

di tutte le necessità umane – la vita – il mio tempo e il mio spazio<br />

si interrompono bruscamente: vengono messi in discussione da<br />

una presenza che non ha nulla di mio. Mentre mi allontano in<br />

macchina sotto un cielo che ci sovrasta tutti, questa spaccatura<br />

che taglia la traiettoria <strong>del</strong> mio percorso, questa piega nella carta<br />

geografica, mi trascina al di fuori di me stesso. Viaggio attraverso<br />

una fessura nel mio tempo, un vuoto nei concetti di identità e posizione,<br />

tentando di estrarre dai miei limiti le possibilità di nuove<br />

partenze.<br />

Sull’orlo <strong>del</strong>la cornice<br />

A una mostra tenutasi a Houston nel 1995, intitolata Cultural<br />

Baggage (Bagaglio culturale) e organizzata nell’ambito di un simposio<br />

su House, Home, Homeland (Casa, abitazione, patria), mi<br />

imbattei in due opere che mi hanno aiutato a localizzare il punto<br />

di partenza <strong>del</strong> mio pensiero in questa fase <strong>del</strong>la mia vita 1 . La prima<br />

è The South/Missing (Il Sud/Assente 1993) di Silvia Malagrino,<br />

l’altra è Re:Locations (Ri: Posizioni, 1995) di Monica Chau.<br />

Nel trittico <strong>del</strong>la Malagrino vediamo fotografie di volti appena visibili:<br />

si tratta dei visi, <strong>del</strong>le identità di chi generalmente viene dimenticato<br />

dalle statistiche <strong>del</strong>l’immigrazione illegale e nei rapporti<br />

<strong>del</strong>le pattuglie di frontiera. Si tratta di foto che svaniscono, accartocciate<br />

nel tempo, eppure le loro tracce rimangono impresse<br />

in maniera in<strong>del</strong>ebile nella gelatina argentea <strong>del</strong>la stampa, come<br />

fossero spettri che rifiutano di scomparire. Continuano a occupare<br />

la scena, gettando l’ombra di un altro <strong>mondo</strong> che si ripropone<br />

per sfondare e increspare le superfici lisce di una coerenza desiderata.<br />

Nella serie di fotografie digitali di Monica Chau, si incontra<br />

la testimonianza <strong>del</strong>la sovrapposizione di immagini di un’epoca<br />

precedente su un paesaggio desolato che riconfigura lo spazio in<br />

un luogo storico particolare. Le figure che vediamo sono quelle di<br />

cittadini statunitensi di origine giapponese che nell’aprile <strong>del</strong><br />

1942 furono rinchiusi in campi di concentramento come quello di<br />

1 House, Home, Homeland: A Media <strong>Studi</strong>es Symposium on Exile, Rice University,<br />

Houston (Tex), 26-29 ottobre 1995. L’evento in questione ha dato il via a queste riflessioni.<br />

Vorrei approfittare di questa occasione per ringraziare Hamid Naficy per avermi invitato<br />

a prenderevi parte.


SULLA SOGLIA 203<br />

Manzanaa, presso Lone Pine, vicino alla Valle <strong>del</strong>la Morte, nel deserto<br />

californiano. Questa particolare configurazione <strong>del</strong>lo spazio<br />

e <strong>del</strong>la memoria mi è tornata prepotentemente alla memoria vedendo<br />

l’installazione di un campo di concentramento (provvisto<br />

di caserma, torre di guardia, riflettore e filo spinato), collocata di<br />

fronte al Museo Americano Giapponese nel centro di Los Angeles<br />

nell’autunno <strong>del</strong> 1995. Questa collocazione proprio accanto al<br />

Museo Temporaneo Contemporaneo ha posto ancor più in rilievo<br />

le coordinate inquietanti <strong>del</strong>la memoria e <strong>del</strong>l’oblio, <strong>del</strong>la rappresentazione<br />

e <strong>del</strong>la repressione, <strong>del</strong>l’arte e <strong>del</strong>l’agonismo <strong>del</strong>l’identificazione.<br />

Vorrei aggiungere a queste inquadrature visive alcune espressioni,<br />

alcune parole, attinte dal romanzo di Leslie Marmon Silko<br />

Ceremony (1977) sulla sopravvivenza dei nativi d’America nella<br />

modernità:<br />

“Mi sembra buffo” disse lo sciamano, scuotendo la testa, “che la<br />

gente si chieda perché io viva così vicino a questa sporca città. Ma,<br />

vedete, questo hogan era qui da prima. Costruito molto prima che<br />

arrivassero i bianchi. È quella città laggiù che è fuori posto. Non<br />

questo vecchio sciamano” (p. 131)<br />

Passando da Gallup, New Mexico, ai Caraibi, posso aggiungere<br />

anche la voce di Vidiadhur Surajprasad Naipaul, il quale<br />

fonde le storie dei bucanieri elisabettiani, dei rivoluzionari <strong>del</strong>l’America<br />

Latina e dei radicali neri “ai confini <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>”<br />

(1995, p. 207). Lì i diversi, gli spossessati, i diasporici – coloro<br />

che sono fuoriusciti dal <strong>mondo</strong> conosciuto o che ancora non vi<br />

sono entrati – recano testimonianza <strong>del</strong>l’altro lato <strong>del</strong>la modernità,<br />

i cui confini sono segnati dallo sterminio, dalla schiavitù,<br />

dal massacro, dalla follia, dall’avidità, dall’insuccesso e dalla<br />

perdita. Qui si svolge la conversazione immaginaria tra il nativo<br />

americano Don José e il sacerdote spagnolo Fray Simón. Don<br />

José, nato in Guyana, è stato fatto prigioniero dagli inglesi a<br />

San Thomé sull’Orinoco e accompagna Sir Walter Raleigh nel<br />

viaggio di ritorno in Europa, fino all’arresto e all’esecuzione<br />

<strong>del</strong>l’inglese. A quel punto ritorna in America Latina. Fray<br />

Simón sta scrivendo una storia <strong>del</strong>la Nuova Spagna. La conversazione<br />

ha luogo nel 1619:


204 IAIN CHAMBERS<br />

Fray Simón disse: “Avete attraversato due volte l’oceano, e adesso<br />

rieccovi a Nuova Granada, la vostra città natale. Non vi siete perso.<br />

Le navi sapevate sempre dove andavano. Pensando al terrore che<br />

avevate un tempo degli oceani, come vedete le cose, adesso?”<br />

“Ci ho pensato molto, padre, e credo che la differenza tra noi indiani,<br />

o mezzo indiani, e gente come gli spagnoli, gli inglesi, gli<br />

olandesi, i francesi… gente che sa andare dove va… credo che la<br />

differenza stia nel fatto che per loro il <strong>mondo</strong> è un luogo più sicuro”<br />

(p. 251).<br />

Sapere dove si va, tracciare fiduciosamente la carta geografica<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong> e renderla uno spazio domestico e un “luogo più<br />

sicuro” è l’espressione di una particolare formazione storica.<br />

Qui la rappresentazione <strong>del</strong> soggetto e le rappresentazioni <strong>del</strong><br />

<strong>mondo</strong> diventano una cosa sola: un solo quadro racchiuso nella<br />

cornice astratta <strong>del</strong>la ragione e nella rassicurazione universale di<br />

un umanesimo che ha per centro il soggetto. La descrizione di<br />

Naipaul perfora quella carta geografica e le sue fiduciose appropriazioni<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, invitandomi a considerare ciò che si trova<br />

sull’altro lato <strong>del</strong> quadro. Qui, nell’infrangere la legge soggettiva<br />

di un’egemonia visiva, viene spiazzata in maniera determinante<br />

la premessa che “la verità diventa certezza <strong>del</strong> rappresentare<br />

stesso” (Heidegger 1950a, p. 84). Nella riscrittura, nel cambio<br />

di rotta di una particolare storia caraibica, l’evento letterario<br />

svela una deviazione nella logica <strong>del</strong>la rappresentazione: questo<br />

mi spinge a considerare non solo ciò che viene esposto, rappresentato,<br />

ma anche ciò che sta dietro la visuale, che rimane nell’ombra,<br />

che continua a non essere rappresentato. In ciò che sta<br />

dietro e che non viene rappresentato, l’evento <strong>del</strong>l’arte rivela<br />

un’interruzione nella linearità <strong>del</strong> “progresso” temporale, che<br />

perturba la rappresentazione <strong>del</strong>la “verità” come accumulo cristallino<br />

e razionale <strong>del</strong>la “conoscenza”.<br />

Su questo ciglio, lungo questo confine fra tranquillità e dispersione,<br />

si palesa uno spazio distruttivo, un territorio esotico, una<br />

<strong>soglia</strong> in cui la comprensione precedente cede il posto a una nuova<br />

configurazione:<br />

Cuando vives en la frontera<br />

la gente ti cammina accanto, il vento ti ruba la voce,<br />

sei una burra, buey, capro espiatorio


SULLA SOGLIA 205<br />

precursore di una nuova razza,<br />

mezzo e mezzo (sia donna che uomo, nessuno dei due)<br />

un genere nuovo… (Anzaldúa 1987, p. 194).<br />

Possesso<br />

La scrittura, le parole, il linguaggio… tutti propongono viaggi<br />

in uno stato di vulnerabilità in cui le storie subiscono l’influsso<br />

di controcorrenti di un <strong>mondo</strong> più ampio e ambiguo. Qui,<br />

nell’inclemenza <strong>del</strong> potere e <strong>del</strong>la gerarchia, alcune storie sopravvivono,<br />

sospinte verso la spiaggia <strong>del</strong> riconoscimento istituzionale,<br />

in cui vengono riconosciute, tradotte, travestite, contestate,<br />

assimilate, incorporate. Altre rimangono alla deriva, apparentemente<br />

perdute nel pelago <strong>del</strong>la memoria incerta, lungi dalle<br />

coste <strong>del</strong> riconoscimento, fuori dalla vista e dall’ascolto. Forse<br />

proprio la metafora <strong>del</strong>la terra firma e <strong>del</strong> mare, <strong>del</strong>la relativa<br />

stabilità <strong>del</strong> terreno sotto ai piedi contrapposta alle correnti e<br />

agli umori ondivaghi <strong>del</strong>le acque, dimostra nella maniera più efficace<br />

i limiti <strong>del</strong> mio linguaggio. Questo perché mi è stato insegnato<br />

a pensare alla storia, alla cultura, al potere e all’identità,<br />

nonché al fatto che io vivo in questa eredità, nell’ambito di istituzioni<br />

in cui il metafisico e il fisico si sovrappongono nella stabilità<br />

razionale <strong>del</strong>la logica strumentale. Nondimeno, questo<br />

senso <strong>del</strong>la verità forse sottende l’obbedienza a una serie di asserzioni<br />

che all’atto pratico minacciano la possibilità <strong>del</strong>la libertà.<br />

Nella critica che Lévinas muove a Heidegger, troviamo il<br />

seguente brano:<br />

Riunendo la presenza sulla terra e sotto il firmamento <strong>del</strong> cielo, l’attesa<br />

degli dei e la compagnia dei mortali, nella presenza presso le cose,<br />

che equivale a costruire e a coltivare, Heidegger, come tutta la storia<br />

occidentale, concepisce la relazione con altri come ciò che si svolge<br />

nel destino dei popoli a dimora stabile, possessori e costruttori <strong>del</strong>la<br />

terra. Il possesso è la forma per eccellenza nella quale l’Altro diventa<br />

il Medesimo diventando mio (Lévinas 1961, p. 44).<br />

Che cosa succede a questo senso <strong>del</strong>la verità, quando “il destino<br />

dei popoli a dimora stabile”, e il suo culmine nella chiusura<br />

<strong>del</strong>la narrazione <strong>del</strong>la nazione, viene interrotto e messo in discus-


206 IAIN CHAMBERS<br />

sione da popoli, storie, culture e linguaggi formati e foggiati nel<br />

movimento per il <strong>mondo</strong>? 1 . Che cosa accade quando un’economia<br />

scritturale si ritrova a confronto con un’economia orale? Il<br />

<strong>mondo</strong> apparentemente arcaico <strong>del</strong>le steppe, <strong>del</strong>le savane, <strong>del</strong>le<br />

praterie e dei deserti, che era ed è abitato, ma non posseduto, dai<br />

nomadi, trasmette una domanda che continua ancora a farsi sentire<br />

nei nostri tempi. Ovviamente, si riflette anche alla luce dei territori<br />

usurpati degli emigrati moderni. Viaggiare e attraversare i limiti<br />

arbitrari di un tempo e di uno spazio imposti (l’instaurazione<br />

geopolitica <strong>del</strong>la nazione, la frontiera e la comunità astratta <strong>del</strong>l’identità<br />

etnica) è altresì la caratteristica più evidente <strong>del</strong> bagaglio<br />

<strong>del</strong>l’emigrante. Qui c’è indubbiamente una modalità di abitazione<br />

cui Heidegger non ha prestato attenzione. Forse, come osserva<br />

Lévinas, la sua indole rustica non gli ha fornito gli strumenti per<br />

andare col pensiero al di là dei limiti <strong>del</strong> sedentario al massimo<br />

costituito dal sentiero nella foresta che unisce insediamento a insediamento,<br />

casa con casa.<br />

Tutto questo per insistere sulla posizione <strong>del</strong> pensiero e sulla<br />

geografia <strong>del</strong> discorso. Come sostiene Franco Cassano (1996)<br />

trattando <strong>del</strong>la posizione subalterna e <strong>del</strong>la forza sovversiva <strong>del</strong><br />

“pensiero meridiano”, le coordinate materiali in cui ha luogo,<br />

parla e ha effetto il pensiero hanno conseguenze profonde. L’autore<br />

prosegue asserendo che nell’ambito <strong>del</strong>l’episteme occidentale,<br />

la distinzione che emerge tra una prospettiva ancorata alla terra<br />

e una sfiorata dall’infinita provocazione di un orizzonte marino<br />

non è priva di conseguenze. Quanto appena detto trova una chiara<br />

esemplificazione, per dirne una, nell’identificazione, operata da<br />

Luce Irigaray (1980), di Friedrich Nietzsche come “amante <strong>del</strong><br />

mare”. Tra la stabile continuità <strong>del</strong> terreno e l’oscillazione ondeggiante<br />

<strong>del</strong>l’acqua salata, la prospettiva marittima rimane sempre<br />

aperta. L’instabile orizzonte marino dà adito a una critica <strong>del</strong>le<br />

coordinate terrestri perenni annunciate nel Geviert o “quadratura”<br />

di Heidegger. La presenza <strong>del</strong> mare vanifica la possibilità di<br />

chiudere e controllare la visuale, nonché di fissare una posizione<br />

stabile. Le culture, le città e la cittadinanza rimangono sospese in<br />

1 Si veda l’ottimo saggio di Homi K. Bhabha su questa scissione <strong>del</strong> nazionale e su<br />

questa duplicazione <strong>del</strong>la modernità, intitolato DissemiNazione, in Bhabha 1994.


SULLA SOGLIA 207<br />

uno stato liquido. <strong>Sulla</strong> costa, tra il moto incessante <strong>del</strong> mare e la<br />

stabilità ancestrale <strong>del</strong> terreno, le gerarchie verticali di potere e di<br />

conoscenza slittano in un piano orizzontale dispersivo (Cassano<br />

1996, p. 26).<br />

Contro il canto perenne <strong>del</strong> suolo, emerge il percorso <strong>del</strong>la<br />

tecnologia, necessaria per tracciare la rotta, navigare e solcare i<br />

mari. Nell’ostilità verso il mare è insito il rifiuto <strong>del</strong>la sua mobilità<br />

distruttiva e <strong>del</strong>la sua minaccia alle rassicurazioni erose dal<br />

tempo <strong>del</strong> sentiero nella foresta e ai contorni immutabili <strong>del</strong>la<br />

terra. La presenza permeante <strong>del</strong> mare che unisce e al contempo<br />

separa l’arcipelago <strong>del</strong>la geografia ellenica <strong>del</strong> pensiero manca<br />

<strong>del</strong> tutto nell’evocazione di Heidegger di quella tradizione. Egli<br />

insiste sulla forza d’attrazione <strong>del</strong>la terra, sul terreno fisico che<br />

fornisce le strade <strong>del</strong>l’essenza, e in questo modo contrasta in maniera<br />

evidente con l’abbraccio filosofico di Nietzsche <strong>del</strong> “mare<br />

aperto”. Dato che proprio il mare determina la moderna tecnologia<br />

(l’ultima e più radicale realizzazione <strong>del</strong>la metafisica occidentale),<br />

Heidegger ha ragione a condannare la filosofia marinara di<br />

Nietzsche come espressione <strong>del</strong>l’ultimo metafisico. Nel Geviert<br />

di Heidegger il pensiero trova sostegno nell’asse verticale tra la<br />

terra e il cielo, i mortali e gli dei, e l’interruzione di quest’asse a<br />

opera <strong>del</strong> moto instancabile <strong>del</strong>le onde e la spaccatura orizzontale<br />

di un infinito secolare viene bandita dalla rotta terrestre <strong>del</strong><br />

nostro essere sulla terra.<br />

Naturalmente questo significa spingere al punto estremo<br />

quel che rimane assai più ambiguo. È bene ribadire che Heidegger<br />

stesso sosteneva di non essere contrario alla tecnologia, bensì<br />

che la sua posizione fosse interna alla tecnologia. Pertanto,<br />

mentre certamente riconosceva la sua nostalgia rurale, il pensiero<br />

di Heidegger era anche accarezzato da brezze marine, sebbene<br />

fosse estremamente restio a prendere pienamente in considerazione<br />

il <strong>mondo</strong> marino. Forse una riluttanza <strong>del</strong> genere, senza<br />

l’evocazione <strong>del</strong>la vita rurale e la luce antica <strong>del</strong>la radura <strong>del</strong>le<br />

foreste settentrionali, serve anche a farci tirare indietro di fronte<br />

alla scelta apparentemente semplice tra le tracce stabili <strong>del</strong> conservatorismo<br />

radicato e l’errare eternamente per mare <strong>del</strong>la rotta<br />

priva di approdo. Imparando sia dal mare che dalla terra ferma<br />

si ha l’idea di un approfondimento <strong>del</strong>l’arte <strong>del</strong>la navigazione,<br />

in cui né la forza d’attrazione verticale <strong>del</strong>le radici, né l’infi-


208 IAIN CHAMBERS<br />

nito orizzontale <strong>del</strong>le rotte riescono mai a rendere davvero certa<br />

la carta geografica.<br />

Ma allora qual è la questione che Heidegger non ha udito? La<br />

costrizione e la recinzione <strong>del</strong>le genti e degli animali erranti per<br />

tutta la faccia <strong>del</strong>la terra non implica altresì la più profonda violazione<br />

<strong>del</strong>la terra stessa? Dico questo perché arrestare un simile<br />

movimento al fine di costruire significa stabilire una gerarchia e<br />

prendere possesso <strong>del</strong> terreno. Significa accumulare le energie<br />

umane e le possibilità terrestri per edificare e coltivare, nonché<br />

inaugurare quella “riserva” di Gestell che oggi culmina nella metafisica<br />

moderna <strong>del</strong>l’informazione pura, capace di inquadrare il<br />

<strong>mondo</strong> in un calcolo unico, in un costrutto sempre pronto per essere<br />

rappresentato e sfruttato 1 .<br />

Se la metafisica è essenzialmente quel pensiero che trasforma<br />

la terra in qualcosa di disponibile per l’umanità, un oggetto<br />

<strong>del</strong>la razionalizzazione tecnologica, allora nemmeno l’antico<br />

ponticello di legno che attraversa il fiume o il mulino a vento<br />

che cattura l’energia eolica con le sue pale possono sottrarsi a<br />

questo processo di appropriazione 2 . In questa storia, che non è<br />

semplicemente la storia <strong>del</strong>l’Occidente (per quanto a partire<br />

dal 1500 abbia esteso la propria egemonia e razionalità in quel<br />

contesto geopolitico), è sita una gerarchizzazione <strong>del</strong>la vita, un<br />

accumulo di potere, che ha represso la sua responsabilità per lo<br />

stato terrestre che ha stabilito. Come strada in apparenza scelta<br />

tanto tempo fa, la storia <strong>del</strong>l’insediamento agrario e <strong>del</strong>lo sviluppo<br />

industriale, la fondazione <strong>del</strong>la città e <strong>del</strong>la polis, nonché<br />

la fusione di queste forze per formare territorio, nazione e impero,<br />

sembrano irreversibili. Insistere, tuttavia, sul fatto che si<br />

tratta di una storia particolare che mi porta nel luogo da cui<br />

parlo oggi, significa insistere su un’eredità problematica, soggetta<br />

all’interrogativo di altre storie, altri modi di essere; dove<br />

1 Sull’apogeo <strong>del</strong> “pensiero rappresentativo” nella “cibernetica”, che porta all’attuazione<br />

<strong>del</strong>la metafisica e alla “fine <strong>del</strong>la filosofia”, si veda Heidegger 1962c.<br />

2 I due esempi sono tratti dalla peana di Heidegger su una tecnologica più naturale,<br />

meno arrogante, preindustriale in La questione <strong>del</strong>la tecnica (1962a), nonché dalla figura<br />

cruciale <strong>del</strong> ponte che riunisce la posizione de das Geviert, ossia la quadratura, in Costruire,<br />

Abitare, Pensare (1954b).


SULLA SOGLIA 209<br />

ciò che esiste al di là <strong>del</strong>la mia rappresentazione si ripropone<br />

per rendere precarie le mie pretese.<br />

La casa <strong>del</strong> linguaggio<br />

Lévinas ha ragione a ribadire i limiti <strong>del</strong> pensiero di Heidegger<br />

relativamente alla tematica <strong>del</strong>l’abitazione, e a criticare il suo implicito<br />

appello a una dimora sedentaria radicata in un terreno che<br />

può anche generare orrore e demoni omicidi intenti a difendere<br />

ed estendere la loro casa a spese degli altri. Nondimeno, la piega<br />

radicale che dà Heidegger alla nostra concezione <strong>del</strong> linguaggio<br />

porta verso un’apertura irreversibile nel pensiero <strong>del</strong> nostro luogo<br />

nel <strong>mondo</strong>. Nella sua Lettera sull’umanismo (1946), quella sintesi<br />

<strong>del</strong>la sua opera che ci riporta verso Essere e il Tempo (1927) mentre<br />

<strong>del</strong>inea le future strade <strong>del</strong> pensiero, Heidegger (1962a, p.<br />

193) proferisce la famosa asserzione secondo cui: “Il linguaggio è<br />

la casa <strong>del</strong>l’Esserci. Nella sua casa vive l’uomo”.<br />

Leggere questo saggio, assieme a Costruire, abitare, pensare<br />

(1954b) e alla successiva raccolta di saggi In cammino verso il linguaggio<br />

(1959) significa sentire, nelle parole di questo pensatore,<br />

il racconto di una maniera di abitare i cui limiti, paradossalmente,<br />

mi salvano: mi liberano dalle ambizioni illimitate <strong>del</strong>la metafisica,<br />

da una modalità <strong>del</strong> pensiero e <strong>del</strong>l’esistenza che ritiene di essere<br />

anche in grado di dominare e svelare la logica <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>. Pensare<br />

con questi limiti e nell’ambito di questi limiti consente di “liberarci<br />

dall’interpretazione tecnica <strong>del</strong> pensiero” (p. 268). Se diamo<br />

ascolto a Borderland/La Frontera di Gloria Anzaldúa, il linguaggio,<br />

in quanto essere, in quanto casa che risiede nella mia lingua e<br />

nel mio corpo (“io sono la mia lingua”, scrive la scrittrice chicana),<br />

diviene il percorso di un serpente mitico che si contorce nel<br />

tempo e nel corpo, nelle parole e nella storia, oltrepassando i confini,<br />

riscrivendo le aspettative <strong>del</strong>l’espressione linguistica, resistendo<br />

alla prescrizione e alla riconfigurazione <strong>del</strong>l’espressione<br />

linguistica nell’atto <strong>del</strong> divenire (Anzaldúa 1987, p. 59). Nel linguaggio<br />

e <strong>del</strong> linguaggio, intrappolata nel flusso <strong>del</strong> significato, la<br />

mia essenza non è né soggetto, né oggetto (Minh-ha 1991). Il corpo<br />

scrive, viene scritto, dice, è detto (Cixous 1997). Il mio essere<br />

nel linguaggio, il mio linguaggio nell’essere, supera la logica sin-


210 IAIN CHAMBERS<br />

golare <strong>del</strong>la grammatica. L’idea <strong>del</strong> linguaggio come semplice<br />

strumento, trasmissione cristallina <strong>del</strong>la mia volontà, viene qui infranta<br />

in una maniera che smantella radicalmente e irreversibilmente<br />

un’intera tradizione <strong>del</strong>l’agire storico e di comprensione<br />

intellettuale.<br />

“Soggetto” e “oggetto” sono infatti denominazioni improprie <strong>del</strong>la<br />

metafisica, che fin dall’inizio si è impossessata <strong>del</strong>l’interpretazione<br />

<strong>del</strong> linguaggio nella forma <strong>del</strong>la “logica” e <strong>del</strong>la “grammatica” occidentali.<br />

Ciò che si nasconde in questo accadimento, oggi lo possiamo<br />

solo sospettare (Heidegger 1946, p. 268) 1 .<br />

Il linguaggio trasmette sempre di più di quanto io voglia o<br />

possa comprendere. La sua storia precede e supera sempre qualunque<br />

cosa “io” (la voce e il corpo contingenti) riesca ad articolare<br />

e a infondervi. Ciò che va al di là di me è l’alterità <strong>del</strong> corpo,<br />

il <strong>mondo</strong> che mi rende sia un soggetto che un altro, che al<br />

contempo mi investe e mi eccede. Il linguaggio parla e al tempo<br />

stesso rimane indecifrabile, conturbando la linearità <strong>del</strong> pensiero<br />

e la sua convinzione di avere afferrato la verità. Per dirla come<br />

la saggista e regista Trinh T. Minh-ha, “la vita è rotonda”.<br />

Seguire l’arco di un siffatto pensiero significa registrare l’impossibilità<br />

di nominare un punto di partenza o di arrivo definitivi, e<br />

con ciò registrare una potenziale dispersione <strong>del</strong> dominio. Tra i<br />

suoni e i silenzi <strong>del</strong> linguaggio passano il ritmo, l’andatura <strong>del</strong><br />

basso, il canto <strong>del</strong>la terra (Haar 1993). Significa affrontare una<br />

libertà che Lévinas definisce come infinito. Si tratta di una modalità<br />

di pensiero non più intenta a costruire l’oggetto di un discorso<br />

che si autoconferma da solo nel quale io, il soggetto, sono<br />

il centro che monopolizza e controlla l’esito <strong>del</strong> pensiero (Heidegger<br />

1950a, p. 93).<br />

Alla deriva<br />

Prestiamo nuovamente ascolto a Heidegger. Nella quarta Appendice<br />

che correda L’epoca <strong>del</strong>l’immagine <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> (1950a), si<br />

1 L’argomento è stato trattato diffusamente da Nietzsche 1886a.


SULLA SOGLIA 211<br />

intravede inequivocabilmente il nucleo <strong>del</strong>la critica <strong>del</strong>l’antropologia<br />

nella frase: “Con l’interpretazione <strong>del</strong>l’uomo come subiectum,<br />

Cartesio crea il presupposto metafisico per la successiva antropologia<br />

di ogni specie e indirizzo” (p. 84) 1 . In seguito, nella<br />

decima Appendice, si <strong>del</strong>ineano in maniera inequivocabile le implicazioni<br />

<strong>del</strong>la genesi metafisica <strong>del</strong>l’antropologia:<br />

L’antropologia è quell’analisi <strong>del</strong>l’uomo che, in fondo, già sa ciò che<br />

l’uomo è, e quindi non può porsi il problema di che cosa esso sia. Se<br />

si ponesse questo problema, essa dovrebbe infatti riconoscersi rovesciata<br />

e oltrepassata. Ma come si potrà esigere questo dall’antropologia,<br />

quando essa non si propone altro che l’assicurazione <strong>del</strong>l’autocertezza<br />

<strong>del</strong> subiectum? (p. 98).<br />

Nel potere scientifico <strong>del</strong>lo sguardo e nell’insistenza neutrale<br />

<strong>del</strong>l’osservazione, la verità è stata assunta come qualcosa di inaccessibile.<br />

In questo contesto è di rigore declinare il verbo al passato,<br />

perché proprio questa tematica è diventata la preoccupazione<br />

principale <strong>del</strong>l’etnografia contemporanea, conferendole un significato<br />

per tutte le scienze sociali. Il linguaggio (quello <strong>del</strong>l’osservazione<br />

sul campo, quella <strong>del</strong>la descrizione nel testo) era neutrale,<br />

puramente mimetico, il riflesso diretto <strong>del</strong>la realtà, in grado,<br />

osservati alcuni protocolli disciplinari, di aprire la porta alla<br />

verità <strong>del</strong>la situazione individuata dallo sguardo critico. Eppure,<br />

l’oggettività universale di questo presunto realismo dipende, paradossalmente,<br />

da un soggettivismo intellettuale che rivela inevitabilmente<br />

il suo lignaggio nell’autorità locale (nonché nei limiti)<br />

<strong>del</strong> razionalismo occidentale.<br />

Nella crisi contemporanea di questa particolare struttura<br />

<strong>del</strong>la conoscenza, occorre altresì registrare la più grave crisi<br />

1 L’impossibilità di andare al di là <strong>del</strong> terreno che offre alla disciplina una voce è stata<br />

perseguita, come è noto, da Michel Foucault (1966), ma è centrale anche nella critica all’antropologia<br />

a opera di Johannes Fabian (1983). Fabian scrive: “L’uomo non ha ‘bisogno’<br />

<strong>del</strong> linguaggio; l’uomo, nella sua comprensione dialettica e transitiva <strong>del</strong>l’essere, è il<br />

linguaggio (così come non ha bisogno di cibo, riparo e così via, ma è il proprio cibo e la<br />

propria casa)” (p. 188). Le parole e le cose di Foucault (1966) può essere interpretato come<br />

un’orchestrazione storica dettagliata <strong>del</strong>la critica elaborata da Heidegger (1946) contro<br />

“l’umanismo” in quanto epistemologia focalizzata sul soggetto che, per dirla come<br />

Foucault, inventa “l’uomo” per confermare tutti gli episodi <strong>del</strong>la storia <strong>del</strong>lo stesso.


212 IAIN CHAMBERS<br />

<strong>del</strong>la critica occidentale e <strong>del</strong>le sue pretese sul <strong>mondo</strong>. Questo<br />

perché, qualunque rappresentazione sia oggetto di osservazione<br />

(la vita contemporanea nei villaggi <strong>del</strong>l’Indonesia meridionale,<br />

il primo contatto tra l’Europa e le Americhe nel Cinquecento,<br />

le vestigia eterne <strong>del</strong>la magia nella metropoli moderna),<br />

l’analisi è costretta ad affrontare una relazione con l’alterità<br />

che non è possibile contenere nell’ambito <strong>del</strong> linguaggio disponibile<br />

(Tsing 1993). Quello che viene afferrato, carpito,<br />

concettualizzato (“concetto” deriva dal latino cum-capio, ossia<br />

“afferrare”) non può essere considerato isolatamente, perché<br />

ingloba qualcosa che permea ed eccede la voce <strong>del</strong> critico.<br />

Analizzare significa rendere il proprio linguaggio soggetto al<br />

dubbio, aprirlo a un processo di mondità che non può essere<br />

controllato da un autore o da un’autorità individuali. L’analista<br />

e l’oggetto di analisi vengono uniti e mediati attraverso il <strong>mondo</strong><br />

rappresentato: la comprensione <strong>del</strong> secondo (ossia “l’oggetto”<br />

<strong>del</strong>l’indagine”) non è separabile dalla comprensione <strong>del</strong><br />

primo (il “soggetto” che indaga). Essi esistono in un processo<br />

di iscrizione nel <strong>mondo</strong>, ma né come oggetto, né come soggetto.<br />

Sebbene negati sistematicamente nella neutralità <strong>del</strong>l’esposizione<br />

critica, ognuno autorizza l’altro in un linguaggio che<br />

nessuno dei due possiede <strong>del</strong> tutto. Non c’è una realtà testuale<br />

(o etnografica) che attende di essere interpretata, bensì un’esperienza<br />

testuale (o etnografica) in cui chi vi prende parte viene<br />

iscritto e articolato nell’atto che precede e supera l’interpretazione<br />

(Clifford 1988).<br />

Le differenze <strong>culturali</strong>, storiche ed economiche, le questioni<br />

di potere, subalternità e discriminazione, per quanto sovente distinte<br />

in categorie e realtà non comunicanti, vengono incessantemente<br />

avvicinate. Non c’è bisogno di notare che la vicinanza cui<br />

ci si riferisce in questa sede trova di rado riconoscimento in termini<br />

politici o economici; gli interessi che godono <strong>del</strong> mantenimento<br />

<strong>del</strong>le distanze sono troppo potenti per consentirlo. Alla<br />

fine, persino l’etnologo, persino il critico, in quanto rappresentanti<br />

limitati <strong>del</strong>l’autorità occidentale, hanno sempre l’ultima<br />

parola. Tuttavia, al di là <strong>del</strong>l’immediatezza di questi risultati, il<br />

dialogo inaugurato persevera come presenza sregolata, destinata<br />

a fare ritorno a più riprese, per mettere alla prova, distruggere e<br />

superare i limiti <strong>del</strong> discorso che tenta di limitarla. La verità che


SULLA SOGLIA 213<br />

si incontra nella conversazione spezzettata consentita dal linguaggio<br />

e che porta verso un testo (antropologico, storico, letterario,<br />

critico) non è una verità che si limita a riflettere il soggetto<br />

o l’oggetto <strong>del</strong> linguaggio, bensì è il luogo di “uno strutturale<br />

differenziale di potere e di un substrato di violenza” (p. 97) che<br />

rendono possibili le condizioni per cui quell’incontro viene registrato<br />

e pensato.<br />

La <strong>soglia</strong> <strong>del</strong> pensiero<br />

Trasformare l’indagine dal semplice riflesso <strong>del</strong>la mia soggettività<br />

individuale (essere) a un linguaggio che mi precede e mi<br />

eccede (Essere) significa cercare di rispondere alla problematica<br />

<strong>del</strong>l’abitazione non più in termini soggettivi, utilitaristici o razionalistici,<br />

come semplice “fare e costruire” che già sa che cos’è<br />

l’abitazione e pertanto non può mai metterla in discussione, soltanto<br />

confermarla. Mi si richiede, piuttosto, di rispondere in termini<br />

di ciò che Heidegger chiama “e-sistenza”, nella quale l’Essere<br />

non può venire controllato e manipolato da singoli esseri,<br />

non può essere fermato in un linguaggio che credo di possedere<br />

e controllare. In quanto potere <strong>del</strong> possibile, questo senso <strong>del</strong>l’Essere,<br />

al pari <strong>del</strong> linguaggio stesso, eccede e al contempo precede<br />

la mia esistenza. Ecco ciò che mi consente, mi istiga a essere:<br />

in un modo che nessuna logica, linguistica o tecnologica che<br />

sia, può mai spiegare completamente 1 . Seguire questa strada e<br />

rifiutare la comprensione puramente razionale <strong>del</strong>la realtà significa<br />

sottrarre il pensiero a una filosofia che “domina il destino<br />

<strong>del</strong>la storia occidentale e di tutta la storia intesa in senso europeo”<br />

(Heidegger 1946, p. 282). Significa sforzarsi di uscire dalla<br />

casa <strong>del</strong> pensiero occidentale, una casa edificata sull’abbandono<br />

<strong>del</strong>l’Essere e che pertanto è veramente il sito <strong>del</strong>la moderna<br />

condizione di senzatetto, perché si erge sull’incapacità di fare il<br />

1 Forse questo ci aiuta a superare la difficoltà iniziale dovuta all’avere a che fare con<br />

frasi apparentemente criptiche come “l’e-sistenza così intesa non è solo il fondamento <strong>del</strong>la<br />

possibilità <strong>del</strong>la ragione, ratio, ma è ciò in cui l’essenza <strong>del</strong>l’uomo conserva la provenienza<br />

<strong>del</strong>la sua determinazione”, in Heidegger 1946, p. 277.


214 IAIN CHAMBERS<br />

punto <strong>del</strong>la situazione nel <strong>mondo</strong> (pp. 293-298) 1 . Separarsi da<br />

questo scenario vuole dire ritirarsi dal puramente razionale che<br />

rende possibile l’illusione di essere i padroni <strong>del</strong> linguaggio e<br />

che tutto si riveli nella rappresentazione. Chi oltrepassa questo<br />

limite, in certo senso, “misconosce che c’è un pensiero più rigoroso<br />

di quello concettuale” (p. 308).<br />

In questo supplemento che eccede e nega la logica <strong>del</strong>la mia<br />

spiegazione, i limiti <strong>del</strong> mio habitat vengono inscritti e la sua<br />

storia diviene una storia. La struttura <strong>del</strong> mio pensiero, la struttura<br />

che mi posiziona come soggetto <strong>del</strong>la storia, si rivela essere<br />

la verità di una posizione, la peculiarità di una voce, la posizione<br />

di un corpo, di una cultura, di una storia. Ciò che rimane impensabile<br />

nell’ambito <strong>del</strong> mio sistema di rappresentazione, che<br />

ne è esterno eppure lo investe e lo supera, dissemina una verità<br />

che non sono in grado di possedere, che sospende l’autorità <strong>del</strong>la<br />

mia spiegazione (Purdom 1995). Ciò mi conduce sulla <strong>soglia</strong><br />

di un altro pensiero e mi spinge per la mia strada. La logica unilaterale,<br />

e la sordità alla risposta, che viene ora stabilita nel brusio<br />

generalizzato <strong>del</strong> dominio <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, può essere intersecata<br />

da una narrazione, da un logos diverso che dipende dall’ascolto 2 .<br />

Vuol dire opporsi a una modalità di pensiero che prescrive, che<br />

ignora l’ascolto, ovvero una cultura che nega “le premesse stesse<br />

<strong>del</strong>la cultura perché si propone di predicare invece che coltivare”<br />

(Corradi Fiumari 1985, p. 21; corsivo nell’originale). Ritirarsi<br />

dall’accecante trasparenza di una logica che parla senza attendersi<br />

o richiedere una risposta significa incontrare nelle ombre<br />

<strong>del</strong> discorso occidentale la perdita <strong>del</strong>la propria nomina a “sog-<br />

1 Come si sforza di spiegare Heidegger, questo senso di mancanza di una casa è anche<br />

di natura profondamente ontologica. Non ha nulla a che fare con la casa nel senso di appartenenza<br />

a una “patria” o nazione. La mancanza di una casa “riposa nell’abbandono<br />

<strong>del</strong>l’essere proprio <strong>del</strong>l’ente” (pp. 291-292).<br />

2 A questo punto sto semplicemente chiosando la dettagliata trattazione di questa tematica<br />

offerta da Gemma Corradi Fiumari (1985). Questo pensiero aveva già fatto la sua<br />

comparsa nel 1951, in un articolo chiamato Logos, relativo al concetto <strong>del</strong> Leghein che,<br />

come ribadisce Heidegger, fornisce una comprensione più radicale <strong>del</strong> logos, dato che intende<br />

sia parlare che narrare, pronunciare e anche unire, raccogliere, radunare. L’altro lato<br />

<strong>del</strong> leghein è andato, a poco a poco, perduto e abbandonato. Il concetto che contiene è<br />

fondamentale anche per l’idea <strong>del</strong>la narrazione come modalità di conservazione che trattiene<br />

nel suo significato ciò che raduna, ricorda e riunisce l’ascolto. In altre parole, un logos<br />

dipendente dall’ascolto.


SULLA SOGLIA 215<br />

getto” nei confronti di un “oggetto”. Questo differire e deferire<br />

<strong>del</strong>la logica filosofica è altresì uno slittamento, un moto di allontanamento<br />

dal linguaggio dispotico <strong>del</strong> centro nel quale le illusioni<br />

soggettiviste <strong>del</strong>l’umanesimo mi avevano collocato. Questo<br />

perché implica l’abbandono di quella metafisica che propone<br />

“un’interpretazione già stabilita <strong>del</strong>la natura, <strong>del</strong>la storia, <strong>del</strong><br />

<strong>mondo</strong>, <strong>del</strong> fondamento <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, cioè <strong>del</strong>l’ente nella sua totalità”<br />

(Heidegger 1946, p. 275).<br />

In un linguaggio soggetto alla possibile interferenza di una risposta,<br />

ciò che sostiene il discorso è il silenzio. Il silenzio avviluppa<br />

continuamente il linguaggio. Il silenzio oppone resistenza alla<br />

comprensione puramente razionale <strong>del</strong> linguaggio, dato che alimenta<br />

le ombre che mettono in discussione e frustrano la logica<br />

che l’interesse strumentale vorrebbe imporre. I significanti slittano<br />

via nella significazione fluttuante, il linguaggio si fa opaco, si<br />

ripropone il mistero, perché il silenzio non è sinonimo <strong>del</strong> nulla: è<br />

una domanda sita nell’intreccio <strong>del</strong> linguaggio. Il silenzio è il ponte<br />

tra il respiro, il suono e l’espressione, è la sonorità che rende<br />

possibile all’essenza <strong>del</strong> linguaggio di distinguersi (Sciacca, citato<br />

in Corradi Fiumani 1985, p. 136; si veda inoltre Luce Irigaray<br />

1983). Il silenzio non è residuale, è essenziale. Naturalmente,<br />

istintivamente ci distraiamo dall’attesa che accompagna la risposta,<br />

perché la “tragedia” <strong>del</strong>l’ascolto, contrapposta alla comodità<br />

<strong>del</strong>la prospettiva circoscritta, è, per citare nuovamente le parole<br />

di Edmond Jabès, che esso apre una relazione con l’infinito, l’impensato,<br />

che propone una misura <strong>del</strong> silenzio per mezzo <strong>del</strong>l’ignoto<br />

e <strong>del</strong>l’imperscrutabile (Jabès, citato in Buci-Glucksmann<br />

1992, pp. 179-180). Questo ci porta vicini alla suggestiva asserzione<br />

dei sacerdoti <strong>del</strong>le colline Matopos <strong>del</strong>lo Zimbabwe: “Dio è il<br />

Linguaggio” (Ranger 1996, p. 158).<br />

Tutto ciò comporta una perdita di egocentrismo che può<br />

produrre un inatteso beneficio di natura etica 1 . Si tratta però anche<br />

di un passaggio di vulnerabilità estrema: una strada <strong>del</strong>icata<br />

1 Si tratta altresì di un passaggio che può portare al chiuso narcisismo di un’interminabile<br />

malinconia, alle ambiguità <strong>del</strong>la nostalgia che va alla ricerca in un passato immaginato<br />

di un futuro migliore, oppure al lutto che contrassegna il termine di una certa storia<br />

e l’apertura verso un’altra. Sia la malinconia che il lutto rimangono pervicacemente sospesi<br />

nelle ambiguità <strong>del</strong> ritorno contemporaneo <strong>del</strong> Barocco. Un’interessante discussione di<br />

questi termini è contenuta in Wheeler 1995.


216 IAIN CHAMBERS<br />

e perigliosa da intraprendere, perché è possibile perdere le proprie<br />

connessioni, smarrirsi. Il mio linguaggio e la mia ragione, la<br />

dimora <strong>del</strong> mio essere, viene esposta all’eterogeneo, all’incalcolabile,<br />

al discontinuo, alle configurazioni sconosciute e non rassicuranti<br />

di una diversa “mondità <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>” 1 . Per riecheggiare<br />

l’enfasi critica di Antonio Gramsci (in «L’Avanti», 1917): “Il<br />

<strong>mondo</strong> è grande e terribile e complesso. Ogni azione nella sua<br />

complessità desta echi inattesi”.<br />

Oltre alla relazione etimologica, nell’antico norreno, tra casa<br />

e dimora, il termine dwelling (dimora) in antico inglese si riferiva<br />

anche all’idea di essere fuorviato, indotto in errore e in eresia,<br />

e quindi, paradossalmente, esprimeva il concetto di vagabondare<br />

(Onions 1996) 2 . La semantica arcana di dimora risuona<br />

nella maniera più evidente nel famoso commento di Freud sul<br />

familiare o heimlich che si trasforma bruscamente nelle sembianze<br />

fastidiose <strong>del</strong> perturbante o unheimlich. In questa vicinanza,<br />

all’interno <strong>del</strong>la stessa parola si concentra l’attenzione sul<br />

concetto di linguaggio iscritto nel vagabondare; non soltanto<br />

iscritto in ciò che vaga relativamente alla comprensione convenzionale<br />

e linguistica, ma anche in ciò che viaggia e quindi ci avvia<br />

sul sentiero non segnato. In questo modo, sia la costruzione<br />

linguistica che quella storica <strong>del</strong>la nostra dimora e <strong>del</strong> nostro essere<br />

nel linguaggio divengono un po’ meno familiari e un po’<br />

più precarie.<br />

Lo spaesamento<br />

Facendo i conti con i limiti <strong>del</strong> mio linguaggio, il mio senso<br />

<strong>del</strong>la casa, e con esso il senso <strong>del</strong>la proprietà culturale che lo<br />

comprende e rafforza, vengono a essere perseguitati dal ritorno<br />

1 Il concetto è di Heidegger 1950b. Tuttavia, è stato sfruttato spesso e in maniera strategica<br />

nella critica postcoloniale da Gayatri Chakravorty Spivak; si veda, ad esempio, Spivak<br />

1990.<br />

2 Le medesime connotazioni si riscontrano anche nell’antico altotedesco twellan, nell’antico<br />

svedese e nell’olandese medio, risalendo alla radice ariana nel sanscrito shwö; si<br />

veda la seconda edizione <strong>del</strong>l’Oxford English Dictionary.


SULLA SOGLIA 217<br />

di ciò che ritarda, distrugge e devia quel senso. Nel rifiuto di<br />

questa prospettiva, e <strong>del</strong> senso di vulnerabilità che va di pari<br />

passo con essa, è insita la passione per lo sterminio che ha caratterizzato<br />

la modernità occidentale. Dal suo incipit sanguinario in<br />

Africa e nelle Americhe, nella schiavitù e nel genocidio, fino all’estrema<br />

razionalizzazione <strong>del</strong>lo sterminio razziale costituito<br />

dalla Shoah, la relazione con lo spaesamento, con ciò che si crede<br />

minacci il senso occidentale di sentirsi a casa nel <strong>mondo</strong>, ha<br />

prodotto inevitabilmente conseguenze efferate. Soffermarsi sulle<br />

atrocità <strong>del</strong> ventesimo secolo a opera <strong>del</strong>le SS o dei nazionalisti<br />

dei Balcani può attirare la nostra attenzione, con troppa facilità,<br />

sulla falsa eccezione <strong>del</strong>l’orrore, consentendoci quindi di evitare<br />

l’ottundente banalità <strong>del</strong>la tendenza assai più consueta di escludere<br />

e distruggere tutto ciò che non possiamo possedere, contenere<br />

o comprendere:<br />

Non possiamo essere umani fintanto che non percepiamo in noi<br />

stessi la possibilità <strong>del</strong>l’abiezione, oltre alla possibilità <strong>del</strong>la sofferenza.<br />

Non siamo soltanto vittime potenziali <strong>del</strong> boia. Il boia è il<br />

nostro prossimo. Dobbiamo chiederci: c’è qualcosa nella nostra natura<br />

che rende impossibile un tale orrore? Domanda a cui sarebbe<br />

corretto rispondere: no, nulla (Bataille 1991, p. 18).<br />

Sradicare l’alterità è un tentativo di abolire tutto ciò che resiste<br />

all’esercizio <strong>del</strong> potere che mi consente di rimanere salvo<br />

nell’assolutezza <strong>del</strong>la mia autonomia: “L’omicidio esercita un<br />

potere su ciò che sfugge al potere” (Lévinas 1961, p. 203). L’altro<br />

minaccia di contaminare e di frustrare questa eventualità,<br />

invitandomi “a una relazione che non ha misura comune con il<br />

potere che si esercita” (ib.). L’affermazione violenta <strong>del</strong> potere<br />

non è né eccezionale né estranea a coloro che abitano la modernità<br />

e che in essa si sentono a casa; essa disciplina coerentemente<br />

il passaggio tra l’inclusione e l’esclusione nella costruzione di<br />

un habitat che conferma e riproduce il senso di sè. La faccia<br />

<strong>del</strong>l’altro “non sfida la debolezza <strong>del</strong> mio potere, ma il mio potere<br />

di potere” (ib.). Avvezzo a esprimermi senza limiti, in un<br />

linguaggio che annulla tutto ciò che non è in grado di assimilare,<br />

la presenza <strong>del</strong>l’altro invoca l’assassinio di ciò che nega il<br />

mio dominio:


218 IAIN CHAMBERS<br />

Io posso desiderare di uccidere solo un ente assolutamente indipendente,<br />

quello che è assolutamente al di là <strong>del</strong> mio potere e che perciò<br />

non vi si oppone, ma paralizza lo stesso potere di potere. Altri è il solo<br />

essere che posso desiderare di uccidere (pp. 203-204).<br />

Il senso sicuro <strong>del</strong> sentirsi a casa nel <strong>mondo</strong> moderno è il luogo<br />

di un’estorsione micidiale. Una tradizione <strong>del</strong>l’appartenenza,<br />

<strong>del</strong>l’essere localizzato nelle radici apparentemente atemporali di<br />

sangue, lingua e suolo, può chiudere violentemente la porta contro<br />

le storie degli altri; è sempre per questo che si uccide. Per avere<br />

voce in capitolo, esercitare un potere, quelle altre storie vengono<br />

costrette a minare e a riprodurre l’economia rivendicativa <strong>del</strong><br />

nazionalismo moderno, disseminato in gran parte <strong>del</strong> romanticismo<br />

europeo 1 . Si tratta di una tradizione che in quanto tradizione<br />

raramente si mette in discussione. Si dà per scontato che i valori<br />

<strong>del</strong>la continuità e <strong>del</strong>la comunità, che la tradizione e la trasmissione<br />

<strong>del</strong>la stessa siano i valori da pretendere e da difendere. Proprio<br />

con questi valori confermiamo la nostra autenticità. Che si trovi<br />

nei cicli rurali <strong>del</strong>la civiltà contadina oppure nei rituali dei “nativi”,<br />

questa collocazione e citazione <strong>del</strong>l’immutabile viene considerata<br />

sacrosanta. Ma non è un mito conservatore e reazionario<br />

quello che noi, di origini europee, ci raccontiamo per aggrapparci<br />

alla nostra centralità nella casa divenuta <strong>mondo</strong>? Mentre il resto<br />

<strong>del</strong> <strong>mondo</strong> è costretto ad adeguarsi al cambiamento e all’interruzione,<br />

la continuità <strong>del</strong>la tradizione viene preservata come valore<br />

universale da coloro che detengono il potere di definire “l’universale”.<br />

Ma se ascolto gli antropologi e i romanzieri moderni, che<br />

non sono sempre facili da distinguere, sento spesso qualcosa di alquanto<br />

diverso. Ecco ancora Betonie, lo sciamano Navaho <strong>del</strong> romanzo<br />

di Leslie Silko Cerimonia, che spiega la natura dei rituali<br />

che esegue:<br />

In un certo periodo le cerimonie, così come erano state celebrate,<br />

bastavano per il modo in cui il <strong>mondo</strong> era fatto allora. Ma dopo l’arrivo<br />

dei bianchi alcuni elementi di questo <strong>mondo</strong> hanno cominciato<br />

1 Gilroy 1993a fornisce un’esposizione geniale di questo legame storico e culturale nel<br />

contesto dei nazionalismi neri. Si veda altresì Achebe 1988.


SULLA SOGLIA 219<br />

a spostarsi ed è diventato necessario creare nuove cerimonie. Io ho<br />

apportato cambiamenti ai rituali. La gente ha grande diffidenza di<br />

questo, ma soltanto questa crescita mantiene salde le cerimonie. Lei<br />

mi ha insegnato questo più di ogni altra cosa: le cose che non si spostano<br />

e non crescono sono cose morte. Sono queste le cose che vuole<br />

la stregoneria. La stregoneria lavora per spaventare la gente, per far<br />

sì che abbiano paura <strong>del</strong>la crescita. Ma è stata sempre necessaria e lo<br />

è più che mai ora. Altrimenti non ce la faremo. Non sopravviveremo.<br />

È su questo che conta la stregoneria: che ci attacchiamo alle cerimonie<br />

così com’erano, così il suo potere trionferà e la gente non esisterà<br />

più (Silko 1977, pp. 139-140).<br />

Opporsi a un potere che considera la tradizione (sia la propria<br />

che quella di un altro) un’essenza immobile significa opporsi alla<br />

stretta di una stregoneria apparentemente in grado di possedere e<br />

ridurre il <strong>mondo</strong> all’unità dei suoi fini. L’abrogazione di questa<br />

narrazione <strong>del</strong>l’autenticità mediante la mutazione, il travestimento<br />

e la traduzione consente che si palesino spiragli attraverso cui<br />

compare un altro <strong>mondo</strong>: “Questo è un <strong>mondo</strong> in cui tutti devono<br />

assumersi la responsabilità di una immaginazione limitata”<br />

(Tsing 1993, p. 289).<br />

La passione di sradicare l’alterità dalla terra è anche la passione<br />

per la casa, la patria, la dimora, che autorizza e premia<br />

questo desiderio. Nel suo razionalismo, provincialismo e razzismo,<br />

costituisce una nevrosi pubblica e privata (Nairn 1981, p.<br />

359). Pertanto, sciogliere la nozione rigida di luogo che apparentemente<br />

mi consente di parlare, che garantisce la mia voce,<br />

il mio potere, non vuole dire semplicemente disperdere la mia<br />

località nelle più ampie coordinate di un contesto in ultima<br />

istanza planetario. Ciò mi assolverebbe semplicemente dalla responsabilità<br />

in nome di un globalismo astratto e generico, consentendo<br />

alla mia eredità di continuare ininterrotta nelle vaghezze<br />

di una nuova configurazione. Riguarda qualcosa di assai<br />

più preciso e urgente, perché nell’orrore <strong>del</strong>lo spostamento<br />

pulsa il terrore <strong>del</strong>la dispersione <strong>del</strong>l’umanità occidentale: il<br />

terrore di una razionalità che deve fare i conti con ciò che la<br />

eccede, che non riesce ad afferrare. Essere presi da ciò che<br />

sfugge alla nostra comprensione immediata significa correre il<br />

rischio di avere, in fin dei conti, ben poco da dire (Heidegger<br />

1946, p. 273). Liquidare la metafisica di un sapere “universale”


220 IAIN CHAMBERS<br />

che vede nella “casa” la conferma di un edificio unico e unilaterale<br />

di guadagno significa rivelare le particolarità <strong>del</strong>la voce e<br />

<strong>del</strong> luogo, <strong>del</strong>la storia e <strong>del</strong> corpo, <strong>del</strong> dolore, <strong>del</strong>la memoria e<br />

<strong>del</strong> silenzio.<br />

Tutto ciò suggerisce qualcosa che va al di là di una semplice<br />

correzione teorica sul piano <strong>del</strong> pensiero, perché ascoltando l’insistente<br />

supplemento <strong>del</strong> silenzio – a ciò che in precedenza era<br />

considerato privo di senso, incomprensibile e indecifrabile prima<br />

<strong>del</strong>la traduzione – comincio a recepire che il mio linguaggio, la<br />

mia identità, la mia storia, la mia voce dipendevano solo dal consegnare<br />

violentemente all’oblio tutto ciò che le turbava. Sebbene<br />

non possa, chiaramente, parlare di questo silenzio, questo altro<br />

lato represso <strong>del</strong> mio essere, posso concedergli uno spazio, come<br />

il respiro tra le parole, l’aria nella respirazione: essenziale, ma perennemente<br />

trascurato (Irigaray 1983). Ecco che la faccia <strong>del</strong>l’altro<br />

emerge da una carta geografica, per irrompere nell’anonima,<br />

astratta cartografia <strong>del</strong>la ragione occidentale. È proprio l’evitare<br />

la faccia <strong>del</strong>l’altro, sostiene Lévinas, che rende possibili l’omicidio<br />

anonimo e il massacro astratto: l’apice tecnologico di un razionalismo<br />

mortale in passato concentrato nel proverbiale dito<br />

sul pulsante, questi giorni più probabilmente consegnato alla risposta<br />

programmata di un microchip. La faccia invita a una risposta<br />

che non può essere semplicemente ipotetica: chiede una<br />

cura che non sia solo teorica. “Per questo c’è un abisso tra il ‘filosofare’<br />

sul naufragio e un pensiero che davvero naufraga”<br />

(Heidegger 1946, p. 296).<br />

Esporsi<br />

Pensando all’evento <strong>del</strong> pensiero in un <strong>mondo</strong> in cui il pensiero<br />

accade e al contempo occlude, mi sento costretto a sottoscrivere<br />

un senso <strong>del</strong> luogo che ecceda le connotazioni limitative <strong>del</strong><br />

“locale”, <strong>del</strong>lo “storico” e <strong>del</strong> “tradizionale”. Senza dubbio, questo<br />

significa prestare scarsa attenzione alle soglie disciplinari. Insistere<br />

sulle conseguenze ontologiche di pensare al locale, di pensare<br />

al luogo e alla dimora, significa insistere sui limiti potenti di<br />

uno spazio esecutivo in cui non vengono soltanto sanciti il linguaggio,<br />

la storia e la tradizione che mi costituiscono come “sog-


SULLA SOGLIA 221<br />

getto”: qui, nella carne, la mia identità (sessuale, di genere, etnica<br />

e sociale) è collocata, mobilizzata, disciplinata, ma anche superata<br />

1 . In risposta al mio essere che è in debito ma irriducibile a<br />

quelle categorie individuali, questo “io” storico si costituisce nell’ambito<br />

dei limiti che mi configurano ma non mi riducono in catene.<br />

In questa proposta non esiste una soggettività o un universalismo<br />

nuovo e “migliore”, bensì esiste l’intersezione di quel desiderio<br />

di interezza, di completezza mediante la messa in discussione<br />

<strong>del</strong>la dimora, mediante l’istanza in cui lo spazio, le istituzioni e<br />

i linguaggi vengono tradotti e in-corporati in un corpo particolare<br />

e un luogo precario.<br />

Quanto detto mi getta in un altro spazio: né “originale” né<br />

imitativo. Non esiste alcun punto stabile in cui trova ospitalità il<br />

significato, bensì soltanto un transito in cui i miei punti di arrivo<br />

impostati e agognati sono soggetti a uguali interrogativi.<br />

Criticare la grande disparità tra l’Europa e il resto <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> non significa<br />

semplicemente decostruire l’Europa come origine o semplicemente<br />

ripristinare quell’origine che è l’altro <strong>del</strong>l’Europa, ma uno<br />

smantellamento accurato sia <strong>del</strong> concetto di origine che <strong>del</strong> concetto<br />

di alterità come lo conosciamo noi oggi (Chow 1995, p. 194).<br />

Rey Chow prosegue (p. 195):<br />

In altre parole, la traduzione culturale genuina è possibile unicamente<br />

quando ci spostiamo al di là dei cambiamenti apparentemente<br />

infiniti ma effettivamente riduttivi, cambiamenti dei due<br />

termini (Oriente e Occidente, originale e traduzione) e invece li<br />

vediamo entrambi come protagonisti pieni, materiali, e con ogni<br />

probabilità ugualmente corrotti, ugualmente decadenti <strong>del</strong>la cultura<br />

mondiale contemporanea.<br />

Mi ritrovo in un viaggio destinato a trascinarmi lontano dalle<br />

latitudini <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> contemporaneo, nonché verso il passato,<br />

verso le origini <strong>del</strong>la modernità occidentale, se non verso i miti<br />

che lo hanno segnato profondamente fin dal principio.<br />

1 Si tratta di una tematica che, sulla scia di Michel Foucault, ha prodotto i risultati<br />

maggiori in buona parte <strong>del</strong>la teoria femminista recente. Si vedano in particolare i lavori<br />

di Judith Butler.


222 IAIN CHAMBERS<br />

Viaggio interrotto<br />

Rieccoci a Ulisse. Legato all’albero maestro <strong>del</strong>le sue intenzioni,<br />

mentre gli uomini <strong>del</strong> suo equipaggio, le orecchie tappate<br />

con la cera, rimangono sordi al canto <strong>del</strong>le sirene, Ulisse conferma,<br />

per coloro che verranno dopo di lui, l’idea <strong>del</strong>l’alterità come<br />

minaccia mortale, l’ignoto che ci separa da noi stessi e ci<br />

porta all’annientamento e all’oblio. Ulisse, una volta che tutto è<br />

stato detto e fatto, è un uomo che sa dove tende il suo vagare:<br />

verso casa, verso se stesso. Il suo viaggio per gli spazi vuoti di<br />

cui il logos non si è ancora impossessato apre quel passaggio <strong>del</strong>la<br />

conoscenza e <strong>del</strong> potere che illumina la storia <strong>del</strong>l’Occidente,<br />

gettandone l’ombra sul <strong>mondo</strong>. Tornare a quel viaggio mitico al<br />

giorno d’oggi, ma senza seguirne la linea d’ombra, mi costringe<br />

a far fronte a un supplemento, un eccesso <strong>del</strong> senso, che blocca<br />

la possibilità di fare ritorno a casa. Nella rivendicazione drammatica<br />

degli altri, dei repressi e degli sradicati, odo voci che il<br />

viaggio <strong>del</strong>l’Occidente ha storicamente messo a tacere ma che<br />

adesso emergono in maniera inequivocabile dentro di me. Miti<br />

di viaggi si manifestano ormai come “‘favole’ che gettano luce<br />

sull’‘originale’ che è la violenza <strong>del</strong> nostro <strong>mondo</strong>, e contrassegnano<br />

i passaggi che non conducono all’‘originale’ che è l’Occidente<br />

o l’Oriente, bensì alla sopravvivenza nel <strong>mondo</strong> postcoloniale”<br />

(Chow 1995, p. 202).<br />

Le fondamenta stesse <strong>del</strong>la modernità occidentale (il mio senso<br />

<strong>del</strong>la storia, il mio senso <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> e il mio sé) si basano sull’idea<br />

<strong>del</strong> viaggio. L’epoca <strong>del</strong>l’“immagine <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>”, dove il pianeta,<br />

ricondotto in una cornice unica, reso trasparente da una sola<br />

fonte di conoscenza che viaggia, “scopre” e raccoglie, ha inizio<br />

simbolicamente nel 1492.<br />

Non è che l’immagine <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> da medievale che era divenga moderna;<br />

ma è il costituirsi <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> a immagine ciò che distingue e caratterizza<br />

il Mondo Moderno [deer Neuzeit] (Heidegger 1950a, p. 89).<br />

Qui, nell’incontro con nuovi mondi, con l’alterità, si fissano<br />

un centro e una periferia epistemologici in cui il viaggiatore<br />

europeo è sempre il soggetto, mai l’oggetto <strong>del</strong>la Storia: “La<br />

storia è omogenea ai documenti <strong>del</strong>l’attività occidentale” (de


SULLA SOGLIA 223<br />

Certeau 1975, p. 220). Organizzato attorno alla supremazia<br />

oculare, attorno a un punto di vista unico che raggiunge nella<br />

tecnologia <strong>del</strong>la scrittura e <strong>del</strong>la cartografia la sua presenza<br />

universale, è il viaggio stesso a fissare i principi <strong>del</strong>la conoscenza.<br />

Nel movimento ripetitivo centripeto da un centro saldo, da<br />

casa, verso l’ignoto, il soggetto inalterato “conquista lo spazio<br />

moltiplicando gli stessi segni” (p. 230). La conquista e il viaggio<br />

sottoscrivono altresì un senso di transito in un universo<br />

sempre più autonomo e secolare. La conoscenza non è più rivelata<br />

direttamente da Dio, bensì è qualcosa da acquisire e accumulare,<br />

sovente con l’uso <strong>del</strong>la forza, e quindi portata a casa<br />

per essere catalogata e classificata nelle istituzioni <strong>del</strong>la ragione<br />

e <strong>del</strong> profitto. La lingua, il discorso e l’oralità (il corpo che parla),<br />

la “presenza esorbitante” (Lévinas 1961) che minaccia l’oggettività,<br />

viene esiliata dal pensiero come oggetto esotico e incontenibile:<br />

è così almeno che si manifesta una <strong>del</strong>le regole <strong>del</strong> sistema che si è<br />

costituito come “occidentale” e “moderno”: l’operazione scritturale,<br />

che produce, preserva, coltiva “verità” non periture, si articola su<br />

un brusio di parole svanite non appena enunciate, perse dunque per<br />

sempre. Una perdita “irreparabile” è la traccia di queste parole nei<br />

testi di cui sono l’oggetto. È così che sembra scriversi una relazione<br />

con l’altro (de Certeau 1975, pp. 222-223).<br />

Ma come ribadisce in seguito lo stesso Michel de Certeau:<br />

L’altro ritorna: con l’immagine <strong>del</strong>la nudità, “presenza esorbitante”;<br />

con lo spettro <strong>del</strong>la vagina dentata, che abita la rappresentazione <strong>del</strong>la<br />

voracità femminile; o con l’irruzione danzante di piaceri proibiti.<br />

Più fondamentalmente, il <strong>mondo</strong> selvaggio, come il <strong>mondo</strong> diabolico,<br />

diventa Donna. Si declina al femminile (p. 252).<br />

Tale concezione che sottende una ferma conoscenza virile ci<br />

accompagna tuttora. Nel passaggio apparente dal religioso al<br />

secolare, il paradigma metafisico rimane immutato. La fede nell’incondizionato<br />

non si esprime più mediante un Dio defunto,<br />

bensì nell’ambito <strong>del</strong>le certezze patriarcali <strong>del</strong>le scienze, nella<br />

rappresentazione tecnica <strong>del</strong>la verità e nell’idealismo <strong>del</strong>l’assolutismo<br />

estetico, tutti fissati dall’autorità <strong>del</strong>l’iscrizione, <strong>del</strong>la


224 IAIN CHAMBERS<br />

scrittura. Il <strong>mondo</strong> viene ricondotto al dominio <strong>del</strong>la parola<br />

scritta e <strong>del</strong>la conseguente organizzazione in discipline, competenze<br />

e informazioni. Questo è il contesto in cui lo gnosticismo<br />

occidentale trova la sua celebrazione e la sua riconferma.<br />

Pensare in termini di un quadro globale, di un sistema globale,<br />

di un copione e di un inquadramento unico <strong>del</strong>le diverse<br />

esperienze <strong>del</strong>la modernità significa paradossalmente indebolire<br />

le asserzioni relative all’identità omogenea e autonoma. Insistere<br />

su un’identità razziale, etnica o nazionalista come qualcosa<br />

di non connesso o inquadrato nell’eterogeneità storica di un<br />

<strong>mondo</strong> condiviso significa negare le forze stesse che hanno determinato<br />

l’ascesa di detti concetti (la razza, l’etnia) e che sostengono<br />

e permettono a una siffatta identità di esprimersi. Enfatizzare<br />

la genesi eterotopica che accompagna tacitamente le<br />

fiduciose asserzioni <strong>del</strong>l’identità moderna scardina il catenaccio<br />

<strong>del</strong>la “casa” e <strong>del</strong>la “tradizione” e mina la base da esse fornita<br />

al razzismo, alla paura e all’omicidio. La netta distinzione tra<br />

un “qui” e un “là”, tra un “primo” e un “terzo” <strong>mondo</strong>, tra il<br />

“Nord” e il “Sud”, tutti impegnati a mantenere l’altrove al di<br />

fuori <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> a portata di mano, separato e a una debita distanza<br />

fisica, culturale e storica, viene interrotta in maniera irreversibile<br />

(Fabian 1983). Siffatte distinzioni, e le differenze effettive<br />

nel patrimonio economico, politico e culturale che evocano,<br />

sono interne all’inaugurazione <strong>del</strong>l’“immagine <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>”<br />

e alla nascita <strong>del</strong>la modernità. Si trovano su questo lato, sul<br />

mio lato <strong>del</strong> confine storico, e non altrove in una pre-modernità<br />

o non-modernità. Il periferico e il sottosviluppato – la nomenclatura<br />

stessa rivela i poteri ineguali in siti nella disposizione<br />

teorica e strumentale <strong>del</strong>la connessione – sono i prodotti <strong>del</strong>la<br />

formazione storica che rende possibile questa particolare ripartizione<br />

spaziale <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>. Essa porta all’abbandono <strong>del</strong> tempo<br />

che interrompe, e all’oblio <strong>del</strong>le storie distinte, corporee,<br />

che cadono nelle griglie di una geometria atemporale, persa<br />

nello spazio reificato <strong>del</strong> tempo vuoto, omogeneo che ospita la<br />

teleologia 1 . Tuttavia, in quanto rappresentazioni <strong>del</strong>la provoca-<br />

1 Questo è il ben noto verdetto emesso da Walter Benjamin (1955a) sul “progresso”,<br />

riassunto in maniera sintetica nelle sue Tesi sulla filosofia <strong>del</strong>la storia. Lo stesso concetto è<br />

stato reiterato in tempi recenti da Laclau (1990, p. 42).


SULLA SOGLIA 225<br />

zione <strong>del</strong>l’occidentalizzazione, o risposte specifiche, queste storie<br />

negate si sovrappongono e diventano intrinseche alle responsabilità<br />

<strong>del</strong>la modernità.<br />

Pertanto il viaggio, per quanto possano essere sicure la destinazione,<br />

la gestione e le ambizioni, rappresenta sempre un passaggio<br />

che espone chi vi prende parte al turbamento <strong>del</strong>l’inatteso.<br />

Malgrado tutti gli sforzi per dominare la traduzione, c’è sempre<br />

qualcosa che oppone resistenza, che sfugge alla logica <strong>del</strong> linguaggio<br />

adoperato, che rimane inspiegabile nell’economia <strong>del</strong>la<br />

scrittura che si sforza di renderlo trasparente. Se il viaggio è il<br />

mito fondamentale <strong>del</strong>la modernità, e forse addirittura <strong>del</strong>l’Occidente,<br />

esso rivela altresì un paradosso strutturale, in cui si fondono<br />

lontananza e vicinanza. Il viaggio è costellato da ciò che si trova<br />

a portata di mano, la dimora interrogata dallo spaesamento.<br />

Vengono tenuti assieme nel ritorno “perturbante” che fa scaturire<br />

la repressione che insegue e spezza qualsiasi rappresentazione<br />

<strong>del</strong>la casa, <strong>del</strong>la cultura e <strong>del</strong> sé.<br />

La casa in rovina<br />

Nel suo celebre saggio sul perturbante, Freud si riferisce alla<br />

costernazione e al terrore che accompagnano l’incontro con l’estraneo,<br />

l’ignoto, che suscita sentimenti di spaesamento e di<br />

estraniamento. Tuttavia, l’orrore <strong>del</strong> das Unheimlich, come egli<br />

evidenzia accuratamente, è dato dal fatto che non riguarda qualcosa<br />

che ci giunge da lontano, bensì qualcosa che è già con noi e<br />

che “risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”<br />

(Freud 1919, p. 82). Ciò che appare intimo viene bruscamente<br />

integrato dalla drammatica vicinanza di quel paese familiare<br />

che è il passato, il mio passato. Il mio centro viene intersecato<br />

da un altro centro, da una parabola ellittica che promette<br />

di portarmi altrove. Il concetto <strong>del</strong>la certezza viene perseguitato<br />

dallo spettro di una domanda che parla un linguaggio che riconosco<br />

mentre si sottrae alla spiegazione. Nella mia ansia viene a<br />

galla ciò che ho cercato razionalmente di reprimere, in ultima<br />

istanza la paura primordiale <strong>del</strong>l’annientamento (pp. 96-105).<br />

Questo turbamento persistente nel cuore <strong>del</strong>la ragione ha indotto<br />

Wendy Wheeler a ipotizzare che tanto il sublime quanto il


226 IAIN CHAMBERS<br />

perturbante, per quanto assolutamente non limitati alla modernità,<br />

acquisiscano le loro forme più immediate in una “soggettività<br />

moderna” che viene:<br />

perseguitata da qualcosa che – con l’avvento <strong>del</strong>la modernità <strong>del</strong>l’Illuminismo<br />

– diviene impossibile da collocare e, in termini strettamente<br />

logici, non rappresentabile nel tramonto di un <strong>mondo</strong> inserito<br />

nello schema <strong>del</strong> sacro. Per Lyotard e Z ˇ izˇek, lo si denomina ricorrendo<br />

alla categoria <strong>del</strong> sublime. Per Dolar, appare nella modalità <strong>del</strong><br />

perturbante (Wheeler 1995, p. 84).<br />

Scrive Mladen Dolar:<br />

Pare che, quando parla <strong>del</strong> perturbante, Freud parli di un “universale”<br />

<strong>del</strong>l’esperienza umana, eppure i suoi esempi indicano tacitamente<br />

la sua posizione in una congiuntura storica particolare derivata dall’Illuminismo.<br />

C’è una dimensione specifica <strong>del</strong> perturbante che emerge<br />

con la modernità (Dolar 1991, citato in Wheeler 1995, p. 84; enfasi<br />

nell’originale).<br />

Presentato in termini scientifici, nei linguaggi <strong>del</strong>la conoscenza,<br />

<strong>del</strong>la verità, “l’interrogativo primo: qual è la natura <strong>del</strong>l’inquietudine<br />

umana” (Chatwin 1988, p. 216) diviene una fantasticheria<br />

che riporta la modernità all’interrogativo che rivela, nei desideri<br />

di scrittori, storici, sognatori e viaggiatori occidentali, un altrove<br />

eccessivo e insopprimibile 1 .<br />

Nuovamente, non si tratta soltanto di riflettere sull’esistenza di<br />

altri mondi, o semplicemente di ingrandire il mio affinché ne contenga<br />

altri: significa metterlo in discussione per esporre le radici<br />

stesse, nonché i percorsi, <strong>del</strong> mio pensiero. La mia libertà di pensare,<br />

il senso di esserci sono circoscritti da questo senso di casa e<br />

dalla sua versione <strong>del</strong>la storia e <strong>del</strong>l’appartenenza. Rimanere qui a<br />

questo punto, come sottolinea Lévinas nella sua critica a Essere e<br />

tempo di Heidegger, equivale a limitare la libertà a una libertà<br />

egocentrica di pensare, e quindi a indurre il <strong>mondo</strong> a una comprensione<br />

soggettiva, a un’ontologia occidentale che riduce l’altro<br />

1 <strong>Sulla</strong> relazione tra testi storici e sogni, si veda Michel de Certeau 1975.


SULLA SOGLIA 227<br />

allo stesso 1 . In questo caso, ciò che incontro rimane asservito ai<br />

concetti che rendono la mia casa riconoscibile come casa mia. Per<br />

evitare di costruire un ulteriore edificio liberale, ora decorato con<br />

tinte multi<strong>culturali</strong>, devo affrontare l’altro in quanto altro, “che<br />

supera l’idea <strong>del</strong>l’Altro in me” (Lévinas 1961, p. 48, corsivo nell’originale).<br />

Questo significa mischiare il mio tempo con un altro<br />

tempo, piegare il mio pensiero dinanzi la presenza di un altro, introdurre<br />

una dinamica che non posso possedere. Quell’eccesso è<br />

ciò che, trascinandomi al di là di me stesso, segnala la strada tra la<br />

totalità e l’infinito, tra ciò che è possibile possedere e dominare e<br />

ciò che mi interroga con la sua libertà. La voce <strong>del</strong>l’altro è “esiliata<br />

ai bordi <strong>del</strong> discorso [che] rifluirebbe e, con essa, il mormorio<br />

e i ‘rumori’ da cui si distingue la riproduzione scritturale. Così<br />

un’esteriorità senza inizio né verità tornerebbe a visitare il discorso”<br />

(de Certeau 1975, p. 257). Quest’apertura verso l’alterità, verso<br />

ciò che va oltre me, è un’apertura al desiderio, lontana dall’economia<br />

ristretta <strong>del</strong> pensiero; è il riconoscimento di ciò che eccede<br />

la comprensione neutrale <strong>del</strong>la verità e invoca qualcosa di<br />

più, qualcosa di diverso: un’infinità prodotta dal desiderio. Non<br />

un desiderio di possedere, bensì un desiderio di infinito che invece<br />

di essere appagato viene stimolato (Lévinas 1961, p. 48). Essendo<br />

stimolato e costretto a pensare al di là di me stesso e <strong>del</strong><br />

possesso <strong>del</strong>la storia, <strong>del</strong>la cultura e <strong>del</strong>l’identità che lo rende in-<br />

1 In Totalità e Infinito, Lévinas (1961) critica in toto l’oeuvre di Heidegger, non soltanto<br />

Essere e tempo, a causa di una conoscenza reificata <strong>del</strong>la libertà costantemente subordinata<br />

all’appropriazione <strong>del</strong>l’Essere che è in grado di riconoscere l’altro, e quindi la tematica<br />

<strong>del</strong>la giustizia, <strong>del</strong>l’etica, unicamente in termini <strong>del</strong> suo sé. Una tale riconciliazione tra<br />

“la libertà e l’obbedienza, nel concetto di verità, presuppone il primato <strong>del</strong> Medesimo nel<br />

quale vive abitualmente tutta la filosofia occidentale e dal quale essa è definita” (p. 43).<br />

Lévinas prosegue: “Filosofia <strong>del</strong> potere, l’ontologia, come filosofia prima che non mette<br />

in questione il Medesimo, è una filosofia <strong>del</strong>l’ingiustizia. L’ontologia heideggeriana che<br />

subordina il rapporto con Altri alla relazione con l’essere in generale – anche se si oppone<br />

alla passione tecnica, venuta dall’oblio <strong>del</strong>l’essere nascosto dall’ente – resta all’interno <strong>del</strong>la<br />

obbedienza <strong>del</strong>l’anonimo e porta, fatalmente, ad un’altra potenza, al dominio imperialista,<br />

alla tirannia. Tirannia che non è l’estensione pura e semplice <strong>del</strong>la tecnica e degli uomini<br />

deificati. Essa risale a degli ‘stati d’animo’ pagani, al radicamento nel suolo, all’adorazione<br />

che gli uomini ridotti in schiavitù potevano consacrare ai loro padroni” (pp. 44-45).<br />

Tuttavia, Lévinas stesso presta il fianco allo stesso tipo di obiezioni. Come osservano<br />

sia Elizabeth Grosz (1995b) che Simon Critchley (1991), l’evitamento di Lévinas <strong>del</strong>l’alterità<br />

femminile ne restringe il campo <strong>del</strong> pensiero a ciò che ha coerentemente tentato di<br />

evitare: l’economia <strong>del</strong>lo stesso.


228 IAIN CHAMBERS<br />

telligibile solamente ai miei interessi, mi ritrovo in un’apertura<br />

che rende la mia comprensione, le presunzioni <strong>del</strong>la mia storia, il<br />

mio senso <strong>del</strong>l’essere, raccontabili a un altro, che li rende differenti.<br />

La mia storia viene interrotta, le sue pretese sul <strong>mondo</strong> sradicate;<br />

non più unica, è portata a rendere conto di un incontro<br />

che non è più in grado di controllare, di rappresentare appieno,<br />

ma che non può più escludere.<br />

Mettendo in atto un significato indipendente dal mio potere,<br />

l’incontro con l’alterità supera radicalmente la semplice estensione<br />

<strong>del</strong> mio <strong>mondo</strong> che include l’altro, perché ricevo dall’altro una<br />

storia che non è mia, una storia che mi insegna ad accogliere ciò<br />

che fuoriesce dagli argini <strong>del</strong> mio egoismo e che quindi, come ribadisce<br />

Lévinas, incoraggia la mia libertà: “chiamandola alla responsabilità,<br />

la instaura e la giustifica” (p. 202). In ciò che rifiuta<br />

di essere contenuto è sita la disgiunzione radicale tra il domestico<br />

e l’estraneo, tra il viaggio di ritorno verso la casa e l’interminabile<br />

apprendistato <strong>del</strong>l’eterno movimento oltre il mio sé.<br />

Lo straripamento <strong>del</strong> perturbante, l’eccesso <strong>del</strong> sublime, trabocca<br />

in uno specchio scuro che svela un tormento storico radicato<br />

nelle pieghe stesse <strong>del</strong>la modernità. I volti, i corpi degli altri<br />

rifiutano di svanire: persistono, ritornano, eppure, la tentazione<br />

è di ritrarsi. Ci sentiamo minacciati da ciò che non siamo<br />

in grado di contenere. La ragione consiglia la resistenza. Avvertiamo<br />

la necessità di appartenere, di essere residenti, abitanti di<br />

un luogo sicuro. La casa ci attira verso questo senso <strong>del</strong>l’appartenenza.<br />

Sentirsi a casa significa possedere sia lo spazio fisico<br />

che quello simbolico in cui ci si muove, nonché dipenderne per<br />

il senso <strong>del</strong> sé.<br />

Per questo lo spaesamento è raramente il benvenuto. Il <strong>mondo</strong><br />

<strong>del</strong>l’ibridazione e <strong>del</strong>l’incertezza interstiziale è raramente una<br />

scelta, piuttosto una condizione in cui ci si ritrova. Ma, a questo<br />

punto, che cos’è esattamente “casa”? Casa per chi, e per cosa?<br />

Inevitabilmente considerata il sito <strong>del</strong>la continuità, <strong>del</strong>la tradizione<br />

e <strong>del</strong>la famiglia, <strong>del</strong> sangue e <strong>del</strong>l’appartenenza, la casa è il sito<br />

in cui si conserva una concezione narcisista <strong>del</strong>la vita. In questa<br />

riproduzione <strong>del</strong>lo stesso, l’evocazione <strong>del</strong>la “quadratura” di<br />

Heidegger, che insiste sul fatto che siamo sulla terra e sotto il cielo,<br />

può attirarci in un senso di casa che varca i ristretti confini<br />

<strong>del</strong> conservatorismo egocentrico. Questo perché qui il locale non


SULLA SOGLIA 229<br />

viene relegato entro i limiti <strong>del</strong>la famiglia, degli amici e degli ambienti<br />

che frequentiamo, bensì nei confini imposti dall’esistenza<br />

terrestre, dalla storia e dalla mortalità. Il suolo natio non è un<br />

luogo di nascita individuale, bensì il luogo di una provenienza<br />

terrena e un modo di abitare che, per riecheggiare le parole di<br />

Zarathustra, afferma “rimanete fe<strong>del</strong>i alla Terra” (Nietzsche<br />

1886b, p. 6). Lo spazio tra la familiarità desiderata <strong>del</strong> primo e la<br />

perturbante disseminazione <strong>del</strong> secondo è altresì lo spazio in cui<br />

le memorie e i corpi repressi prorompono per dare voce alla sopravvivenza<br />

e alla promessa di continuare a vivere: uno spazio<br />

per il crescente numero di persone per le quali la casa non è un<br />

luogo semplice o ovvio.<br />

Rispondere agli scritti contemporanei di Toni Morrison e di<br />

Derek Walcott significa riconoscere che il mio senso <strong>del</strong>l’essere a<br />

casa e la fiduciosa affermazione <strong>del</strong> mio posto nel <strong>mondo</strong> sono<br />

inevitabilmente un beneficio goduto al prezzo <strong>del</strong>l’esilio, <strong>del</strong>l’estraniamento,<br />

<strong>del</strong>la diaspora di qualcun altro. Ascoltare il linguaggio<br />

di autori <strong>del</strong> genere significa registrare un senso di casa che<br />

complica le semplicistiche frontiere <strong>del</strong>le appartenenze, a livello<br />

nazionale quanto a livello più locale. Un poeta creolo esce dai<br />

margini <strong>del</strong>la Storia per passeggiare sulle coste caraibiche e annunciare<br />

una verità scomoda:<br />

Ora non avevo altra nazione che l’immaginazione.<br />

Dopo l’uomo bianco, i negri non mi vollero<br />

quando il potere girò dalla loro parte.<br />

Il primo mi incatena le mani e si scusa, “La Storia”;<br />

gli altri non mi giudicavano nero abbastanza per il loro orgoglio.<br />

(…)<br />

Ho incontrato la Storia, una volta, ma non mi ha riconosciuto,<br />

un creolo incartapecorito, pieno di verruche<br />

come una vecchia bottiglia di mare, che strisciava come un granchio<br />

nei buchi d’ombra proiettati dalla rete<br />

di un balcone a inferriata; color crema il vestito e il cappello.<br />

Lo abbordo e grido: “Sono Sabine, signore!<br />

dicono che sono suo nipote. Si ricorda la nonna,<br />

la sua cuoca nera?”. La troia si raschiò la gola e sputò.<br />

Uno sputo così vale tutte le parole.<br />

Ma questo ci hanno lasciato quei bastardi: parole (Walcott 1992a,<br />

p. 123).


230 IAIN CHAMBERS<br />

Rispondere a questo linguaggio, alla necessità che emerge nella<br />

dimora linguistica, storica e culturale in cui risiedo anch’io (l’inglese)<br />

non significa cercare l’espiazione per mezzo <strong>del</strong>la spiegazione<br />

<strong>del</strong>la colpa (e <strong>del</strong> beneficio <strong>del</strong> perdono che ne consegue),<br />

bensì sollecitare un risposta, e una responsabilità per le condizioni<br />

che costituiscono la mia identità, permettendomi di sentirmi “a<br />

casa”. Ascoltare e cercare una risposta in questa condizione significa<br />

chiaramente mettere in discussione l’ovvietà <strong>del</strong>la mia “identità”<br />

e la naturalezza <strong>del</strong>le mie “origini”. In una particolare storia<br />

e in un particolare corpo, mi ritrovo nella temporalità coeva, gettato<br />

in uno stato di transito privo <strong>del</strong>la garanzia di un punto di<br />

origine e di arrivo fissi. La mia storia, la mia identità, il mio linguaggio,<br />

la mia casa si dispiegano. Le radici mettono i rami, si avvinghiano<br />

ad altre.<br />

Un luogo nel <strong>mondo</strong><br />

La svolta <strong>del</strong> linguaggio e nel linguaggio è un passo iniziale<br />

dalle conseguenze incalcolabili. Comprende qualcosa che non<br />

può essere contenuto nell’incipiente formalismo <strong>del</strong>l’idea, frequentemente<br />

nominata, di una “svolta linguistica”. Perseverare<br />

nel sostenere che una trasformazione <strong>del</strong> pensiero sia un argomento<br />

linguistico significa evitare di riconoscere l’irreversibile disfacimento<br />

di tutte le concezioni linguistiche <strong>del</strong> linguaggio, <strong>del</strong>la<br />

comunicazione e <strong>del</strong> significato, e di conseguenza la profonda radicalità<br />

di questa “svolta” 1 . In questo disconoscimento critico, il<br />

linguaggio, in quanto discorso, scrittura, rappresentazione, articolazione,<br />

in quanto annuncio <strong>del</strong> nostro essere e <strong>del</strong> nostro divenire,<br />

vira dalla rassicurante conferma che riduce il <strong>mondo</strong> a un<br />

mezzo trasparente e alla sua grammatica <strong>del</strong>la certezza. Nel linguaggio,<br />

ognuno di noi salpa per il mare aperto, seguendo varie<br />

correnti, esposto nella vulnerabilità <strong>del</strong>le sue storie, navigando<br />

verso i limiti <strong>del</strong>la casa, <strong>del</strong>l’abitazione.<br />

1 Si tratta di una “svolta” sostenuta da molti nomi (da Heidegger e Lévinas a Foucault,<br />

Derrida, Irigaray e Cixous) e movimenti: dal decostruzionismo al femminismo, nonché<br />

tutti i vari “post-” che raccolgono l’eredità <strong>del</strong>la critica di Nietzsche <strong>del</strong>l’idealismo filosofico<br />

e <strong>del</strong>le concezioni soggettive <strong>del</strong> linguaggio.


SULLA SOGLIA 231<br />

Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia.<br />

All’orlo <strong>del</strong>la pioggia, una vela (Walcott 1992b, p. 151).<br />

A Barbès, a dieci minuti a piedi dalla Gare du Nord a Parigi,<br />

recentemente ingrandita per comprendere anche la Gare du Londres<br />

da cui partono i treni Eurostar ad alta velocità per Waterloo<br />

in un viaggio attraverso la Manica <strong>del</strong>la durata di due ore e cinquanta<br />

minuti, è possibile vedere scribi arabi seduti agli angoli<br />

<strong>del</strong>le strade. I loro clienti, come i clienti di chi era attorno agli uffici<br />

governativi negli anni Cinquanta a Porto di Spagna, Trinidad,<br />

descritti da V. S. Naipaul oppure, per restare in tema, nella Napoli<br />

di oggi, sono gli analfabeti. Per una piccola cifra, gli scribi compilano<br />

i moduli per le richieste ufficiali e mettono in moto la macchina<br />

burocratica. Tuttavia questo scriba sulla strada parigina,<br />

con il suo banco portatile contenente carta, penne e inchiostro,<br />

seduto su un basso sgabello pieghevole, attende di scrivere lettere<br />

di tipo più personale, perché non scrive le richieste nella lingua<br />

ufficiale, il francese, bensì lo fa adoperando la calligrafia araba,<br />

con movimenti attenti, solcando il foglio da destra a sinistra. Non<br />

l’ho praticamente mai visto all’opera. Forse l’oralità transnazionale<br />

<strong>del</strong> telefono ha preso il posto che una volta competeva alla corrispondenza<br />

dettata. Forse l’analfabetismo e la necessità di queste<br />

capacità formali stanno scemando. Qualunque sia la ragione, resto<br />

colpito dalla presenza di questa scrittura in una strada parigina<br />

moderna che apparentemente è così distante dai linguaggi metropolitani<br />

che la circondano e minacciano di sommergerla: treni<br />

ad alta velocità, il Métro, il traffico, la calca dei pedoni. Con i sandali<br />

ai piedi, il turbante in testa, avvolto nella djellaba per ripararsi<br />

dal freddo autunnale, seduto di fronte a una scuola nuova di<br />

zecca, un’opera architettonica postmoderna fatta di tubi d’acciaio<br />

multicolore, la dignità immobile di questo scriba pubblico sottolinea<br />

la presenza inquietante <strong>del</strong>l’estraneo. La sua penna, la sua lingua,<br />

il suo essere sono a me contemporanei. Potrei girarmi dall’altra<br />

parte e fingere che non esista più: si tratta solamente di un curioso<br />

residuo <strong>del</strong>la recente immigrazione dal “Terzo” <strong>mondo</strong>, dal<br />

Maghreb. Posso decidere di vedere nella sua presenza null’altro<br />

che l’intrusione <strong>del</strong>l’esotico e <strong>del</strong>l’arcaico nel mondano <strong>del</strong>la modernità.<br />

Tuttavia, posso altresì rilevare un segno, non soltanto di<br />

un altro <strong>mondo</strong> in gran parte precluso ai miei sguardi e alla mia


232 IAIN CHAMBERS<br />

comprensione, quanto di un linguaggio, e di una storia, che vanno<br />

in cerca di una risposta, e di una responsabilità, all’interno <strong>del</strong><br />

mio <strong>mondo</strong>. In apparenza estraneo, questa città è chiaramente anche<br />

sua, certamente più di quanto non sia “mia”. Costretto a considerare<br />

la realizzazione composita <strong>del</strong>lo spazio moderno per come<br />

viene a essere nello spazio cosmopolita chiamato Parigi, rilevo<br />

sia l’alterità che ne è parte integrante che la modernità che pretendo<br />

di possedere, perché lo scriba arabo seduto pazientemente<br />

in un angolo <strong>del</strong>la città moderna occidentale non è un’anomalia<br />

storica. Separata, eppure collegata in maniera indissolubile, la sua<br />

presenza interrompe e al contempo ristruttura la mia storia, traducendo<br />

la chiusura <strong>del</strong>la mia “identità” in un’apertura in cui incontro<br />

un altro che è nel <strong>mondo</strong> e che pure risulta irriducibile alla<br />

mia volontà.<br />

Adesso questa scena parigina non si limita a replicare la celebre<br />

descrizione, rievocata con tanta maestria da James Clifford ne<br />

I frutti puri impazziscono (1988), in cui Claude Lévi-Strauss, emigrato<br />

in tempo di guerra, rimane stupefatto vedendo un nativo<br />

americano con il capo ornato di piume che prende appunti con<br />

una Parker nella Biblioteca Pubblica di New York. Dalla ripetizione<br />

inattesa, eppure strutturalmente coerente, scaturisce qualcosa<br />

di più, che turba la conoscenza e il potere di cui si riveste la<br />

mia osservazione. Ma che cosa è successo a questo punto? Ho<br />

soltanto reso vicino e metropolitano ciò che era esotico? Ciò che<br />

una volta era una <strong>del</strong>le meraviglie di New York che attendeva di<br />

essere osservata e commentata, oggi può essere annoverata tra le<br />

meraviglie di Parigi? Questo scriba arabo è ancora una volta la testimonianza<br />

silenziosa, l’oggetto inerte <strong>del</strong> mio discorso, un semplice<br />

prodotto <strong>del</strong>lo sguardo occidentale intento a spiegare il<br />

<strong>mondo</strong> che lo circonda in termini tali da riconfermare la centralità<br />

<strong>del</strong>la propria soggettività? Oppure nei linguaggi <strong>del</strong>la metropoli,<br />

<strong>del</strong>la modernità, ha luogo un incontro che va al di là di qualsiasi<br />

significato che io cerchi di attribuire all’evento? In questo<br />

spazio ambiguo, nel quale il passaggio storico tradisce e sconcerta<br />

l’agognata trasparenza <strong>del</strong>la traduzione, rilevo i limiti storici e <strong>culturali</strong><br />

<strong>del</strong>la mia voce, <strong>del</strong>le mie pretese sul <strong>mondo</strong>. Lo scriba arabo<br />

come referente <strong>del</strong> mio discorso si protende verso di me e si ritrae<br />

da me al contempo, funge sia da oggetto <strong>del</strong>la mia narrazione<br />

che da soggetto in un <strong>mondo</strong> che non sarà mai semplicemente


SULLA SOGLIA 233<br />

mio. Testimonia non soltanto il potere <strong>del</strong> mio sguardo, bramoso<br />

di una conferma egocentrica, ma anche l’intervallo che scaturisce<br />

tra di noi in quanto soggetti e che rende il mio linguaggio localizzabile<br />

e limitato.<br />

Forse un commento di Judith Butler (1997, p. 149) può contribuire<br />

a ricondurre su terreno familiare questa prospettiva:<br />

Questo solleva la questione politica <strong>del</strong> costo <strong>del</strong>l’articolazione di<br />

un’identità coerente producendo, escludendo e ricusando quegli<br />

spettri aberranti che minacciano il dominio arbitrariamente chiuso<br />

<strong>del</strong>le posizioni <strong>del</strong> soggetto. Forse soltanto rischiando l’incoerenza<br />

<strong>del</strong>l’identità diviene possibile la connessione, un punto di vista politico<br />

che mette il relazione l’intuizione di Leo Bersani secondo cui solo<br />

il soggetto decentrato è disponibile per il desiderio.<br />

Non si tratta, è bene ribadirlo, <strong>del</strong> desiderio di possedere, bensì<br />

<strong>del</strong> desiderio di infinito che viene stimolato anziché appagato.<br />

Abitare in questa maniera in un posto, come luogo di storie represse<br />

che consentono alla mia di essere rappresentata, dove si registrano<br />

le tacite cru<strong>del</strong>tà <strong>del</strong>l’identità coerente, quindi anche luogo<br />

che citerà eternamente il perturbante, significa cercare di attingere<br />

dalla storia una politica <strong>del</strong> soddisfacimento il cui esito non è<br />

mai dato conoscere appieno in anticipo (Gilroy 1993c). Sono<br />

queste le condizioni per una partenza critica incerta, non per un<br />

arrivo garantito. In questo supplemento, in cui si incrociano e<br />

contaminano estetica ed etica, cultura e politica, progetto e desiderio,<br />

luogo e limitazione, quello che va al di là <strong>del</strong>le parole, l’indecifrabile,<br />

il non rappresentabile e l’incoerente mette in imbarazzo<br />

l’identificazione con la prevedibile omogeneità di ciò che è<br />

noto, facendoci intravedere qualcos’altro, qualcosa di ulteriore,<br />

qualcosa di più. Queste sono le ombre silenziose che ci accompagnano<br />

e che a volte prorompono in canto, trovano forma nella<br />

danza, palpitano nel ritmo. I linguaggi di questo supplemento,<br />

questa cosa che va al di là <strong>del</strong> razionale e <strong>del</strong>lo strumentale, vengono<br />

sottratti agli artigli <strong>del</strong>la storia nell’istante in cui il politico e<br />

il poetico non soltanto coesistono, ma si intersecano e si rielaborano<br />

reciprocamente in una mutua configurazione.<br />

Una siffatta apertura, momento di creazione, non è solamente<br />

ciò che scaturisce dagli interstizi ibridi <strong>del</strong>la vita tra mondi, tra la


234 IAIN CHAMBERS<br />

tradizione stabile e il progresso, tra l’essenza “autentica” e gli stili<br />

di vita “corrotti”. C’è piuttosto una rielaborazione in entrambi<br />

i termini <strong>del</strong>l’equazione, di modo che la tradizione stessa diviene<br />

un elemento di modifica, un “elemento di libertà” (Gadamer<br />

1965). Seppure sempre interrotta dalla modernità, la tradizione<br />

fornisce le risorse per interrompere e al contempo imporre alla<br />

modernità i suoi particolari imperativi. Nel film di Lee Tamahori<br />

sull’identità Maori contemporanea, Once Were Warriors – Una<br />

volta erano guerrieri (1994), due fratelli celebrano un passato<br />

Maori maschile: uno riappropriandosi dei rituali tradizionali dei<br />

guerrieri <strong>del</strong>l’isola, l’altro riscrivendo e riproducendo questi rituali<br />

nei tatuaggi (essi stessi simboli ereditati <strong>del</strong>la cultura <strong>del</strong>l’Oceania)<br />

e nei riti di iniziazione di una subcultura urbana. In ambedue<br />

i casi, le storie coeve, la relazione sincretica, sono registrate<br />

fortemente sia nella sintassi locale che in quella globale. Tale<br />

effetto viene ulteriormente amplificato nella musica reggae, che<br />

imperversa per tutta la durata <strong>del</strong>la pellicola. In un ghetto urbano<br />

<strong>del</strong>la Nuova Zelanda, una musica di questo tipo è sia modernità<br />

che tradizione, riguarda sia le comunicazioni (e i capitali)<br />

trans-nazionali di massa che la maniera in cui un siffatto spazio,<br />

offerto dalla musica rock internazionale, diviene anche un luogo<br />

particolare: una scena <strong>del</strong>la memoria, <strong>del</strong> ricordo, in cui il suono<br />

caraibico dei non emancipati viene riprodotto nuovamente, ripetuto<br />

ed elaborato per avanzare un’altra promessa, sulle coste di<br />

un altro mare, in un altro emisfero.<br />

Torniamo adesso al romanzo Cerimonia di Leslie Silko e concludiamo.<br />

La cerimonia effettuata da Betonie, lo sciamano, è coerente<br />

con entrambe le tradizioni, eppure le ripudia: sia quella tribale<br />

che quella <strong>del</strong>la modernità occidentale. Le storie, le narrazioni<br />

che operano su entrambi i lati <strong>del</strong> presunto spartiacque, che<br />

tentano di legittimare i miti e i saperi rispettivi, sia quelli che portano<br />

il nome <strong>del</strong>l’arcaico che coloro che recano il nome <strong>del</strong> progresso,<br />

sono fatalmente incomplete. Da questo fatto scaturisce un<br />

interrogativo che si muove in entrambe le direzioni, turbando<br />

contemporaneamente le presunzioni sia <strong>del</strong> “tradizionale” che <strong>del</strong><br />

“moderno”. In entrambi i casi, emerge un’identità in cui non si<br />

garantisce più una relazione con la terra per mezzo <strong>del</strong> sangue,<br />

<strong>del</strong>la razza e <strong>del</strong> suolo, né <strong>del</strong>le pretese <strong>del</strong> possesso. Ormai è la<br />

storia, la narrazione, la maniera di raccontare che riafferma la me-


SULLA SOGLIA 235<br />

moria, e quindi la perdita, mentre rappresenta e propaga l’iscrizione<br />

– sul corpo, nella cerimonia, nella voce, nel silenzio che accompagna<br />

e rafforza ogni espressione – che ricorda e allo stesso<br />

tempo trasforma il mito <strong>del</strong>la nostra casa e <strong>del</strong>le nostre origini in<br />

un insediamento incerto in divenire.


Bibliografia<br />

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data<br />

è sempre quello <strong>del</strong>l’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina<br />

si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici<br />

qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.<br />

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Hannah Arendt 1906-1975: per amore <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, Torino, Bollati Boringhieri.


Stampato per conto <strong>del</strong>la casa editrice Meltemi<br />

nel mese di novembre 2003<br />

presso Arti Grafiche La Moderna, Roma<br />

Impaginazione: <strong>Studi</strong>o Agostini

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