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campania/direzione/01 ... 30/11/09 - Corriere del ...

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2<br />

NA<br />

LOTTA AI CLAN<br />

’A67<br />

Rock e «pogo»<br />

per sfidare<br />

la criminalità<br />

Quando uscì il disco intitolato «’A camorra<br />

song’io», anno 2005, c’era chi arricciava il naso.<br />

Che vuol dire ’sto titolo? Questi scherzano con le<br />

cose serie... si sono montati la testa. Questi erano,<br />

sono, gli ’A67, una rock band formata da cinque musicisti<br />

<strong>del</strong>la periferia napoletana, gruppo eponimo <strong>del</strong>l’agglomerato-monstre,<br />

la 167 di Secondigliano. Intitolarono così,<br />

sfacciati, il loro secondo album. Da una colorata e umida<br />

sala prove di Barra urlavano forte, alluccavano: la camorra<br />

sono io, perché la malavita non è solo questione di morti<br />

ammazzati e riunioni di boss a Montecarlo: dai bassi dei<br />

quartieri all’attico di via Posillipo — hanno ricordato gli<br />

’A67 in centinaia di interviste — siamo tutti coinvolti, riguarda<br />

ognuno di noi. Note incazzate, quelle di Daniele<br />

Sanzone (cantante), Andrea Verdicchio (sax), Enzo Cangiano<br />

(chitarre), Luciano Esposito (batterie) e Gianluca<br />

Ciccarelli (basso). A parte le pose da book, hanno facce da<br />

bravi guaglioni, quasi tutti under <strong>30</strong>. Fanno musica «crossover»,<br />

folk-rock, fusione di rap e chitarre alla maniera<br />

dei Rage against the machine, gruppo di culto per la lotta<br />

in Chiapas. Già: è battaglia a suon di giri di basso, riff,<br />

sfoghi di sax nei quattro angoli <strong>del</strong> pianeta. E Napoli, tre<br />

quarti Sud <strong>del</strong> mondo un quarto Unione europea, non<br />

manca all’appello. La camorra si combatte anche col «pogo»,<br />

gli spintoni da finta rissa ai concerti. Musica e impegno<br />

anticlan: in questo caso non parliamo solo di buona<br />

volontà. Nei testi <strong>del</strong>le canzoni degli ’A67 («... Se la paura<br />

fa 90 / ’a dignità fa 180...») è fiorita una nuova stagione di<br />

«militanza di racconto», dice Sanzone. Si fa largo dopo<br />

l’onda <strong>del</strong>le Posse anni Novanta, il popolo noglobal di Seattle<br />

<strong>del</strong> 2000-20<strong>01</strong> e il limbo seguito all’<strong>11</strong> settembre. Sulla<br />

loro scia si inserisce anche l’mc partenopeo Lucariello,<br />

che dedica «Cappotto di legno» a Roberto Saviano e la canta<br />

in tv ad AnnoZero (il disco si chiama «Veleno fertile» e<br />

denuncia l’inquinamento <strong>del</strong>la Campania).<br />

Gli ’A67 nascono nel 2004, anno <strong>del</strong>la faida di Scampia,<br />

quartiere dove abitano vari membri <strong>del</strong> gruppo. Esce l’ep<br />

«Voglie parla’». Vincono il premio Siae come miglior<br />

band emergente. Il primo di una lunga serie di riconoscimenti.<br />

Nel 2007, iniziano un tour particolare: si esibiscono<br />

nelle scuole. È la prima volta che una rockband suona<br />

e parla di camorra nelle classi. Da Casal di Principe a Ottaviano.<br />

Il «tour» prosegue anche a Ferrara e Torino, grazie<br />

ad Amnesty, Libera e alla Regione Campania. Sgobbano<br />

come muli. Concerti, prove, iniziative sociali. L’ultimo album<br />

è Suburb; si affianca alla cover di «Io non mi sento<br />

italiano» di Gaber. Il video l’hanno girato a Castel Volturno,<br />

nella masseria di Michele Zaza. I proventi <strong>del</strong>le vendite<br />

online sosterranno il progetto Libera Terra. Tutto perfetto?<br />

Non proprio. Daniele Sanzone da un po’ nota in tante<br />

persone «disattenzione» (noia?) rispetto all’argomento camorra.<br />

«Gomorra» ha in alcuni casi creato l’effetto overdose:<br />

se ne parla troppo. «Ciò non vuol dire allentare l’impegno.<br />

Tocca invece agli artisti, prima di altri, trovare il<br />

modo più efficace per far passare il messaggio, con altri<br />

mezzi». I più potenti: l’arte, la musica, il racconto.<br />

Alessandro Chetta<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

Alessandra Clemente (classe ’87)<br />

Una fondazione<br />

nel nome<br />

di mamma Silvia<br />

Piazza <strong>del</strong> Plebiscito, tarda mattinata <strong>del</strong> 21 marzo<br />

20<strong>09</strong>. Fa freddo, da battere i denti. Alessandra<br />

è a pochi metri dal palco, stretta nel suo<br />

cappottino bianco, collo avvolto da una sciarpa<br />

con i colori <strong>del</strong>la pace, circondata da un gruppo di<br />

amici. Si vede che è tesa, ma cerca di nasconderlo dietro<br />

grandi, e bellissimi, sorrisi. Tra qualche minuto<br />

parlerà per la prima volta al microfono, davanti alle<br />

centocinquantamila persone chiamate a raccolta dall’associazione<br />

Libera per dire «no alle mafie»: «Benvenuti<br />

nella mia città. Io sono Alessandra e mia mamma<br />

era Silvia Ruotolo: quando la camorra l’ha uccisa, nel<br />

1997, aveva solo 39 anni. È stato un agguato folle e<br />

criminale, senza alcuna logica né spiegazione».<br />

Qualche mese dopo Alessandra è sull’autobus che<br />

sta portando a Roma la <strong>del</strong>egazione campana che parteciperà<br />

a «Contromafie». Racconta <strong>del</strong> viaggio fatto<br />

ad agosto in Sudamerica e ha addosso la stanchezza di<br />

una ragazza di ventidue anni che la sera prima è uscita<br />

con le amiche e ha fatto tardi. Così, quando il papà<br />

Lorenzo le dice che sarà lei a leggere il saluto inviato<br />

dal presidente Napolitano di fronte ai ministri, ai parlamentari,<br />

agli alti magistrati e alla folla <strong>del</strong>l’auditorium<br />

<strong>del</strong>la Conciliazione, un velo d’ansia le copre per<br />

un po’ il sorriso. Ma poi, due ore dopo, salirà sul palco,<br />

ancora una volta piccola ambasciatrice di un dolore<br />

impossibile da cancellare. Un dolore trasformato in<br />

impegno, e testimonianza. C’è l’attività di quella che<br />

Alessandra chiama «la sua grande famiglia», riunita<br />

nel Coordinamento dei parenti <strong>del</strong>le vittime innocenti<br />

di camorra: si offrono sostegno reciproco, portano<br />

avanti battaglie sociali, e politiche, per tutelare i loro<br />

diritti e per rafforzare la lotta alle mafie. Poi c’è il Comitato<br />

«Silvia Ruotolo», che a gennaio diventerà una fondazione<br />

per i ragazzi a rischio finanziata con il risarcimento<br />

ottenuto nel processo per l’omicidio, «perché<br />

mia mamma, che insegnava e amava i bambini, avrebbe<br />

di certo voluto così». L’inverno scorso, nel carcere<br />

di Nisida, Alessandra e il papà hanno trascorso giornate<br />

intere con i ragazzi reclusi, e con loro hanno realizzato<br />

una scultura di mattoncini colorati, uno per ogni<br />

persona uccisa «per errore» dai clan: un aquilone che<br />

oggi vola su un muro nel cortile <strong>del</strong>l’istituto penitenziario.<br />

Alessandra vuole diventare magistrato. Ora ci<br />

sono gli ultimi esami a giurisprudenza, la tesi in diritto<br />

<strong>del</strong> lavoro, le amiche e la voglia di viaggiare: «voglio<br />

imparare ad usare perfettamente la macchina fotografica,<br />

per catturare tutto quello che vedo».<br />

A dieci anni, pochi giorni dopo la morte <strong>del</strong>la mamma,<br />

Alessandra scrisse una favola in cui raccontava di<br />

un gambero che si ostinava a camminare sempre in<br />

avanti, contro natura, ferendosi, ma senza fermarsi.<br />

Nel primo editoriale <strong>del</strong> <strong>Corriere</strong> <strong>del</strong> Mezzogiorno, dedicato<br />

proprio ai familiari di Silvia Ruotolo, quelle parole<br />

divennero metafora di una città ferita, e <strong>del</strong>la speranza<br />

che sapesse rialzarsi.<br />

Chiara Marasca<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

Lunedì <strong>30</strong> Novembre 20<strong>09</strong> <strong>Corriere</strong> <strong>del</strong> Mezzogiorno<br />

Qui sopra, Alessandra Clemente. In alto gli ’A67<br />

A destra, dall’alto, Simona Di Monte e Cristiana Mandara

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