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MARCELLO BERLUCCHI*<br />
GIACOMO LEOPARDI E LO SPORT<br />
«A UN VINCITORE NEL GIOCO DEL PALLONE»**<br />
Tra i ragazzi del liceo dei nostri tempi esisteva una specie di<br />
classifica dei poeti e degli scrittori le cui opere erano oggetto<br />
di studio o di lettura in aula. In questa classifica Leopardi era<br />
ai primi posti nel gradimento, forse perché supremo cantore<br />
lirico degli amori e delle incertezze proprie della gioventù d’ogni<br />
tempo, o forse per la sua lingua, così solenne e aulica, lontana<br />
da quella parlata (anche al suo tempo) ma dal suono eterno<br />
e familiare. È inutile dire che, nella stessa classifica, Dante<br />
e Manzoni occupavano gli ultimi posti – a rischio di retrocessione,<br />
si direbbe nel gergo di oggi.<br />
Eppure, l’unico componimento leopardiano ove si parli<br />
espressamente di un’attività sportiva (il canto «A un vincitore<br />
nel gioco del pallone») non ce lo facevano leggere e se qualcuno<br />
ci avesse provato per conto suo, sarebbe stato certamente<br />
deluso dallo scorrere dei versi oscuri e, addirittura, impacciati,<br />
oltre che pervasi del più nero pessimismo del Poeta, che pure<br />
non era certo uno spirito giocondo.<br />
* Avvocato, cultore di Letteratura e Storia del Risorgimento italiano.<br />
** Conferenza tenuta il 25 novembre 2005.
324 MARCELLO BERLUCCHI<br />
[2<br />
A me è sempre rimasta la curiosità di saperne di più su questo<br />
«gioco del pallone» e sul «garzon bennato» cui i versi sono<br />
indirizzati.<br />
Solo recentemente, per uno di quei casi che rendono affascinante<br />
la vita, sono riuscito a soddisfare la mia curiosità, scoprendo<br />
un mondo che ha la seduzione del tempo che fu trasportato<br />
ad oggi.<br />
Ma, anzitutto, cos’è questo «gioco del pallone» menzionato<br />
nel titolo del canto leopardiano?<br />
Si tratta di un’attività sportiva antichissima che appartiene<br />
alla famiglia degli sport detti «sferistici» cioè effettuati usando<br />
una palla sferica come elemento indispensabile.<br />
A questa famiglia appartengono la pallamano delle nostre<br />
valli, giocata a mani nude, il tamburello, così diffuso anche ora<br />
nel mantovano, nel bresciano, nel cremonese e nel veronese, e<br />
la «pelota» basca, con quella paletta ricurva intrecciata di vimini<br />
che si è vista tante volte riprodotta in fotografia.<br />
Il gioco è organizzato come il tennis, per intenderci, che è<br />
il più illustre e famoso di questo genere di sport, e consiste nel<br />
colpire la palla con un bracciale di legno di sorbo infilato sul<br />
braccio, per fare il punto nel campo avverso.<br />
Le squadre sono di tre uomini (come il tamburello) e la vera<br />
particolarità di questo gioco col bracciale è nel campo: una<br />
superficie di un centinaio di metri, divisa in due con una riga<br />
di calcina bianca (non esiste la rete, che è una caratteristica peculiare<br />
del solo tennis, non a caso chiamato anticamente «palla<br />
corda»). Il fatto è che questa superficie era sempre ai piedi<br />
delle mura cittadine, sicché esisteva sempre una sorta di muro<br />
di sponda ove far rimbalzare la palla. Ecco, questa caratteristica<br />
del gioco di sponda o di rimbalzo, imposta dalla origine<br />
storica dei campi di gioco, fuori delle mura, differenzia il<br />
pallone a bracciale da altri giochi similari.<br />
Nel Rinascimento il gioco, favorito da prìncipi e signori,<br />
raggiunse vertici di spettacolarità e notorietà tali da suscitare<br />
grande entusiasmo popolare e costituire argomento per com-
3] Giacomo Leopardi e lo sport «A un vincitore nel gioco del pallone» 325<br />
ponimenti letterari e poetici. Perciò Leopardi, che, come vedremo,<br />
conosceva benissimo questo sport (anticipo che uno<br />
dei sui fratelli lo praticava ed anzi morì per le complicazioni<br />
di un infortunio, si direbbe oggi, capitatogli durante una partita),<br />
non dovette considerare stravagante dedicargli una sua<br />
poesia che andava ad inserirsi in una tradizione storica di genere<br />
già ben affermata.<br />
Altre notizie interessanti attengono alle denominazioni dei<br />
giocatori, tre per ogni squadra, come detto: un battitore, una<br />
spalla e un terzino (parola passata pari pari nel calcio). Vi è<br />
poi una particolarità: un personaggio (il mandarino) lancia la<br />
palla al battitore nel momento in cui questi scende con slancio<br />
da un trampolino inclinato per colpire, con maggior forza<br />
data dalla velocità della corsa, il pallone col bracciale. Il<br />
punteggio (come nel tennis e nel tamburello) va di quindici in<br />
quindici e quattro giochi formano un «trampolino» (qualcosa<br />
come i «games» e i «set» del tennis).<br />
Come nel «base ball» c’è il fuori-campo, che si chiama «volata».<br />
Del gioco di rimbalzo sul muro laterale, s’è già detto.<br />
La notizia che forse sorprenderà è che fino al 1963 è esistita<br />
in Italia una apposita Federazione che faceva svolgere regolarmente<br />
dei campionati nazionali, vinti soprattutto da<br />
squadre marchigiane (nel 1946, ’47, ’55, ’56, ’57 e ’60). Le altre<br />
regioni, oltre le Marche, ove il gioco era diffuso sono la<br />
Romagna e il basso Friuli (Pordenone). Dopo un lungo intervallo,<br />
dal 1992 si disputa nuovamente un campionato nazionale<br />
con squadre di Cesena, Cingoli, Faenza, Mondolfo, Santarcangelo<br />
di Romagna e Treia.<br />
Ho lasciato per ultima questa cittadina marchigiana della<br />
provincia di Macerata, Treia appunto, perché qui occorre un<br />
discorso a parte.<br />
Treia si considera la patria del gioco del pallone a bracciale<br />
e di lì veniva quel Carlo Didimi, sommo asso del gioco, che è<br />
il «garzon bennato» dei versi leopardiani. A Treia ogni anno,<br />
dal 1978 si celebra la «Disfida del bracciale» nella prima domenica<br />
di agosto, un torneo regionale fra le squadre dei quat-
326 MARCELLO BERLUCCHI<br />
[4<br />
tro quartieri di questa bellissima cittadina turrita, con manifestazioni<br />
turistico-sportive che durano tutta la settimana precedente<br />
(sfilate in costume).<br />
Ho accennato prima alla diffusione del gioco, nello spazio<br />
e nel tempo. Anche Goethe lo vide (a Verona) e lo apprezzò<br />
nei suoi «Reisebilder» del 1786 con una serie di notazioni da<br />
acuto osservatore che meritano di essere riportate:<br />
«..... Oggi tornando dall’Arena, un mille passi lontano, potetti<br />
assistere ad uno spettacolo pubblico; quattro giovani della<br />
nobiltà veronese giocavano al pallone contro quattro vicentini.<br />
Si esercitano a questo gioco durante tutto l’anno circa due<br />
ore prima del tramonto.<br />
Questa volta la presenza degli avversari foresti aveva provocato<br />
un concorso straordinario di popolo: quattro o cinquemila<br />
spettatori. Non ho visto però alcuna donna, di qualsiasi condizione<br />
sociale. Poco prima, accennando all’atteggiamento della<br />
folla in simili occasioni, ho descritto l’anfiteatro improvvisato:<br />
fu così che vidi qui la gente sedersi l’uno più in alto dell’altro.<br />
Cominciai a sentire da lontano un vivace batter di mani che seguiva<br />
ogni colpo di una certa importanza.<br />
Ad ogni convenevole distanza l’uno dall’altro sono situati due<br />
tavolati leggermente inclinati; il giocatore che lancia la palla<br />
si tiene in alto con la destra armata d’un largo cerchio di legno<br />
a punte.<br />
Mentre un altro, nella sua stessa squadra, gli lancia la palla, egli,<br />
scendendo, le corre incontro e aumenta così la forza del colpo<br />
con cui l’accoglie.<br />
Gli avversari cercano di respingerla, e così la palla va da una<br />
parte all’altra finché non resta a terra sul campo.<br />
Questo gioco dà occasione a degli atteggiamenti degni di essere<br />
scolpiti nel marmo. Questi giovani sono ben fatti e robusti,<br />
portano una veste bianca corta e aderente. Le due schiere si distinguono<br />
solo da un segno di diverso colore.<br />
Particolarmente bella è l’attitudine del lanciatore della palla<br />
quando scende di corsa dal piano inclinato ed alza il braccio<br />
per colpirla; essa ricorda il gladiatore del muro Borghese. Mi
5] Giacomo Leopardi e lo sport «A un vincitore nel gioco del pallone» 327<br />
sembrò strano che si esercitassero in questo gioco presso le vecchie<br />
mura della città, in un luogo che non offre alcuna comodità<br />
agli spettatori. Perché non giocano nell’antico anfiteatro?<br />
Sarebbe uno spazio così adatto e bello per questo gioco!»<br />
Non si può far a meno di notare, in questa cristallina pagina<br />
del genio di Weimar, la precisione con cui viene descritto<br />
il gioco osservato e ammirato. Anzitutto, il fatto che non era<br />
uno svago del popolino («quattro giovani della nobiltà veronese»);<br />
poi l’assiduità degli allenamenti («si esercitavano a questo<br />
gioco tutto l’anno») con l’indicazione dei tempi e della durata<br />
(«circa due ore prima del tramonto»); anche il gran concorso<br />
di folla («quattro o cinquemila spettatori»), rigorosamente<br />
maschile («non ho visto però alcuna donna, di qualsiasi<br />
condizione sociale») con grande tifo, diremmo noi oggi («cominciai<br />
a sentire da lontano un vivace batter di mani che seguiva<br />
ogni colpo di una certa importanza»).<br />
Infine, la descrizione delle diverse fasi del gioco, particolarmente<br />
la battuta iniziale (il servizio, in termini tennistici)<br />
con quella sorta di trampolino («due tavolati leggermente inclinati»)<br />
e l’azione di lancio del «mandarino» («gli lancia la<br />
palla») che favorisce lo slancio del battitore (il quale «scendendo,<br />
le corre incontro e aumenta così la forza del colpo con<br />
cui l’accoglie»).<br />
Segue poi l’ammirazione di Goethe per la bellezza estetica<br />
del gesto sportivo del battitore («questo gioco dà occasione a<br />
degli atteggiamenti degni di essere scolpiti nel marmo») che<br />
rievoca la statuaria romana («ricorda il gladiatore del Muro<br />
Borghese»). L’ultimo cenno è di rammarico per il fatto che un<br />
simile, bellissimo spettacolo si svolgesse «presso le vecchie mura<br />
della città» anziché nell’antico anfiteatro (l’Arena) «uno spazio<br />
così adatto e bello per questo gioco». E qui forse, l’illustre<br />
viaggiatore d’oltralpe non aveva capito il meccanismo sportivo<br />
dei giochi di sponda, che può farsi accanto alle vecchie mura<br />
e non nell’ovale dell’anfiteatro dell’Arena. L’ultima notazione<br />
tecnica riguarda quello che può sembrare un errore cronistico:<br />
Goethe parla di quattro componenti della squadra, ma
328 MARCELLO BERLUCCHI<br />
[6<br />
evidentemente vi comprende, oltre i tre giocatori propriamente<br />
detti (lanciatore, spalla e terzino) anche il mandarino,<br />
che lancia la palla.<br />
Detto così, in breve, del gioco del pallone a bracciale, occorre<br />
ora rispondere alla seconda domanda: chi era il destinatario<br />
della poesia del Leopardi.<br />
Era Carlo Didimi, di nobile famiglia (ricordate Goethe?)<br />
nativo di Treia, la cittadina turrita del maceratese di cui ho già<br />
detto.<br />
Era nato il 6 maggio 1798 da Francesco e Pasqualina Ercolani,<br />
appartenenti alla nobiltà locale (non solo di Treia, ma anche<br />
di Recanati, Cingoli e Tolentino) che viveva delle rendite<br />
dei consistenti possedimenti terrieri (traggo queste notizie dallo<br />
studio del prof. A. Meriggi su «Carlo Didimi e i suoi rapporti<br />
con Giacomo Leopardi» Macerata 1980).<br />
Fin da piccolo mostrò di avere le proprie idee, che potremmo<br />
dire anticonformiste – cioè, negli stati pontifici cui<br />
appartenevano le Marche, liberali e contrarie al dominio temporale<br />
del Papa.<br />
Fisicamente era (come risulta dalle descrizioni del tempo)<br />
«bello e aitante nella persona, alto e snello, colorito vivo, fronte<br />
poco spaziosa, occhio castagno chiaro, assai gentile nelle<br />
maniere». Come molti campioni sportivi odierni «non era<br />
molto istruito».<br />
Comunque «nel giocare a pallone emulò e superò i più distinti<br />
del tempo». E qui è interessante ricordare i nomi (e i soprannomi!)<br />
degli altri campioni di allora, che si misuravano con<br />
lui. C’era Luigi Donati di Faenza (detto «il diavoletto») e suo<br />
fratello Angelo Donati (detto «il diavolone»), c’era un altro<br />
«diavoletto» (appellativo evidentemente diffuso) Ercole Sansone,<br />
c’era Massimo Domenico da Sacile, Angelo Pacini ed altri.<br />
L’esordio del nostro campione avvenne, a 20 anni, sullo sferisterio<br />
di Treia, sua città natale, giusto allora inaugurato – ma<br />
la sua fama esplose in tutta Italia quando Carlo Didimi battè<br />
uno dopo l’altro i più forti campioni del momento, come a<br />
Forlì nel <strong>18</strong>23 quando sconfisse il friulano Massimo Domeni-
7] Giacomo Leopardi e lo sport «A un vincitore nel gioco del pallone» 329<br />
co, i fratelli Donati ed Ercole Sansone. Le cronache narrano<br />
che sfidò, da solo, Sansone e uno dei due Donati, battendoli in<br />
un match forse poco ortodosso ma sicuramente spettacolare.<br />
Carlo Didimi (in questo sì, simile a molti assi odierni) era<br />
un ottimo amministratore dei suoi talenti sportivi: nella Storia<br />
di Macerata si legge che il 29 maggio <strong>18</strong>30 richiese ai deputati<br />
(gli organizzatori) la bella somma di 600 scudi di ingaggio<br />
per venire ad esibirsi nel nuovissimo sferisterio cittadino<br />
(quello ove oggi c’è un noto festival operistico estivo)<br />
con la esplicita motivazione «essendo assai forti le spese e potendosi<br />
poco contare sull’introito della piazza di Macerata».<br />
I maligni dicevano che questa... praticità derivasse dal motto<br />
di famiglia «non fidere aliena laude» (cioè non fidarti della<br />
lode altrui) sicché egli preferiva sostanziosi «cachet» alla effimera<br />
gloria, anche per mantenere i suoi figli.<br />
Il ruolo nel quale eccelleva era quello del battitore ed i suoi<br />
«fuori campo» (le sue «volate») furono ricordate addirittura<br />
con una lapide nei diversi sferisteri ove giocò (Verona, Pisa,<br />
Livorno, Rimini, Perugia, Spoleto, Cesena, Milano e Genova).<br />
Abbiamo ricordato che l’appellativo «diavolo» con accrescitivi<br />
(diavolone) e diminutivi (diavoletto) era abbastanza diffuso<br />
fra diversi giocatori. Per lui, considerato il migliore in assoluto,<br />
ci fu chi disse che se gli altri erano il diavolo, Carlo Didimi...<br />
era Dio. Agli appassionati di storia del calcio tornerà alla<br />
memoria l’appellativo («figlio di Dio») di Renzo De Vecchi,<br />
mitico terzino del Genoa e della nazionale degli Anni Dieci.<br />
Dove si vede che l’iperbole in campo sportivo, non è solo<br />
del giornalismo di oggi!<br />
Ma non si trattava solo di un asso del gioco del pallone. Egli<br />
infatti fu anche un grande patriota, capo dei cospiratori della<br />
città di Treia che diffondevano gli ideali di patria e libertà nazionale,<br />
contro il potere pontificio.<br />
Con un suo compagno di squadra, Luigi Butironi, partecipò<br />
agli ideali ed alle manifestazioni mazziniane, divenne carbonaro<br />
ed utilizzò i suoi viaggi per le attività sportive al fine di avvicinare<br />
i patrioti e le associazioni carbonare dell’Italia centrale.
330 MARCELLO BERLUCCHI<br />
[8<br />
Dopo il fallimento dei moti rivoluzionari del <strong>18</strong>31, quando<br />
egli, insieme a quattro giovani di Treia prese parte alla marcia<br />
su Roma, la polizia pontificia lo definì «fanatico fautore e partigiano<br />
dei liberali» e nel <strong>18</strong>39 a Tolentino (ove si era trasferito)<br />
venne anche perseguitato per questo. L’ascesa al soglio del<br />
marchigiano Pio IX (cardinale Mastai Ferretti) portò un clima<br />
di distensione di cui approfittò anche il nostro; l’età aveva<br />
molto rallentato l’attività sportiva (aveva allora giusto 50<br />
anni) ma non la sua passione politica (fu amministratore comunale<br />
dal <strong>18</strong>47 al ’49). Carlo Didimi morì a Treia il 4 giugno<br />
<strong>18</strong>77 all’età di 79 anni.<br />
A questo punto viene da chiedersi: ma Leopardi conosceva<br />
Carlo Didimi?<br />
Certamente sì e non solo per la dedica del carme ma proprio<br />
per ragioni storiche ed affettive.<br />
Fra i titoli patrizi di Carlo Didimi c’era anche Recanati, come<br />
abbiamo visto e in quella cittadina il gioco del pallone, come<br />
in tutte le Marche, era una gloria locale. Per di più Recanati<br />
aveva una sua propria squadra con nomi allora famosi<br />
(Vincenzo e Lucio Tarducci e Cesare Pierini) che si batterono<br />
più volte con quelli di Treia (Butironi e Fortunati, capitanati<br />
dall’asso Didimi) nello sferisterio cittadino e sugli altri campi.<br />
Uno dei giovani fratelli del poeta, Luigi, giocava con la squadra<br />
locale ed anzi, come detto, morì in seguito ad un incidente<br />
occorsogli durante il gioco.<br />
Si potrebbe anche pensare che Giacomo, oltre alla personale<br />
conoscenza del gioco del bracciale e del suo più celebre campione<br />
del tempo, (che tra l’altro era suo coetaneo) ne ammirasse<br />
anche la prestanza fisica e il successo – due doti che la<br />
Natura («madre di parto e di voler matrigna») non gli aveva<br />
certamente concesso. Ricordiamo infatti che il contino Leopardi<br />
non era certo bello o vigoroso («un gobbetto» lo definì<br />
crudelmente una donna fiorentina da lui ammirata e cantata<br />
come Aspasia, la Fanny Targioni Tozzetti).<br />
Da ultimo, si può ricordare che la dedica della canzone a<br />
Carlo Didimi, il più celebre campione sportivo del tempo, ne
9] Giacomo Leopardi e lo sport «A un vincitore nel gioco del pallone» 331<br />
accresce la fama: le altre canzoni del libretto edito a Bologna<br />
nel <strong>18</strong>21 sono dedicate ai vertici la prima all’Italia, la seconda<br />
a Dante Alighieri, la terza al cardinale Angelo Mai, letterato<br />
ed erudito, la quarta alla sorella Paolina e per essa a tutte le<br />
donne d’Italia, la quinta al «magnanimo campion» come rappresentativo<br />
(nel pensiero del poeta) della gioventù nazionale<br />
come doveva essere, cioè forte, gagliarda e vincitrice.<br />
Osserviamo, di sfuggita, che le cose sono oggi molto cambiate<br />
per cui nessun poeta (senza imbarazzanti paragoni con<br />
l’immenso Leopardi) dedicherebbe un componimento a quegli<br />
assi dei diversi sport le cui gesta ci vengono quotidianamente<br />
propinate dai diversi mezzi d’informazione.<br />
Ma anche in questo Leopardi, sulle orme del grande Pindaro,<br />
è diverso ed unico.<br />
A questo punto, ho parlato di tutto fuorché della canzone<br />
«A un vincitore nel gioco del pallone» che conviene ora esaminare<br />
un po’ più da vicino.<br />
La poesia non è di lettura facile, anche per la lingua sempre<br />
aulica ma talvolta oscura e per la ricchezza dei rimandi storici,<br />
bisognosi di chiarimenti.<br />
La canzone si compone di un esordio, diretto al «garzon<br />
bennato» poi definito «magnanimo campion» con un cenno<br />
molto bello al successo anche popolare di Carlo Didimi («te<br />
l’echeggiante Arena e il circo, e te fremendo appella ai fatti illustri<br />
il popolar favore») e poi introduce subito il tema di fondo:<br />
la pratica sportiva è preparazione alla gloria, come i Greci<br />
vincitori dei Persiani a Maratona erano gli stessi che avevano<br />
cinto il lauro olimpico. Par di sentire qui, trasfusa in versi<br />
una eco neppur troppo lontana della frase famosa del duca di<br />
Wellington dopo la vittoria di Waterloo il cui merito, disse,<br />
doveva farsi risalire alla disciplina sportiva imparata dagli Inglesi<br />
sui campi verdi di Eton. Solo sei anni erano passati da allora<br />
(<strong>18</strong>15-<strong>18</strong>21).<br />
Trabocca a questo punto tutto il pessimismo del Poeta («altro<br />
che gioco son l’opre dei mortali? A noi di lieti inganni e di<br />
felici ombre soccorse natura stessa») che lascia poi il posto ad
332 MARCELLO BERLUCCHI<br />
[10<br />
una fosca predizione sul futuro. Se le cose vanno avanti così,<br />
cioè se l’amor di patria non si risveglierà, l’Italia diventerà un<br />
deserto «e l’atro bosco mormorerà fra le alte mura». Triste sarebbe<br />
«o buon garzone» sopravvivere alla patria infelice, perché<br />
le tue glorie sarebbero passate invano. Si inserisce qui una<br />
delle più desolate negazioni della felicità riscontrabili in Leopardi:<br />
«nostra vita a che val? solo a spregiarla» e l’unica felicità<br />
è quando ci si avvicina al «varco letéo» (cioè al passaggio<br />
del fiume Lete che segnava il confine della memoria e dell’Ade,<br />
nella mitologia greca).<br />
Così si chiude, su un tono basso di ostinato pessimismo la<br />
canzone che pure si era aperta con l’eco dei fragorosi applausi<br />
al campione e degli schiocchi delle «volate» giù dal trampolino.<br />
Tutto un altro tono, logicamente, rispetto alle odi di Pindaro<br />
dedicate ai vincitori nei giochi di Olimpia.<br />
Ma della poesia greca Leopardi, studioso attentissimo, aveva<br />
assorbito l’eleganza della forma – non la serenità cristallina<br />
del pensiero.<br />
«Commentari dell’Ateneo di Brescia» per l’anno 2005, Brescia 2008.