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Onesto o Ernesto? E’ un falso problema<br />

Angelo Pizzuto<br />

Geniaccio e perfidia di Oscar Wilde, il quale (nella celebre<br />

commedia) mette in bocca ad un suo personaggio la battuta-chiave<br />

“Basta chiamarsi Ernesto per essere onesto?”<br />

. Avvertenza: non è (solo) un gioco di parole e di pregiudizi vittoriani,<br />

posti peraltro (sopraffinamente) alla berlina, e in perfetto<br />

dosaggio fra ironia e sarcasmo. Poiché l’assioma, sempre in voga<br />

tra gli eruditi-salottieri del ‘nomen omen’, poco o nulla vale se paragonato,<br />

anzi soppiantato, dalla ‘sonorità’ della pronuncia ‘sia di<br />

Ernesto che di Onesto’ (in lingua inglese,ovviamente). Di qui tutta<br />

la fluviale, briosa (apparentemente frivola, sostanzialmente<br />

amara)satira dei vezzi e costumi vittoriani in voga nella seconda<br />

metà dell’800 fra damerini ed aristocratici: vacui e nullafacenti,<br />

deliziati da vita molliccia, battute di caccia e ottundenti fumatine al<br />

narghilè – innaffiate di pettegolezzi idioti, svenevoli aspirazioni (per<br />

fanciulle da maritare) e corteggiamenti cicisbei (per giovincelli col<br />

fiuto del buon-partito).<br />

Al dunque. Nell'Inghilterra del bel tempo andato(davvero?), Algernon<br />

Moncrieff ed Ernest Worthing sono due amici di vecchia<br />

data. Il primo abita in città ed il secondo in campagna, ed entrambi<br />

vivono una ìvita segreta’: Algernon finge di avere un vecchio amico<br />

malato di nome Bunbury in campagna, mentre l’altro, il cui vero<br />

nome è Jack, finge di avere un fratello scapestrato ‘battezzato’<br />

Ernest( nome con cui si presenta al bel mondo cittadino). Tale<br />

espediente permette loro di assentarsi dalle rispettive case e famiglie<br />

quando e come meglio credono. E, di seguito, presentarsi<br />

in tempi diversi (sempre con il falso nome che ‘dirama’ onestà) a<br />

due ragazze di immacolata virtù, rispettivamente figlioccia dell’uno<br />

e cugina dell’altro.<br />

Le fanciulle, farlocche ma furbe, credono così di amare lo stesso<br />

uomo,dando luogo ad uno dei più intrigati tourbillon della storia<br />

del teatro (superficialmente ‘leggero’), farcita di equivoci plautini,<br />

scambi di persona (cui attinsero Feydeau e quasi tutto il ‘boulevardier’<br />

di fine secolo), agnizioni conclusive- e compulsive- che rimettono<br />

in sesto ciò che in sesto mai più sarà (fine di un’epoca, e<br />

tutti alla malora).<br />

****<br />

Doviziosità delle forme e uso pirotecnico del dialogo (vera e propria<br />

ipocrisia contundente), abile montaggio delle scene che si<br />

susseguono con flemmatica frenesia potrebbero, già da sole, inserire<br />

“L’importanza di chiamarsi Ernesto” tra i più esemplari meccanismi<br />

ad ‘orologeria drammaturgica’ del teatro satiricomoderno.<br />

Se non fosse che le tribolazioni, le umane sventure di<br />

Oscar Wilde successive a quella che( purtroppo) rimane la sua ultima<br />

opera rappresentata (in perfetta triade con “Il marito ideale”<br />

ed “Il ventaglio di Lady Windermere”) non finiscano per dare alle<br />

sofisticate divagazioni di Ernesto ed Onesto lo strale invisibile dell’anatema<br />

formale ed intellettuale.<br />

Tipico dell’uomo che aveva osato ‘ostentar sodomia’ in un mondo<br />

dove in tanti la prediligevano (all’aspro confronto con la<br />

donna\madre\moglie), e in cui mai e nessuno si sarebbe azzardato<br />

di fare outing. Va però precisato che Wilde, da vero dandy e<br />

flaneur, pur denigrando il modus vivendi da lui descritto (e di cui<br />

conosceva a menadito privilegi e infamità), non se ne sentiva né<br />

estraneo né in via d’abbandono. Sicchè l’ostracismo, l’imputazione<br />

di sodomia (per amore di Alfred Douglas), la fine del matrimonio<br />

(con una donna che a suo modo amava), la perdita dei figli<br />

e della dignità nell’angustia d’un carcere (causa della sua morte<br />

precoce) ‘esaltano’ di eroismo (e profezie testamentarie) un<br />

testo mirabilissimo comunque ancorato alle sole attrattive del<br />

virtuosismo aforistico e della collaudata conoscenza della (inaffidabile)<br />

natura umana.<br />

Stiracchiata, di converso, nell’ adattamento di Geppy Gleijeses<br />

e Masolino D’Amico -di scena al Teatro Quirino di Romaè<br />

la ‘devozionale’ dedica dello spettacolo all’ iconografia d’un<br />

San Sebastiano Martire, campeggiante in grande ovale (a riproduzione<br />

del famoso quadro del Reni) sin dall’apertura di sipario,<br />

in nel buio del fondo scena. Come fosse patrono d’ogni<br />

diversità misconosciuta.<br />

Così come sembra elementare far recitare ‘en travesti’ (alla comunque<br />

brava e seducente Marinella Bargilli) il ruolo di un Algeron<br />

cinico ed efebico, giusto a sottolineare chissà quali<br />

ambiguità del sottotesto (e dell’ispirazione non-dichiarata) di<br />

Wilde. Mentre tutti gli altri interpreti (dalla inenarrabile Lucia<br />

Poli alla sapida Renata Zamengo, da Valeria Contadino a Giordana<br />

Morandini, sino allo stesso Gleijeses che interpreta il ‘distratto’<br />

Jack) si attengono alla cifra evocativa, dilatata,<br />

sostanzialmente distaccata ed ‘in vitro’ che forse è il maggior<br />

pregio di uno spettacolo peraltro divulgativo, godibilissimo e di<br />

sobria struttura espositiva.<br />

Nella quale sembra di ravvedere (ed è un complimento) quel<br />

che Cechov raccomandava ai suoi attori “Recitatemi senza melanconia,<br />

ma con la leggerezza di un vaudeville”. Qui –parimenti-<br />

è come Wilde pregasse i suoi nuovi esegeti di non<br />

abbandonarsi né al sarcasmo esclamativo, cubitale né al ricamato<br />

birignao di tante compagnie oltrepassate. Raccomandazione<br />

che dà buoni frutti: “L’importanza di chiamarsi Ernesto” è<br />

oggi recitata come fosse una superflua, usuale commedia di<br />

(sterile) conversazione. Ed invece, a suo modo, è una ‘tragedia’<br />

camuffata da bon-ton.<br />

****<br />

“L’importanza di chiamarsi Ernesto” di Oscar Wilde. Traduzione<br />

di Masolino D’Amico. Regia di Geppy Gleijeses. Costumi di<br />

Adele Bargilli. Luci di Luigi Ascione. Proiezione scenica di Teresa<br />

Emanuele. Interpreti: Marianella Bargilli, Lucia Poli, Geppy<br />

Gleijeses, Renata Zamengo, Valeria Contadino, Giordana Morandini,<br />

Luciano D’Amico, Orazio Stracuzzi. Roma, Teatro Quirino<br />

40 24marzo2014 asud’europa

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