31.01.2018 Views

Invisibile

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

FALSOPIANO<br />

L’INVISIBILE<br />

NEL CINEMA<br />

a cura di<br />

Flavio Vergerio


FALSOPIANO<br />

CINEMA


EDIZIONI<br />

FALSOPIANO<br />

L’INVISIBILE<br />

NEL CINEMA<br />

a cura di<br />

Flavio Vergerio


Ringraziamenti<br />

Questo volume è stato realizzato grazie al contributo di CSC. Centro Studi<br />

Cinematografici e del MIBACT - Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del<br />

Turismo.<br />

© Edizioni Falsopiano - 2017<br />

via Bobbio, 14<br />

15121 - ALESSANDRIA<br />

http://www.falsopiano.com<br />

Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri<br />

Prima edizione - Marzo 2017<br />

ISBN 9788893040655


INDICE<br />

Introduzione<br />

Da Stanlio e Ollio a Ozu<br />

Flavio Vergerio p. 11<br />

Secrets Beyond the Door.<br />

Lubitsch, il Codice e il film invisibile<br />

Paolo Vecchi p. 27<br />

Il suo silenzio non ti parla?<br />

(Ingmar Bergman, Il settimo sigillo)<br />

Carlo Tagliabue p. 43<br />

Così bella così dolce<br />

(Une femme douce, Robert Bresson, 1969)<br />

Elio Zenobi p. 66


Muriel, l’impossibile ritorno<br />

Flavio Vergerio p. 81<br />

Amo il cinema, perché<br />

è un’arte indiretta,<br />

inconfessata, nasconde tanto<br />

quanto mostra (François Truffaut)<br />

Giulio Fedeli p. 97<br />

Chris Marker.<br />

La Jetée, la metropolitana di Sans Soleil<br />

Tullio Masoni p. 113<br />

Alfred Hitchcock: playing behind screens<br />

Carlo Caspani p. 121<br />

L’opera e i giorni<br />

Adriano Piccardi p. 138<br />

Tra l’invisibilità e il mistero:<br />

il Decalogo di Krzysztof Kieślowski<br />

Giancarlo Zappoli<br />

Laura Negretti p. 151


The Act of Killing (Joshua Oppenheimer)<br />

Caterina Doni p. 172<br />

L’ipervisibile.<br />

Dalla didattica alla dialettica visibile/invisibile in Peter Greenaway<br />

Elio Girlanda p. 188


Germania anno zero (1948)<br />

10


INTRODUZIONE<br />

Da Stanlio e Ollio a Ozu<br />

Flavio Vergerio<br />

Questo libro raccoglie una serie di saggi che cercano di individuare<br />

l’origine misteriosa della produzione di senso nel cinema. Secondo la mia<br />

ipotesi questo mistero costituirebbe la negazione della mera rappresentazione<br />

della realtà (o supposta tale) soggetta alle regole manipolatrici della<br />

trasparenza. Il cinema che produce pensiero non è quello che “mostra”,<br />

ma quello che occulta, che suggerisce, che interpella sull’“oltre” dell’immagine.<br />

Il cinema che invita a “vedere” fra gli interstizi della narrazione per<br />

immagini, nelle ellissi, nei falsi raccordi di montaggio, nel fuori campo,<br />

nella sospensione del racconto.<br />

Credo che per ogni giovane spettatore, ancora curioso e disponibile ad<br />

accogliere le mille invenzioni possibili del cinema, non ancora cioè reso<br />

cieco e sordo dalla omologazione linguistica mediatica, le prime esperienze<br />

di visione abbiano costituito un’immersione nella meraviglia del fantastico<br />

e del misterioso. Il senso di quanto abbiamo visto al cinema da bambini era<br />

avvolto nell’involucro affascinante e ambiguo del mistero e dell’insondabile.<br />

Questo fascino morbido ha modellato la nostra visione del cinema e<br />

del mondo in esso rappresentato. Per quanto mi riguarda (ma credo che la<br />

cosa sia valida per tutti) le mie prime visioni cinematografiche mi hanno segnato<br />

profondamente perché contenevano in sé una rappresentazione del<br />

mondo distorta, surreale, fantastica, in qualche modo sovversiva. E ciò avveniva<br />

in film apparentemente pacificati e giocosi.<br />

Pescando nel rimosso della mia memoria (visto che in età matura mi sono<br />

dedicato al cinema “serio” e rigoroso di Bergman, Bresson e Dreyer), i film<br />

11


che ricordo come prime esperienze fondative sono alcune comiche di Stanlio<br />

e Ollio e Aquila nera di Riccardo Freda (1946), visti con mio padre nel<br />

primo dopoguerra in un cinema oggi scomparso (forse si chiamava Excelsior)<br />

dalle parti di Piazzale Corvetto a Mestre. Il fascino della visione era addirittura<br />

resa elettrizzante dalla cortina di fumo azzurrino e dalla<br />

partecipazione emotiva degli spettatori accalcati (io e papà finivamo sempre<br />

in galleria).<br />

In particolare di Stanlio e Ollio ricordo una comica (forse si tratta di Laughin’<br />

Gravy, tradotto in italiano come Non c’è niente da ridere, del 1931)<br />

in cui i due cercano di dormire in una stanza d’albergo nascondendo un cagnolino<br />

non gradito al proprietario. I due dormivano in un letto matrimoniale<br />

disturbandosi a vicenda e giungendo a ficcarsi i piedi in bocca. Una<br />

situazione simile viene proposta in altri film successivi. In Pardon Us (Muraglie,<br />

1931) i due dividono a fatica lo spazio esiguo di una branda in un<br />

carcere; in A Chump at Oxford (Noi siamo le colonne, 1940) si aggrovigliano<br />

in una cuccetta di un treno notturno… Al di là della comicità esilarante<br />

delle gag (che trascinava gli spettatori in reazioni telluriche) la<br />

situazione rappresentata mi comunicava un indefinibile disagio per la promiscuità<br />

cui i due personaggi erano costretti. Non avevo ancora visto la comica<br />

quasi coeva (Liberty, 1929) in cui il possibile rapporto omosessuale<br />

fra i due è adombrato in modo più esplicito. In questo film Laurel e Hardy<br />

evadono dal carcere e si vestono con abiti civili arraffati in un negozio, ma<br />

sbagliano misure (troppo larghi per Stan, troppo stretti per Ollie). Tutte le<br />

volte che i due tentano di scambiarsi in disparte i pantaloni, rimanendo in<br />

mutande, vengono colti sul fatto dai passanti e sanzionati secondo il comune<br />

senso del pudore…<br />

Il mistero insito nel film (e il vero motivo della sua fascinazione su di<br />

me) e che dovevo scoprire solo molto più tardi stava appunto nella latente<br />

omosessualità che era la molla profonda del loro perenne gioco delle parti<br />

(tronfia e ottusa mascolinità da parte di Ollie, maliziosa e surreale femminilità<br />

da parte di Stan).<br />

Per quanto riguarda Aquila nera, si trattava di un complicato film di<br />

cappa e spada tratto da Puskin (e sceneggiato oltre che da Freda anche da<br />

Monicelli e da Steno), con sullo sfondo le prime lotte contadine contro i latifondisti.<br />

Ciò che ricordo del film è una lunga galoppata notturna di Rossano<br />

Brazzi (con cui il l’ufficiale zarista Dubrowskij, divenuto capo di una<br />

12


anda di ribelli, si slancia al duello finale con il principe Sergio che sta per<br />

impalmare contro la sua volontà l’amata Masha e alla vendetta nei confronti<br />

del latifondista Kirila Petrovic che gli ha umiliato e ucciso il padre).<br />

Della trama, piena di risvolti narrativi e di cambiamenti di scena, al tempo<br />

avevo capito ben poco, così come dello scenario sociale, premonitore della<br />

futura Rivoluzione d’Ottobre. La galoppata si svolgeva in un cupo paesaggio<br />

notturno, nel fitto di una foresta a stento illuminata dalla luna. La sequenza<br />

evocava in me paure ancestrali, costiduendosi come ambiguo<br />

oggetto transizionale (cfr. il “gioco del rocchetto” freudiano) di una confusa<br />

ricerca d’identità, strumento favolistico di elaborazione di quelle stesse<br />

paure.<br />

Tutti i teorici e gli storici del cinema fanno risalire alla produzione dei<br />

fratelli Lumière, con le loro fredde e immobili prises de vues, il cinema<br />

della realtà, mentre attribuiscono alle pantomime piene di trucchi e di invenzioni<br />

immaginifiche di Georges Méliès l’origine del cinema fantastico.<br />

A parte il fatto che non credo che il confine fra i due tipi di cinema sia così<br />

netto (i Lumière manipolavano la realtà prima delle riprese, Méliès rivelava<br />

giocosamente l’origine meccanica dei suoi trucchi), è significativo il fatto<br />

che i due film cui attribuisco la formazione infantile del mio immaginario<br />

cinematografico appartengano più al versante del cinema popolare-fantastico<br />

più che a quello rigoroso e astratto dei Bergman, Dreyer e Bresson.<br />

Il tema della funzione dal cinema fantastico come proiezione dell’invisibile<br />

è stato illustrato da Bruno Fornara in una bella introduzione alla sezione<br />

Filmare l’invisibile nel catalogo dell’Infinity Festival (Alba, 2005).<br />

Mentre i Lumière fondano il fascino del cinema nella sua capacità di registrare<br />

e fissare il visibile, Méliès vuole filmare l’invisibile: “Non registra il<br />

mondo: filma un palcoscenico. Filma spettacoli, ama i prestigiatori, si serve<br />

di eleganti illusionisti (…) Stacca la testa dai corpi, fa apparire e sparire<br />

belle ragazze (…) Méliès, inventore i tutti gli effetti speciali, non si cura del<br />

reale, lo vuole reinventare, vuole giocare con corpi, oggetti e storie, vuole<br />

essere un mago (…) Dunque, nel fantastico, per la prima volta, l’invisibile<br />

diventa grazie alla tecnica e ai suoi trucchi, registrabile e visibile”.<br />

Successivamente il cinema moderno si pone il problema di come si<br />

possa interpellare e cogliere il segreto del mondo rappresentato sullo<br />

schermo con elementi oggettivi e realistici, senza ricorrere a trucchi e manipolazioni.<br />

Si chiede ancora Fornara: “come può la macchina da presa<br />

13


guardare azioni e corpi in modo tale per cui, sulla pellicola, restino le tracce<br />

di qualcos’altro, di qualcosa che gli occhi non avevano visto”. La prima e<br />

fondamentale invenzione del cinema moderno rispetto al cinema dei Lumière<br />

e dei Méliès sta nel cambiamento di funzione della cornice dell’inquadratura.<br />

Nel cinema delle origini l’essenza del mondo rappresentato<br />

stava tutto all’interno di una cornice statica e conchiusa in sé. Successivamente<br />

i movimenti sempre più audaci della macchina da presa, il rinvio<br />

problematico all’inquadratura successiva, prodotto da un montaggio sempre<br />

più creativo, inducono lo spettatore a immaginare ciò che non si vede,<br />

oltre il confine dell’inquadratura. Poco alla volta questa porzione di spazio<br />

che non appare si imporrà all’attenzione del fruitore come il vero motore<br />

della storia e origine del senso di quanto appare, che spesso si manifesta<br />

come illusoria e fuorviante. Il fuoricampo è forse la principale manifestazione<br />

di quell’invisibile che problematizza tutto il cinema della modernità.<br />

Ma, oltre al fuoricampo “esterno” esiste anche un “fuori campo interiore”.<br />

Il cinema osserva e riproduce la superficie delle cose e delle persone.<br />

Ma cosa c’è oltre questa superficie, nella vera e profonda (e spesso oscura<br />

e inconfessabile) identità dei corpi e delle persone rappresentate? Il cambiamento<br />

di prospettiva è radicale: non si tratta più di filmare l’apparenza<br />

e la materialità dei personaggi, ma loro essenza, chi essi siano. Il teorico del<br />

cinema Jacques Rancière nel suo La fable cinématografique (Seuil, 2001),<br />

citato da Fornara, rintraccia le origini di questa ricerca in quei momenti<br />

della rappresentazione liberi dai codici statici e puramente riproduttivi della<br />

stessa. Quando l’artista creatore “Fa apparire il gesto della pittura e dell’avventura<br />

della materia sotto i soggetti della raffigurazione. Fa brillare,<br />

dietro i conflitti delle volontà drammatiche o romanzesche, il fulgore dell’epifania,<br />

lo splendore puro dell’essere senza ragione. Svuota o inasprisce<br />

la gestualità dei corpi espressivi, frena o accelera la velocità dei concatenamenti<br />

narrativi, sospende o sovraccarica i significati. L’arte dell’era estetica<br />

vuole identificare il suo potere incondizionato con il suo contrario: la<br />

passività dell’essere senza ragione, la polvere delle particelle elementari, lo<br />

sbocciare originario delle cose”.<br />

Gli esempi e le modalità diverse di questa ricerca dell’invisibile sono naturalmente<br />

infiniti e comunque ne cito alcuni per individuare alcune direzioni<br />

espressive ed estetiche. Il maggiore regista concettuale vivente,<br />

Jean-Luc Godard, nel suo ultimo film Adieu au langage (2014) affida al-<br />

14


l’occhio di un cane l’osservazione di una vicenda slabbrata di conflitti amorosi<br />

applicando l’aforisma di Claude Monet citato da Marcel Proust “Non<br />

bisogna dipingere ciò che si vede, visto che non vediamo niente, ma dipingere<br />

ciò che non si vede”. Ovvero bisogna tentare di rappresentarle idee,<br />

non ciò che si crede di vedere, una realtà illusoria e fallace.<br />

Roberto Rossellini in Germania anno zero (1947) nella lunga spettrale<br />

sequenza finale attraverso Berlino pone il suo giovane protagonista prima<br />

del suicidio di fronte agli incontri mancati della sua vita: la comunità dei<br />

suoi pari (un gruppo di ragazzini gioca a palla fra le macerie), la dimensione<br />

fideistica (da una chiesa gotica arriva un suono d’organo), una famiglia e<br />

l’assenza di un padre (la sorella lo chiama quando è troppo tardi). L’apparente<br />

realismo dello sguardo si carica delle emozioni e della disperazione<br />

del protagonista, senza cadere nel didascalismo di vieti simbolismi.<br />

A proposito del suo La sapienza (2014) Eugène Green fa coincidere<br />

l’aspirazione alla riconquista dell’armonia di coppia con la ricerca dell’ascesi<br />

verso l’infinito delle forme barocche del Borromini nella cupola<br />

di Ivo alla Sapienza. Il regista afferma di prendere nei suoi film la materia<br />

bruta del cinema e di andare verso ciò che non si vede, l’ invisibile appunto,<br />

evitando la razionalità e i simboli. Preferire i segni.<br />

Michelangelo Antonioni conduce un implacabile lavoro di “reificazione”<br />

dei suoi personaggi, messi a confronto con una realtà sociale e ambientale<br />

fredda e distante. Le sue storie si concludono sempre sulla sospensione di<br />

senso e sull’apertura dolorosa verso un futuro incerto. Ne L’avventura<br />

(1959) la scomparsa di Anna svela la precarietà dei nuovi rapporti amorosi<br />

che ne vengono determinati e l’incomunicabilità di coppia. L’assenza della<br />

donna diviene progressivamente la metafora dell’incertezza esistenziale con<br />

cui i personaggi non vogliono e non possono fare i conti.<br />

Eric Rohmer non filma i fatti, ma lo sguardo mentale dei suoi personaggi.<br />

La nevrotica protagonista de Il raggio verde (1986) crede di vedere in un fenomeno<br />

di rifrazione solare al tramonto sul mare la conferma della giustezza<br />

di un suo nascente rapporto amoroso e forse della presenza del divino.<br />

Robert Bresson riesce a scoprire l’anima profonda dei suoi inespressivi<br />

attori non professionisti attraverso l’impiego di rigorose inquadrature fisse<br />

e di un tempo narrativo sacrale. In ragione del suo giansenismo ascetico, la<br />

parabola verso la solitudine sacrificale della protagonista di Mouchette<br />

(1967) acquista il suo nascosto significato religioso attraverso il solo se-<br />

15


gnale di uno velo bianco e delle note lancinanti di Monteverdi.<br />

Carl Th. Dreyer in Ordet (1955) attribuisce allo sguardo di una bambina<br />

la Verità della drammatica resurrezione della madre, richiamata alla<br />

vita dalla Follia fideistica di uno studente di teologia, critico nei confronti<br />

del “tradimento” della Chiesa ufficiale.<br />

Alain Resnais affida a un complesso lavoro sulle strutture narrative e sul<br />

montaggio l’occultamento di ricordi dolorosi e dell’angoscia di morte negli<br />

spazi di una memoria selettiva.<br />

François Truffaut affermava che nella preparazione di un film non faceva<br />

mai molti sopralluoghi per le riprese, preferendo affidarsi alla loro<br />

rappresentazione in altri film, fotografie o romanzi. Il suo rapporto con la<br />

realtà diventava di conseguenza il riflesso di un riflesso.<br />

Se vogliamo tuttavia rintracciare una forma espressiva privilegiata nella<br />

manifestazione dell’<strong>Invisibile</strong> nel cinema si può ipotizzare che essa consista<br />

nell’origine e nella potenza dello sguardo dei suoi personaggi generatore<br />

di storie e di analisi della realtà.<br />

L’invisibile e il segreto<br />

Nel suo aureo libretto Segreti e no (Bompiani, 2014) Claudio Magris<br />

analizza in funzione sociale, politica, psicologica e narrativa l’origine e la<br />

funzione strutturante e simbolica fondamentale del segreto. Coprire, velare<br />

il segreto all’interno di una vita o di un racconto significa ipotizzarne la<br />

ricchezza e la complessità. Non c’è storia senza segreto, ovvero è impossibile<br />

scoprire la verità profonda di una storia o di un personaggio. Svelare<br />

si intreccia con l’atto del ri-velare, coprire-scoprire la verità, rendersi conto<br />

che c’è un sempre in essa un ulteriore aspetto nascosto. La verità di un fatto,<br />

di un’esistenza, di un personaggio consiste nel suo aspetto segreto.<br />

Si veda l’esempio fulminante del corto di Jean-Gabriel Périot Eût-elle<br />

été criminelle… (Se anche fosse stata criminale..., 2006, visibile su You<br />

Tube): la Marsigliese sembra glorificare scene di giubilo della popolazione<br />

francese il giorno della Liberazione. La macchina da presa inquadra in<br />

campi stretti volti gioiosi di cittadini in festa. Ma poi il campo si allarga e<br />

vediamo che essi stanno partecipando all’umiliazione pubblica di donne<br />

francesi collaborazioniste o sospette di collusione col nemico (rasate a zero,<br />

16


segnate dalla svastica nazista, schiaffeggiate, offerte in pasto al pubblico ludibrio).<br />

Quelli che ci sembravano sorrisi ed espressioni di gioia ci appaiono<br />

ora come ghigni ottusi e satanici di chi si accanisce contro donne<br />

inermi e vittime di un situazione storica più grande di loro. Anche l’inno<br />

francese cambia di segno e diventa gonfia manifestazione di retorica occultante<br />

la complessità e la contradditorietà di un avvenimento che la storiografia<br />

ufficiale vuole lineare e univoco.<br />

E quando si crede di aver scoperto il segreto di una vicenda umana, il narratore<br />

spesso ne rilancia l’occultamento con ulteriori spostamenti narrativi.<br />

Orson Welles non risolve il segreto esistenziale di Charles Foster Kane, il tycoon<br />

protagonista di Citizen Kane (Quarto potere, 1941), mostrandoci il falò<br />

in cui brucia la slitta Rosebud, simbolo dell’infanzia negata al personaggio.<br />

Dal camino della grande villa in cui era morto Kane esce un denso fumo<br />

nero, segnale di dissoluzione di tanti altri segreti inconoscibili e sul cancello<br />

riappare la scritta No Tresspassing (Vietato entrare) con cui era iniziato il<br />

film. Non esiste un’unica verità dell’uomo Kane.<br />

Magris cita significativamente lo scrittore Javier Marìas: “Raccontare<br />

deforma i fatti e li altera e quasi li nega, tutto ciò che si racconta diventa irreale<br />

e approssimativo benché veritiero, la verità non dipende dal fatto che<br />

le cose siano o succedano, ma dal fatto che rimangano nascoste e non si conoscano<br />

e non si raccontino; appena si raccontano o si manifestano o si<br />

mostrano, anche in ciò che appare più reale, in televisione o sul giornale,<br />

in ciò che si chiama la realtà o la vita o addirittura la vita reale, passano a<br />

formare parte dell’analogia o del simbolo, e dunque non sono più fatti, ma<br />

si trasformano in riconoscimento. La verità non riluce, come si dice, perché<br />

l’unica verità è quella che non si conosce e non si trasmette, quella che<br />

non si traduce con parole né con immagini, quella celata e non controllata.<br />

Forse per questo si racconta tanto o si racconta tutto, perché niente sia mai<br />

accaduto, una volta raccontato”.<br />

Da parte sua Magris chiarisce così ulteriormente il concetto: “Svelare il<br />

segreto, portarlo alla luce, significa sempre anche deformarlo, già solo per<br />

il fatto di immetterlo in un contesto diverso, così come nel principio di indeterminazione<br />

di Heisenberg osservare un fenomeno significa già modificarlo,<br />

per cui si viene a conoscere già il preteso (inesistente?) fenomeno<br />

in sé, bensì il fenomeno conosciuto e osservato. La scrittura (e ciò vale<br />

anche per il cinema, ndr) è sempre uno scavare alla ricerca di qualcosa che<br />

17


si rivela - quando e se si rivela - soltanto durante questa ricerca e che in<br />

quanto si tratta di qualcosa di non conosciuto, è un segreto. In ciò consiste<br />

la verità ma anche il suo potenziale devastante, perché costringe a sapere”.<br />

Straordinaria la ricerca sul “non detto” (ovvero sull’ellissi e l’omissione)<br />

in campo letterario condotta da Nicola Gandini nel suo denso saggio<br />

Lacuna (Bompiani, 2014). Nel capitolo fondativo del saggio Gandini<br />

afferma che “Non c’è omissione testuale che non rimandi a una pienezza<br />

extratestuale, e questa sta come l’ombra al corpo. Riconoscere il valore dell’omissione<br />

significa rimettere la parzialità della scrittura nella totalità del<br />

mondo. Significa cercare il senso (…) Non dire tutto, se di fatto è una necessità,<br />

letterariamente è una libertà: l’imperfetto sovrabbonda di potenza”.<br />

Tutti i lettori de I promessi sposi ricordano il fulminante proverbiale<br />

“La sventurata rispose” con cui Manzoni lascia intravvedere l’abisso di<br />

perdizione in cui Gertrude si getterà rispondendo ai richiami amorosi di<br />

Egidio. L’orrore per le conseguenze del rapporto amoroso (gli infanticidi,<br />

la condanna a morte della suora, murata viva) è moltiplicato dall’allusione,<br />

più dalla descrizione puntuale del seguito della vicenda. Più curioso ai nostri<br />

fini il fatto che uno dei primi esempi di “lacuna”, ovvero di ellissi narrativa,<br />

proposto da Gandini sia quel La marchesa von O… di Kleist, da cui<br />

Rohmer ha tratto il film omonimo (1976). Una nobildonna vedova e madre<br />

di due figlie durante l’assedio al castello del padre governatore in una cittadina<br />

del Nord Italia viene salvata dalla soldataglia russa da un ufficiale nemico.<br />

La donna si addormenta sotto il benefico influsso di una tisana,<br />

vegliata dall’ufficiale. Tempo dopo la donna si scopre incinta e solo dopo<br />

molte insistenze accetta un matrimonio riparatore offertole dall’ufficiale<br />

che a sua insaputa l’ha posseduta. La misteriosa ellissi nasconde il conflitto<br />

intimo fra le pulsioni erotiche dei due protagonisti e l’ordine esteriore di una<br />

società moralista. Commenta Gandini: “La lacuna (…), di fatto già contenuta<br />

nel nome della protagonista (quella O che è uno zero o uno spazio<br />

tutto da riempire, come il suo grembo), determina un cambiamento psicologico<br />

significativo nel personaggio della marchesa e nella società di cui è<br />

parte; un vero e proprio scompiglio, che distrugge e ridisegna tutti i ruoli<br />

famigliari. Riempire la lacuna porterà al ristabilimento dell’ordine, dando<br />

una nuova coscienza e dignità sia nello stupratore che nella stuprata”.<br />

Credo che la produttività delle invenzioni della messa in scena cinematografica<br />

per ottenere l’apertura verso l’invisibile e l’assoluto consista<br />

18


nella sua indeterminatezza e polisemia, aperta cioè alla percezione e all’interpretazione<br />

dello spettatore più diverse. Un esempio celebre di questa<br />

produttività, è la sequenza del vaso, frequentatissima da teorici e critici, in<br />

Tarda primavera (1949), film fondativo e seminale della produzione ultima<br />

di Jazujiro Ozu. L’esile trama propone una struttura che si ripeterà in<br />

alcuni film successivi con sottili ma significative varianti. Un vecchio professore<br />

universitario rimasto vedovo viene accudito dalla figlia, ormai matura,<br />

che non vuole abbandonarlo per amore filiale e senso del dovere.<br />

L’uomo, per lasciarla libera e convincerla a sposarsi, simula l’intenzione di<br />

risposarsi. La figlia cede a malincuore a un matrimonio combinato e il padre<br />

rimarrà solo. Prima del matrimonio padre e figlia fanno un ultimo viaggio<br />

a Kyoto, ove ammirano gli antichi templi, i giardini zen e assistono a uno<br />

spettacolo di teatro tradizionale Nō. I due trascorrono la notte assieme, stesi<br />

accanto, con il volto rivolto al soffitto ove si disegnano le ombre del giardino<br />

esterno. La donna si scusa con il padre per averlo criticato per la sua<br />

intenzione di risposarsi, ma questi si è già addormentato. A due primi piani<br />

della donna, prima sorridente, poi in lacrime, si intercalano e poi seguono<br />

due lunghe inquadrature di un grande vaso a forma di anfora posato per<br />

terra, mentre sulla finestra di fondo si disegna la sagoma di un albero. Secondo<br />

Paul Schrader (Il trascendente nel cinema, Donzelli 2002, pp. 42-43)<br />

il cinema di Ozu rappresenta il percorso zen dell’uomo verso l’aware, il<br />

mondo ideale, la pacificazione spirituale e l’estasi. “La stasi completa, ossia<br />

la paralisi di ogni movimento, è il marchio di fabbrica dell’arte religiosa in<br />

ogni cultura (…) Il vaso è la stasi, una forma che può assorbire un’emozione<br />

profonda, contradditoria, e trasformarla in un’espressione di qualcosa<br />

di unificato, permanente, trascendente.<br />

L’evento decisivo - il miracolo delle lacrime - ha poco significato in sé,<br />

ma serve a verificare la consistenza della forma. Lo stile trascendentale,<br />

come il vaso, è una forma che esprime qualcosa di più profondo di ciò che<br />

è visibile, e cioè l’intima unità di tutte le cose”.<br />

Per Donald Ritchie (in Ozu, The Regent of University of California,<br />

1974, tr. fr. ed. Lettre du Blanc, 1980, pp. 169-170) il vaso produce un complesso<br />

rapporto di identificazione fra il personaggio della la donna e lo spettatore.<br />

“È dal silenzio che segue il dialogo, che il dialogo prende senso; è<br />

dal vuoto che segue l’azione, che l’azione prende senso. È allo spettatore<br />

che compete questo lavoro del senso (…) Posto di fronte al vuoto, deve<br />

19


sperimentare la scena vuota. L’effetto di questa esperienza è la stasi, una<br />

immobilità letterale attraverso la quale lo spettatore deve egli stesso muoversi.<br />

È precisamente in questo senso che le ‘nature morte’, e altre scene<br />

vuote del cinema di Ozu, assolvono alla funzione di ricettacolo di emozioni.<br />

L’immagine del vaso nella stanza buia serve non solo di transizione<br />

fra la donna prima serena e poi in lacrime, ma contiene egualmente le nostre<br />

stesse emozioni nello stesso tempo che esso le suscita. Qui non è in<br />

gioco alcuna identificazione. La proiezione immaginaria delle nostra stessa<br />

coscienza sul personaggio, fenomeno di cui non possiamo negare l’esistenza,<br />

diviene secondaria, ovvero parassitaria. L’esperienza primordiale,<br />

che ci offre la scena vuota salvo di mu (il ‘nulla’ della filosofia zen), è l’intuizione<br />

improvvisa con la quale noi ‘cogliamo’ il senso del film (…) In sé<br />

il vaso non significa nulla ma la sua presenza è uno spazio nel quale si manifesta<br />

la nostra emozione”.<br />

Gilles Deleuze ne L’immagine-tempo (Ubulibri 1989, pag. 28) identifica<br />

nel vaso “un’immagine-tempo diretta, che attribuisce a ciò che cambia la<br />

forma immutabile nella quale si produce il cambiamento (…). La natura<br />

morta è il tempo, poiché tutto ciò che cambia è nel tempo, ma il tempo non<br />

cambia se stesso, non potrebbe cambiare che in un altro tempo all’infinito<br />

(…) Le nature morte di Ozu durano, hanno una durata, i dieci secondi del<br />

vaso è precisamente la rappresentazione di ciò che permane, attraverso la<br />

successione di stati mutevoli”.<br />

David Bordwell in Ozu and the Poetics of Cinema (Priceton University<br />

Press, 1988), secondo la sintesi che ne fa Dario Tomasi nella sua monografia<br />

su Ozu (Il Castoro Cinema, 1991), sottolinea il carattere “comportamentale”<br />

della narrazione che rende difficile stabilire quali siano la cause<br />

del mutamento d’espressione di Noriko (la figlia), “sottolineando come in<br />

ogni caso il vaso non rappresenti una soggettiva della donna e, cosa di maggior<br />

interesse, come esso non sia probabilmente neanche il centro focale di<br />

quell’immagine, costruita piuttosto su un disegno di ombre e di luci, dove<br />

ciò che è in evidenza sono gli shoji (le porte scorrevoli) illuminati e le<br />

ombre dei rami che vi si riflettono”.<br />

Da parte sua Dario Tomasi insiste, come in altri passaggi del suo studio,<br />

sul concetto di sguardo altrove attribuibile ai due inserti dal vaso, dalle moteplici<br />

funzioni: “coprire un’ellisse attraverso cui si realizza il mutamento<br />

dello stato d’animo di un personaggio, relativizzare la drammaticità di un<br />

20


sentimento umano e, nel contempo, indurre lo spettatore, mediante una<br />

pausa, a cogliere il carattere universale di quel sentimento di dolore che<br />

ogni distacco porta con sé” (pag. 103).<br />

Ma c’è di più. Ancora Bruno Fornara nel suo Geografia del cinema<br />

(Scuola Holden, BUR, 2001) rintraccia un vaso negli scritti di Lao-Tzu, fondatore<br />

del taoismo, la filosofia cinese fondata sul concetto di continuo divenire<br />

e di rapporto armonico fra gli opposti. In un passaggio sapienziale del<br />

Libro della Via e della Virtù Lao-tzu afferma: “Si ha un bel lavorare l’argilla<br />

per fare vasellame, l’utilità del vasellame dipende da ciò che non è”. Chiosa<br />

Fornara: “È vero che ci vuole l’argilla per fare un vaso ma è lo spazio vuoto<br />

all’interno del vaso a renderlo utile. Utilità del mu, il vuoto produttivo”.<br />

Si parla di vasi anche nella filosofia occidentale. Nota Giuseppe Ardrizzo,<br />

teorico della conoscenza, che oggi abbiamo il “vizio” cognitivo partorito<br />

troppo sbrigativamente dalla modernità di andare troppo velocemente<br />

sugli oggetti, siano essi oggetti mentali come i concetti, siano oggetti materiali,<br />

gli stessi che passano sotto il nome di cose. E questo nostro andare<br />

troppo velocemente sugli oggetti (“contro” gli oggetti) implica il nostro<br />

non vederne l’essenza, nell’abituale presunzione di sapere di primo acchito<br />

che cosa essi siano.<br />

Heidegger, nel suo saggio su La questione della cosa si domanda “Che<br />

cos’è una cosa?”. Per rispondere, H. prende in considerazione una “cosa”<br />

comunemente conosciuta come brocca. Ne ricava che la cosalità della<br />

brocca non consiste tanto nella sua superficie-involucro - quell’immediatamente<br />

visibile inviluppo esternale -, bensì nel suo essere recipiente. Recipere<br />

significa ricevere, accogliere, accettare. Nello riempimento della<br />

brocca, noi facciamo fluire il fluido nella brocca, che è vuota e che ora riceve,<br />

accoglie, accetta. “Il vuoto, questo nulla della brocca, è ciò che la<br />

brocca è come recipiente che contiene”.<br />

Emerge così la cosalità della brocca che “non consiste affatto nel materiale<br />

di cui esso consiste, ma nel Vuoto, che contiene”. L’approccio scientifico<br />

ci dice che la brocca non è vuota: è piena di aria. Ma la riflessione<br />

scientifica ci porta a oscurare l’essenza stessa della cosa, cioè in che cosa<br />

consiste l’esser-brocca della brocca. Nell’abbandonarci al percorso scientifico,<br />

insomma, “non abbiamo lasciato che il vuoto della brocca fosse davvero<br />

il suo vuoto”. In questa direzione non percepiamo che l’esser-brocca della<br />

brocca trovi una propria consistenza nell’offrire: “L’essenza del vuoto con-<br />

21


tenente è raccolta nell’offrire”. Dall’offerta il vuoto stesso della brocca riceve<br />

la sua essenza. L’offerta del versare, insegna H., significa dare da bere<br />

ai mortali e trova il suo senso sacrale in un offrire rivolto agli dei immortali.<br />

Siamo apparentemente un po’ lontani, sulle strade dell’invisibile al cinema,<br />

da Stanlio e Ollio, ma sono convinto che tutto il cinema costituisca<br />

il riflesso, anche suo malgrado, di un pulviscolo di indicibile e di infinito.<br />

Note di lettura<br />

Nel chiedere i contributi a questo libro collettaneo abbiamo lasciato liberi<br />

i diversi saggisti di scegliere autonomamente, secondo le proprie predilezioni,<br />

i registi e i film che a loro giudizio erano più funzionali a illustrare<br />

il concetto di “invisibile” nel cinema. Ne è derivata una mappatura della<br />

storia del cinema e delle sue prospettive future che, pur procedendo da approcci<br />

metodologici diversi, costituisce una corposa risposta al problema<br />

posto nell’introduzione e uno stimolo a indagini successive.<br />

In assenza di un’unica prospettiva teorica l’ordine dei saggi ubbidisce<br />

a una logica cronologica, in riferimento alle opere analizzate.<br />

Diamo conto di questa varietà di approcci facendo riferimento ad alcuni<br />

testi.<br />

Paolo Vecchi, nella sua acuta e divertita analisi dell’opera di Ernst Lubitsch,<br />

fa derivare dal censorio codice Hays (1930) rilevanti conseguenze<br />

sulle forme della rappresentazione e del racconto hollywoodiani. La “regola”<br />

censoria produsse infinite forme di trasgressione, nei modi sottili e<br />

sfrontati dell’allusione e del doppio senso, rasentando spesso l’irrisione e<br />

la spregiudicatezza. Obiettivo dichiarato di questo cinema furono i “corretti”<br />

rapporti di coppia e una rigida concezione dell’identità sessuale. Maestro<br />

in queste strategie di aggiramento delle “regole” si rivela Lubitsch che,<br />

paradossalmente, si inventò la “proibizione” come ostacolo da superare.<br />

Nello specifico, Lubitsch ha inventato il procedimento delle porte che,<br />

aprendosi e chiudendosi, nascondono, alludono, introducono all’azione. Di<br />

questo meccanismo Vecchi cita la felice definizione di B. Améngual: “Strizzatine<br />

d’occhio complici, le porte sono le occhiate che ci indirizzano non i<br />

personaggi, ma il film. È poco dire che scandiscono la storia, esse ne sono<br />

la sostanza e il principio”. Le porte che si aprono e che si chiudono realiz-<br />

22


zano una vera strategia del desiderio, così che le porte che dovrebbero nascondere,<br />

in effetti finiscono per rivelare: “Andando in direzione contraria<br />

rispetto alla scopofilia dello spettatore, stimolano il suo voyeurismo, come<br />

se stesse guardando dal buco della serratura”.<br />

Tullio Masoni nel suo saggio su Chris Marker, utilizzando il pensiero di<br />

Merleau-Ponty, a proposito de La Jetée ne analizza la particolare concezione<br />

del tempo (un uomo rivive il proprio passato che coincide con la sua<br />

morte). Il film è eccezionale perché il regista vi rappresenta “il dilemma di<br />

chi opera con le immagini senza cedere alla pura negazione (il cinema come<br />

morte al lavoro, secondo Jean Cocteau) (...) perché cammina sul filo strappando<br />

alla fatalità ogni pur precaria chance di resistenza”. Nella successiva<br />

analisi di Sans soleil (che mostra i complessi rapporti fra la cultura e<br />

l’immaginario africano e quello giapponese, Masoni nota come Marker<br />

“mostra un film che non si vede o, meglio, che lui stesso fa nascere per<br />

frammenti in un’eclettica mescolanza mediatico-figurale: animazione filmico-televisiva,<br />

videogioco...”. Marker è il regista della dialettica fra visibile<br />

e invisibile, fra immagine e parola.<br />

Carlo Tagliabue, in un testo pensoso scritto poco prima del suo improvviso<br />

decesso e che a mio avviso può essere considerato una sorta di lascito<br />

testamentario, procede da Totò a Ricciotto Canudo per affermare che<br />

“il cinema è arte totale perché forma espressiva che si presta meglio di altre<br />

a stimolare lo spettatore a un itinerario interpretativo volto a svelare ciò<br />

che è occultato per spingerci a cogliere il senso più profondo dell’opera<br />

proposta”.<br />

A proposito del sonoro Tagliabue cita Bresson e Benedetto XVI che elogiano<br />

il silenzio come strumento essenziale per riflettere e analizzare i messaggi<br />

assordanti del sistema dei mass-media. Tagliabue propone un<br />

significativo elenco di autori, fra i quali Antonioni, Rossellini, Visconti,<br />

Fellini, Leone, che hanno utilizzato il silenzio quale strumento tematicoespressivo.<br />

Fra questi basti ricordare il Dillinger è morto di Marco Ferreri,<br />

che descrive la crisi e il suicidio di un uomo immerso nel vuoto della propria<br />

esistenza, rumorosa, ma inessenziale.<br />

Tagliabue nota poi come molti registi si siano confrontati con l’assoluto<br />

e il silenzio di Dio. L’apporto più pregnante in questo ambito è stato offerto<br />

da Ingmar Bergman, a partire dal famoso dialogo fra il Cavaliere e la<br />

Morte ne Il settimo sigillo.<br />

23


Kim Ki-duk, Stanley Kubrick, Pier Paolo Pasolini, Saverio Costanzo,<br />

Xavier Beauvois e molti altri affidano al “vuoto” narrativo/espressivo il<br />

senso della loro ricerca d’assoluto. Forse l’autore più significativo in questa<br />

direzione appare Andrej Tarkovskij che ha sviluppato all’interno di una<br />

vera “estetica del silenzio” il tentativo inane di “vedere” l’immagine di Dio,<br />

per comprendere il significato profondo del Verbo.<br />

Elio Zenobi scandaglia accanitamente la diegesi di Une femme douce di<br />

Robert Bresson in cui scopre l’insanabile duplicità della condizione umana,<br />

“l’inafferrabile dispiegarsi del caso o del destino, un fondamentale pessimismo<br />

sul senso delle vita, ma anche una chiara attenzione alla trascendenza”,<br />

svelando il simbolismo che si cela dietro la fredda narrazione realista. Il film<br />

è costruito su una serie di tempi vuoti, che il fruitore è indotto a caricare di<br />

senso. Nella sua analisi Zenobi invita a rifuggire da letture “selettive e riduttive”,<br />

volte a “slanci idealizzanti”, insistendo piuttosto sulle contraddizioni e<br />

il mistero di un’anima. Il cinema di Bresson si fonda sull’occultamento delle<br />

idee, svolto in modo tale che alla fine esse si rivelino.<br />

A proposito de Il sole della mela cotogna di Victor Erice, Adriano Piccardi<br />

individua nel tempo (non filmabile) una delle basi su cui il cinema<br />

fonda la sua testualità. Essa si costruisce nel suo rapporto con lo spettatore<br />

che avverte nella visione del film il mutamento dei processi di metamorfosi<br />

che avvengono all’interno dell’immagine. Il regista mostra l’invisibile (il<br />

concetto, la categoria) attraverso la registrazione delle modificazioni che il<br />

visibile ci mostra. Piccardi applica il pensiero del fisico Heisenberg affermando<br />

che il film e l’opera pittorica misurano l’impossibilità di “cogliere<br />

con precisione assoluta la posizione nella traiettoria che questi (il neutrone,<br />

come le cotogne) non cessano di percorrere”, con una sola immagine. Il<br />

film rappresenta “la sfida tra la fissità dell’immagine pittorica definitiva<br />

(lo spazio) e la volontà di misurarsi con le modificazioni introdotte dal fattore<br />

cronologico”.<br />

Giancarlo Zappoli e Laura Negretti, nell’affrontare un’ardua lettura del<br />

Decalogo di Krzysztof Kieślowski, prendono avvio da una dichiarazione<br />

del regista che indicava come oggetto della propria ricerca estetica il “giusto<br />

equilibrio fra l’ovvio e il misterioso”. Il cinema polacco negli anni ’60-<br />

’70 per evitare gli interventi della censura comunista aveva elaborato una<br />

sorta di codice segreto (ma ben comprensibile agli spettatori) fondato su<br />

messaggi impliciti. Kieślowski va oltre: in quella che rimane la sua opera<br />

24


maggiore “lavora costantemente sull’invisibilità, su quanto vuole che resti<br />

dietro a quanto appare in superficie, su un superamento dell’immagine e<br />

della parola”. Il progetto visivo della serie dei Comandamenti prevedeva<br />

che l’azione venisse osservata da una persona misteriosa che osservava dietro<br />

una finestra di un grande condominio... Dice il regista “Il suo sguardo<br />

intenso rivolto a loro (i personaggi dei singoli episodi) li spinge a porsi<br />

delle domande su se stessi”. L’invisibile in Kieślowski, da progetto politico<br />

si fa interpellazione metafisica, meditazione problematica del rapporto fra<br />

l’umano e il divino.<br />

La raccolta di saggi si conclude con l’intervento di Elio Girlanda sull’attuale<br />

prospettiva dei mass-media verso le forme dell’ipervisibile. Per<br />

illustrare questa tendenza si serve dell’opera di Peter Greenaway, maestro<br />

della “rappresentazione paradossale dell’invisibile attraverso l’ipervisibile<br />

e l’iperfetazione di immagini e segni”. Servendosi dei testi teorici di Moholy-Nagy,<br />

Jean Epstein e Michel Foucault, Girlanda esplora il rapporto<br />

fra rappresentazione e soggettività, che trova nel regista inglese una manifestazione<br />

straordinaria. L’artista multimediale opera con “rappresentazioni<br />

ipervisibili, tese da una parte a moltiplicare la mise en abîme e, dall’altra,<br />

a ricomprendere il ruolo produttivo dello spettatore con cui portare alla luce<br />

fenomeni inaccessibili all’occhio umano, resi ancora più (in)visibili dal regime<br />

scopico digitale e virtuale, iperrreale e ipermediale”.<br />

Greenaway di fronte all’invasione delle nuove tecnologie cerca nuove<br />

forme di narratività e di rappresentazione. Afferma Girlanda: “il cinema è<br />

morto, il futuro è nel digitale, in un processo sottrattivo, classificatorio, enciclopedico,<br />

se non addirittura combinatorio, espanso e pre-digitale”.<br />

Con una serrata riflessione teorica, Girlanda arriva a definire l’ipervisibile<br />

una sorta di risarcimento per la censura che industria, mercato, chiese<br />

e saperi costituiti hanno imposto al visuale, limitandone tutte le potenzialità<br />

e capacità reali.<br />

25


To Be or Not to Be (1942)<br />

26

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!