SPIRITUALITA FRANCESCANA IN COSTIERA AMALFITANA di Gennaro Esposito
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SPIRITUALITA’ FRANCESCANA IN COSTIERA AMALFITANA
Fra la seconda metà del XIII secolo e la prima metà del XIV secolo, vari eventi di natura diversa, come la
nascita di nuove forme di governo, gli sconvolgimenti bellici e sociali, gravi crisi economiche, mettono in
crisi le strutture politico-istituzionali createsi e sviluppatesi in Europa nei due secoli precedenti. Inizia così
l’autunno dell’età medievale segnato dal tramonto dei suoi pilastri fondanti : l’impero ed il papato. Da
lungo tempo una profonda crisi aveva investito la Chiesa che, a causa dell’implacabile conflitto tra l’Impero
ed il Papato, aveva perso la sua fisionomia spirituale ed aveva assunto sempre più marcata configurazione
mondana. Già dall’inizio dello scorso millennio, in realtà, la Chiesa versava in una condizione di profondo
decadimento morale. La carriera ecclesiastica era infatti diventata appannaggio dei figli cadetti delle
famiglie nobili, i quali, privi di una sufficiente preparazione religiosa e di una vocazione, aspiravano a
diventare vescovi sia per ricoprire prestigiosi incarichi nell’amministrazione delle terre della Chiesa, sia per
godere dei beni ecclesiastici ed accrescere il proprio potere. Mentre false ed eretiche dottrine
serpeggiavano nella società, il nepotismo, il concubinato, la simonia e la corruzione dilagavano tra le
schiere del clero. La nave della Chiesa, che faceva acqua da tutte le parti, richiedeva una nuova rotta ed una
radicale riforma che si concretizzò durante il Pontificato di Innocenzo III, che cercò di affermare la
superiorità del potere religioso su quello temporale ( teocrazia), sulla scia di Gregorio VII. Il Pontificato di
Innocenzo III fu ricco di movimenti di rinnovamento ecclesiastico, come l’ordine dei frati minori 4 fondato
da S. Francesco d’Assisi e quello dei frati predicatori istituito da San Domenico di Guzman.
<< L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapienza in terra fue
di cherubica luce uno splendore >>
S. Francesco e S. Domenico, che diedero nuovo slancio e vigore alla chiesa ed alla società arricchendole di
quelle salutari e potenti energie che solo nel Vangelo trovano linfa vitale, possono essere considerati i due
patriarchi del nuovo monachesimo democratizzato, che differiva da quello antico, aristocratico e feudale.
Francesco d’Assisi , nato da una famiglia di mercanti agiati, dopo una giovinezza tumultuosa caratterizzata
da un particolare attaccamento alla vita mondana, cambiò radicalmente la sua vita nel 1206 abbandonando
il benessere e le ricchezze familiari per imitare la Vita di Cristo. Infatti l’autore del Cantico delle Creature,
lirica che costituisce la prima forma di poesia religiosa in volgare, dopo avere sperimentato la prigione (
essendo stato catturato mentre combatteva per la sua città nella guerra contro la vicina Perugia), una crisi
religiosa lo indusse a spogliarsi di tutti i suoi beni ed ad allontanarsi dalla famiglia. “ Il poverello d’Assisi”,
colpito dall’appello di Cristo: “ Getta via quello che possiedi e seguimi”, ispirandosi ai principi evangelici
della povertà, dell’umiltà, della penitenza e dell’Amore, iniziò a predicare la perfezione evangelica per le vie
dei villaggi e nelle piazze delle città. L’araldo di Dio, che fece rifiorire sulla terra le sublimi virtù evangeliche,
oppose la sua povertà ad un’epoca di lusso smodato e di ricchezze. Affascinati da Francesco, riconosciuto
dal popolo come il Santo Universale che nell’immensità del suo cuore abbraccia tutte le creature, una
falange di seguaci lo seguirono e si raccolsero in un nuovo ordine religioso: quello dei “Fratres Minores”.
Personaggio tra i più importanti della spiritualità e della cultura del Medioevo in Occidente, fu battezzato
con il nome di Giovanni, che poi suo padre Pietro di Bernardone, facoltoso commerciante di stoffe, cambiò
in Francesco. Questi, di madre probabilmente francese, ebbe un’educazione raffinata infatti trascorse la
sua adolescenza in un ambiente ricco. Potremmo ipotizzare, come alcuni suppongono, che già in giovane
età Francesco sia venuto a conoscenze di dottrine religiose provenzali che criticavano la mondanità della
Chiesa e l’attaccamento ai beni terreni da parte degli alti prelati, quali vescovi, cardinali ed abati. Egli finì
per trovare insoddisfacente la vita agiata che gli si preparava; altrettanto povere e scarne gli parvero anche
la religiosità della Chiesa e l’azione del Papato immischiato in continue lotte con l’Impero e con i grandi
feudatari. Francesco che, prese parte a numerose imprese militari, dopo un periodo di prigionia durante il
quale fu colpito da profonde crisi spirituali che lo portarono a rinunciare alle comodità garantite dalla sua
condizione sociale, decise di “dare una significativa svolta non solo alla sua vita ma all’Esistenza della
Chiesa Intera”. Recatosi in pellegrinaggio a Roma, sulla soglia della Basilica di S. PIETRO regalò ai poveri
tutte le sue ricchezze e ritornò come un mendicante ad Assisi, dove rinunciò solennemente ai beni della sua
famiglia. Il “poverello d’Assisi” dettò ai suoi discepoli una sola regola di vita monastica, tutta intessuta di
frasi evangeliche, prima approvata solo oralmente da Innocenzo III che la definì “troppo dura” e poi da
Papa Onorio III con la bolla Solet annuere del 29 novembre 1223. La regola, che esige innanzitutto l’assoluta
povertà e la rinuncia ad ogni bene terreno, era accompagnata da uno spirito religioso diverso da quello
allora prevalente. Per Francesco, infatti, il distacco da ogni bene materiale non significava una condanna
della terra come luogo di peccato e di prigionia dell’anima. La povertà è la purificazione che permette di
apprezzare ogni aspetto della natura: il sole, la luna, l’acqua, il vento, i fiori e i frutti, il fuoco come dicono le
parole del Cantico delle Creature.
L’amore del Santo verso tutte le creature, compresi gli animali, induce a pensare che la dottrina di
Francesco fosse nutrita di elementi basati su tradizioni anche lontane dal cristianesimo, con un’eco
orientaleggiante e fondate sulla convinzione che l’uomo sia FRATELLO delle piante, degli animali e di tutte
le altre componenti della Natura. Il gruppo di religiosi che si creò intorno a Francesco visse dapprima in
capanne intorno alla cappella della Porziuncola, situata all’interno della Chiesa di S. Maria degli Angeli in
Assisi, che era stata ceduta al santo dai benedettini di Monte Subasio. La comunità divenne ben presto
molto numerosa e molti furono i missionari inviati per l’Europa, che furono spesso scambiati per eretici
date le loro dottrine che all’epoca erano definite “rivoluzionarie”. Tuttavia, nonostante le difficoltà
incontrate, il programma di rinnovamento religioso di S. FRANCESCO non si confuse con quello dei
movimenti eretici, con cui sembrava avere in comune numerosi aspetti, perché l’ideale di purezza
evangelica del santo era sempre affiancato da un grande rispetto formale per le gerarchie ecclesiastiche.
Francesco volle propagare le sue idee; fu in Spagna e forse in Palestina ed Egitto, ivi cercò di convincere i
crociati che assediavano la città di Damietta a non usare violenza contro i musulmani. Si racconta che, non
avendo trovato ascolto presso i cristiani, iniziò a predicare agli infedeli, accolto con rispetto dal sultano Al-
Malik al-Kamil, nipote di Saladino. Ben presto all’interno dell’ordine francescano nacquero dissidi che
portarono il pio Francesco a ritirarsi sul Monte della Verna, abbandonando la predicazione.
“ Io ho in Toscana uno monte divotissimo il quale si chiama monte della Vernia, lo quale è molto solitario e
salvatico ed è troppo bene atto a chi volesse fare penitenza, in luogo rimosso dalle gente, o a chi desidera
fare vita solitaria. S’egli ti piacesse, volentieri Io ti donerei a te e a’ tuoi compagni per salute dell'anima
mia.”
Conte Orlando di Chiusi
“Della causa perché questo Sacro Monte fu chiamato Laverna. Questo sacro Monte, per tradizione di
memoria antichissima si sa, e per molti Autori, che fu nominato Laverna per un Tempio di Laverna, Dea
gentilica di ladroni quivi edificato, e frequentato da molti crassatori e ladri che stavano dentro al folto bosco
che lo veste; e spesse, profonde ed orrende caverne e burroni, dove sicuri dimoravano per spogliare e
predare li viandanti...”
Padre Salvatore Vitale
Dopo aver rappresentato, nella notte di Natale del 1223 la Natività nel presepio, nel 1224, in ritiro alla
Verna, ricevette le stimmate. Tornato ad Assisi, ormai quasi totalmente cieco, sentendosi prossimo alla
morte, volle essere trasportato alla Porziuncola, ivi morì. Con insolita rapidità fu elevato agli onori
dell’altare, infatti venne canonizzato solo due anni dopo la morte. Ma ancora più veloce fu il diffondersi
della sua riforma, che diede inizio ad un periodo di potente risveglio religioso al quale aderirono tutti gli
spiriti più aperti dell’epoca. Al Santo ed ai suoi insegnamenti, di estrema attualità, si rifanno anche oggi le
correnti della Chiesa Cattolica che, in accordo con le nuove concezioni sociali, rivendicano l’importanza del
ritorno alla povertà evangelica e all’amore per gli umili ed i diseredati.
Contemporaneo al serafico 5 Francesco, “ che nel crudo sasso, intra Tevere e Arno da Cristo prese l’ultimo
sigillo che le sue membra due anni portarono”, è Domenico Di Guzman, sacerdote e fondatore dell’Ordine
dei Frati Predicatori, che è stato proclamato Santo nel 1234 dal Sommo Pontefice Gregorio IX, uomo di
grande sensibilità teologica, che dopo essere diventato decano del Sacro Collegio, ascese al soglio di Pietro
alla morte di Onorio III. Pur condannando il lusso e la corruzione morale del clero, gli ordini mendicanti si
posero fin dall’inizio al servizio dell’ortodossia 6 . In particolare si impegnarono con metodi diversi a
combattere le eresie, ricoprendo un ruolo di primo piano nell’ambito del tribunale dell’Inquisizione.
Domenico di Guzman riteneva che per sconfiggere le eresie fosse necessario approfondire gli studi teologici
e coltivare “l’arma della parola”. Gran parte dei filosofi e dei teologi del Duecento, infatti, uscirono dalle file
dei domenicani, primo fra tutti Tommaso D’Aquino, frate domenicano definito Doctor Angelicus dai suoi
contemporanei.
“Donami, Signore Dio, la vita senza morte, il gaudio senza dolore, là dove c’è la somma libertà, la libera
sicurezza, la sicura tranquillità, la gioconda felicità, la felice eternità, l’eterna beatitudine, la visione e la lode
della verità, o Dio! Amen”.
Tommaso D’Aquino
Francesco puntò, invece, sull’esemplarità della sua vita e di quella dei frati minori, i cui fondamenti erano,
oltre alla povertà assoluta, la fraternità universale (da cui l’adozione del termine frate, fratello, al posto di
monaco), la condizione di minorità ( che collocava i frati all’ultimo gradino della scala sociale, insieme ai più
umili ed agli emarginati), l’incondizionata obbedienza all’autorità del Pontefice. L’ordine domenicano, che
nacque con la stessa regola degli agostiniani, ebbe una notevole importanza nel Medioevo anche perché
esercitò quasi dovunque il controllo dei tribunali ecclesiastici della Santa Inquisizione che, istituiti nel 1215
durante il IV Concilio Lateranense per volere di Innocenzo III, avevano il ruolo di scovare e reprimere ogni
forma di eresia. A quel tempo gli eretici rappresentavano non solo un pericolo dal punto di vista religioso,
ma anche sociale e politico: per estirpare l’eresia venne istituzionalizzata la crociata come strumento di
lotta contro ogni forma di deviazione dall’”ortodossia”. La prima Inquisizione fu affidata ai domenicani, ma
fino al 1252 agiva senza una precisa fisionomia istituzionale, senza un proprio corpo di polizia e senza un
piano di interventi ben definito. In seguito vennero precisati gli strumenti da utilizzare, fra cui anche la
tortura, normalmente utilizzata in ogni tribunale medievale. Lo scopo dell’Inquisizione era quello di
riportare l’eretico alla vera fede, recuperarlo e reintegrarlo nella Chiesa. Le pene previste andavano dalla
confisca dei beni all’obbligo di pellegrinaggio o di pubblica penitenza: solo nei casi in cui l’imputato si fosse
rifiutato ostinatamente e ripetutamente di abiurare, veniva condannato a morte, solitamente al rogo. Gli
ordini mendicanti ebbero una grande diffusione e riscossero un notevole consenso popolare in tutta la
cristianità. Ciò fu dovuto certamente alla loro modernità, al loro essere cioè espressione dei tempi nuovi:
essi scelsero, infatti, di non isolarsi nei monasteri di campagna, ma di abitare nelle città, in mezzo alla gente
comune ed a contatto con il frenetico mondo cittadino, con i suoi contrasti sociali, la sua vitalità economica
e culturale. In particolare, scelsero di “ sposare” la povertà e di affiancarsi accanto alle più umili masse,
sfruttate nelle più diverse attività lavorative e priva di ogni dignità politica e sociale. Una scelta di vita
fondata sull’imitazione di Cristo, sulla rinuncia alla potenza ed alla ricchezza, non solo era in contrasto con il
modello trionfalistico della Chiesa di Gregorio VII ed Innocenzo III, ma anche con l’agiata vita cittadina
condotta dalle intraprendenti famiglie borghesi. Gli ordini mendicanti erano quasi ovunque fieramente
avversati dal popolo grasso, che vedeva in loro l’incarnazione della rinuncia allo spirito di ottimismo e di
iniziativa proprio della borghesia comunale, perché fondavano la loro vita religiosa sulla povertà e
l’elemosina, rinnegando i concetti stessi del profitto e del lavoro. In realtà, i nuovi ordini condividevano con
la borghesia cittadina la critica nei riguardi del feudalesimo, fortemente gerarchizzato ed ineguale. Nello
stesso tempo gli ordini mendicanti, ed in particolar modo quello domenicano, furono parte integrante del
vivace risveglio dell’attività culturale dei centri urbani, al punto di dedicarsi anche all’insegnamento
universitario, al fine di contribuire in modo concreto ed attivo ad un sostanziale rinnovamento degli studi
filosofici e teologici.
Nei secoli X e XI, quando il territorio del Ducato si coprì di una fitta rete di cenobi, la Chiesa Amalfitana fu
spiccatamente monastica infatti il Monachesimo incise profondamente ed a lungo sulla vita religiosa degli
Amalfitani. Nello stato Medievale di Amalfi, per la larga ed intensa partecipazione dei cittadini di ogni ceto
sociale e per le straordinarie dimensioni assunte dal fenomeno monastico, la vita monacale, nel periodo del
suo massimo fulgore, si configurò come una vera e propria attività sociale ( o meglio per la società ), che
si estese oltre i confini del Ducato. Di istituti monastici creati dai mercanti amalfitani nelle colonie
meridionali ne sono documentati nelle fonti, come sottolineato dal Prof. Andrea Cerenza, uno a Teresino
nell’antica Lucania ed uno a Melfi, nell’attuale Basilicata. Successivamente nei secoli dell’alto Medioevo,
che si estende dall’anno 1000 fino al 1492, il fenomeno monastico amalfitano ed in particolare quello
benedettino ricevette una sostanziale battuta d’arresto. L’ultimo bagliore, quasi il suo canto del cigno, si
registrò nei primi decenni del ‘200 per l’avvento dei nuovi ordini religiosi e l’opera infaticabile del Cardinale
Pietro Capuano 8 , che fu non solo l’artefice della traslazione delle spoglie dell’Apostolo Andrea da
Costantinopoli ad Amalfi, ma anche il fondatore di numerosi monasteri. Lo straordinario evento contribuì a
ricreare un clima di più intensa spiritualità e di più sano fervore tanto da poter ipotizzare di assistere ad una
“rinascita – rifioritura” della vita monastica. Iniziano a germogliare nel territorio costiero, così come i fiori in
primavera, numerosi monasteri. In questo periodo, mentre vengono introdotti nelle terre del Ducato il
monachesimo cistercense e la Regola degli Eremitani di S. Agostino, inizia la sua penetrazione il
“movimento Francescano”, che influenzerà particolarmente la vita religiosa della Costiera, dove ancora oggi
rappresenta l’unica presenza vitale. Introduttore della regola cistercense sembra sia stato il sopra citato
prelato amalfitano che, dopo la breve e fallimentare esperienza fatta con i canonici lateranensi, invitò i
Cistercensi di Fossalta a stabilirsi a S. Pietro in Tuzzolo. Per piegare la loro resistenza l’ostinato cardinale
romano non esitò a chiedere l’intervento del Pontefice in persona Innocenzo III, “ il precursore” del
Giubileo 9 . In quest’area geografica le fonti e i documenti non si pronunciano sulla presenza dei domenicani,
anche se è accertata la presenza di un nucleo di frati predicatori nel territorio di Gragnano nel luglio 1490.
La presenza delle spoglie del Venerato Apostolo nella Cattedrale della prima Repubblica Marinara attrasse
una moltitudine di visitatori: gente umile e signori potenti, uomini di Chiesa e Capi di Stato, infatti pare che
la stessa Regina Giovanna, sovrana angioina del Regno di Napoli, si sia recata in Amalfi con il consorte
Ludovico, elargendo, in tale occasione, un privilegio più volte riconfermato alle monache di S. Maria delle
Donne. Tra i pellegrini più eccelsi, accorsi nella città marinara, ci sarebbe stato anche S. Francesco d’Assisi,
al quale, secondo la tradizione locale, sarebbe dovuta la formazione dei primi istituti minoriti del Ducato. In
questo periodo il notaio Marco Livio Battimelli redigeva un atto pubblico nel quale accoglieva una
dichiarazione del Padre Guardiano del convento minorita di Ravello nella quale si diceva che da una carta
d’archivio, andata perduta, era venuto a conoscenza che a fondare il convento era stato lo stesso S.
Francesco salito a Ravello dopo aver proceduto all’istituzione della Casa di Amalfi. ( CAMERA, Memorie, II,
p. 330)
La tradizione sostiene che nelle più antiche case degli ordini mendicanti avrebbero dimorato alcune tra le
maggiori figure francescane di ogni tempo. Si vuole che nel Convento di S. Salvatore di Cospidi si sia
rifugiato il cardinale Francesco della Rovere, futuro Papa Sisto IV, nella veste di Ministro Generale
dell’ordine. Circa la veridicità di questo racconto Matteo Camera, storico, antiquario e numismatico italiano
del XIX secolo, si mostrava scettico nonostante fosse fondato su una relazione custodita nell’Archivio della
Curia Arcivescovile. Nel convento di Ravello avrebbe insegnato filosofia e Teologia S. Bonaventura da
Bagnorea, cardinale e teologo italiano nonché amico di S. Tommaso D’Aquino, che venne
canonizzato da Papa Sisto IV nel 1482 e proclamato Dottore della Chiesa da Papa Sisto V nel 1588. Il Doctor
Seraphicus è considerato uno tra i più importanti biografi di san Francesco d'Assisi. Infatti alla sua biografia,
la Legenda Maior, si ispirò per il ciclo delle storie sul Santo nella basilica di Assisi Giotto da Bondone,
massimo protagonista della civiltà artistica gotica italiana che rinnovò radicalmente il linguaggio figurativo.
A San Bernardino da Siena, religioso italiano appartenente all’ordine dei Frati Minori proclamato Santo nel
1450 da Papa Niccolò V, si fa, invece, risalire, da alcuni la fondazione, da altri, la ricostruzione del Convento
dei Frati Minori di Maiori. Nei secoli del Basso Medioevo, a partire dal 1200, ogni amalfitano devoto nutriva
il desiderio di scendere nella tomba con l’abito francescano; allo stesso modo i loro antenati ambivano ad
essere seppelliti in una Chiesa consacrata a S. Benedetto, monaco italiano che, disprezzati gli studi letterari
ed abbandonata la casa ed i beni paterni, cercò l’abito della vita monastica perché desiderava piacere
soltanto a Cristo.
« L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui
seppe esporre la sua dottrina” » ( San Gregorio Magno, Dialogi. Liber secundus, 36)
Il francescanesimo, oltre a mantenere attuale il messaggio evangelico nelle contrade Campane, ha vantato
eccelsi figli che saranno elevati agli onori dell’altare, infatti, in particolar modo, il Convento dei frati minori
di Amalfi è da considerare un autentico vivaio di spiriti eletti, di spiriti magni. Fra questi spicca la figura del
Beato Domenico Girardelli, che spese la sua vita non a convertire gli altri con la predica e l’orazione, ma
cercò di dare testimonianza di una dedizione piena all’Amore di Dio con la rinuncia a quanto riteneva
corporeo, mondano e materiale. P. Domenico, che sarà dichiarato Venerabile da Papa Pio VI a Roma nella
Basilica dei SS. XII Apostoli nella Festa di S. Maria degli Angeli il 2 Agosto del 1789, era originario della
Lucania, essendo nato a Vietri di Potenza, comune della Basilicata recentemente insignito dalla nomina di “
Città dell’Olio”. La figura dell’umile francescano, che mette piede ad Amalfi tra il 1661 e il 1662, svolse
un’attività prodigiosa a vantaggio non solo dell’intera Costiera, ma anche del Salernitano e del Regno di
Napoli. L’uomo di Dio esercitò un potere morale ed un fascino irresistibile, tanto da poter essere
paragonato al Dio “motore immobile 10 ” di Aristotele, al quale tendono tutti gli individui alla ricerca della
Perfezione. Attorno a lui, infatti, si schierano il clero, i nobili, gli Arcivescovi 11 che ressero la Diocesi
Metropolita di Amalfi, il Capitolo Cattedrale, popolani, uomini maturi e ragazzi in quantità.
Una sorta di “Messia” poteva sembrare all’epoca il frate, che godeva di smisurata stima ed indeterminata
venerazione, tanto che quando passeggiava per la strada, si faceva un gran silenzio a simboleggiare rispetto
e soggezione. Il suo confessionale era sempre affollatissimo, infatti avremmo potuto definirlo come una
piccola piazza delle indulgenze ed un consultorio etico e spirituale. Considerando la vita di Fra Domenico
emergono due dati degni di nota: fu, insieme con il suo allievo Bonaventura da Potenza, il “santo” della
Costiera amalfitana, al quale i devoti attribuivano miracoli per lo più di guarigione che rientravano
nell’ambito di una quotidianità piuttosto misera, qual era quella della costiera amalfitana nel XVII secolo; la
sua ascesi, che consisteva in un atteggiamento spirituale mirante al raggiungimento di una purificazione
rituale e spirituale e alla conquista della perfezione religiosa. I miracoli, di cui più si discusse nel corso del
processo di beatificazione, avvennero sul mare. Il padre salvò, con l’orazione e la benedizione, una barca
maltese, una fregata 12 , che stava per essere travolta da cavalloni dinanzi la città di Minori.
L’altro miracolo marinaro, invece, avvenne nel Golfo di Salerno quando ormai il Venerabile Padre era già
defunto. Il Venerabile Domenico Girardelli, che è stato modello di fedeltà alla Regola ed al carisma
francescano vissuto come valore di vita vocazionale, sviluppò la sua santità nella conformità a Gesù,
sostanziata nella carità divina, rivestita luminosamente di povertà e di minorità, espressa in semplicità e
letizia, totalizzata dal Vangelo. Fin dal noviziato, periodo in cui un gruppo di persone che intendono entrare
a far parte di un ordine religioso, si impegnano, sotto la guida di un padre maestro a conoscere il significato
della vita religiosa, la sua fedeltà impressionò talmente i superiori, che iniziarono a proporlo come modello
per gli altri novizi 13 . Evidente appariva anche l’umiltà del Girardelli che, definendosi pubblicamente
“miserable peccatore, sacco di vermi, sacco di carbone, scellerato”, si esercitava negli uffici più umili,
quale lavare i piatti, spazzare, tirare i mantici, pulire gli ammalati. Soffermandoci sulla vita di preghiera e
sulla carità apostolica del Grande Eletto, possiamo giustamente affermare che l’orazione notturna e diurna
di P. Domenico era davvero il respiro ed il ristoro, la forza ed il conforto del Serafico Francescano. La sua
vita di contemplazione era particolarmente radiosa che, ben presto, attirò ad Amalfi molti religiosi decisi ad
entrare nella sua Scuola. La sua carità non ha, dunque, risparmiato nessuno come ha ribadito P. Felice
Autieri, frate minore conventuale attivo nella Città di Napoli, nel suo saggio “ Spiritualità e santità
francescana in Costiera tra XVII – XVIII secolo. Il Padre della Misericordia era solito prodigarsi per gli altri,
verso i quali nutriva un grande sentimento d’amore, che lo spingeva a bandire la parola “INDIFFERENZA 14 ”.
Infatti, il venerabile padre, passeggiando per le strade di Amalfi ed Atrani ivi trovava giocatori, era solito
prendersi le carte che lacerava o bruciava. Non ha dunque avuto paura di Andare Controcorrente, cercando
in tal modo di impedire il danno delle anime per i peccati che si commettono nel giocare. I giocatori,
confusi, se ne fuggivano senza pronunciar parola, perché lo stimavano un uomo santo. Molto significativo è
un monito del francescano, riportato da Antonio M. Di Monda in un suo saggio: “ Voi col vincere vincete
l’Inferno, e col perdere perdete Iddio ed il Paradiso”.Il Servo di Dio, pieno di zelo e fervore, riprendeva tutti
coloro che peccavano, trasgredendo anche una singola legge di Dio. Per avere una più limpida idea del
fenomeno Girardelli, bisogna rievocare la sua agonia, la sua morte ed, in particolar modo, i suoi funerali.
Dopo un lungo periodo di malattia, durante il quale venne continuamente visitato da Mons. Caravita, dal
Governatore e da tutta l’aristocrazia della città, giunse per l’amato padre l’ora del ricongiungimento a Dio.
Giungevano a chieder conforto bisognosi e diseredati di ogni specie, e lui, animato da un amore ardente e
disinteressato verso i poveri, li accoglieva con grande carità e compassione. Domenico, non possedendo
nulla per sé, chiedeva e otteneva tutto dai benestanti, che nutrivano nei suoi confronti infinito prestigio.
Quando le risorse morali sembravano innocue, si affidava ad astinenze e digiuni. Molto spesso, infatti, si “
toglieva di bocca il suo stesso cibo quotidiano” per destinarlo ai meno fortunati. Padre Girardelli, strumento
umano nelle mani di Dio, si donava al prossimo con consigli, con la Parola di Dio e con il perdono dei peccati
impartito in Nomine Domini. Aprendo i cuori alla speranza dei beni eterni, ammoniva santamente e parlava
con tale soavità che anche i più duri animi si riducevano a sincera penitenza. Si ricorreva a lui per essere
assistiti nelle malattie ed in punto di morte. Il francescano, con una interrotta opera di assistenza ai malati e
ai moribondi, con amore ed eroica dedizione, accorreva prontamente e allegramente ovunque era
chiamato. Dedicando l’intera sua vita ed ogni singolo secondo di essa a coloro che chiedevano aiuto,
disponeva i morituri ad abbracciare la morte, animandoli a sperare il Paradiso per mezzo del Corpo e del
Sangue del nostro Signore Gesù Cristo. Fra Domenico sembra un precursore di S. Pio da Pietrelcina, che
fece del suo confessionale un tribunale di misericordia e di fermezza, così come fu definito dall’Osservatore
Romano all’indomani della sua morte ed ascesa al cielo. Si rivolgevano a lui per porre fine alle inimicizie,
che scoppiavano molto frequentemente soprattutto tra le famiglie nobili. Capace di indurre e stabile la
Pace e l’Amore, il Servo di Dio si impegnava a togliere l’offesa a Dio non solo con le parole, ma con i fatti.
Ovunque metteva pace, placando odi e ire: la sua missione di pacificatore era così efficiente che sembrava
che lo Spirito Santo rendesse di fuoco le sue PAROLE. Molti furono i peccatori ricondotti sulla retta via per
sua mano. Tra essi ricordiamo Fra Domenico Bonito, nobile amalfitano e Cavaliere del Sovrano Ordine di
Malta, che manteneva la città inquieta con le sue bizzarrie. Dopo l’incontro con il Girardelli, il suo
atteggiamento mutò repentinamente e si inizia a trasmettere di lui l’immagine del Cavaliere Pacifico. Molte
donne, mosse dai consigli di P. Girardelli, abbandonarono il mondo e le sue vanità per vestirsi dell’abito
religioso del Terzo Ordine Francescano o di Gesuita. Alla sua scuola si progredì tanto nella bontà di vita e
nella regolare osservanza, sull’esempio del venerato Uomo di Dio, che, a detta del suo più illustre
discepolo, esigeva da se stesso la purità della regola. Padre Girardelli intraprese, dunque, con la forza della
parola e con il prestigio della sua santità, un’opera di profonda bonifica spirituale tesa ad eliminare veleni e
dissidi sociali, che poteva essere effettuata solo eliminando il peccato perché le guerre le ingiustizie e gli odi
che dilaniano sono peccati e hanno origine dal peccato. Le doti del servo di Dio, confessore del Vescovo
Caravita, si tradussero presto in dolci frutti; infatti, il frate, che basava la sua vita sulla massima del Vangelo
di Giovanni, “Abbiate Fede in Dio”, possedendo il dono della parola che illumina ed istruisce, corregge ed
eleva, può essere considerato uno degli Edificatori della Chiesa, o meglio uno dei suoi restauratori spirituali.
Con il suo carisma, da saggio ed umile Pastore, si dedicava ogni domenica alla catechesi, alla quale non
accorrevano solo bambini e laici, ma anche chierici e uomini consacrati, ansiosi di assaporare le sue soavi
parole riguardanti i grandi misteri della Fede, della Speranza e della Carità. Un esempio di Santità
coinvolgente, che potrebbe essere intravisto nelle figure di S. Giovanni XXIII e S. Giovanni Paolo II, pontefici
romani che hanno saputo ben incarnare Cristo in Terra. Capace di educare con amore e dolcezza, ma allo
stesso tempo con fermezza e decisione, era un vero forgiatore di uomini, dai quali esigeva un distacco dal
mondo e un allontanamento dalle amicizie mondane e pericolose. Il padre, educando alla virtù
dell’obbedienza con insegnamenti penetranti e taglienti, cercò, durante la sua permanenza ad Amalfi, di
salvare anime tenendole lontane dai vizi e dai peccati, che distolgono dalla via di Dio. Autore di
innumerevoli miracoli, operati per intercessione dello Spirito Santo, il padre era un vero Pastore in grado di
condurre il suo gregge verso la santità e la perfezione tentando di tenere le anime lontane dal vizio e dal
peccato per condurle sulla via di Dio. L’eccessivo gravitare intorno alla figura del frate è dovuto alla sua
grande santità di vita fatta più che di profondissimo spirito di penitenza e di mortificazione, essenzialmente
di amore infinito a Dio nostro Padre e di eroica dedizione verso i fratelli più bisognosi. Lo zelante
francescano, capace di stupire persino i più riottosi ed indifferenti, spesso opera miracoli con un sol segno
di Croce. Tra i prodigi effettuati, se così possiamo definirli, oltre alla risurrezione di Matteo Anastasio 15 ,
ricordiamo di altri miracoli effettuati nella zona del Gaudium nella frazione di Pogerola. In occasione della
festa di S. Rosa, il Padre si trova nel suddetto luogo con il notaio Francesco Di Vivo, alcuni chierici ed altri
galantuomini. Sedutisi a mensa, in presenza del decano 16 della Cattedrale di Amalfi Don Francesco
Casabona, verso la fine del pranzo, durante il quale Padre Domenico non toccò quasi nulla, furono portate a
tavola ventiquattro fucetole ( beccafichi) ben arrostite ed infilzate in uno spiedo. Lo spiedo, consegnato in
segno di referenza nelle mani del Frate, il quale gradì il gesto di attenzione nei suoi confronti. P. Girardelli,
dopo aver guardato con aria di compassione e pietà quegli innocui animali, sollevò lo spiedo verso l’alto e
fece tre segni di croce su di loro; al terzo segno di croce il venerabile disse in dialetto napoletano :
“ Fuitevenne” e con grande “maraviglia” i volatili abbrustoliti spiccarono il volo. Forse il più grande figlio di
Amalfi, Padre Girardelli ebbe un influsso determinante sulla società a Lui contemporanea, contribuendo al
risanamento morale della Città di Amalfi e della Costiera intera, ivi si distinse con una grande opera di
pacificazione intenta al recupero dei giusti valori ed ideali. La santità non è qualcosa che ci procuriamo noi,
che possiamo ottenere con le nostre qualità e le nostre capacità, ma è u dono che ci fa il Signore Gesù,
quando ci prende con sé e ci riveste di se stesso, rendendo il nostro cuore come il suo. Nella Lettera agli
Efesini, l'apostolo Paolo affermando che “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla
santa”, sottolinea che la santità non è una prerogativa di alcuni, ma un dono che viene offerto a tutti,
nessuno escluso, per cui costituisce il carattere distintivo di ogni cristiano ( e di ogni Uomo Buono
qualunque sia il suo credo e professione religiosa !!!!!!!!!!). I santi costituiscono il vertice di ogni grandezza
morale e l’esempio dell’uomo più armonico ed equilibrato, che riesce ad avere un dominio sul suo corpo.
Padre Girardelli, dunque, non è una figura di secondo piano rispetto ai grandi campioni mondiali ed
olimpionici che hanno conseguito grandi ed invidiabili record. Le conquiste del Girardelli sono traguardi
superiori, che hanno permesso al Venerabile di imporsi sulla società in cui viveva con un influsso
determinante e necessario. Monumento della Nostra Fede è l’umile Francescano dall’eccezionale spirito di
preghiera, che si impone ancora oggi, con un’attualità sorprendente, nella nostra vita. Vecchio e saggio
maestro del passato, forgiatore di uomini, pacificatore di nemici, bonificatore della società, pilastro della
Chiesa di Dio, Rinnovatore della FEDE, esempio di Santità, santo della fraternità pieno di amore: ecco le
espressioni con le quali dobbiamo appellarci all’illustre Araldo di Dio.
Nel Monastero di Amalfi si formò anche il Beato Bonaventura da Potenza che poi, come vedremo, darà
lustro al convento minorita di Ravello che ne conserva le spoglie mortali in un sacello 17 marmoreo sotto
l’altare maggiore, oggetto tuttora di un profondo culto. L’esperienza spirituale di Padre Girardelli fu senza
dubbio importante per il Beato, che sull’esempio del maestro iniziò ad emulare quelle eroiche virtù che
spingono l’uomo verso la santità. Il Beato Bonaventura, che può essere considerato il ponte tra Francesco
d’Assisi e l’attuale Pontefice Romano, quali esempi dell’amore di Dio, può essere giustamente definito
come uno dei tre volti della Misericordia di Dio sulla Terra. S. Francesco, da giovane, ha fatto l’amara
esperienza del carcere, ma ne ha tratto beneficio, come ci racconta Tommaso da Celano, compagno e
primo biografo del Poverello d’Assisi, nonché autore dell’inno Dies Irae, che descrive il giorno del giudizio,
l'ultima tromba che raccoglie le anime davanti al trono di Dio, dove i buoni saranno salvati e i cattivi
condannati al fuoco eterno. Liberato dalla prigione poco tempo dopo divenne più compassionevole con i
bisognosi: la prigionia lo ha fatto crescere in carità, lo ha reso più sensibile verso la sofferenza ed i poveri e
lo ha redento e “ salvato”. P. Bonaventura, invece, obbedendo alla voce del Signore ed all’impulso potente
della carità, vive nella sua carne la consolante opera di misericordia, incontrando Gesù carcerato e
sofferente nelle carceri di Ischia, dove i detenuti vivono in condizioni subumane, come ci racconta il Rugilo,
suo primo biografo. Allo stesso modo, Papa Francesco, sin dai primi giorni del suo pontificato, ha voluto
attirare l’attenzione della Chiesa sulla parte dell’umanità più sofferente, che vive nelle carceri, priva di
libertà e spesso anche di dignità. Da Francesco a Francesco, dunque, passando per la tenerezza del Beato
Bonaventura, apostolo della carità, il Signore si manifesta sempre come l’unica speranza di chi è disperato e
l’unica gioia di chi è nella tristezza, perché il suo giudizio non è mai di condanna, ma sempre colmo di
misericordia. Il Beato Bonaventura, sotto la direzione spirituale del Venerabile Girardelli, ben presto capì
che il Signore Misericordioso lo stesse chiamando a servirlo non solo come laico, ma anche come
dispensatore della Misericordia nella Grande Famiglia del Francescanesimo. Il Beato Bonaventura, nato a
Potenza il 4 Gennaio 1651 da Lelio Lavanga e Caterina Pica, genitori di esemplari virtù cristiane, a 15 anni
entrò a far parte dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali ( OFMCONV.) di Nocera Inferiore, città campana
allora sede del Noviziato francescano. Al secolo Carlo Antonio Gerardo, intrapreso il cammino religioso,
scelse il nome di fra’ Bonaventura da Potenza, quale simbolo di cambiamento totale di vita. Prima nel
convento di Nocera, poi in quello di Aversa, ma soprattutto in quello di Amalfi, sotto la direzione del
Girardelli, progredendo nella santità della vita e nell’esercizio delle virtù, avanzò nella Perfezione spirituale
tanto da meravigliare il suo stesso venerabile maestro. Il beato predilesse, nel suo instancabile apostolato, i
peccatori, gli ammalati, i poveri, gli angustiati, ma ciò non vuol dire che non degnò della sua attenzione i
nobili e dotti signori che spesso si appellavano alla sua vivificante parola.
Il Padre non limitandosi alla sola predicazione del popolo, alla semplice visita degli infermi ed alla carità
concreta verso i poveri, si dedicò instancabilmente alle confessioni. Per l’opera di avvicinamento dei più
lontani dalla vita cristiana organizzò gruppi di animi ardenti e generosi e per la particolare opera di soccorso
ai sofferenti ed agli emarginati, il francescano può essere considerato uno dei precursori di un’azione
Cattolica a base missionaria. Conosciuto come il Martire o il Santo dell’Obbedienza, può essere considerato
esempio di perfezione evangelica, di ascesi, di santità, nonché testimone della Fede che si è speso
totalmente per annunciare la lieta novella ai poveri e per servire Cristo nei fratelli bisognosi. Si distinse,
inoltre, per altissima povertà francescana, per la quale si rifiutava persino di toccare i soldi, emulando
eroicamente il Serafico Padre S. Francesco ed i suoi primi compagni. Padre Bonaventura da Potenza,
beatificato nel 1775 da Papa Pio VI 18 , era un uomo dal temperamento forte e particolarmente sensibile
tanto da divenire, con la Grazia del Signore, modello di mansuetudine e di calma imperturbabile. Dopo aver
studiato con grande impegno nei Conventi di Nocera Inferiore, Aversa e Maddaloni, venne ordinato
Sacerdote in Amalfi ed esercitò il suo apostolato a Napoli, Giugliano, Montella, Sorrento, Ischia, Ravello e
Capri. Vissuti otto anni nella cittadina della Costiera Amalfitana, non senza sgomento prese la notizia in cui
gli si esplicitava l’obbedienza per Napoli. Il Padre, che era solito definirsi “ servo inutile nelle mani del
Signore, nel convento di S. Antonio a Porta Medina (Napoli) la sua ascesi si evidenziò anche con elevazioni
da terra durante le intense preghiere. La sua predicazione, pur essendo profonda e teologica da lasciare
interdetti i suoi dotti confratelli di S. Lorenzo Maggiore, non gli fu attribuito il titolo di Dottore della
Chiesa 19 . Le sue prediche, dunque, semplici ed infuocate, erano capaci di orientare i cuori più duri verso
mete più sante. Padre Bonaventura, che tanto sembra tradursi nella figura di Padre Pio, fu trovato più volte
svenuto nel suo confessionale, spesso assediato da uomini penitenti, che venivano rimessi sul retto
cammino dal Beato, che spendeva tutte le sue energie in giornate laboriose ed estenuanti. Durante la
seconda metà del XVII secolo, mentre Napoli era invasa dalla pesta, probabilmente diffusa da soldati
spagnoli, si distinse nell’assistenza personale degli appestati. All’inizio del 1710, ormai vecchio e malato, fu
inviato al convento di Ravello, dove trascorse gli ultimi due anni della sua vita terrena. L’amabile
francescano giunse per la prima volta a Ravello il 4 Gennaio del 1710: l’antica casa dell’ordine dei Frati
Minori Conventuali era desolata, mal ridotta, priva di tutto e persino le suppellettili ecclesiastiche erano
poco decorose e sgraziate. Fu questo uno dei principali motivi che spinsero tutti i fratelli ad abbandonare la
casa conventuale, lasciando in solitudine Padre Bonaventura, che fedele al Padre Provinciale e più ancora
alla carità verso le anime bisognose e all’amore per la povertà, decise di restare in Ravello. Ivi trascorse i
suoi giorni all’insegna della semplicità e della confessione, che possono essere considerati i due pilastri che
hanno dominato la vita del frate sino al sopraggiungere di sorella morte. Il frate, che trascorreva i sui giorni
all’insegna della preghiera, della confessione e della predicazione, “si macerava colle discipline, coi cilizi, e
con altre penitenze” mentre, pur di sovvenire alle necessità degli ultimi, si privava anche del pane
quotidiano, unico mezzo di sostentamento.
Nell’ottobre 1711, assalito dalla febbre, trascorse gli ultimi giorni nella sua cella in compagnia del Cristo
Crocifisso che pendeva dalla parete. “Ave Maria, Ave Maria, Ave Maria”: furono le ultime parole del saggio
ed umile francescano, i cui occhi si chiusero non definitivamente il 26 dello stesso mese, privando il popolo
ravellese, che lo pianse con devozione filiale, di un tesoro inestimabile. Morto fra il pianto popolare ed il
suono delle campane sciolte in un concerto di gloria, tre giorni dopo la morte, il corpo del Beato fu
trasportato dall’Oratorio in chiesa per essere sotterrato alla presenza del Vescovo. Durante il trasporto, alla
vista del Tabernacolo, la salma aprì gli occhi, rimasti sempre chiusi dal momento in cui egli era spirato, e
quasi chinò la testa di fronte al SS. Sacramento, destando meraviglia negli occhi di tutti. Il fenomeno,
osservato da tutti i presenti, venne interpretato come un segno con il quale il Signore aveva voluto
premiare la grande devozione eucaristica del suo Servo. Nella ricognizione del 9 aprile 1740, a quasi
trent’anni dalla morte, il corpo del Beato Bonaventura, fulgida figura sacerdotale che a Ravello ha lasciato
un profumo ineffabile di carità, obbedienza e santità, fu trovato intatto, flessibile, odoroso e di colore
vermiglio. Essendo la nuova cassa di legno, dove doveva essere tumulato, risultata troppo stretta a
contenere la larghezza del torace, al comando dell’obbedienza, il corpo, con visibile movimento delle
spalle e delle braccia, si adattò da sé nell’angusta bara preparatagli.
Il rapporto tra il Beato Bonaventura da Potenza e Ravello, città che ebbe il privilegio di venire in contatto
diretto con alcuni giganti e campioni della fede, è individuato principalmente dalle vicende che hanno
interessato il convento di S. Francesco, presso il quale il frate potentino fu Primus Habitator all’indomani
della reintegrazione della comunità monastica, che aveva subito il procedimento di soppressione
innocenziana intorno alla metà del XVII secolo. Esempio vivente della povertà, il francescano ebbe i doni
carismatici dell’estasi, della penetrazione dei cuori, della profezia. Dopo la morte e la beatificazione, i suoi
confratelli religiosi si attivarono a sua memoria, chiedendo nel 1829 alla Congregazione dei Riti di
approvare il testo dell’Inno e dell’antifona del Magnificat per i primi Vespri, quella per il Benedictus e
l’antifona del Magnificat per i Secondi Vespri della Memoria del Beato Bonaventura da Potenza.
Ecce Vir obediens, qui loquitur victorias. Vicit seipsum, et ideo albis gloriae vesti mentis meruit vestiri, et
nomen ejus non delebitur. // Insimplicitate cordis sui obediens obtulit non victimas, et adipem arientum,
ser sempetipsum ostia Deo viventem. //Mundo jam mortuus mortem laetus aspexit, et cantando vita
decessit, in aeternum victurae in caelo.
Dopo essere stato approvato dalla Sacra Congregazione dei Riti anche l’Inno in cui si loda il venerabile
Padre, il 22 settembre 1853 Pio IX, ultimo sovrano dello Stato della Chiesa il cui pontificato viene ricordato
come il più lungo della storia ( infatti durò ben 31 anni), pubblicò il decreto per procedere alla
canonizzazione del Beato Potentino. Nonostante il Venerabile Francescano non è stato elevato agli onori
dell’altare per una serie di motivi politici e storici che interessavano non solo la sua famiglia religiosa, ma la
Chiesa Cattolica, che aveva perso la sua sovranità, che sarà poi ricostituita in minima parte sulla Santa Sede
solo nel 1929, quando furono firmati i Patti Lateranensi, primo accordo ufficiale tra la Chiesa e lo Stato
Italiano costituitosi nel 1861.
Altro illustre presule figlio del Mezzogiorno d’Italia è Padre Giuseppe Palatucci, vescovo cattolico italiano
appartenente alla famiglia dei frati minori conventuali. Giuseppe Maria Palatucci nacque a Montella il 25
aprile 1892 in una famiglia animata da una profonda fede cristiana, infatti molti furono le suore e i
presbiteri che diede questa famiglia alla Chiesa di Dio, o meglio alla Chiesa dell’uomo. Tra questi ricordiamo
Mons. Ferdinando Palatucci, che si distinse per la sua missione incentrata a sottrarre tante vite umane alla
deportazione nazista. Nipote di P. Giuseppe Maria Palatucci, già superiore dei Frati Minori Conventuali di
Ravello e dal 1937 Vescovo di Campagna, nel 1961 viene nominato, al tempo del Vescovo Guido Maria
Casullo, Delegato Vescovile di Nusco, carica che manterrà anche con il suo successore Mojaski-Perelli,
prestando nello stesso tempo servizio nella città, quale docente e vice rettore del Seminario. Prelato
domestico di S. Santità dal 27 aprile del 1968, venne consacrato Vescovo il 22 dicembre del 1968 nella
collegiata di santa Maria del Piano di Montella da Mojaski-Perelli, Arcivescovo cattolico italiano
appartenente alla nobile famiglia di un ambasciatore russo che fu al servizio dello zar. Gli fu affidata la
Cattedra Vescovile di Nicastro, dove ebbe per Vicario Generale Don Mario Milano, un oriundo amalfitano,
che nel 1989 sarà elevato alla dignità vescovile. Tra i più illustri parenti di Mons. Giuseppe Palatucci, che
venne avviato alla vita francescana nel giugno del 1906, ricordiamo Giovanni Palatucci 23 del quale è in corso
la causa di beatificazione. Dopo aver conseguito la Laurea in Filosofia presso la Pontificia Università
Gregoriana, Padre Giuseppe frequentò la Pontificia Facoltà di Lettere e di Studi Danteschi all’Appolinare, la
Facoltà Teologica di S. Bonaventura e l’Accademia Liturgica Romana. Ordinato sacerdote il 22 maggio del
1915 e i 1 giugno dello stesso anno ricevette la chiamata alle armi, infatti prese parte alla Prima Guerra
Mondiale come Cappellano Militare della Decima Compagnia di sanità di Napoli. Congedato il 18 ottobre
1919 e conseguita la laurea in Sacra Teologia l’anno seguente, dal 1921 al 1923 si dedicò all’insegnamento
di filosofia a Roma. Successivamente rientrò nel Convento di Ravello, dove riprendendo il suo impegno
spirituale come rettore del Collegio Serafico, preparò molti giovani al sacerdozio. Con il presule irpino, che
sarà insignito di medaglia d’oro 24 al merito civile dal Presidente della Repubblica Italiana Giorgio
Napolitano, come sottolineato da Padre Grieco, Ravello diventa la culla della rinascita dell’Ordine dei
Francescani Conventuali nel Mezzogiorno d’Italia. Designato nel 1937 Vescovo di Campagna da Pio X,
elevato agli onori dell’altare nel 1954, venne consacrato il 28 novembre dello stesso anno da Alessio
Ascalesi, innalzato alla porpora cardinalizia da Papa Benedetto XV 25 , fermo oppositore della Primo Conflitto
Mondiale. Dopo aver ricoperto degnamente la carica di Alto Prelato presso Campagna, Don Giuseppe che,
con una costante predicazione e scritti pastorali solidi e chiari cercava di rinvigorire la fede, i costumi ed il
senso cristiano della vita in tutti i suoi diocesani, morì il 23 marzo 1961, al termine delle Funzioni del
Venerdì Santo. Coma abbiamo pocanzi accennato, la missione del Padre francescano fu parallela a quella
del nipote Giovanni che, definito lo “Schindler Italiano”, fece ricorso all’autorità dello zio Vescovo per
salvare dalla deportazione e dallo sterminio un gran numero di ebrei.
L’attività umanitaria del presule cattolico, che durante il suo apostolato a Campagna ridestò nel clero e nei
fedeli la devozione ed il culto di S. Maria di Avigliano 26 , era sostenuta dalla Santa Sede, come documentato
da una lettera firmata il 29 novembre 1940 dal Sostituto alla Segreteria di Stato, Mons. Giovanni Battista
Montini 27 , con la quale veniva concessa la somma di diecimila lire da utilizzare per gli ebrei internati nella
Diocesi del Mezzogiorno. Si tratta, dunque, di un Francescano, di un Vescovo Incomparabile, ma prima
ancora di un uomo che debba fungere per noi da esempio degno di ammirazione ed imitazione. Fornito di
eccellenti doti fisiche, intellettuali e morali, decoroso di persona, acuto di mente, energico di volontà,
vivace di spirito, incline alla pietà ed alla preghiera, è una personalità che non deve e non può essere
dimenticata, ma deve essere riproposta ai chierici e ai sacerdoti delle nostre parrocchie, che spesso
dimenticano la loro VERA MISSIONE.
Altro frate minore conventuale, che lasciò la sua scia nella città di Amalfi, è fra’ Landolfo Caracciolo de’
Rossi, trasferito alla Cattedra Metropolita di Amalfi il 20 Settembre 1331 da Papa Giovanni XXII 28 , che
assegna contemporaneamente all’arcidiacono amalfitano Andrea d’Alagno 29 , jam consacratus apud sedem
apostolicam, la Cattedra di Castellammare di Stabia. Nato a Napoli, con ogni probabilità nell'ultimo quarto
del XIII secolo, fra’ Landolfo apparteneva al ramo Rossi della famiglia Caracciolo. Suo padre Giovanni, creato
cavaliere da Carlo I nel 1275, aveva fatto carriera nell'amministrazione angioina, ricoprendo tra l'altro le
cariche di capitano di Amalfi (1300) e tesoriere regio (1303). Mons. Caracciolo, sacre theologie doctor et
regni Sicilie logotheta 30 et protonotarius 31 , reggerà la cattedra metropolita per venti anni, dal 1331, anno
della suo insediamento, fino al 1351, quando sorella morte lo accolse tra le sue braccia per ricongiungerlo
al Padre Nostro, che è nei Cieli. Ricevuta la vocazione spirituale, entrò nell’Ordine dei Frati Minori Convent.,
nel quale per il biennio 1324-1325 ricoprì la carica di Ministro Provinciale per la provinciale religiosa di
Terra di Lavoro. Conseguito il titolo di Maestro di Teologia a Parigi nel 1305, nel 1314 fu Nunzio speciale e
Protonotario Apostolico al matrimonio di Beatrice, figlia di Carlo II, detto lo Zoppo. L’anno seguente istituì
la prima cattedra scotista nel Mezzogiorno d’Italia per celebrare la dottrina del maestro Giovanni Duns
Scoto. Rientrato a Parigi nel 1317, il francescano vi rimase fino al 1327 circa quando, più in virtù delle sue
qualità personali, che per la sua appartenenza alla nobiltà a quel tempo vivaio, fucina di vescovi, venne
elevato alla dignità Episcopale in Castellammare. Tenuto in grande considerazione da Papa Giovanni XXII, gli
fu concesso il pallio attraverso l’autorità di Pietro Borbelli, minorita nonché Vescovo di Sulmona. Il Pastore
Amalfitano, che viveva in tutta umiltà nel Convento dei Frati Minori di S. Maria degli Angeli ( attuale Hotel
Luna), fu apprezzato da papi e regnanti tanto da essere nominato dal re di Sicilia Ludovico d’Aragona
protonotario e luogotenente del regno. Il dotto e umile francescano, generoso e zelante tanto da affermare
maledictus homo qui opus suum facit negligenter, era un chierico che indirizzò la sua vita alla santità ed alla
rettitudine di vita. Pastore buono che amò le anime e non lo scettro del potere, così come aveva sorbito dal
Messaggio del Padre Serafico S. Francesco, fu tenuto in grande considerazione anche da Clemente VI, che
gli indirizzò la bolla “In praecelso throno” del 22 maggio 1342, e da Giovanna I, che non solo lo inviò quale
suo ambasciatore presso la Sede Pontificia Avignonese, ma lo nominò anche ambasciatore del Regno di
Sicilia in occasione delle trattative per la pace con Luigi I, re d’Ungheria. Mons. Caracciolo, che nel 1340
presenzia alla consacrazione della Chiesa di S. Chiara in Napoli fatta costruire dal re Roberto e dalla regina
Sancia, fu anche un valente scrittore, che entrò in contatto anche con Francesco Petrarca, iniziatore della
tradizione umanistica nonché prototipo dell’intellettuale cosmopolita. Oltre al suo scritto più famoso, il
COMMENTARIUS in IV libros sententiarum, gliene sono attribuiti molti altri tra i quali Sermones
quadragesimales et festivi, di cui uno sull’uccisione di Andrea, marito di Giovanna I, sospettata come
mandante. Tra le sue opere inedite ricordiamo anche Sermones super Santos, manoscritto conservato nella
Biblioteca comunale di Assisi. Il presulato del Caracciolo fu funestato da una violenta epidemia di peste, che
abbattutasi sulla diocesi, provocò numerose vittime. In questa occasione, è stata fondata a Maiori la chiesa
di S. Sofia con annesso ospizio per accogliere gli appestati nonché i poveri e gli ammalati. Durante il suo
apostolato la Civitas fu anche colpita da una tremenda tempesta nel 1343, che, abbattutasi su Amalfi,
arrecò danni irreparabili al porto che fece tramontare la possibilità ad Amalfi di far parte della cerchia delle
grandi città marinare del tempo. Fra Landolfo, che nell’Ordine dei Frati Minori ha il titolo di beato, morì in
Amalfi il 1 marzo 1351 e fu sepolto in Cattedrale in un sarcofago di marmo nella navata dei SS. Cosma e
Damiano.
Il fervore monastico sviluppatosi sulla scia della nobile figura del “poverello di Assisi” coinvolge anche la
città di Maiori, descritta da un cronista del Settecento come luogo ameno cullato dal mare e incantevole
per la sua bellezza naturalistica e paesaggistica, che accoglie l’edificazione di un Convento con Chiesa dei
Frati Minori Francescani Osservanti. Tale edificazione conosce un grande successo all’interno del piccolo
borgo, in particolare tra i cittadini più distinti. Le vicende della costruzione di tale convento ebbero inizio
quando il Comune di Maiori comprò il giardino presso la grotta dell’Annunziata dal Rettore della Cappella,
Daniele Iovane, sicché nel 1405 nacque l’edificio nella falda del monte occidentale della frazione della
vicina Minori, detta Torre. Lontano dal centro urbano e vicino al mare, esso includeva sette celle rivolte ad
Est e tre ad Ovest con refettorio, piccola cucina, chiesa e coro. E’ chiaro che per un simile sacrificio
economico, il Comune fu costretto a correre ai ripari, cosa che fece imponendo una tassa sulla farina.
Probabilmente, l’approvazione del Convento, nonostante non si fosse a conoscenza della Bolla Pontificia, si
delineò sotto il governo dell’Arcivescovo di Amalfi, Mons. Bertrando d’Alagno e il pontificato di Innocenzo
VII. Nel 1407, però, il vescovo d’Alagno impedì la costruzione del convento dopo che già era stata costruita
la Chiesa ma la minaccia fu sventata ben presto quando, egli, in seguito ad intricate vicende, diede il via
libera per la restante costruzione. Nel 1426, terminati finalmente i lavori di costruzione del convento e della
chiesa, il complesso fu affidato alla comunità dei Frati Minori Osservanti e consacrato al Patriarca di Assisi,
ovvero il paladino di Cristo, Francesco. Ben presto, però, la sorte dimostrò che la vita di questo convento
non sarebbe stata affatto tranquilla: infatti, già nel 1435 il complesso chiesa-convento fu assalito ed
incendiato dai Corsari Turchi, in un’epoca in cui l’espansione dell’Impero Ottomano aveva raggiunto le
porte del Regno di Ungheria. Ne è a testimonianza della difesa dei centri abitati della Divina Costiera dagli
attacchi dei Turchi Saraceni la presenza di numerosi baluardi di avvistamento, detti “bastioni”, disseminati a
picco sul mare lungo la Costa, fondamentali nello scorgere navi nemiche che si apprestavano a razziare tale
territorio. Nell’agosto del 1436 furono presi provvedimenti per la ricostruzione, ai quali la “Provvidenza
Divina” recò in aiuto S. Bernardino da Siena. Costui, predicatore appartenente all’ordine dei Frati Minori e
proclamato santo nel 1450 da papa Niccolò V, secondo quanto narrato dagli storici, soggiornò a Maiori e la
sua grande opera di predicazione apportò una significativa devozione per il SS. mo Nome di Gesù Cristo,
come attestano quelle tavole cinquecentesche e le molte confraternite istituite nelle parrocchie della
Costa. Il nome del Salvatore venne fatto rivivere sull’esempio di S. Bernardino da Siena nelle Confraternite
e nel famoso “trigramma JHS” (Ihesus), circondato da raggi simboleggianti la luce salvifica di Cristo, che da
allora cominciò ad essere posto sulle porte di molte chiese, di antichi palazzi pubblici e case private ed in
particolare sull’ostensorio necessario per l’adorazione del Santissimo Sacramento. La venuta di S.
Bernardino da Siena si prefigura come un vero e proprio segno della Provvidenza divina in quanto, da
allora, tale convento, che era seriamente minacciato dalla scarsità idrica, ebbe a disposizione acqua proprio
per intercessione del santo, la quale sgorgava dalla roccia del giardino del convento incanalandosi nel
cortile e piombando in una vasca. L’acqua miracolosa, che fluiva senza scarseggiare né in estate o in tempi
di generale siccità, fu appellata “Sorgente di S. Bernardino”. Purtroppo, l’intervento di costui non ebbe
influenza nel limitare la tragedia che appena cinque anni dopo la ricostruzione sconvolse il complesso
religioso: nel 1440, una violentissima mareggiata, meglio indicata come “lop e’ mar”, distrusse la piccola
chiesa cancellandola fin dalle fondamenta. Si trattava di un’ eccezionale tempesta marittima, scaturita dall’
incontro di due venti opposti, in generale uno freddo proveniente da nord-ovest e uno caldo proveniente
da sud-est. Anche l’illustre Francesco Petrarca parla di questa devastante calamità naturale, in particolare
egli descrive quella abbattutasi su Napoli con ingenti danni a mezzanotte del giorno di Santa Caterina, il 25
novembre 1343, nella V Lettera del V Libro della raccolta epistolare indirizzata al cardinale Giovanni
Colonna mentre egli soggiornava a Napoli. Nel corso dei secoli, si sono verificate altre “lop e’ mar” che
hanno logorato le coste del Tirreno e in particolare la città di Amalfi, fino a considerare l’ultimo fenomeno
dell’ 11 gennaio 1987. Proprio l’azione demolitrice del mare ed altri fenomeni naturali hanno contribuito a
fare in modo che gli spostamenti tra Maiori e Minori potessero avvenire a piedi asciutti, delineando quel
profilo morfologico ed aspro che la Costiera, a strapiombo sul mare, tuttora presenta. Nonostante le
violenti forze della natura, la tenace volontà e industria degli uomini mostrano di non essersi date per vinte:
infatti, la chiesa fu nuovamente riedificata nello stesso posto vicino alla “loggia grande”, che nel 1613 fu
coperta e trasformata in dormitorio. Altre mareggiate ed alluvioni registrate dimostrano i notevoli
impedimenti di questo convento e di tutta l’Universitas maiorese, dove nel 1504 furono distrutti molti orti
e nell’ottobre del 1540 un diluvio arrecò notevoli danni a più persone. Alleate delle violenti forze naturali
erano le temibili forze dei Turchi, che il 26 giugno del 1544 misero a segno una sconvolgente invasione,
seminando distruzione e terrore, dalla quale i cittadini di Amalfi, di Minori e di altri centri costieri furono
liberati solamente per “voluntà et miracolo de Iddio et Sancto Andrea glorioso”. La violenza turca si abbatté
ancora nel 1588 quando una flotta di ben 120 galee si riversò sulla Costa e gli assalitori operarono
saccheggi, distruzioni ed uccisioni; non fu un caso che il convento venisse depredato e dato alle fiamme.
Alcuni maioresi che erano stati fatti prigionieri e condotti a Costantinopoli, conquistata dai Turchi il 29
maggio 1453, dopo essersi messi in salvo, ritornarono a Maiori dove lungo il corso del fiume Reginna
eressero una cappella dedicata alla Madonna delle Catene, offrendo in voto le catene della loro cattività.
Come se non fosse stata una novità, infuriarono nuovamente le forze naturali a mettere a rischio la vita del
complesso religioso: il 16 dicembre 1631 si abbatté la “catastrofe del secolo”, violentissima tempesta in tal
modo appellata per gli ingenti danni arrecati e ancora quella non meno devastante dell’8 settembre 1674
che distrusse le celle, la loggia, i dormitori, la cucina, le officine e la chiesa del monastero. In particolar
modo fu colpita la chiesa a tre navate con croce in mezzo e con diverse cappelle, i cui lavori di edificazione
erano cominciati nell’aprile 1511. La forza del mare era andata in vantaggio sulla tenacia dei cittadini
dell’Universitas di Maiori, ormai decisa a ricostruire chiesa e convento all’interno della città per avere una
maggiore garanzia di protezione dalla devastante furia marina. Risale a quell’epoca la lettera del Padre
Provinciale de’ Minori Osservanti indirizzata all’Arcivescovo, nella quale invitava quest’ultimo a dare il
consenso “pro constructione novi Conventus intra menia Terre Maiori”. Era già stato assegnato il luogo di
Casa Mandina, definito adatto alla meditazione e alla spiritualità francescana, come la nuova area sulla
quale sarebbero state poste le pietre del nuovo complesso religioso, messo in salvo dall’ “acqua perigliosa e
guata”. Non tardarono ad arrivare proteste e contestazioni che si opponevano a questa traslazione, come
quelle da parte del Capitolo della Collegiata e di alcuni cittadini. I primi a presentare una contestazione
furono ventiquattro cittadini, dopo che tale documento era stato legalizzato dal notaio Biagio Imperato
della città di Scala, borgo più antico della Costiera Amalfitana. Essi si opponevano all’edificazione in un
luogo che era frequentatissimo dalle donne e sito proprio vicino alla Chiesa Madre, onde evitare, dunque,
possibili inconvenienti. Il 19 maggio 1675 si riunirono pubblico Parlamento con l’intervento del R.
Governatore ed alcuni deputati eletti. Tra le persone contrarie, si distinse il Prevosto, ovvero il sacerdote
della Collegiata, oltre al Capitolo della Chiesa Madre di Maiori. Costoro si recarono personalmente
dall’Arcivescovo per protestare a riguardo della delicata questione, anche se alla fine il governatore riuscì
ad imporsi intimorendo i cittadini contrari. Il Capitolo, esponente della fazione contraria alla traslazione del
convento, presentò una lunga relazione sia all’Arcivescovo che alla S. Congregazione, nella quale, in tre
capitoli, vennero esposte le ragioni dell’opposizione. L’Arcivescovo, che si trovava nel vortice di questa
disputa, venne indotto a promuovere un vero e proprio processo. Gli giunse un altro ricorso sottoscritto
daa trentuno cittadini, nel quale si discuteva a riguardo del luogo designato per l’edificazione del convento,
sito al centro della città, luogo limitato dalla presenza dei palazzi dei cittadini più facoltosi di Maiori e
connesso alla Chiesa di Santa Maria a Mare, al Convento di S. Domenico e al Monastero delle Donne
Monache della Pietà. L’Arcivescovo, ancora una volta, veniva supplicato a bloccare la traslazione del
Convento dentro le mura della città, al fine di evitare problemi e disordini ben più insidiosi, riguardanti il
carattere socio-economico. Non poteva non aver voce in capitolo il sindaco Giacinto da Ponte,
confermando che i Padri avevano ottenuto in donazione pochi giorni prima il palazzo dei signori “De Ponte”
ed esplicitando la volontà dei francescani di rinunciare al luogo originario. La fondazione del complesso
monastico richiedeva la demolizione di molti palazzi dei cittadini che dimoravano proprio in quel preciso
luogo, tanto che l’Universitas maiorese aveva affidato all’ingegnere Francesco Giordano il compito di
stimare l’entità della riparazione. Dopo la deliberazione consiliare e la relazione del tecnico Giordano,
l’Arcivescovo, l’Arcivescovo Mons. Simplicio Caravita, subentrato a Mons. Miroballo, successore di Mons.
Quaranta, nel 1682, inviò alla S. Congregazione una relazione nella quale chiariva la sua consapevolezza
nell’aver conosciuto personalmente che il convento era stato totalmente danneggiato e reso inabitabile dal
mare così come la strada che fiancheggiava l’edificio. Si poteva ancora leggere che l’Universitas di maiori
aveva proposto un nuovo luogo all’interno delle mura cittadine per la fatidica traslazione, detto “Sepetito”,
ma i padri non avevano accettato perché il luogo non era adeguato alle loro necessità di povertà religiosa,
oltre alle solite limitazioni economiche. I francescani avevano optato per il palazzo donato loro dal signore
Andrea del Ponte, affiancato da due giardini. La questione volgeva al termine quando prevalse il deliberato
del Sindaco e dei cittadini della concessione di ben trecento ducati per la riparazione del convento e
soprattutto il buon senso spirituale dei frati. Abbandonare quel luogo avrebbe significato arrendersi,
gettando la spugna in un modo non sicuramente nobile per i tenaci maioresi, e, come aggiungeva il cronista
all’epoca, il complesso religioso si sarebbe trasformato in un lido. Finalmente, dopo più di un decennio di
contrasti ed interminabili discussioni, iniziarono i lavori di restauro del convento e della chiesa, purtroppo
sminuiti dalla furiosa inondazione del 9 novembre 1735, la quale distrusse argini, mura e giardino, senza
contare gli allagamenti causati dal torrente “Vallone”. Il fervore religioso dei maioresi fu premiato dalla
protezione della Madonna, la quale stese la sua mano misericordiosa nell’evitare ulteriori vittime e danni.
In occasione di questo salvifico e miracoloso intervento, si volle benedire la Madonna con l’istituzione della
festa del Patrocinio di S. Maria a Mare, tuttora celebrata la terza domenica del mese di novembre. Non
passarono meno di quattro anni che la città conobbe ancora rovina per una terribile alluvione, che questa
volta, sconvolse gravemente con morti, feriti, seri danni al convento e alla chiesa, tanto che il complesso
monastico era divenuto una piscina dalle mura limacciose. Questa vicenda aveva ormai assunto
un’atmosfera tragi-comica, considerando che la caparbietà dei francescani e dei fedeli aveva permesso
ancora una volta alla disastrata “Casa di Dio” di recuperare la propria magnificenza, che fu consacrata con
solennità dall’Arcivescovo Mons. Antonio Puoti il 6 luglio 1783. Un’altra insidia si nascondeva all’orizzonte,
ovvero le Leggi eversive del 7 ottobre 1809 che sopprimevano la piccola comunità francescana. Nel luglio
del 1806, l’Arcivescovo Mons. Miccù aveva inviato una relazione sullo stato religioso ed economico di tutti i
complessi religiosi maschili e femminili della Diocesi al Governo. Egli lamentava l’assenza di una “Scuola
dell’Arte Nautica” in Maiori e proponeva di imporre una tassa annua per tal fine ai proprietari di cartiere, ai
padroni di barche e ai manifatturieri di pasta. In effetti, la comunità francescana maiorese, non risultando
composta da dodici religiosi, fu soppressa. Il triste congedo si verificò il 13 novembre 1811, giorno in cui il p.
Guardiano Giov. Battista Squitieri da Sarno adoperò la consegna della chiesa e del convento al Sig. Can.
Andrea Luci bello, Vicario Generale e Delegato dell’Arcivescovo. Il decreto del 29/02/1814 assegnava i locali
del convento al Comune di Maiori, mentre il vigneto e tutto il resto del giardino divennero proprietà della
mensa Arcivescovile. Le innumerevoli suppliche dei pescatori maioresi e dello stesso Arcivescovo permisero
alla chiesa di rimanere aperta al culto essendo affidata ad un “rettore Curato”. Il regno di Ferdinando I di
Borbone fu propizio per le trattative di riapertura del convento, ardentemente richiesta dai maioresi e dalle
stesse autorità, pratica che si protrasse per circa venticinque anni e avviata a conclusione solo grazie al
nuovo Arcivescovo Mons. Mariano Bianco. Addirittura, nel marzo 1837 il Sindaco aveva suggerito di
ripristinare il soppresso convento con una comunità di PP Alcantarini, iniziativa dallo scopo ben definito,
nella lettera che Filippo Cerasoli, a nome dell’amministrazione comunale, aveva scritto all’Arcivescovo. Si
leggeva che i Padri Alcantarini erano in attesa della successiva buona stagione per recarsi a Maiori e non
avevano potuto effettuare il trasferimento nell’autunno precedente a causa delle solite calamità naturali.
Inoltre, si argomentava l’inutilità di un convento dello stesso ordine di quello dei Cappuccini appena
ripristinato ad Amalfi e sembrava inevitabile un dualismo tra le famiglie dello stesso ordine a riguardo della
questua. Dunque, era esplicita la propensione del Sindaco e della popolazione per la venuta degli
Alcantarini, istituiti da S. Pietro d’Alcantara e sorti come altra diramazione dei Francescani Osservanti. Dopo
altri cinque anni, nel settembre 1842, si ebbe la deliberazione del Decurionato di Maiori che decise la
riapertura del convento alla comunità francescana. Il 1 agosto 1844, il re Ferdinando II autorizzava il
comune di Maiori a cedere il locale del soppresso convento dei Minori Osservanti in modo da ripristinare
tale ordine. Finalmente, dopo innumerevoli insidie e ostacoli, la Provvidenza Divina accompagnò il 10
settembre il ritorno dei frati al convento, che rischiarono con la soppressione del 7 luglio 1866 di essere
ancora una volta spodestati, ma il pericolo fu sventato grazie al benefico impegno del Sindaco Beniamino
Cimini, essenziale nel salvaguardare ai frati il loro luogo di meditazione religiosa. Purtroppo, le forze
naturali avevano preso gusto nel distruggere tale convento, infatti, il 24 ottobre 1910 si abbatté un
nubifragio su tutta la costiera amalfitana, causando rovine e morti e tra queste rovine, non potevano
mancare quelle del convento e della chiesa. Nuovi lavori presero il via per la restaurazione, a cui il Comune
venne incontro concedendo un fitto eccezionale di ventinove anni. Soltanto nel 1933 i frati ebbero modo di
avere dal Comune parte dei locali, e nel 1935 anche la parte occidentale. Nel corso del XX secolo, il
convento ha conosciuto ulteriori restauri e ampliamenti per dare la possibilità ai francescani di poter essere
occupati anche in opere sociali di apostolato e soprattutto di intensificare ancor più la loro missione
ecclesiastica secondo l’ammirabile e nobile esempio del “Poverello di Assisi”.
La fiaccola dello spirito religioso abbagliava energicamente gli occhi degli abitanti di Maiori e testimonianza
di tale dato di fatto è senza dubbio la fondazione del Convento di S.Francesco nel XV secolo, a cui si
aggiunge anche la fondazione di un monastero per fanciulle del ceto nobile dell’Ordine di S.Francesco dei
Minori Osservanti. Codesta fondazione deve essere ricondotta alla pietà religiosa del dottore fisico Luca
Staibano, che il 27 settembre 1515 fece testamento lasciando un agglomerato di case con giardino site
nella terra di Maiori nella contrada “S.Johannis de Campulo subtus et supra cum apothecis”, con l’obbligo
per il Comune di Maiori di finanziare la costruzione di un “Monasterium de dicto edificio de Donne de lo
Ordine di S.Francesco de Observantia”. Il benefattore si riservava anche il diritto di nominare l’abbadessa,
la quale doveva appartenere alla famiglia Staibano, senza opposizioni da parte delle monache e
dell’Universitas maiorese altrimenti l’elezione di un'altra abbadessa “sub maledictione eterna erit”. Fissò,
inoltre, due anni come termine per la costruzione e precisò che nessuna donna della famiglia Staibano
intenzionata a prendere il voto avrebbe dovuto pagare. Il nuovo complesso monastico, iniziato il 1519, fu
completato dopo un anno e già nel 1670 fu inaugurato da un incendio che distrusse un gran numero di vasi
sacri e la ricca suppellettile appartenente alla Chiesa Collegiata e conservata momentaneamente nel nuovo
convento per lavori di restauro della Chiesa Madre. La comunità adottò come regola quella francescana di
S.Chiara, che divenne anche patrona e titolare del Monastero insieme a S. Luca Evangelista, in memoria del
benefattore Luca Staibano. Questi elementi conferirono al nuovo edificio religioso la denominazione di
“Monasterium S.Lucae seu Marie Pietatis ordinis S.Francisci Observantiae”, affidato all’amministrazione dei
Padri dell’Osservanza. Ogni anno, l’8 settembre, giorno di ricorrenza della Natività della Beata Vergine
Maria, il Padre provinciale era solito recarsi insieme ad altri frati presso il Monastero per un comunitario
festeggiamento della Madonna, nitida occasione per informarsi del rispetto dell’osservanza e della regola.
La prima visita fu registrata il 16 agosto 1599: i protagonisti furono l’Arcivescovo Rossini con il Vicario
generale, prevosto della Collegiata di Maiori, Giannotto Ferrigno, con alcuni sacerdoti e laici maioresi e con
il Ministro dell’Ordine. La relazione post-visita dell’Arcivescovo presentava alcuni accorgimenti da attuare:
egli puntualizzava sulla posizione del dormitorio, situato “in plano” e “discoperto”, per cui le monache
erano viste dalle case vicine. A tal proposito, ordinava di costruire un muro alto che non avesse consentito
la vista e di demolire due case attigue al convento che comunicavano con il giardino con la possibilità di
accesso. Dopo aver visitato il coro, avendo trovato che le grate non erano sufficientemente atte a
nascondere la vista delle monache, ordinò l’aggiunta di un’altra grata e la chiusura della porta d’ingresso
con tre chiavi. Il 24 giugno 1632 il nuovo monastero fu visitato dall’Arcivescovo Teodolo, il 19 gennaio 1658
da Mons. Stefano Quaranta e ancora il 25 maggio del 1661 dallo stesso Arcivescovo. Proprio in quest’ultima
visita, l’ecclesiastico diede mandato al Sig. Prevosto della Collegiata e ad altre persone di dare avvio alla
revisione dei conti. Anche Mons. Simplicio Caravita visitò il luogo sacro il 6 agosto 1698, che interveniva con
l’ordine della costruzione di un muro. Tra il 1698 e il 1700, il Monastero conobbe un periodo di crisi, fino a
godere, in seguito, un certo benessere economico ed un aumento di vocazioni religiose, che costrinsero nel
giugno 1700 la superiora a scrivere all’Arcivescovo per ottenere l’autorizzazione per l’ampliamento ed il
completamento dell’edificio, limitato a causa delle ridotte dimensioni. Nello stesso periodo, si appellava
anche alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi affinché potessero entrare nel Monastero anche
ragazze provenienti da altre città. In un documento del 1723 si leggeva che nel monastero vi erano
ventiquattro religiose ed una sola educanda, che pagava venti ducati annui a fronte dei trecento ducati
necessari per la monacazione di una donna cittadina e quattrocento per quella di una forestiera. Nel 1722 e
nel 1786 fu la volta di Mons. Puoti nella visita al convento, che lasciò traccia per ulteriori perfezionamenti
dati al monastero. In particolare, aveva fatto assicurare la grata del parlatorio con una grata ferrea in modo
da evitare che la mano “alterius hominis” si fosse potuta introdurre e aveva provveduto anche all’aggiunta
di un’altra grata alla finestra del confessionile, ad alzare almeno di quattro palmi i muri che si trovavano
“prope turrim versus viam publicam”; altri suggerimenti riguardavano l’osservanza della regola e le norme
che dovevano regolare i rapporti con i visitatori, i parenti e i forestieri. Nel 1806 si contavano diciannove
monache. Il re Ferdinando IV stabilì con un decreto del 1 gennaio 1816 che l’amministrazione del
monastero doveva essere affidata alla Superiora con le Discrete, sotto il controllo dell’Ordinario Diocesano.
Un documento del 1845, invece, ci rende noti i movimenti economici di tale monastero, specificando che il
totale delle entrate ammontava a 1552,31 ducati e le uscite a 650. Nel 1820, si ravvisarono dei lavori di
ampliamento e di restauro interno ed esterno mentre in una circolare del 12 settembre 1866, il ministro
Guardasigilli dava alcune disposizioni pungenti: tutte le persone ammesse a vita comune nei Monasteri in
seguito alla soppressione e con professione di voti o con abito monacale avrebbero dovuto sgombrare nel
termine di dieci giorni dalla comunicazione, dopodiché, in caso di mancato sgombero, si sarebbe passati ad
usare le maniere forti. Tal ordine spinse tutti i monasteri a dare l’elenco delle religiose, condizione che
sommate ad altre limitarono lo stesso monastero femminile maiorese, che ai primi del novecento passò alle
Suore Domenicane. Una lapide posta all’ingresso il 14 luglio 1948 ricorda che proprio nel complesso
monastico, luogo di adorazione fino al 1917 delle Clarisse, il Patronato aprì l’asilo infantile il 16 luglio 1923 e
lo affidò alle Suore Domenicane, che sono riuscite con la loro operosità e costante impegno a renderlo
fiorentissimo ed efficiente.
Anche la popolazione di Cetara, altro splendido tassello del mosaico di borghi della “Divina Costiera”, nel
1585, accolse l’edificazione di un Convento di Frati Minori Osservanti con ardente spirito religioso. Poche
notizie sono state trasmesse a riguardo della vita comunitaria, se non quelle filtrate in seguito alle diverse
visite pastorali degli Arcivescovi, che, quando si recavano a Cetara e ad Erchie, trovavano riposo e alloggio
presso tal Convento. Il 2 luglio 1676 l’Arcivescovo Mons. Bologna visitò l’edificio francescano e fu informato
dal parroco del paese della presenza di otto frati che vivevano di elemosina, proprio sull’esempio del
serafico Francesco d’Assisi. Una scrittura del 3 marzo 1707 rende noto invece che in quell’anno si
rinvenivano nel Convento quattro Padri sacerdoti, due laici, un terziario e un Oratorio di cinquantasei
fratelli detto “Terz’Ordine” che vestivano tutti un saio nero. Uno di questi padri era responsabile
dell’istruzione dei bambini, rispettando una tipica convenzione con l’Universitas di Cetara. Durante il
periodo napoleonico, la minaccia delle Leggi Eversive aveva duramente messo in difficoltà la sopravvivenza
di questo monastero; in particolare, una circolare del 3 luglio 1811 ne preannunciava la soppressione.
L’Arcivescovo Miccù intervenne con una lettera il 6 novembre 1812 nella quale si rivolgeva all’Intendente
puntualizzando che, per il ridotto numero di sacerdoti secolari come “tralci nella vigna del Signore”, se
fosse stato soppresso il Convento, la Comunità di cetaresi sarebbe rimasta una popolazione di uomini
selvaggi, all’oscuro di sacramenti e completamente senza fede e spirito religioso, come pecore al pascolo
senza il Buon Pastore. La lettera dell’Arcivescovo indusse il Ministro a dare ordine all’Intendente della
Provincia di non prendere provvedimenti relativi al Convento degli Osservanti di Cetara e di allargare la
suddetta comunità con religiosi provenienti da altri Conventi. Dunque, la roccaforte francescana fu
risparmiata dalle leggi napoleoniche, allo stesso modo di come era avvenuto per i Monasteri dei Frati
Osservanti di Montoro e di Cava. Il 1886 fu la volta di una maggiore minaccia di soppressione, ma la Chiesa
del convento riuscì a cavarsela rimanendo aperta grazie soprattutto all’intervento dei marinai cetaresi, che
avevano sempre dimostrato una grande devozione per l’edificio, un’ammirabile devozione premiata dai
francescani che attendevano fino a tarda ora i pescatori per dare inizio tutti insieme ai sacri uffizi.