BERNARD AUBERTIN territori di fuoco - Rosenberg
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ANTOLOGIA CRITICA<br />
Dominique Stella, 2007<br />
Bernard Aubertin<br />
Dopo l’incontro con Yves Klein, nel 1957, Bernard<br />
Aubertin inizia a fare pittura monocroma. Tutto ha<br />
origine, quin<strong>di</strong>, da una visita all’atelier <strong>di</strong> Klein, a<br />
Montparnasse. Un anno dopo, per l’esattezza nel<br />
1958, Aubertin realizza i suoi primi “monocromi rossi”<br />
in eco al monocromo blu <strong>di</strong> Yves Klein. Attraverso la<br />
monocromia Aubertin pratica ciò che egli definisce il<br />
silenzio pittorico. Per sfuggire all’arte <strong>di</strong> sensazione e<br />
<strong>di</strong> sentimento, per sfuggire al piacere delle tecniche<br />
pittoriche o del puro montaggio/collages, quale è stato<br />
praticato nell’arte dall’inizio del XX secolo, Aubertin<br />
offre la propria visione nichilista dell’arte: l’arte deve<br />
essere noiosa, afferma; è un’evocazione semplice<br />
del reale, che oggi non è possibile raffigurare. Non è<br />
per niente descrittiva, può solo essere contemplativa.<br />
Aubertin è “artista monocromo” come altri sono stati<br />
impressionisti, astratti, espressionisti; egli appartiene<br />
a quella sfera dell’arte in cui il colore in sé giustifica il<br />
gesto pittorico. Bernard Aubertin è un artista a parte<br />
nella storia recente dell’arte contemporanea. Atipico e<br />
inclassificabile, rimane unico per la sua ricerca ostinata<br />
e solitaria che attraversa la storia dall’inizio degli anni<br />
Sessanta sino ad oggi. La sua ricerca si caratterizza per<br />
l’uso esclusivo del rosso. Egli s’identifica interamente<br />
con questo colore <strong>di</strong> cui per molti anni farà uso nel<br />
proprio lavoro, senza mai abbandonare il filo <strong>di</strong> questa<br />
tinta da lui privilegiata come simbolo del sangue e al<br />
tempo stesso dell’elemento FUOCO.<br />
(...) Nel suo lavoro, Bernard Aubertin sviluppa la<br />
propria affinità con il concetto base della “tabula rasa”<br />
promosso dal gruppo Zero. Il nome del gruppo<br />
tedesco non era in alcun modo volto a celebrare il<br />
nichilismo: Zero deve essere inteso come il vuoto<br />
che include un insieme <strong>di</strong> altri concetti, in particolare<br />
l’infinito e il nulla, che gli artisti del gruppo cercavano<br />
<strong>di</strong> raggiungere attraverso un lavoro sul monocromo<br />
privilegiando, nelle prime opere della fine degli anni<br />
‘50, l’utilizzo del bianco. Il Manifesto Zero definisce i<br />
<strong>di</strong>versi livelli d’azione del gruppo: “ZERO è silenzio,<br />
ZERO è principio, ZERO è rotondo”. Malgrado<br />
l’aspetto iconoclasta dell’atteggiamento innovatore <strong>di</strong><br />
questi giovani artisti, la continuità del retaggio culturale<br />
è innegabile e assicura il legame con il futurismo, con<br />
110<br />
l’interrogazione spazialista <strong>di</strong> Fontana. La rivoluzione<br />
“Zero”, per i tedeschi, o rivoluzione “Blu”, per Yves<br />
Klein, s’interroga sulla modernità, sul ruolo dell’artista<br />
nella società e la sua azione su ciò che è vivente. Questa<br />
ricerca caratterizza le tendenze che segnano l’arte<br />
europea degli ultimi anni Cinquanta e degli anni Sessanta,<br />
in una tra<strong>di</strong>zione nata nell’imme<strong>di</strong>ato dopoguerra. La<br />
modernità era allora sinonimo <strong>di</strong> libertà e veicolava una<br />
visione “romantica universalista, coerente, spirituale,<br />
strutturata e gerarchica del mondo, nella quale l’atto<br />
artistico assumeva un ruolo ben definito. Come<br />
sottolinea Lazlo Gloser, si assisteva alla trasformazione<br />
della percezione dell’arte: “Più che la realizzazione<br />
in<strong>di</strong>viduale, che conta tutt’al più a titolo <strong>di</strong> esempio,<br />
ciò che importa è il fenomeno della “modernità”, che<br />
per il pubblico rappresenta un incontro globale con il<br />
“nuovo”“. Zero con<strong>di</strong>vide questa percezione dell’arte<br />
e anche Aubertin, nella sua ostinazione monocroma,<br />
rivela la medesima ambiguità tra principio e continuità<br />
storica: “Gli artisti <strong>di</strong> ZERO volevano fare tabula<br />
rasa <strong>di</strong> tutto ciò che era esistito prima <strong>di</strong> loro. Ma è<br />
evidente che la loro nuova concezione della pittura<br />
faceva parte della continuità storica, proveniva dal<br />
retaggio culturale futurista della liberazione del colore e<br />
assicurava così il prolungamento della tra<strong>di</strong>zione delle<br />
arti plastiche. “ Le scelte <strong>di</strong> Aubertin derivano da una<br />
logica implacabile e rispondono a un’accumulazione<br />
<strong>di</strong> elementi e avvenimenti, che creano l’opera a<br />
partire dall’azione sublimata dal gesto che egli vuole<br />
ripetitivo e, citando le sue parole, “seriale”. Aubertin<br />
abbandona ogni implicazione emotiva per rifugiarsi<br />
nel silenzio creatore che lo assimila all’artigiano,<br />
autore <strong>di</strong> un gesto meticoloso che sia il più possibile<br />
esatto. Nessun effetto <strong>di</strong> spettacolo, nessun effetto<br />
<strong>di</strong> stile, ma lo svolgimento lento e progressivo <strong>di</strong> un<br />
lavoro che si compie nel tempo e nel raccoglimento.<br />
Quando Aubertin definisce il suo lavoro, nel 1977,<br />
egli si <strong>di</strong>chiara allora e per sempre Realista: stabilisce<br />
la traccia <strong>di</strong> questo svolgimento effettivo del tempo<br />
sulla superficie <strong>di</strong> un quadro, preferibilmente rosso.<br />
È spaziotempo quantificato, “rappresentato”, in un<br />
desiderio <strong>di</strong> intercettare questa effimera realtà. Effimera<br />
realtà che egli cattura anche nelle sue azioni <strong>di</strong> <strong>fuoco</strong>,<br />
fra cui la più spettacolare è probabilmente il Feu en<br />
lévitation (1968), materializzazione fisica <strong>di</strong> fenomeni<br />
puramente astratti che raffigurano “l’accelerazione