BERNARD AUBERTIN territori di fuoco - Rosenberg
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inelu<strong>di</strong>bile, che inquadri l’evento e le sue tracce in una<br />
<strong>di</strong>mensione emotivamente eccitata e allo stesso tempo<br />
oggettivamente straniata. È, per <strong>di</strong>re con Aubertin<br />
stesso, “ossessione lirica <strong>di</strong> un colore unico”.<br />
Ovvero, è grazie al rosso che chi guar<strong>di</strong> non vede<br />
più una cosa, ma la monumentalizzazione laica d’un<br />
processo del quale conta solo cogliere le implicazioni<br />
concettuali e poetiche. Ed è grazie a un così autorevole<br />
encadrement che, mantenendosi attiva la convezione<br />
co<strong>di</strong>ficata della forma/quadro, l’oggetto mo<strong>di</strong>ficato<br />
dal processo cui Aubertin l’ha sottoposto assume<br />
un’evidenza a priori alta e autre, sprigionando umori<br />
simbolici e suggestioni d’esemplarità.<br />
“Ci sono due colori nella mia opera, quello del <strong>fuoco</strong>,<br />
della caramellizzazione, della cremazione del nero e<br />
quello rosso della pittura dei monocromi”: così scrive<br />
Aubertin. Il quale dunque pone esplicitamente il rosso<br />
come alter naturale del nero: il rosso che è <strong>fuoco</strong> e<br />
<strong>di</strong>namica <strong>di</strong> trasformazione purificante, per processo <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>struzione e rigenerazione, il nero combusto che non<br />
è negazione ma a sua volta trasformazione, materia<br />
in trapasso, in un processo morte/vita d’alto valore<br />
emblematico.<br />
Il <strong>fuoco</strong> dunque, matrice e anima del rosso e del nero,<br />
è con ogni evidenza il nucleo ra<strong>di</strong>ante del programma<br />
espressivo e intellettuale <strong>di</strong> Aubertin. Il <strong>fuoco</strong> che è<br />
stato, per secoli, rappresentazione, e che ora - dopo<br />
Burri, in parallelo ancora con Klein - si fa protagonista<br />
appropriato e attivo dell’opera. Il <strong>fuoco</strong> che assume<br />
su se stesso, in con<strong>di</strong>zioni stabilite e non aleatorie,<br />
un valore d’imme<strong>di</strong>ata valenza rituale, <strong>di</strong> cui conta più<br />
il contesto d’evenienza e il corso processuale che la<br />
brutale, intrinseca violenza.<br />
(...) Il suo far agire il <strong>fuoco</strong>, il quale opera in perfetta<br />
appropriata identità come sostituto del fare artificioso<br />
dell’autore, non è progetto orientato, d’umore lud<strong>di</strong>sta<br />
e ideologicamente <strong>di</strong>struttivo, dell’artista: non è<br />
Aubertin che brucia qualcosa: è il <strong>fuoco</strong> che trasforma<br />
qualcosa in qualcos’altro, che replica indefinitamente il<br />
flusso dell’energia vitale <strong>di</strong> cui la natura gli ha conferito<br />
il segreto e il potere.<br />
Certo, i suoi orizzonti <strong>di</strong> riferimento non possono<br />
che essere, storicamente, il gruppo Zero e l’area <strong>di</strong><br />
cui ben stabilì il perimetro la storica mostra “Nul” ad<br />
Amsterdam, 1962. Ma il suo ra<strong>di</strong>camento dada va<br />
inteso in tutte le sue complesse sfumature.<br />
Vi agisce in modo determinante la purezza non<br />
artificiosa del processo, in cui tutto è presente, agisce,<br />
viene presentato senza me<strong>di</strong>azioni, senza coinvolgere<br />
la menzogna geniale del fare artistico <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zione<br />
storica: è, questa, scelta primariamente etica, scelta <strong>di</strong><br />
rigore, scelta <strong>di</strong> una limpidezza intellettuale che nella<br />
propria stessa ostensione spettacolare non sottintende<br />
lo stupore, la meraviglia, ma la nu<strong>di</strong>tà effettuale <strong>di</strong> ciò<br />
che si vede.<br />
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E ben vi si intende lo statuto <strong>di</strong> un reale la cui unica<br />
ragion d’essere è quella <strong>di</strong> spingere la sensorialità verso<br />
frequenze pienamente spirituali, verso un’alterità che<br />
non è dell’apparato <strong>di</strong> co<strong>di</strong>ce dell’opera d’arte, ma<br />
dell’esperienza estetica tutta.<br />
Questo è il “grado zero” che interessa a Aubertin, e<br />
che da sempre, sino a questa serie intensa, egli pone<br />
in atto. Non è un less metodologicamente calcolato<br />
né un’igiene estetica formalmente prestabilita. Non gli<br />
importa, per altro verso, passare per un <strong>di</strong>struttore<br />
barbarico dell’arte che è stata.<br />
Egli sa, da sempre, che non <strong>di</strong> questo un artista deve<br />
occuparsi, ma <strong>di</strong> ragionare in piena onestà del pensiero<br />
e del fare intorno all’in<strong>di</strong>cibile, alla purezza, a una forma<br />
<strong>di</strong> verità ancora possibile e attingibile.<br />
Flaminio Gualdoni, 2011<br />
Bernard Aubertin. Dessins de feu<br />
(...) Il clima è quello che vede incrociarsi la vicenda<br />
estrema <strong>di</strong> Azimut, Manzoni in specie, con le esperienze<br />
“à quarante degrés au-dessus du zéro dada” – cito<br />
ancora Restany – <strong>di</strong> Yves Klein et Tinguely, Hains et<br />
Arman, e con quelle nor<strong>di</strong>che del “neue Idealismus”<br />
<strong>di</strong> Zero.<br />
Bernard Aubertin matura in questo clima, frequentando<br />
sin dal 1957 Klein, l’autore con il quale la sua ricerca<br />
più intensamente <strong>di</strong>aloga, e avviando nel 1959 lo<br />
spettro d’esperienze <strong>di</strong> cui la monocromia del rosso e<br />
la combustione fisica sono protagoniste assolute.<br />
Vengono poi, è storia, le partecipazioni alle attività<br />
<strong>di</strong> Zero, in testa la partecipazione alla leggendaria<br />
Tentoonstelling Nul nel marzo 1962 allo Stedelijk<br />
Museum <strong>di</strong> Amsterdam, e le tangenze con il versante<br />
spettacolare e performativo <strong>di</strong> Fluxus, i cui germi<br />
pure si scorgono già in plurime pratiche dell’area <strong>di</strong><br />
riferimento in cui egli opera.<br />
Alla monocromia del rosso Aubertin affida le implicazioni<br />
simboliche, in odore <strong>di</strong> metafisico, <strong>di</strong> un ardore in cui<br />
l’idea stessa <strong>di</strong> <strong>fuoco</strong> si coagula. Ma è nell’esperienza<br />
<strong>di</strong>retta del bruciare, della mo<strong>di</strong>ficazione intima della<br />
materia e della sua costituzione visiva attraverso un<br />
processo solo in piccola parte padroneggiabile, che<br />
risiede l’aspetto più intellettualmente e linguisticamente<br />
vitale del suo operare.<br />
Aubertin sceglie la combustione, quel suo essere<br />
generatrice <strong>di</strong> luce perfetta e insieme della nerità<br />
ossidata e fisicamente impura del segno. E la identifica<br />
come matrice d’un segno in odore d’assolutezza.<br />
Segno assoluto. Cioè perfettamente sottratto<br />
all’arbitrio dell’artificio fabrile della pittura, ma non<br />
demateriato, non concentrato sul possibile zen che<br />
pure molti, e gran<strong>di</strong>, in quegli anni perseguono. Un