«La aventura de los batanes» come «mise en abîme»: «Don Quijote ...

“LA AVENTURA DE LOS BATANES” COME MISE EN ABÎME:
DON QUIJOTE, I, 20
Antonio Candeloro (*)
Come nelle poesie e nelle canzoni le rime scandiscono il ritmo,
così nelle narrazioni in prosa ci sono avvenimenti che rimano tra loro
Italo Calvino, Lezioni americane
y tal vez hay que se busca una cosa y se halla otra
Miguel de Cervantes, DQ, I, 16
Se – in una sorta di esperimento letterario “alla rovescia” – si prescindesse
dalla mole secolare della critica cervantina e ci dedicassimo a condurre una lettura
superficiale del cap. 20 della Iª parte del Quijote 1 , scopriremmo facilmente
che esso si sviluppa intorno a due poli centrali: la comicità e la suspense.
La comicità nasce, evidentemente e come in tutti gli altri capitoli del
romanzo, oltre che dallo scontro ormai costante tra la realtà empirica e la
visione idealizzante del folle “hidalgo”, dall’atteggiamento furbesco (e carnevalesco)
2 di Sancho (è il primo episodio in cui lo scudiero inganna il “padrone”
manipolando lo stesso “piano di realtà” e lo stesso linguaggio che don
Quijote si costruisce a partire dall’idioletto proveniente dai molteplici romanzi
cavallereschi che ne guidano le imprese e i discorsi) 3 ; la suspense, invece,
scaturisce dalla descrizione di alcuni eventi misteriosi, con risvolti anche sul
piano sensoriale, di cui il lettore può rinvenire le tracce sin dai capitoli 18 e
(*) Università di Pisa
1 Appropriandoci per un momento delle riflessioni che fa un critico “atipico” e “non-cervantista”
come Benet: “Cuando pienso en la cantidad de erudición cervantina que en todo
momento se está produciendo en el mundo académico y el rigor que la filología, la crítica y la
historia exigen a cada nueva aportación para un cada día más amplio y detallado conocimiento
del Quijote, no puedo por menos de sospechar que cualesquiera meditaciones derivadas de
una lectura ingenua no pueden tener ya cabida en ese ingente corpus” (Benet, 1981: 77).
2 Assumo il termine nell’accezione bachtiniana (Bachtin, 1974: 26-7). Per una lettura “in
parte” bachtiniana dell’episodio delle gualchiere vedi: Ruta e Cancelliere, 1980: 63-71.
3 Esclama Alonso: “¡Es la primera infidelidad del criado a su señor! ¡Es la primera vez en
que Sancho está en una posición picaresca!” (Alonso, 1968: 13).
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19 (in cui si narrano, rispettivamente, l’avventura “de los rebaños” e quella
degli “encamisados”). Scenario graduale dei tre capitoli, come più volte notato,
è la notte 4 : dopo che don Quijote ha attaccato i due greggi che crede eserciti,
Sancho gli propone di cercare alloggio: “vamos ahora de aquí y procuremos
donde alojar esta noche, y quiera Dios que sea en parte donde no haya
mantas ni manteadores ni fantasmas ni moros encantados [...]” (Cervantes,
2004, I, 18: 215, corsivi miei) (con riferimento in analessi ai fatti della “venta”
- capitoli 16 e 17); poco dopo è il narratore esterno a ripetere quasi alla lettera
le parole di Sancho: “En estas y otras pláticas les tomó la noche en mitad del
camino, sin tener ni descubrir donde aquella noche se recogiesen” (id., I, 19: 217-
18, corsivi miei); il secondo riferimento mette in rilievo la mancanza di cibo
(e la conseguente fame) dei due, oltre al bisogno di un luogo sicuro in cui
poter riposare: “Yendo, pues, desta manera, la noche escura, el escudero hambriento
y el amo con ganas de comer, vieron [...]” (id., I, 19: 218, corsivi
miei) 5 . Qui assistiamo alla prima scena paurosa, prologo a quella ancora più
terrificante dei “batanes”: è notte e ai due eroi appaiono “multitud de lumbres”.
La fonte di questa sorta di fuochi fatui è a entrambi sconosciuta. Il narratore
non risparmia a nessuno dei due una descrizione in cui si evidenziano
gli effetti somatici della paura: “A cuya vista Sancho comenzó a temblar como
un azogado, y los cabellos de la cabeza se le erizaron a don Quijote [...]”. Le
luci si avvicinano e i due capiscono che si tratta di un gruppo di “encamisados”;
la scoperta non li tranquillizza affatto, anzi, la “temerosa visión” accentua
la paura di Sancho, “el cual comenzó a dar diente contra diente, como
quien tiene frío de cuartana; y creció más el batir y dentellear cuando distintamente
vieron lo que era [...]” (id., I, 19: 219), ossia, una ventina di “incappucciati”
impegnati nel trasbordo di una bara. Sappiamo come si sviluppa la
scena: don Quijote li sfida a duello, credendo trasportino il cadavere di un
cavaliere “cuya venganza a él solo estaba reservada”; l’ambientazione macabra
viene di nuovo sottolineata dal narratore: se agli “encamisados” don Quijote
appare come “diablo del infierno”, questi appaiono all’“hidalgo” come “cosa
mala y del otro mundo”, “satanases del infierno” (id., I, 19: 220-21 e 223). Di
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4 Cfr. Shipley, “A Prologue and an Afterword for an Inquiry into Don Quixote, Part I, Chapter
20” (Shipley, 1989: 169-183); l’autore vede nella notte un elemento personificato, un attore
“occulto” determinante per lo sviluppo della trama fino al cap. 20 e per il parallelo crescendo della
suspense: “This will not be an ordinary night. The narrator draws attention to it repeatedley, on
four occasion in Chapter 19 and on five more in Chapter 20, presenting it from the first as a partecipating
actor [...]”, id., p. 172) e Gilman, “Don Quijote, Part I, Chapter 20: Interruption, Experience,
and the Birth of the Novel” (Gilman, 1984: 241-46): “The night is no longer the scene but
the subject”, id., p. 242), oltre alla puntualissima analisi di Di Stefano, “Panico e rivalsa. Sancho
Panza nell’avventura delle gualchiere (Quijote, I, 20)” (Di Stefano, 1981: 153-170).
5 Prima ancora il narratore specifica, personificando la notte: “Y fue que la noche cerró con
alguna escuridad [...]” (id., I, 19: 218).
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“La aventura de los batanes” come mise en abîme: Don Quijote, I, 20
“fantasmas” parla Sancho quando vede le luci nella notte per la prima volta 6 .
Il terreno è pronto per la scena conclusiva del cap. 19: dopo aver rubato il cibo
degli “encamisados”, don Quijote e Sancho soddisfano finalmente la loro fame
“en un espacioso y escondido valle” che si trova “entre dos montañuelas” (id.,
I, 19: 226): è ancora notte, eppure Sancho riesce a vedere “que el prado donde
estaban estaba colmado de verde y menuda yerba” (id., I, 19: 226) 7 . Ma ciò che
interessa sottolineare è il modo in cui si chiude il capitolo: la sintassi dell’ultimo
periodo si spezza sul gerundio del verbo principale e il narratore ci rimanda
alla “prossima puntata”: “[...] dijo Sancho, viendo que el prado donde estaban
estaba colmado de verde y menuda yerba, lo que se dirá en el siguiente capítulo”
(id., I, 19: 226, corsivi miei) 8 . È una tecnica narrativa che gioca sull’attesa
del lettore, desideroso di conoscere il prosieguo dell’azione e a cui, invece,
è negato o ritardato lo scioglimento dell’intreccio in questione. È evidente che
in questo caso la suspense, intesa sia come parte centrale della costruzione dell’intreccio
di ogni racconto sia come effetto fondamentale sul lettore, nasce
proprio dal ritardo dell’informazione narrativa e dal parallelo e conseguente
desiderio del lettore di scoprire cosa dirà Sancho al suo padrone 9 .
6 Ma di fantasmi, “diablos” e “encantadores” si parlava già nella locanda di Palomeque, in
cui – seguendo i propri strampalati ragionamenti – a questi esseri soprannaturali don Quijote
attribuiva il “manteamiento” di Sancho, oltre che i colpi ricevuti nella baruffa con Maritornes e
il suo amante.
7 Su questo “descuido” di Cervantes cfr. Ruffinatto, 1983: 210: “Una delle tante ‘distrazioni’
d’autore. È notte e quindi Sancho non può vedere il colore dell’erba né la sua conformazione;
tanto più che all’inizio del capitolo successivo il narratore afferma che la ‘escuridad de
la noche no los dejaba ver cosa alguna’. Sui “descuidos” di Cervantes cfr. le magistrali analisi di
Martín Morán (Martín Morán, 1990 e Martín Morán, 2003).
8 Ruffinatto ci fa notare che con la stessa frase si chiude il capitolo 18: “y entre otras que le
dijo fue lo que se dirá en el siguiente capítulo” (Ruffinatto, 1983: 210). Si tratta di una tecnica
di scrittura tipica dei poemi cavallereschi e che Ariosto sfrutterà ampiamente proprio per mantenere
alta l’attenzione del lettore tra le varie trame intercalate rispetto a quella principale.
Sullo stesso principio (interruzione in corrispondenza del momento di maggiore tensione narrativa
e ritardo dello scioglimento dell’intreccio) si baseranno sia i feuilleton ottocenteschi che
gli attuali serial e telenovelas. Una delle scene d’interruzione più famose del romanzo resta quella
tra i capitoli 8-9, in cui, appunto, ciò che si suppone il manoscritto del Quijote s’interrompe
nel momento in cui il “vizcaíno” e don Quijote stanno per scagliarsi nel combattimento con le
spade levate in aria. Nabokov (che non aveva capito il romanzo, definendolo “uno de los libros
más amargos y bárbaros de todos los tiempos”), nota come in questo caso la scena resti congelata,
come in una sorta di moderno “fermo-immagine”, per poi ricominciare a scorrere nell’inquadratura
successiva: “Con lo cual se reanuda el relato, el cuadro toma movimiento, el combate
continúa [...]” (Nabokov, 2004: 85, 121-22).
9 Tra gli studi dedicati alla suspense cfr. Alsina: 1993, raccolta che contiene anche una dettagliata
analisi del nostro capitolo: “De la suspensión al suspense, un nuevo pacto de escritura a
propósito del capítulo I, 20 del Quijote”, di Covadonga López, Redondo e Vian (Alsina, 1993: 63-
88). Se questa analisi studia i fenomeni di suspense in rapporto al patto tra narratore e narratari,
la mia si concentrerà maggiormente sull’abilità dello scrittore nell’instaurare tale patto e nel renderci
partecipi del suo racconto anche al di là della suspense.
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Ecco come inizia il cap. 20:
Antonio Candeloro
No es posible, señor mío, sino que estas yerbas dan testimonio de que por aquí
cerca debe de estar alguna fuente o arroyo que estas yerbas humedece, y, así, será
bien que vamos un poco más adelante, que ya toparemos donde podamos mitigar
esta terrible sed que nos fatiga [...] (Cervantes, 2004, I, 20: 227) 10 .
“Un poco más adelante”: è il movimento dei due protagonisti, ma anche
quello del lettore curioso di vedere come si svilupperà l’azione. Dalla ragionevole
interpretazione della realtà empirica da parte di Sancho (se c’è erba
ci deve essere anche l’acqua), il narratore esterno ci presenta immediatamente
i due principali ostacoli da superare: la notte (che torna a farsi “escura”:
“no les dejaba ver cosa alguna”) e un primo rumore di cui si disconosce
l’origine: “un gran ruido de agua, como que de algunos grandes y levantados
riscos se despeñaba”.
La prima reazione dei due assetati è, ovviamente, di gioia; ma basta prestare
più attenzione perché un secondo rumore, ancor più spaventoso, li
rigetti nello sconforto:
Alegroles el ruido en gran manera, y, parándose a escuchar hacia qué parte
sonaba, oyeron a deshora otro estruendo que les aguó el contento del agua [...] Digo
que oyeron que daban unos golpes a compás, con un cierto crujir de hierros y
cadenas, que, acompañados del furioso estruendo del agua, que pusieran pavor
a cualquier otro corazón que no fuera el de don Quijote (Cervantes, 2004, I, 20:
227, corsivi miei) 11 .
Il narratore ha preparato la scena in modo cinematografico 12 : la notte
non è più uno sfondo scenico ma, come già visto nei capitoli 18 e 19, protagonista
attiva dell’intreccio; i rumori spaventosi creano la suspense e accendono
la curiosità del lettore. La descrizione successiva dell’ambiente non fa
che ribadire l’atmosfera sospesa e sinistra in cui si trovano intrappolati don
Quijote e Sancho:
10 Sulle “interpretazioni” dei fenomeni naturali da parte di Sancho cfr. Barbagallo, 2004:
1163-1175.
11 “Aguar el contento del agua” rientra perfettamente in quella categoria di figure retoriche
usate da Cervantes per muovere il lettore al sorriso (o alla risata) basate su quel fenomeno
linguistico che Close definisce “juego entre voces que comparten la misma raíz etimológica, o
con la prefijación” (Close, 2001: 73-85). Altri esempi della stesso fenomeno: “porque yo tuviese
más guardas para guardarme” (DQ, I, 28); “de tal manera canta, que encanta” (DQ, I, 42), ecc.
12 Nell’analisi di I, 20, Hutchinson, sottolineando l’andamento musicale della trama, afferma:
“[...] si se me permite el anacronismo, [...] el arte de la narración cervantina a menudo
revela un carácter plenamente cinematográfico, [...] el texto funciona casi como un guión cuya
realización depende de nuestras capacidades de mise en scène” (Hutchinson, 2001: 199-206).
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“La aventura de los batanes” come mise en abîme: Don Quijote, I, 20
Era la noche, como se ha dicho, escura, y ellos acertaron a entrar entre unos
árboles altos, cuyas hojas, movidos del blando viento, hacían un temeroso y
manso ruido, de manera que la soledad, el sitio, la escuridad, el ruido del agua
con el susurro de las hojas, todo causaba horror y espanto, y más cuando vieron
que ni los golpes cesaban ni el viento dormía ni la mañana llegaba, añadiéndose
a todo esto el ignorar el lugar donde se hallaban (Cervantes, I, 20: 227).
Tra i valori che Calvino propone per il nostro millennio troviamo quello
dell’“esattezza”; e tra le tre definizioni che dà del termine, Calvino ne individua
una cui è possibile avvicinare anche questa splendida descrizione cervantina
di una notte “paurosa”: “l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive,
memorabili; in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese,
‘icastico’ [...]” (Calvino, 1993: 65-66). L’aspetto curioso è che Calvino trovi
prove testuali a queste sua definizione di esattezza proprio nel poeta del
“vago” e dell’“indefinito”: Leopardi, nel cui Zibaldone –e a distanza di due
secoli da Cervantes– ritroviamo (attraverso la finezza di Calvino in quanto lettore
di Leopardi) immagini pressocché identiche a quelle sopra elencate dal
narratore della “notte spaventosa”:
Le parole notte, notturno ec., le descrizioni della notte sono poeticissime, perché
la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine
vaga, indistinta, incompleta [...] Cosí oscurità, profondo, ec. ec. [...] tutti quegli
oggetti [...] che per diversi materiali e menome circostanze giungono alla nostra
vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell’ordinario
ec. [...] Similmente una moltitudine di suoni irregolarmente mescolati, e non distinguibili
l’uno dall’altro ec. ec. ec. (Calvino, 1993: 67-69, ultima coppia di corsivi miei).
Curioso vedere, quindi, come ciò che spaventa nel Siglo de Oro diventi
“poeticissimo” nel Romanticismo italiano (e non solo) 13 : e curioso constatare
come Cervantes, nell’identico tono leopardiano, ricrei descrizioni di terrore
“vago” e “indefinito” attraverso immagini “esatte”, “icastiche”, che s’imprimono
in modo efficace nella mente del lettore.
Lo aveva intuito anche Cesare Segre, con allusioni implicite sia a questo
episodio che ai due capitoli che lo precedono, e in riferimento al graduale
spostamento dall’iconografia rinascimentale a quella barocca:
Si prenda il paesaggio: Cervantes sembra ancora legato al canone descrittivo
rinascimentale, in cui campeggia il locus amoenus della tradizione classicheggiante 14 .
13 Appartenendo, ovviamente, ognuna delle due descrizioni a due epoche e a due sistemi
epistemologici (oltre che iconografici) diversi.
14 Per l’eco garcilasiana della descrizione del paesaggio “intravisto” da Sancho, oltre che per
altri riferimenti critici al brano cfr. Grilli, “Peor es meneallo: paradojas de la virtud y del poder
(Quijote, I, 20)” (Grilli, 2001: 101).
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Ma quando è in scena Don Chisciotte, l’aria limpida è offuscata da banchi di nebbia,
riempita dalla polvere; sono frequenti i paesaggi notturni, popolati da torce
simili a fuochi fatui, o biancheggianti dei fantasmi incappucciati. Spesso la natura,
non più concorde e ordinata, si annuncia solo con suoni, a volte rumori paurosi, in
mezzo alle tenebre, o con silenzi sospesi (Segre, 1974: 211, corsivi miei) 15 .
Rumori paurosi, silenzi sospesi, paesaggio notturno che don Quijote ribadisce
nel momento in cui, davanti al suo scudiero, deve calarsi di nuovo nel
ruolo di cavaliere errante e farsi coraggio per affrontare l’ennesima avventura:
Bien notas, escudero fiel y legal, las tinieblas desta noche, su estraño silencio, el
sordo y confuso estruendo de estos árboles, el temeroso ruido de aquella agua en cuya
busca venimos [...] y aquel incesable golpear que nos hiere y lástima los oídos, las
cuales cosas todas juntas y cada una por sí son bastantes a infundir miedo, temor y
espanto en el pecho del mesmo Marte (Cervantes, 2004, I, 20: 228, corsivi miei).
Appare ovvio che queste parole di don Quijote sortiscano un duplice
effetto: sul piano diegetico, consentono all’eroe di farsi forza, di rivestirsi del
coraggio che mutua dai libri di cavalleria, nei quali lo sprezzo del rischio e
della paura rientrano nei tratti caratteristici dell’eroe cavalleresco – per cui la
commemorazione dell’età dell’oro e il ricordo dei principali nomi degli eroi
degli stessi romanzi cavallereschi diventano due “atti del discorso” funzionali
al racconto nel momento del peggior pericolo 16 ; mentre sul piano extradiegetico,
è evidente che servono a mantenere alta l’attenzione e, appunto, la
suspense nel lettore. Da queste parole in poi possiamo dire che il lettore entra
in qualità di spettatore e co-protagonista del racconto, anche se in modo graduale:
l’intero episodio si svilupperà attraverso fasi progressive a partire dall’individuazione
del pericolo (il rumore misterioso) e dalla decisione di don
Quijote di affrontarlo. Anzi, si potrà constatare una sorta di movimento oscillatorio
tra i vari componenti dell’episodio: l’andirivieni continuo e costante
dei rumori e dell’acqua; lo scambio di battute tra padrone e servo, impaurito
e deciso a frenare l’impeto di questi; l’avvicinamento progressivo alla fonte
del rumore; lo slittamento progressivo dall’oscurità fitta della notte alle prime
luci dell’alba; l’alternarsi finale tra il serio e il faceto, tra le risate e le bastonate
tra i due protagonisti, vittime dell’ennesimo errore d’interpretazione
della realtà empirica.
Partiamo da Sancho: il padrone, interpretando l’evento col filtro della letteratura
cavalleresca, si prepara ad andare incontro all’ignoto; la prima rea-
15 Casalduero si spinge addirittura a vedere nell’avventura delle gualchiere “el clímax del
Quijote de 1605 [...], una muestra espléndida de arte barroco” (Casalduero, 1970: 114).
16 Così come la ripetizione del sintagma: “Yo soy... Yo soy, digo otra vez, quien...” è funzionale
all’affermazione dell’indentità che Alonso Quijano mutua dalla letteratura.
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“La aventura de los batanes” come mise en abîme: Don Quijote, I, 20
zione del servo è il pianto (“comenzó a llorar con la mayor ternura del
mundo”); la seconda è data da una serie di ragioni che dovrebbero aiutarlo a
trattenere don Quijote: è notte e nessuno li vede, per cui, nessuno potrà accusarli
di codardia 17 ; sono scampati al pericolo dopo l’avventura degli “incappucciati”
e sfidare la sorte è tentare Dio; rimprovero per la promessa non
mantenuta – per “aquella negra y malhadada ínsula que tantas veces vuestra
merced me ha prometido” e che ha condotto il povero Sancho “en un lugar
tan apartado del trato humano”; adozione mimetica del linguaggio di don
Quijote – “non se me faga tal desaguisado” 18 ; dimostrazione “scientifica”, in
seguito a una improbabile e inverosimilie osservazione del cielo stellato, che
mancano poco meno di tre ore per l’avvento dell’alba 19 . Don Quijote, però,
non gli dà ascolto e gli chiede di strigliare bene Rocinante. Qui assistiamo alla
prima vera e propria burla di Sancho ai danni del padrone: “bonitamente y
sin ser visto ató el cabestro de su asno a ambos pies a Rocinante”, facendo credere
a don Quijote che l’immobilità del suo cavallo sia determinata dal volere
del cielo; don Quijote cade nella trappola e si rassegna ad aspettare. La
seconda burla, quella più estesa e che coinvolge direttamente anche il lettore
extradiegetico, nasce dal racconto della “pastora Torralba” che Sancho
narra per alleviare l’attesa (e, eventualmente, propiziare il sonno) del padrone:
come notato dalla critica, si tratta di un “un cuento de nunca acabar o,
mejor dicho, una especie de contracuento que tiene por finalidad frustrar al
destinatario del relato prometido, y que finalmente resulta vacío de todo lo
que no sea esa misma frustración” 20 . Sancho racconta perché ha paura e, in
prima istanza, perché vuole impedire che il padrone lo lasci solo nella notte
buia. È una delle principali motivazioni per introdurre all’interno della trama
17 Si vedrà in seguito quanta importanza avranno le parole di Sancho per la mia piccola
incursione sulla tecnica della mise en abyme.
18 Frase che, evidentemente, Sancho riprende dal discorso di don Quijote agli “incappucciati”
di I, 19: 220: “o vosotros habéis fecho o vos han fecho algún desaguisado [...]”.
19 Quando don Quijote pone in dubbio la validità dell’osservazione, Sancho risponderà con
parole simili a quelle pronunciate dal padrone in I, 18: 211: “- El miedo que tienes [...] te hace,
Sancho, que ni veas ni oyas a derechas, porque uno de los efectos del miedo es turbar los sentidos
y hacer que las cosas no parezcan lo que son”; così lo scudiero in I, 20: 230: “[...] tiene el
miedo muchos ojos y vee las cosas debajo de tierra, cuanto más encima en el cielo [...]”.
20 Cfr. Molho, 1976: 223. Come notato da Urbina non si può concordare completamente
con l’interpretazione di Molho, il quale fa di Sancho, a partire proprio dal “cuento de nunca
acabar”, un “narrador maligno” che si burla aggressivamente del suo padrone (Urbina, 1991:
92-108). Per una visione più cauta e ragionata dei rapporti di potere che qui, senza dubbio, si
incrinano tra i due protagonisti rimando a Di Stefano, cit. supra. Sullo stesso passo cfr. Moner,
il quale rinviene le origini orali e popolari del racconto nel genere dei cosiddetti “contes attrape-nigaud”:
“le recit s’interrempe parce qu’il y a une rupture du pacte narratif” (Moner, 1989:
175-82 e 285-90); come qui: nel momento in cui don Quijote perderà il conteggio delle capre
trasbordate il racconto s’interromperà irreversibilmente.
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principale un racconto intercalato e secondario, come osserva giustamente
María Jesús Lacarra: “narrare racconti per impedire che una certa azione si compia.
La storia principale viene sospesa per questo motivo e si lascia posto
all’interpolazione di racconti” (Lacarra, 1985: 210) 21 . Il punto è che Sancho
non svolge correttamente la propria funzione: ripete troppo e troppi dettagli
inutili, quando invece, sempre attraverso Calvino, sappiamo che “La tenica
della narrazione orale nella tradizione popolare risponde a criteri di funzionalità:
trascura i dettagli che non servono, ma insiste sulle ripetizioni, per
esempio quando la fiaba consiste in una serie di ostacoli da superare” (Calvino,
1993: 43); il problema, nel racconto tradizionale della “pastora Torralba”,
è che gli ostacoli da superare sono fittizi –le capre che il pastore disinnamorato
Lope Ruiz deve trasbordare attraverso il fiume Guadiana prima che la
donna lo raggiunga– e che la sintassi viene volontariamente storpiata da Sancho
per ritardare ulteriormente il “falso finale” del racconto:
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Antonio Candeloro
Digo, pues [...] que en un lugar de Estremadura había un pastor cabrerizo,
quiero decir que guardaba cabras, el caul pastor o cabrerizo, como digo de mi
cuento, se llamaba Lope Ruiz; y este Lope Ruiz andaba enamorado de una pastora
que se llamaba Torralba; la cual pastora llamada Torralba era hija de un ganadero
rico; y este ganadero rico... (Cervantes, 2004, I, 20: 232).
È ovvio che don Quijote (come noi lettori) si infastidisca e critichi questo
andamento “ripetitivo” (“dilo seguidamente y cuéntalo como hombre de
entendimiento, y si no no digas nada”); così come è scontato che resti sorpreso
dalla regola impostagli da Sancho: “Tenga vuestra merced cuenta en las
cabras que el pescador va pasando, porque si se pierde una de la memoria, se
acabará el cuento, y no será posible contar más palabra dél”, regola fittizia e
creata ad arte al fine di mascherare l’assoluta mancanza di un effettivo sviluppo
narrativo all’interno del racconto 22 .
Nel frattempo, la narrazione principale prosegue: don Quijote prova nuovamente
a smuovere Rocinante, ma invano; a questo punto, interviene direttamente
il narratore, presentandoci con tono ironico una serie di ipotesi su
un nuovo mistero: forse per il freddo del mattino incipiente, o per la cena a
base di “cosas lenitivas” o per causa naturale (“- que es lo que más se debe
creer”), a Sancho “le vino en voluntad y deseo de hacer lo que otro no pudiera
hacer por él”. L’effetto della defecazione è duplice: uditivo (un rumore
21 Come accade nelle Mille e una notte, in cui Sheherazade ritarda il momento della propria
uccisione per mano del re attraverso la propria abilità affabulativa.
22 Racconto tanto anomalo da lasciare don Quijote incerto sulla definizione da attribuire a
una simile narrazione: “tú has contado una de las más nuevas consejas, cuento o historia que nadie
pudo pensar en el mundo [...]” (id.,: 235, corsivi miei).
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“La aventura de los batanes” come mise en abîme: Don Quijote, I, 20
“bien diferente de aquel que a él le ponía tanto miedo”) e olfattivo (l’odore,
affatto ambarino, che giunge “por línea recta” al povero don Quijote). La
comicità scaturisce oltre che dalla scenetta scatologica anche dalla giustificazione
al rumore del peto da parte di Sancho: “Alguna cosa nueva debe de ser,
que las aventuras y desventuras nunca comienzan por poco”. La risposta di
don Quijote, però, questa volta è seria: gli ordina di allontanarsi e di avere
“más cuenta con tu persona y con lo que debes a la mía”.
È la prima volta all’interno dell’intero episodio che don Quijote sottolinea
la distanza sociale dal suo scudiero 23 , prima della discussione finale tra i
due, quando Sancho lo sbeffeggia, ripetendo il discorso dell’età dell’oro.
Nel frattempo, svanisce l’oscurità e la realtà torna a farsi visibile: “vio don
Quijote que estaba entre unos árboles altos, que ellos eran castaños, que
hacen la sombra muy escura”. Ormai deciso a scoprire la causa che tanto li ha
spaventati, decide di partire, provocando nuovamente il pianto (questa volta
sincero) di Sancho 24 ; questi non può fare a meno di seguirlo, con in mano il
“cabestro”, l’arma del delitto con cui ha subdolamente bloccato Rocinante 25 .
Anche l’approssimarsi alla fonte del rumore spaventoso è graduale e lento,
quasi a voler mettere alla prova la pazienza del lettore: dopo aver attraversato
gli alberi, s’imbattono in un “pradecillo que al pie de unas altas peñas se hacía,
de las cuales se precipitaba un grandísimo golpe de agua”. Da questa visione
in campo lungo (potremmo dire, utilizzando il linguaggio cinematografico),
il narratore esterno ci avvicina ulteriormente alla fonte del rumore, riprendendo
la descrizione dal basso: “Al pie de las peñas estaban unas casas mal
hechas, que más parecían ruinas de edificios que casas, de entre las cuales
advirtieron que salía el ruido y el estruendo de aquel golpear que aún no cesaba”.
Il movimento è lentissimo: prima ci viene descritto Rocinante, impaurito,
poi don Quijote che, spronandolo e invocando Dio, “se fue llegando poco a
poco a las casas”. Poi ci viene presentato Sancho “el cual alargaba cuanto
podía el cuello y la vista por entre las piernas de Rocinante, por ver si vería ya
23 Se si eccettua la risposta dell’ “hidalgo” alla proposta di Sancho di dormire: “Duerme tú,
que naciste para dormir” (id.,: 231).
24 Ironia dell’autore “fittizio” del racconto: “Destas lágrimas y determinación tan honrada
de Sancho Panza saca el autor desta historia que debía de ser bien nacido y por lo menos cristiano
viejo” (id.,: 238).
25 Nabokov (acutissimo osservatore dei dettagli nel Quijote) ci fa notare come lo stesso
“cabestro” di Sancho venga usato in altri due “incantesimi” ai danni di don Quijote: in I, 43,
quando Maritornes e la figlia dell’oste legano il povero idalgo attraverso una delle finestre della
locanda (Cervantes, 2004: 556): “[Maritornes] se bajó del agujero y se fue a la caballeriza,
donde tomó el cabestro del jumento de Sancho Panza [...]”) e in II, 71 quando Sancho s’infligge
le false frustate per liberare Dulcinea dall’incantesimo (id.,: 1312): [Sancho], haciendo
del cabestro y de la jáquima del rucio un poderoso y flexible azote [...]”), colpendo i tronchi
dei faggi invece del suo posteriore. Cfr. Nabokov, 2004: 118.
AISPI. Actas XXIII (2005). Antonio CANDELORO. «La aventura de los batanes» come «mise en abîme»: ...
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lo que tan suspenso y medroso le tenía”; infine, torna in scena il narratore
esterno, il quale ci descrive il percorso che i due seguono (“Otros cien pasos
serían los que anduvieron [...] al doblar de una punta [...]”) fino alla scoperta
dell’ “horrísono” o “espantable ruido” che tanto li ha spaventati 26 .
Che il lettore venga chiamato a partecipare emotivamente all’azione 27
risulta evidente dal richiamo esplicito (e tra parentesi) del narratore nel
momento della risoluzione del mistero:
44
Antonio Candeloro
Y eran (si no lo has, ¡oh lector!, por pesadumbre y enojo) seiz mazos de batán, que
con sus alternativos golpes aquel estruendo formaban (Cervantes, 2004, I, 20:
239, corsivi miei).
È la disparità tra le caratteristiche e i pericoli attribuiti alla fonte del
rumore e della paura e la sua vera natura (semplici e quotidiane gualchiere)
a creare l’effetto comico e la risata.
Questa ipotesi interpretativa sembrerebbe avallata anche dal comportamento
dei due eroi subito dopo la scoperta della verità: don Quijote “enmudeció
y pasmose de arriba abajo”, “con muestras de estar corrido”, mentre
Sancho “tenía los carrillos hinchados y la boca llena de risa, con evidentes
señales de querer reventar con ella”: il primo si accorge della gaffe appena
fatta, attribuendo alle gualchiere chissà quale pericolosa natura, in linea con
il suo programma letterario di stampo cavalleresco 28 ; il secondo sta per scoppiare
a ridere sia per la vergogna provata dal padrone che per la gaffe.
Il movimento oscillatorio dell’intero capitolo si evidenzia anche attraverso
questa duplice reazione dei protagonisti: alla fine, don Quijote non può
trattenersi nel vedere Sancho che si reprime e così ride per primo, dando,
ovviamente, il via alla parallela esplosione ilare del servo.
La risata dei due diventa quindi liberatoria: dall’ansia e la paura accumulate
durante la notte al sollievo e alla risata dell’incipiente giorno (la risata
come esorcismo e liberazione definitiva dalla suspense precedente).
26 È innegabile che con la ripetizione dei caratteri della notte e del rumore, oltre che della paura
(“lo que tan suspenso y medroso le tenía”, riferito a Sancho e “que tan suspensos y medrosos toda la
noche los había tenido”, riferito anche a don Quijote) il narratore stia surrettiziamente includendo
il lettore nella trama, rendendolo co-attore e co-partecipe agli eventi “misteriosi” di cui narra.
27 Sugli stati d’animo e sulla resa emozionale degli eventi presenziati dai due protagonisti
vedi sia Hutchinson, 2001: 199-206 sia Torres, 2001: 432-38.
28 Come notato dalla critica, l’avventura notturna costituiva un passaggio obbligato nei
romanzi di cavalleria, così come l’investitura del cavaliere, lo scontro con maghi e fattuchieri,
l’incontro con fantasmi o esseri soprannaturali durante la notte; cfr. anche Murillo: “The three
episodes, each a variation of fortuitous cause and effect and sense of adventure, fully depict the
disparity between what he conceives the adventure to be and what really takes place, between his
intentions which rise from a literary image of the situation and the outcome” (Murillo, 1988: 65).
AISPI. Actas XXIII (2005). Antonio CANDELORO. «La aventura de los batanes» come «mise en abîme»: ...

“La aventura de los batanes” come mise en abîme: Don Quijote, I, 20
A questo punto, però, Sancho esagera e motteggia il padrone, ripetendone
il discorso cavalleresco dell’età dell’oro, burlandosi apertamente della missione
cavalleresca dell’“hidalgo” e scatenandone, ovviamente, la giusta ira (e
le bastonate). È la terza burla e il terzo esempio di prevaricazione (non solo
idiomatica) di Sancho all’interno dello stesso episodio 29 e ai danni del padrone
(dopo il sotterfugio di Rocinante immobilizzato per volere del cielo e la
finta storia della pastora Torralba).
L’interesse del narratore, quindi, si sposta sulla questione della giusta
distanza tra servo e padrone: don Quijote, sottolineando la sua origine nobile,
fa notare a Sancho che lui non era tenuto a saper distinguere “los sones y
saber cuáles son de batán o no”, a differenza dello scudiero, che è un “villano
ruin”. Sancho riconosce il proprio errore (“he andado algo risueño en
demasía”) e che, comunque, il padrone ha dimostrato coraggio nel voler
affrontare lo spaventoso rumore, pur disconoscendone la vera natura. Segue
un nuovo scambio di battute tra i due, fino a quando don Quijote non ristabilisce
l’ordine gerarchico:
De todo lo que he dicho has de inferir, Sancho, que es menester hacer diferencia
de amo a mozo, de señor a criado y de caballero a escudero. Así que desde
hoy en adelante nos hemos de tratar con más respeto, sin darnos cordelejo [...]
(Cervantes, 2004, I, 20: 242).
Sancho apprende la lezione: non prenderà più in giro il proprio padrone
e non lo onorerà se non come “a mi amo y señor natural”. Don Quijote ribadisce
la morale: “porque, después de a los padres, a los amos se ha de respetar
como si lo fuesen” 30 . Dopo la comicità e la suspense, l’episodio si chiude
con il ristabilirsi delle parti tra gli attori in scena, in seguito al primo vero litigio
tra i due protagonisti 31 .
29 Sulle prevaricazioni di Sancho in I, 20 cfr., di nuovo, Molho, 1976: 229-31; sulle prevaricazioni
linguistiche dello stesso vedi sia Molho (id.,: 241) sia Alonso, 1948: 1-20, in cui si studia
anche il “Catón Zonzorino” storpiato da Sancho nel primo dei suoi discorsi affinché don Quijote
non lo lasci solo. L’auctoritas citata da Sancho viene analizzata anche da Rico, in “Séneca en
el Quijote, del rebaño a los batanes” (Rico, 1982: 59-61). Secondo la lettura di Rico, la citazione
di Sancho rimanderebbe all’insegnamento morale di Seneca, il quale raccomanda di non
affrontare inutilmente il pericolo sapendolo tale e, tantomeno, di tirarsi indietro dinanzi alle
avversità. Questa “morale” sarebbe il filo rosso che lega i tre capp. 18-19-20, in una sorta di crescendo
anche dal punto di vista degli ostacoli via via affrontati. Rico diventa la chiave di volta per
la comprensione dell’avventura delle gualchiere nell’art. cit. di Grilli.
30 Riguardo alla dialettica “servo-padrone” e alla lettura pragmalinguistica della medesima
cfr. Morales, 2001: 765-70.
31 Sancho ha appreso la lezione: quando vede don Quijote indossare la “bacía” del barbiere
che egli crede “yelmo de Mambrino” “no pudo tener la risa, mas vínosele a las mientes la cólera
de su amo y calló en la mitad della” (Cervantes, 2004, I, 21: 246).
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Prima d’indagare in che senso si può parlare di mise en abyme nel capitolo
che qui ci interessa, è forse necessaria una notazione di ordine metodologico:
non possiamo attribuire a Cervantes una coscienza critica dei propri
mezzi (e delle tecniche narrative di cui si serve nel corso della stesura delle
due parti del romanzo) tanto acuta da renderlo un “precursore” della modernità
(o, addirittura, della “postmodernità”). Come ricorda, e a ragione, Cesare
Segre, sono necessarie e utili
46
Antonio Candeloro
Due affermazioni preliminari, riguardo alla natura e alle modalità dei rapporti
di Cervantes con la sua opera. Da un lato: estrema consapevolezza critica,
così manifesta da fare del Don Chisciotte il prototipo del romanzo-saggio. Dall’altro:
una stesura che segue le frecce del tempo, probabilmente con scarsi ritorni
(a scopo di rielaborazione) sul già scritto: assenza, o pronto scavalcamento, di un
progetto di massima (Segre, 1974: 211).
Ciò stabilito, è innegabile notare come nel nostro capitolo il narratore,
oltre a chiamare in causa emotivamente (e direttamente) il lettore 32 , gioca
con la natura fittizia di quanto racconta, adombrando la presenza del futuro
“historiador” dei fatti (Cide Hamete Benengeli), dei futuri lettori e degli stessi
protagonisti, in quanto personaggi coscienti di appartenere a un vero e proprio
romanzo ancora da scrivere.
Un primo segnale significativo in tal senso è dato dalle ragioni che Sancho
adduce per non affrontare immediamente l’“horrísono” e rimandare
l’avventura al giorno dopo:
Ahora es de noche, aquí no nos vee nadie: bien podemos torcer el camino y desviarnos
del peligro, aunque no bebamos en tres días; y pues no hay quien nos vea, menos
habrá quien nos note de cobardes [...] (Cervantes, 2004, I, 20: 228-29, corsivi miei).
Sancho prova a convicere il suo padrone, riferendosi sia ai futuri lettori
delle loro gesta che al cronista della loro storia. La notte potrà nascondere
agli occhi dei curiosi il loro ritardo nell’affrontare l’avventura notturna. Nessuno
ne saprà nulla (e nessuno potrà tacciarli di codardia) proprio perché si
tratterà di una “jamás vista ni oída aventura”, come recita ironicamente l’epigrafe,
mettendo in rilievo proprio i due campi sensoriali sulla base dei quali
acquisterà maggiore enfasi sia l’aspetto comico che quello pauroso dell’episodio:
l’avventura è “mai vista”, in quanto determinata principalmente dal
buio; “né udita”, in quanto efficace –e contrario– proprio per la presenza degli
32 Come nell’ “aparte” tra parentesi in corrispondenza alla risoluzione dell’enigma: “[...] (si
no lo has, ¡oh lector!, por pesadumbre y enojo)”, supra.
AISPI. Actas XXIII (2005). Antonio CANDELORO. «La aventura de los batanes» come «mise en abîme»: ...

“La aventura de los batanes” come mise en abîme: Don Quijote, I, 20
elementi sonori: lo spaventoso frastuono delle gualchiere, unito a quello scatologico
e ben più comico della paura di Sancho 33 .
In realtà, Sancho sembra dimenticare che l’autore della loro storia, il già
citato (al cap. 9) Cide Hamete Benengeli sia “historiador” e, quindi, attento
alla verità e ai minimi dettagli, come sottolinea il secondo autore (il traduttore
dell’originale dall’arabo al latino) nel cap. 16 di questa Iª parte (“Cide
Mahamate Benegeli fue historiador muy curioso y muy puntual en todas las
cosas, y échase bien de ver, pues las que quedan referidas, con ser tan mínimas
y tan rateras, no las quiso pasar en silencio [...] 34 ”).
Il secondo segnale nasce dal “cuento de nunca acabar” di Sancho, un racconto
su come non si devono raccontare racconti. Abbiamo già sottolineato
l’origine popolare del “cuento” e quali effetti abbia sia sul narratario intradiegetico
(don Quijote) che su quello extradiegetico (i lettori potenziali del
romanzo), ossia completa frustrazione delle attese create dal “mauvais conteur”
(Sancho). Se è vero, come ricorda Calvino, che “il racconto è un’operazione
sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo
o dilatandolo” (Calvino, 1993: 43), è evidente che qui Sancho dilati
a dismisura il tempo, imponendo al suo ascoltatore il conteggio mnemonico
delle capre che il pastore Lope Ruiz fa passare attraverso il fiume. Ma ancora
più problematica è la pretesa di Sancho di presentare la sua come “historia
verdadera”, basata su fatti realmente accaduti e su personaggi realmente
esistiti. Quando descrive la pastora Torralba Sancho afferma candidamente
“que parece que ahora la veo”. Don Quijote, lettore onnivoro, domanda ingenuamente:
“- Luego ¿conocístela tu?”. La risposta di Sancho si avvale dell’auctoritas
della fonte primaria (l’autore originale o primo autore sconosciuto
del racconto) per far passare la finzione come verità empirica:
-No la conocí yo –respondió Sancho–, pero quien me contó este cuento me
dijo que era tan cierto y verdadero, que podría bien, cuando lo contase a otro,
afirmar y jurar que lo había visto todo (Cervantes, 2004, I, 20: 233).
In tal modo, il triangolo dentro cui s’iscrive la vicenda di don Quijote viene
come ripetuto in scala ridotta dal co-protagonista di umili origini: Sancho
(autore secondario) afferma che la storia che narra è veramente accaduta e
che Torralba (personaggio ed evento fittizi – come Sancho, d’altronde) era
fisicamente così come lui la descrive, in quanto quella descrizione fisica (fitti-
33 Sulla dialettica “más” e “menos” sin dall’epigrafe vedi Grilli, 2001: 105.
34 Cervantes, 2004, I, 16: 186-87. Qui, ironicamente, il secondo autore si riferisce alla citazione
“per esteso” del paese d’origine del mulattiere amante di Maritornes e personaggio palesemente
secondario all’interno della “storia” di don Quijote e Sancho, o comunque subordinato
alla trama che li rigurada, sebbene, si lascia supporre, lontano parente di Cide Hamete.
AISPI. Actas XXIII (2005). Antonio CANDELORO. «La aventura de los batanes» come «mise en abîme»: ...
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zia) viene data per vera e certa da chi raccontò l’aneddoto a Sancho (autore
primario sconosciuto). Viene tematizzato sia l’atto della lettura che l’atto della
scrittura: attraverso i dubbi di don Quijote e la sua domanda diretta a Sancho
(sulla vera natura della donna protagonista del racconto) anche il lettore
empirico è spinto a riflettere su quei rapporti tra “verità” e “menzogna romanzesca”,
tra vita e letteratura, che diverranno centrali nei due luoghi teorici più
famosi della Iª parte del romanzo (i capitoli 47 e 48, in cui il “canónigo toledano”
e il curato discuteranno proprio di verosimiglianza in letteratura).
La pastora Torralba, dunque, diventa lo spunto per riflettere su come si
racconta oralmente un buon racconto, ma anche su come bisogna leggere
letteratura, in un moderno processo di mise en abîme (intendendo col termine
“ogni storia nella storia in quanto riflessiva” e in rapporto speculare rispetto
al racconto primario che la contiene) 35 .
Il terzo elemento che ci consente di parlare di “meta-letteratura” è dato
dalle parole di don Quijote a Sancho dopo lo sbeffeggiamento di questi ai
danni del padrone:
48
Antonio Candeloro
No niego yo –respondió don Quijote– que lo que nos ha sucedido no sea cosa
digna de risa, pero no es digna de contarse, que no son todas las personas tan discretas,
que sepan poner en su punto las cosas (Cervantes, 2004: 240-41).
Linda Hutcheon sottolinea come tratto dominante della meta-letteratura
è il “commento” sulla natura linguistica e narrativa di quanto si legge; appare
evidente che nei romanzi metanarrativi “[...] the reader or the act of reading
itself become thematized parts of the narrative situation, aknowledged
as having a co-producing form” (Hutcheon, 1991: 37). Poco dopo, riconosce,
giustamente, che il romanzo di Cervantes è tra i primi esempi di “meta-fiction”:
“Don Quixote is one of the first of the self-informing fictions that thematize
the power, the consequences and the very workings of both the creative
imagination and the language of literature” (ibid.,: 37-38). Se ciò appare
evidente soprattutto a partire dalla IIª parte del romanzo, in cui, sin dal capitolo
3, i due protagonisti si abbandonano ad una godibilissima “critica della
prima parte” attraverso il dialogo con il baccelliere Sansón Carrasco, non è
meno palese nella frase citata più sopra: don Quijote sa che un “sabio encantador”
racconterà le proprie gesta; sa che sia lui che Sancho sono “personaggi
in potenza” di un romanzo ancora da scrivere; ne è cosciente sin dal 2 capitolo
della Iª parte, come nota Segre, quando l’invenzione di Cide Hamete,
35 Mutuo la definizione da Dällenbach, 1994: 79-80: quello della Torralba potremmo includerlo
tra i racconti a “duplicazione semplice” (Dällenbach, 1994: 47): “frammento che intrattiene
con l’opera che lo include un rapporto di similitudine”, essendo, in questo caso, la similitudine
di ordine anche formale – il triangolo succitato).
AISPI. Actas XXIII (2005). Antonio CANDELORO. «La aventura de los batanes» come «mise en abîme»: ...

“La aventura de los batanes” come mise en abîme: Don Quijote, I, 20
“historiador arábigo”, è ancora lontana da venire 36 (o da apparire esplicitamente
all’interno del testo): “- ¿Quién duda sino que en los venideros tiempos,
cuando salga a luz la verdadera historia de mis famosos hechos, que el sabio
que los escribiere no ponga, cuando llegue a contar esta mi primera salida tan
de mañana, desta manera?: ‘Apenas había el rubicundo Apolo [...]’ ”; e, poco
più avanti: “¡Oh tú, sabio encantador, quienquiera que seas, a quien ha de tocar
el ser coronista desta peregrina historia! Ruégote que no te olvides de mi buen
Rocinante [...]” (Cervantes, 2004, I, 2: rispettivamente 49 e 51, corsivi miei).
Ora, invece, don Quijote sembra appellarsi alla “discreción” del curioso
“sabio”, oltre che a quella dei futuri lettori o ascoltatori delle proprie gesta 37 .
Non solo: mette in dubbio l’operato di Sancho, criticandone l’eccessiva logorrea.
È il quarto segnale dell’impianto metanarrativo dell’episodio: riferendosi
a Sancho, il cavaliere gli impone di tenere a freno la lingua, “que en cuantos
libros de caballerías he leído, que son infinitos, jamás he hallado que
ningún escudero hablase tanto con su señor como tú con el tuyo” (Cervantes,
2004, I, 20: 241). Don Quijote adduce l’esempio di Gandalín, scudiero di
Amadís de Gaula e di Galaor; Eduardo Urbina sottolinea come, in realtà, il
dialogo tra cavaliere e scudiero fosse secondario nei romanzi di cavalleria e,
comunque, riguardasse quasi esclusivamente la sfera amorosa:
El personaje secundario del escudero adquiere importancia a medida que su
relación con el caballero se hace más íntima, más personal, como sucede en Amadís.
En tales circunstancias actúa más como consejero, protector y acompañante que
como simple escudero. El diálogo que a consecuencia de estas funciones se entabla
entre ambos tiene como tema principal el interés amoroso del caballero, como
desviación, en conflicto con sus deberes de vasallo (Urbina, 1991: 104-5).
Poco a che vedere, dunque, con il dialogo infinito che si stabilisce tra don
Quijote e Sancho Panza e tra loro e i molti personaggi in cui s’imbattono nel
corso del romanzo; Segre ci insegna che “[...] tutta la storia di don Chisciotte
sarà un confronto tra il romanzo da scrivere e quello effettivamente scritto
coi fatti, cioè il fallimento”. Certo, se Sancho fosse costretto per sempre al
silenzio fallirebbe anche il romanzo. Il cap. 20 della Iª parte ci aiuta a riflettere
anche su questo aspetto: il 21 ribadisce la centralità del dialogo tra i due
protagonisti. Sancho chiede il permesso di fare una domanda; don Quijote,
36 Cfr. Segre, 1974: 187 e 196-97.
37 Come notato, nella parte conclusiva del suo saggio, da Grilli: “Por supuesto que el autor
de su [de don Quijote] libro opinó muy de otra manera y nos quiso contar, por puntos y señales,
y por entero, aquella aventura “jamás vista ni oída”, confiando en su discreción y en la de sus lectores”
(Grilli, 2001: 109, corsivi miei). Per una diversa interpretazione dello stesso passo cfr. Williamson,
1991: 192-93 e Morales, 2001: 768; Urbina, 1991: 104-5.
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non prima di averlo avvisato sulla convenienza di essere “breve en tus razonamientos,
que ninguno hay gustoso si es largo”, concede il permesso. Sancho
chiede perché non possano dirigersi presso qualche principe o in qualche
corte, invece di combattare e affrontare avventure “por estos desiertos y
encrucijadas de camino, donde [...] no hay quien las vea ni sepa, y, así, se han
de quedar en perpetuo silencio y en prejuicio de la intención de vuestra merced
[...]” (Cervantes, 2004, I, 21: 249 e 251, corsivi miei). Immemore, per un
momento, del futuro “historiador”, don Quijote risponde al fedele scudiero
che solo quando la fama delle sue imprese si sarà levata fino a principi e re
potranno essere degni di entrare a corte e servire in luoghi meno appartati.
Solo allora potranno vivere le avventure tipiche dei molti protagonisti dei
romanzi di cavalleria (il resto del capitolo sarà occupato proprio dalle scene
di amor cortese e battaglie eroiche che don Quijote immagina una volta arrivato
a corte in un futuro prossimo). È l’ennesimo esempio di come Cervantes,
attraverso le molteplici maschere dei molteplici autori del suo romanzo,
fa dei due protagonisti i perni su cui ruota non solo, e non tanto, la parodia
dei libri di cavalleria quanto i centri d’irradiazione di ciò che Kundera –in un
saggio significativamente intitolato “La denigrata eredità di Cervantes”– definisce
lo “spirito del romanzo”, ovvero, “lo spirito di complessità”: “Ogni
romanzo dice al lettore: ‘Le cose sono più complicate di quanto tu pensi’ ”
(Kundera, 1988: 36).
La notte dell’avventura delle gualchiere non ci impedirà di fare luce sul
dialogo e sulle disavventure di cavaliere e scudiero; tantomeno di apprezzare
l’assoluta (ed inverosimile) onniscienza dell’autore del loro futuro romanzo,
sempre “muy curioso y muy puntual en todas las cosas”. Tanto curioso e tanto
puntuale, potremmo aggiungere, da narrarci un’avventura “jamás vista ni
oída”.
50
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