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progressi della scienza che studia il cervello - Dana Foundation

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PROGRESSI DELLA SCIENZA<br />

CHE STUDIA IL CERVELLO<br />

Aggiornamento 2007<br />

La neuroetica evolve<br />

Saggio di Steven E. Hyman, MD


PROGRESSI DELLA SCIENZA<br />

CHE STUDIA IL CERVELLO<br />

La neuroetica evolve<br />

Saggio di Steven E. Hyman, MD<br />

Aggiornamento 2007


THE EUROPEAN DANA ALLIANCE<br />

FOR THE BRAIN EXECUTIVE COMMITTEE<br />

W<strong>il</strong>liam Safire, Chairman<br />

Edward F. Rover, President<br />

Colin Blakemore, PhD, ScD, FRS, Vice Chairman<br />

Pierre J. Magistretti, MD, PhD, Vice Chairman<br />

Carlos Belmonte, MD, PhD<br />

Anders Björklund, MD, PhD<br />

Joël Bockaert, PhD<br />

Albert Gjedde, MD, FRSC<br />

Sten Gr<strong>il</strong>lner, MD, PhD<br />

Malgorzata Kossut, MSc, PhD<br />

Richard Morris, Dph<strong>il</strong>, FRSE, FRS<br />

Dominique Poulain, MD, DSc<br />

Wolf Singer, MD, PhD<br />

Piergiorgio Strata, MD, PhD<br />

Eva Syková, MD, PhD, DSc<br />

Executive Committee<br />

Barbara E. G<strong>il</strong>l, Executive Director<br />

La European <strong>Dana</strong> Alliance for the Brain (EDAB) riunisce circa 186 tra i più<br />

grandi specialisti delle neuroscienze di 27 paesi, compresi 5 premi Nobel,<br />

<strong>che</strong> si sono dati come obbiettivo di sensib<strong>il</strong>izzare <strong>il</strong> pubblico sull’importanza<br />

<strong>della</strong> ricerca sul <strong>cervello</strong>. Fondata nel 1997, questa organizzazione è attiva<br />

a vari livelli dal laboratorio di ricerca fino al pubblico.<br />

Per ulteriori informazioni:<br />

The European <strong>Dana</strong> Alliance for the Brain<br />

Dr. essa Béatrice Roth, PhD<br />

Centre de Neurosciences Psychiatriques<br />

Site de Cery<br />

1008 Pr<strong>il</strong>ly / Lausanne<br />

e-ma<strong>il</strong>: Contact.Edab@hospvd.ch<br />

Copertina:<br />

Jennifer Suehs


PROGRESSI DELLA SCIENZA<br />

CHE STUDIA IL CERVELLO<br />

Aggiornamento 2007<br />

La neuroetica evolve<br />

5 Introduzione<br />

di David C. Van Essen, PhD<br />

11 La neuroetica: ha cinque anni e continua a sv<strong>il</strong>upparsi<br />

di Steven E. Hyman, MD<br />

I <strong>progressi</strong> <strong>della</strong> ricerca sul <strong>cervello</strong> nel 2006<br />

17 Le patologie <strong>che</strong> appaiono nel corso dell’infanzia<br />

25 I disturbi del movimento<br />

33 Le lesioni del sistema nervoso<br />

39 Neuroetica<br />

47 Le malattie neuroimmunologi<strong>che</strong><br />

57 Il dolore<br />

63 I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze<br />

73 I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee<br />

81 Cellule staminali e neurogenesi<br />

91 I disturbi del pensiero e <strong>della</strong> memoria<br />

99 Referenze<br />

111 Immaginate un mondo...


Introduzione<br />

di David C. Van Essen, PhD<br />

Presidente <strong>della</strong> Society for Neuroscience<br />

Il presente opuscolo vi offre un aggiornamento<br />

sulla ricerca nel campo delle neuroscienze.<br />

Nelle pagine <strong>che</strong> seguono sono presentate<br />

oltre un centinaio di recenti scoperte<br />

<strong>che</strong> <strong>il</strong>lustrano <strong>il</strong> contributo <strong>della</strong> ricerca per <strong>il</strong><br />

miglioramento <strong>della</strong> diagnosi, dei trattamenti e<br />

<strong>della</strong> comprensione di numerose malattie e<br />

gravi disturbi del sistema nervoso centrale.<br />

Ogni capitolo approfondisce una determinata<br />

categoria di disturbi, mentre <strong>il</strong> capitolo dedicato<br />

alla neuroetica analizza in modo trasversale le<br />

questioni comuni all’insieme <strong>della</strong> ricerca sul <strong>cervello</strong>. Le scoperte citate, delle<br />

vere «pepite di neuroscienze», così come i temi più generali <strong>che</strong> emergono<br />

da questo aggiornamento, costituiscono un ritaglio significativo di quanto è<br />

oggi fatto per comprendere <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> umano, in buona salute oppure malato.<br />

Il <strong>cervello</strong> umano è una struttura incredib<strong>il</strong>mente complessa, <strong>che</strong> elabora<br />

l’informazione e controlla ogni aspetto del nostro comportamento. Con i<br />

suoi intricati circuiti neuronali costituiti da m<strong>il</strong>iardi di neuroni e m<strong>il</strong>iardi di<br />

m<strong>il</strong>iardi di sinapsi, è l’organo più complicato del corpo umano.<br />

La complessità si manifesta a diversi livelli. A livello molecolare e cellulare,<br />

implica una complicata coreografia di segnali molecolari <strong>che</strong> trasmettono<br />

l’informazione da una cellula all’altra e regola l’intensità di questi segnali<br />

durante lo sv<strong>il</strong>uppo e l’apprendimento. A livello di sistema coinvolge una<br />

sinfonia di diversi pattern di attività, basati su migliaia di strutture cerebrali<br />

differenti <strong>che</strong> comunicano attraverso decine di migliaia di vie anatomi<strong>che</strong><br />

diverse. Grazie alla complessità cerebrale esiste una grande variab<strong>il</strong>ità individuale<br />

delle strutture e delle funzioni cerebrali, <strong>che</strong> spiega l’enorme diversificazione<br />

delle personalità e dei mezzi intellettuali dell’essere umano.<br />

Data questa sbalorditiva complessità – infinitamente più grande di quella<br />

di una navetta spaziale o di un supercomputer – non stupisce <strong>che</strong> siano 5


6<br />

così numerose le disfunzioni <strong>che</strong> possono colpire <strong>il</strong> sistema nervoso. I di -<br />

sturbi e le malattie identificate in questo ambito sono più di m<strong>il</strong>le e la lista<br />

continua ad allungarsi. Le patologie più frequenti come la malattia di<br />

Alzhei mer, la schizofrenia, l’ictus cerebrale, i disturbi dell’apprendimento,<br />

colpiscono una parte importante <strong>della</strong> popolazione e rappresentano un<br />

importante fardello per la società in termini non solo economici, ma an<strong>che</strong><br />

di preoccupazioni e sofferenza umana.<br />

La speranza di vita <strong>della</strong> popolazione continua ad aumentare; senza grandi<br />

<strong>progressi</strong> nella prevenzione e nel trattamento dei disturbi del sistema nervoso,<br />

<strong>il</strong> carico di queste patologie continuerà a crescere. Per accelerare <strong>il</strong><br />

corso <strong>della</strong> ricerca occorre una conoscenza approfondita dei meccanismi<br />

fisiologici e patologici del funzionamento e <strong>della</strong> plasticità del <strong>cervello</strong>. I<br />

<strong>progressi</strong> <strong>che</strong> ne deriveranno, alcuni dei quali sono segnalati in questo<br />

aggiornamento, permetteranno di ut<strong>il</strong>izzare al meglio le normali capacità<br />

del <strong>cervello</strong> di rigenerarsi, ripararsi ed adattarsi alle lesioni e alle malattie.<br />

I <strong>progressi</strong> realizzati nel 2006 dalle neuroscienze offrono molti spunti. Uno<br />

tra i molti è <strong>il</strong> miglioramento <strong>della</strong> caratterizzazione dei fattori genetici <strong>che</strong><br />

contribuiscono alla molteplicità dei disturbi neurologici e psichiatrici, <strong>che</strong><br />

va dalla delucidazione del ruolo svolto da specifici geni nella forma fam<strong>il</strong>iare<br />

<strong>della</strong> malattia di Parkinson fino all’identificazione dei geni implicati<br />

nell’ansia in un modello murino 1-3 .<br />

Un’altra strategia efficace emersa dalle ricer<strong>che</strong> è stata quella di combinare<br />

le conoscenze su un gene con un altro approccio sperimentale come ad<br />

esempio <strong>il</strong> neuroimaging. Un esempio interessante <strong>il</strong>lustrato in questo<br />

aggiornamento implica l’uso <strong>della</strong> risonanza magnetica per caratterizzare<br />

le anomalie cerebrali (strutturali e funzionali) in individui portatori di una<br />

variante genetica associata a dei comportamenti violenti, ma senza ante -<br />

cedenti psichiatrici 4 . Grazie al neuroimaging è stato possib<strong>il</strong>e evidenziare<br />

delle anomalie strutturali nel <strong>cervello</strong> di bambini con disturbi da deficit<br />

di attenzione e iperattività (ADHD) 5 e delle anomalie funzionali nei<br />

bambini autistici 6 .<br />

Le patologie neurodegenerative come la malattia di Parkinson, la corea<br />

di Huntington, la malattia di Alzheimer, la sclerosi laterale amiotrofica<br />

(SLA), ecc., continuano a polarizzare le risorse di molti laboratori. Grazie<br />

ai <strong>progressi</strong> ottenuti dalla biologia cellulare è possib<strong>il</strong>e comprendere meglio<br />

<strong>il</strong> funzionamento delle cellule, ad esempio come una configurazione


moleco lare scorretta alteri <strong>il</strong> normale funzionamento di una proteina e<br />

come la cellula degeneri quando i meccanismi fisiologici <strong>che</strong> dovrebbero<br />

correggere gli errori di configurazione proteica sono sregolati. Una soluzione<br />

possib<strong>il</strong>e a questo problema consiste nell’ut<strong>il</strong>izzare dei trattamenti<br />

<strong>che</strong> proteggono i neuroni dai danni e dalla morte 7 .<br />

L’interazione tra sistema immunitario e <strong>cervello</strong> alimenta la ricerca. Nel<br />

<strong>cervello</strong> sano i due sistemi interagiscono reciprocamente, numerosi lavori<br />

realizzati nel 2006 hanno dimostrato <strong>che</strong> quando <strong>il</strong> sistema immunitario<br />

attacca <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> gli effetti sono devastanti. La risposta infiammatoria<br />

acuisce i danni neuronali provocati dai processi neurodegenerativi <strong>della</strong><br />

malattia di Alzheimer, la malattia di Parkinson, la corea di Huntington e la<br />

SLA. La strategia clinica <strong>che</strong> ne consegue è la somministrazione di nuovi<br />

farmaci antinfiammatori per proteggere i neuroni delle persone affette da<br />

queste malattie.<br />

Nelle patologie autoimmuni come la sclerosi multipla, le cellule gliali diventano<br />

un obiettivo del sistema immunitario. Le scoperte realizzate l’anno<br />

scorso hanno fornito importanti informazioni sulle proteine chiave <strong>che</strong><br />

mediano questo attacco immunitario e hanno identificato un anticorpo<br />

marker <strong>che</strong> permette di regolare la somministrazione di farmaci <strong>che</strong> contrastano<br />

queste malattie 8, 9 .<br />

Per certi scienziati la sostituzione dei neuroni costituisce una sorta<br />

di ricerca del santo Graal, tanto più <strong>che</strong> la neurogenesi nell’adulto<br />

esiste in numerose altre specie.<br />

Nel <strong>cervello</strong> umano i neuroni distrutti sono insostituib<strong>il</strong>i, nell’adulto la neurogenesi,<br />

cioè la formazione dei nuovi neuroni, non esiste, ad eccezione di<br />

alcune ristrette regioni cerebrali. Per certi scienziati la possib<strong>il</strong>ità di sostituire<br />

i neuroni costituisce una sorta di ricerca del santo Graal, tanto più <strong>che</strong><br />

la neurogenesi nell’adulto esiste in numerose altre specie. Le cellule<br />

cigliate <strong>della</strong> coclea nell’orecchio sono un obiettivo interessante, poiché<br />

costituiscono parte di un circuito neuronale relativamente semplice e i<br />

disturbi dell’udito sono frequenti ed invalidanti. I <strong>progressi</strong> realizzati nella<br />

caratterizzazione dei geni da cui dipende la proliferazione di queste<br />

cellule, permettono di sperare in nuovi sv<strong>il</strong>uppi 10 . I ricercatori continuano<br />

a <strong>studia</strong>re i meccanismi <strong>che</strong> regolano la neurogenesi nell’ippocampo e in<br />

altre regioni del <strong>cervello</strong> dove avviene spontaneamente. Esplorano inoltre<br />

l’uso di cellule staminali per promuovere la neurogenesi a livello del<br />

<strong>cervello</strong> e del midollo spinale 11, 12 . 7<br />

Introduzione


8<br />

Un altro tema <strong>studia</strong>to è <strong>il</strong> modo con cui i <strong>progressi</strong> realizzati nella diagnosi<br />

e nel trattamento delle malattie cerebrali possono creare dei problemi con<br />

ricadute sul piano etico e sulla politica <strong>della</strong> salute. I membri <strong>della</strong> <strong>Dana</strong><br />

Alliance for Brain Initiatives hanno un ruolo importante nella neuroetica.<br />

L’articolo sulla neuroetica di Steven Hyman ripercorre la storia di questa<br />

giovane disciplina e r<strong>il</strong>eva gli interrogativi ai quali essa è confrontata. I differenti<br />

temi sono ripresi nel capitolo <strong>della</strong> neuroetica, <strong>che</strong> affronta una<br />

serie di problemi e controversie come la privacy cerebrale, <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> incosciente<br />

e le implicazioni delle protesi neurali.<br />

Quale direzione prenderà la ricerca sul <strong>cervello</strong>? Questo ambito<br />

sarà determinato da tre tendenze.<br />

Quale direzione prenderà la ricerca sul <strong>cervello</strong>? Questo ambito sarà determinato<br />

da tre tendenze:<br />

La tecnologia guiderà la ricerca. La maggior parte delle scoperte elencate<br />

in questo aggiornamento sarebbe stata impossib<strong>il</strong>e una decina di anni fa a<br />

causa dell’inadeguatezza dei metodi sperimentali. Degli esempi: la risonanza<br />

magnetica o i metodi per determinare rapidamente la sequenza di<br />

un gene non esistevano o erano insufficienti. Ricercatori e ingegneri, universitari<br />

o privati, lavorano senza sosta per preparare diversi metodi <strong>che</strong><br />

permetteranno di ottenere e di analizzare le informazioni concernenti <strong>il</strong><br />

<strong>cervello</strong>. Un impegno continuo è fondamentale per accelerare <strong>il</strong> ritmo<br />

delle scoperte.<br />

Laboratorio, letto del malato, laboratorio. È ormai acquisita da tempo<br />

l’idea <strong>che</strong> le scoperte <strong>della</strong> ricerca fondamentale e translazionale debbano<br />

tradursi in benefici per i malati. Ora è riconosciuto come indispensab<strong>il</strong>e <strong>che</strong><br />

l’informazione vada an<strong>che</strong> in senso inverso, dalla clinica alla ricerca fondamentale.<br />

Studiando le malattie e i loro meccanismi, i neuroscienziati possono<br />

comprendere meglio i processi alla base delle funzioni e dello sv<strong>il</strong>uppo<br />

cerebrale. Per esempio, alle quattro Presidential Lectures presentate<br />

durante la conferenza annuale <strong>della</strong> Society for Neuroscience del 2006, i<br />

partecipanti hanno posto l’accento sui benefici tratti dall’interazione bidirezionale<br />

tra la ricerca fondamentale e le neuroscienze clini<strong>che</strong>.<br />

A livello personale, questa prospettiva trova in me un’eco profonda, visto<br />

<strong>che</strong> recentemente ho modificato i miei programmi di ricerca. Qual<strong>che</strong><br />

anno fa ero un purista <strong>della</strong> ricerca di base, oggi <strong>il</strong> mio laboratorio lavora<br />

su disturbi neurologici e psichiatrici specifici ut<strong>il</strong>izzando degli strumenti


innovativi per l’analisi delle strutture e delle funzioni <strong>della</strong> corteccia cerebrale.<br />

Il più importante tema di ricerca per la conferenza annuale <strong>della</strong><br />

Society for Neuroscience è la malattia, a dimostrazione dell’impegno crescente<br />

<strong>della</strong> comunità neuroscientifica.<br />

L’esplosione dell’informazione. Gli studi descritti in questo aggiornamento<br />

sono solamente la punta dell’iceberg sempre più grande, delle<br />

informazioni <strong>che</strong> emergono annualmente dalle neuroscienze. Tuttavia solo<br />

una parte delle informazioni è pubblicata sui giornali o messa a disposizione<br />

nelle ban<strong>che</strong> dati e spesso i dati non si trovano fac<strong>il</strong>mente, ma i<br />

prossimi dieci anni ci riserveranno sorprese spettacolari. Grazie ai <strong>progressi</strong><br />

<strong>della</strong> tecnologia e dell’informazione i ricercatori, i clinici e <strong>il</strong> pubblico<br />

potranno procurarsi una quantità formidab<strong>il</strong>e d’informazioni sul sistema<br />

nervoso, con una fac<strong>il</strong>ità, una comodità e una rapidità <strong>che</strong> sfideranno<br />

qualsiasi immaginazione.<br />

Introduzione<br />

9


La neuroetica: ha cinque anni<br />

e continua a sv<strong>il</strong>upparsi<br />

di Steven E. Hyman, MD<br />

Il <strong>cervello</strong> costituisce <strong>il</strong> fulcro <strong>della</strong> nostra umanità<br />

ed è sede delle facoltà più preziose, le<br />

malattie neurologi<strong>che</strong> sono quindi particolarmente<br />

devastanti e sono oggetto d’intensi<br />

sforzi da parte dei ricercatori. Allo stesso<br />

tempo, la <strong>scienza</strong> genera preziose conoscenze<br />

sul pensiero, sulle emozioni e sul comportamento<br />

dell’uomo malato e in buona salute. Le<br />

nuove tecnologie <strong>che</strong> permettono di osservare<br />

l’attività cerebrale e di agire sulle funzioni del<br />

<strong>cervello</strong>, sollevano delicate questioni eti<strong>che</strong> e determinate scelte politi<strong>che</strong>.<br />

Attualmente per diagnosticare una malattia è possib<strong>il</strong>e contare principalmente<br />

sull’osservazione clinica, ma <strong>il</strong> progresso dell’imaging cerebrale<br />

avvicina <strong>il</strong> giorno in cui i medici disporranno di elementi più oggettivi. Tra<br />

una decina di anni i dati forniti dalla genetica e dalla biologia molecolare<br />

metteranno a disposizione dei trattamenti per rallentare l’evoluzione delle<br />

malattie neurodegenerative come l’Alzheimer o <strong>il</strong> morbo di Parkinson.<br />

Attraverso i <strong>progressi</strong> acquisiti dalla genetica o dalle neuroscienze cognitive<br />

e sociali, gradualmente emergono approcci innovativi per <strong>il</strong> completo<br />

ristab<strong>il</strong>imento psichico e funzionale dei pazienti affetti da schizofrenia e<br />

autismo. I <strong>progressi</strong> realizzati nell’interfaccia tra le neuroscienze e l’ingegneria<br />

annunciano <strong>il</strong> momento in cui, grazie alle interazioni tra <strong>cervello</strong> e<br />

computer, le persone vittime di paralisi ritroveranno un controllo delle loro<br />

capacità motorie. Le prime esperienze realizzate con la stimolazione cerebrale<br />

profonda, rivelano <strong>che</strong> una migliore comprensione dei circuiti cerebrali<br />

permetterà di curare con più efficacia la depressione, i disturbi d’ansia<br />

e altre patologie <strong>della</strong> sfera emotiva e cognitiva.<br />

Curare le malattie del <strong>cervello</strong> è una tra le maggiori ambizioni <strong>della</strong> nostra<br />

società, ma le conquiste sono tortuose. Il <strong>cervello</strong> è un organo complesso, 11


12<br />

e risulta molto diffic<strong>il</strong>e trovare un modello animale adeguato per i processi<br />

cognitivi superiori. La modalità per trovare delle soluzioni contro le malattie,<br />

come stimolare i giovani ricercatori ad impegnarsi in questa lotta e<br />

come dotarli dei mezzi necessari, non sono le uni<strong>che</strong> sfide alle quali<br />

siamo confrontati.<br />

Quest’anno, l’aggiornamento annuale <strong>della</strong> <strong>Dana</strong> Alliance sui <strong>progressi</strong><br />

<strong>della</strong> ricerca sul <strong>cervello</strong>, dedica per la seconda volta uno spazio speciale<br />

alla neuroetica, la prima risale al 2003. I membri <strong>della</strong> Alliance si sono impegnati<br />

sulle questioni eti<strong>che</strong> poste dalle neuroscienze con articoli o conferenze.<br />

I temi generati dalla ricerca sul <strong>cervello</strong>, dal comportamento alla psi<strong>che</strong>,<br />

sono stati approfonditi frammentariamente in diverse occasioni,<br />

spesso in piccoli gruppi di scienziati, eticisti ed altri intellettuali. Nel maggio<br />

del 2002, a San Francisco, la <strong>Dana</strong> foundation ha promosso una conferenza<br />

intitolata «Neuroethics: Mapping the Field», <strong>che</strong> è stata l’occasione per una<br />

presa di co<strong>scienza</strong> intensa e duratura sulle questioni raccolte con <strong>il</strong> termine<br />

più generico di neuroetica.<br />

Da allora, un numero crescente di seminari, articoli e libri alimentano<br />

questo dinamico campo interdisciplinare grazie al contributo di diverse<br />

comunità di scienziati, f<strong>il</strong>osofi, medici, giuristi, sociologi, politologi e politici.<br />

Nel maggio del 2006 ad As<strong>il</strong>omar, in California, si è tenuto un convegno<br />

durante <strong>il</strong> quale è stata creata una nuova società di neuroetica, la<br />

Neuro ethics Society (www.neuroethicssociety.org).<br />

L’obiettivo di questa nuova società è quello di costituire una piattaforma di<br />

scambio per <strong>il</strong> dialogo interdisciplinare, <strong>che</strong> affinandosi e approfondendosi<br />

permetterà di affrontare i problemi più incalzanti.<br />

Questa nuova società non è l’unica a promuovere l’argomento, l’American<br />

Association for the Advancement of Science presenta regolarmente alle<br />

sue riunioni dei temi di neuroetica. Dal 2003, la Society for Neuroscience<br />

nel corso del suo simposio annuale, prevede una conferenza sulla neuroetica,<br />

e le ha consacrato tre simposi, di cui uno in ottobre 2006, incentrato<br />

sui problemi internazionali. In questo appuntamento sono stati discussi: la<br />

formazione di volontari da parte dei ricercatori, la sensib<strong>il</strong>izzazione delle<br />

comunità nei paesi poveri e l’elaborazione delle direttive eti<strong>che</strong>. Nel 2006<br />

an<strong>che</strong> la Cognitive Neuroscience Society e l’Association for Psychological<br />

Science ha organizzato un simposio sulla neuroetica, soggetto <strong>che</strong> negli<br />

ultimi due anni è stato affrontato an<strong>che</strong> dalla Wellcome Trust Bioethics


Summer School. L’American Academy of Arts and Sciences ha organizzato<br />

all’inizio del 2007 un simposio sull’uso del neuroimaging nell’ambito <strong>della</strong><br />

detezione <strong>della</strong> verità.<br />

Le pubblicazioni in questo ambito aumentano lentamente, an<strong>che</strong> se occor re<br />

r<strong>il</strong>evare <strong>che</strong> spesso i nuovi settori interdisciplinari riscontrano questo tipo<br />

di difficoltà per due ragioni: la prima è <strong>che</strong> i lavori proposti non si allineano<br />

perfettamente con le discipline <strong>che</strong> controllano le riviste scientifi<strong>che</strong>;<br />

la seconda consiste nel fatto <strong>che</strong> quando un ambito di lavoro richiede<br />

dei contributi significativi da diverse discipline, <strong>il</strong> materiale è diffic<strong>il</strong>e da<br />

raccoglie re. Gli specialisti delle neuroscienze, i giuristi e i f<strong>il</strong>osofi non sanno<br />

sempre dove trovare gli articoli di cui necessitano.<br />

Da cui gli sforzi per rimediare a questa lacuna. La Neuroethics Society, ha<br />

siglato un accordo con l’American Journal of Bioethics <strong>che</strong> prevede dei<br />

numeri speciali dell’American Journal of Bioethics – Neuroscience sulla<br />

neuroetica. La rivista Journal of Cognitive Neuroscience attribuirà a questo<br />

ambito uno spazio più r<strong>il</strong>evante.<br />

Ma la neuroetica è veramente necessaria? Non è sufficiente la bioetica <strong>il</strong><br />

cui ambito è più vasto? È questa una questione ricorrente a proposito di<br />

tale giovane disciplina. I numerosi intellettuali <strong>che</strong> s’interessano alla neuro -<br />

etica sono solidamente legati alla bioetica, molte delle questioni trattate<br />

dalla neuroetica appartengono all’ambito <strong>della</strong> bioetica, un esempio è <strong>il</strong><br />

consenso informato per le persone affette da disturbi cognitivi o in fin di vita.<br />

Secondo <strong>il</strong> mio parere, la neuroetica è nata in ragione<br />

del particolare statuto del <strong>cervello</strong>.<br />

La ricerca sul <strong>cervello</strong> richiede tuttavia di un successivo passo; secondo <strong>il</strong><br />

mio parere, la neuroetica è nata in ragione del particolare statuto del <strong>cervello</strong>.<br />

Un’attenta considerazione delle implicazioni <strong>della</strong> ricerca sul <strong>cervello</strong><br />

oltrepassa gli abituali limiti <strong>della</strong> bioetica.<br />

L’uso dell’imaging cerebrale per ricostruire <strong>il</strong> passato recente di un individuo<br />

o per sondarne la sincerità pone la questione bioetica del rispetto <strong>della</strong><br />

privacy, ma interpella an<strong>che</strong> le forze dell’ordine e <strong>della</strong> sicurezza, <strong>che</strong> sono<br />

poco presenti nel dibattito <strong>della</strong> bioetica.<br />

Se l’obiettivo è modificare o controllare le funzioni cerebrali, i problemi<br />

etici sono differenti da quelli <strong>che</strong> si pongono quando per ragioni analoghe<br />

La neuroetica: ha cinque anni e continua a sv<strong>il</strong>upparsi<br />

13


s’interviene sui reni o sul cuore, proprio perché s’interferisce con l’organo<br />

responsab<strong>il</strong>e <strong>della</strong> nostra umanità e la nostra autonomia. Ciò <strong>che</strong> contraddistingue<br />

la neuroetica, è <strong>che</strong> <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> non è solo l’oggetto <strong>della</strong> riflessione<br />

etica, ma costituisce la base stessa dei principi etici.<br />

Ciò <strong>che</strong> contraddistingue la neuroetica, è <strong>che</strong> <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> non<br />

è solo l’oggetto <strong>della</strong> riflessione etica, ma costituisce la base stessa<br />

dei principi etici.<br />

14<br />

Quest’ultimo punto è controverso per tutti coloro <strong>che</strong> credono <strong>che</strong> esista<br />

una legge naturale oppure dei precetti divini nei principi etici. In un paese<br />

come gli Stati Uniti in cui la religione occupa un posto importante nella vita<br />

degli individui, questa discussione è indispensab<strong>il</strong>e. Oggi cominciamo a<br />

cogliere i fondamenti neuronali dell’interazione sociale, come per <strong>il</strong> pregiudizio<br />

e la fiducia, ed emerge la possib<strong>il</strong>ità d’influenzare queste interazioni<br />

con dei farmaci o con la stimolazione elettrica. Si pongono quindi delle<br />

questioni fondamentali sull’origine dei nostri sistemi etici. Sono questi <strong>il</strong><br />

frutto dei principi razionali tramandati dalla notte dei tempi oppure sono <strong>il</strong><br />

prodotto contingente di un <strong>cervello</strong> in continua evoluzione? O entrambe le<br />

cose? Se l’uomo intende gestire <strong>il</strong> progresso scientifico nel modo più<br />

adatto, la neuroetica non sarà mai di troppo.


I <strong>progressi</strong><br />

<strong>della</strong> ricerca<br />

sul <strong>cervello</strong><br />

nel 2006


Le patologie <strong>che</strong> appaiono<br />

nel corso dell’infanzia<br />

Anomalie cerebrali nell’autismo 18<br />

Novità sull’ADHD 21<br />

Paralisi cerebrale infant<strong>il</strong>e, <strong>il</strong> ruolo delle infezioni 23<br />

17


18<br />

Nel corso del 2006, molti studi sulle malattie <strong>che</strong> appaiono nel corso dell’infanzia<br />

riguardavano le regioni cerebrali <strong>che</strong> contribuiscono ad aumentare<br />

la dimensione del <strong>cervello</strong> nei pazienti affetti dai disturbi di tipo autistico.<br />

I ricercatori hanno descritto alcune differenze neuro anatomi<strong>che</strong> e<br />

biochimi<strong>che</strong> <strong>che</strong> potrebbero essere responsab<strong>il</strong>i delle difficoltà cognitive<br />

nei bambini affetti dai disturbi da deficit di attenzione e iperattività. Sono<br />

inoltre emerse nuove evidenze sul ruolo svolto dalle infezioni virali nei<br />

disturbi dello sv<strong>il</strong>uppo come la paralisi cerebrale infant<strong>il</strong>e.<br />

Anomalie cerebrali nell’autismo<br />

Le patologie di tipo autistico fanno parte dei disturbi generalizzati dello sv<strong>il</strong>uppo,<br />

i bambini <strong>che</strong> ne sono affetti hanno grandi difficoltà di comunicazione e<br />

manifestano un ripiego su se stessi. L’esatta origine di questi disturbi è sconosciuta,<br />

gli scienziati hanno evidenziato diverse anomalie neurologi<strong>che</strong> <strong>che</strong> potrebbero<br />

contribuire al ripiego sociale e ai deficit cognitivi <strong>che</strong> li caratterizzano.<br />

Alcuni ricercatori hanno messo in relazione questi disturbi con un’attività<br />

anormale in determinate regioni cerebrali. Il gruppo diretto da Marco Iacoboni,<br />

neuroscienziato presso l’Università <strong>della</strong> California a Los Angeles, ha<br />

evidenziato una ridotta attività neuronale del giro frontale inferiore nei<br />

bambini affetti da disturbi di tipo autistico quando essi svolgono attività<br />

basate sull’interazione sociale 1 .<br />

In uno studio pubblicato dalla rivista Nature Neuroscience, <strong>il</strong> gruppo di<br />

Iacoboni tramite la risonanza magnetica funzionale, ha paragonato l’attività<br />

neuronale di 10 bambini con una diagnosi di tipo autistico «high-functioning»,<br />

<strong>che</strong> riescono cioè a condurre una vita quasi normale, con quella di<br />

10 bambini dotati di uno sv<strong>il</strong>uppo normale, mentre osservano e cercano di<br />

imitare delle emozioni con <strong>il</strong> volto. Il grado di riduzione dell’attività neuronale<br />

era correlato con la gravitá dei sintomi.<br />

I ricercatori sostengono <strong>che</strong> <strong>il</strong> giro frontale inferiore faccia parte del sistema<br />

dei neuroni specchio, importante per la percezione delle espressioni del<br />

viso <strong>che</strong> traducono le emozioni e <strong>che</strong> permette di provare empatia. La disfunzione<br />

di questo sistema potrebbe dare origine alle difficoltà di socializzazione<br />

osservate nei bambini autistici.<br />

An<strong>che</strong> le alterazioni delle dimensioni cerebrali sono state correlate con<br />

l’autismo. Nell’ambito di uno studio pubblicato nell’American Journal of


Psychiatry, un gruppo di ricercatori diretto da Antonio Hardan, psichiatra<br />

alla Stanford University, ha ut<strong>il</strong>izzato la risonanza magnetica per comparare<br />

la dimensione <strong>della</strong> corteccia cerebrale (la parte più esterna del <strong>cervello</strong>) di<br />

17 bambini affetti da autismo e 14 bimbi in buona salute. Lo spessore <strong>della</strong><br />

corteccia cerebrale costituisce un indicatore sensib<strong>il</strong>e del normale sv<strong>il</strong>uppo<br />

del <strong>cervello</strong> 2 .<br />

Non è ancora noto in <strong>che</strong> modo lo spessore <strong>della</strong> corteccia cerebrale influisce<br />

sulle singole cellule, i ricercatori ritengono <strong>che</strong> esso potrebbe indicare<br />

<strong>il</strong> livello di arborizzazione cellulare, cioè <strong>il</strong> grado di sv<strong>il</strong>uppo delle connessioni<br />

tra cellula e cellula. Nel corso dello sv<strong>il</strong>uppo normale del <strong>cervello</strong> c’è<br />

una sovrapproduzione massiccia di cellule e di sinapsi, alla quale subentra<br />

per eliminazione competitiva, la soppressione dei neuroni e delle sinapsi<br />

eccedenti. Questa «potatura» potrebbe essere all’origine dell’assottigliamento<br />

<strong>della</strong> corteccia cerebrale.<br />

Esaminando le immagini cerebrali, i ricercatori hanno scoperto un aumento<br />

dello spessore corticale nei lobi temporali e parietali dei bambini autistici,<br />

<strong>che</strong> almeno in parte potrebbe essere responsab<strong>il</strong>e del l’aumento <strong>della</strong><br />

dimensione cerebrale osservata negli individui affetti da questa patologia.<br />

Gli autori s’interessano ai meccanismi <strong>che</strong> controllano l’assottigliamento <strong>della</strong><br />

corteccia cerebrale, incluse le influenze geneti<strong>che</strong>. Studiando i geni implicati<br />

in questo meccanismo sperano di scoprire le cause dell’ispessimento delle<br />

strutture cerebrali osservate nei soggetti autistici, per creare nuovi trattamenti.<br />

Secondo uno studio apparso nella rivista Archives of General Psychiatry,<br />

l’accrescimento dell’amigdala sembra contribuire all’aumento <strong>della</strong> dimensione<br />

del <strong>cervello</strong> nei pazienti autistici 3 . L’amigdala è una struttura cerebrale<br />

molto importante per <strong>il</strong> funzionamento socio-emotivo dell’individuo.<br />

Gli autori di questo studio, diretto da Stephen Dager, ricercatore presso<br />

l’Università di Washington, tramite la risonanza magnetica hanno misurato<br />

la dimensione dell’amigdala di 45 bimbi d’età da 3 a 4 anni, affetti da disturbi<br />

di tipo autistico.<br />

Gli scienziati hanno evidenziato un nesso tra l’accrescimento dell’amigdala,<br />

in particolare l’amigdala destra, e la gravità dei sintomi. Riesaminando<br />

dopo tre anni gli stessi soggetti, i ricercatori hanno osservato <strong>che</strong> le competenze<br />

linguisti<strong>che</strong> e sociali erano meno sv<strong>il</strong>uppate nei bambini <strong>che</strong> presentavano<br />

un accrescimento marcato dell’amigdala destra.<br />

Le patologie <strong>che</strong> appaiono nel corso dell’infanzia<br />

19


20<br />

Esplorazione dell’autismo<br />

Il ricercatore Stephen Dager, in primo piano, osserva uno scan cerebrale. Egli conduce<br />

con Dennis Shaw uno studio sulla dimensione dell’amigdala nei bambini affetti da<br />

disturbi di tipo autistico.<br />

Questi risultati dimostrano l’implicazione dell’amigdala nei disturbi del<br />

comportamento osservati nell’autismo e indicano la taglia dell’amigdala<br />

destra come segnale premonitore dell’evoluzione clinica <strong>della</strong> malattia.<br />

In un recente articolo pubblicato in Neurology, gli stessi ricercatori sostengono<br />

<strong>che</strong> l’invalidità dei bambini autistici paragonata ai bimbi affetti da un<br />

ritardo dello sv<strong>il</strong>uppo, potrebbe essere attribuita ad un esagerato «r<strong>il</strong>assamento<br />

trasversale» delle cellule del <strong>cervello</strong> 4 . Il r<strong>il</strong>assamento trasversale<br />

corrisponde alla misura del grado di connessione tra le cellule cerebrali; è<br />

realizzata con la risonanza magnetica, determinando la capacità delle cellule<br />

cerebrali di spostare <strong>il</strong> liquido <strong>che</strong> le avvolge. Questa tecnica è ut<strong>il</strong>izzata<br />

per determinare la maturazione del <strong>cervello</strong>.<br />

Lo studio ha coinvolto 60 bambini autistici, 16 con un ritardo dello sv<strong>il</strong>uppo<br />

e 10 bimbi dotati di sv<strong>il</strong>uppo normale d’età compresa tra 2 e 4 anni.<br />

I ricercatori hanno constatato <strong>che</strong> i legami tra le cellule erano molto più<br />

stretti nei bambini con uno sv<strong>il</strong>uppo normale rispetto ai bambini autistici,


i soggetti affetti da ritardo dello sv<strong>il</strong>uppo hanno ottenuto dei risultati<br />

interme di.<br />

L’autismo resta una patologia misteriosa. Gli studi realizzati con l’imaging,<br />

sembrano indicare delle anomalie nella formazione delle strutture neuronali<br />

<strong>che</strong> potrebbero avere luogo durante i primi stadi <strong>della</strong> gestazione.<br />

Novità sull’ADHD<br />

Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), è una patologia<br />

dello sv<strong>il</strong>uppo <strong>che</strong> compromette i risultati scolastici e professionali, incrementa<br />

<strong>il</strong> rischio di depressione ed espone all’abuso di sostanze e agli<br />

incidenti, talvolta mortali. L’ADHD è caratterizzato da agitazione e da<br />

riduzione dell’attenzione <strong>che</strong> sembrano essere dovuti ad un deficit dei<br />

meccanismi cerebrali <strong>che</strong> controllano l’impulsività.<br />

A lungo gli scienziati hanno ipotizzato <strong>che</strong> proprio l’insufficiente<br />

concentrazione di dopamina fosse l’origine dell’ADHD.<br />

Recenti scoperte confermano questa ipotesi.<br />

Per curare la maggior parte dei casi di ADHD esistono farmaci efficaci <strong>che</strong><br />

aumentano la concentrazione cerebrale di un neurotrasmettitore inibitore,<br />

la dopamina. A lungo gli scienziati hanno ipotizzato <strong>che</strong> proprio<br />

l’insuffi ciente concentrazione di dopamina fosse l’origine dell’ADHD.<br />

Recenti scoperte confermano questa ipotesi, indicando i «trasportatori<br />

cerebrali <strong>della</strong> dopamina» come responsab<strong>il</strong>i di questa disfunzione. I<br />

traspor tatori captano troppa dopamina, impedendo <strong>che</strong> questo neuro -<br />

trasmettitore, una volta liberato, svolga la sua funzione sulle cellule<br />

del <strong>cervello</strong>.<br />

Un gruppo di ricercatori diretto da Donald G<strong>il</strong>bert, neuropediatra al Cincinnati<br />

Ch<strong>il</strong>dren’s Hospital Medical Center, ha <strong>studia</strong>to la modalità con la<br />

quale la corteccia motoria inibisce i movimenti in 16 bambini e adolescenti<br />

affetti da ADHD, prima e dopo la somministrazione di farmaci <strong>che</strong> amplificano<br />

la disponib<strong>il</strong>ità cerebrale <strong>della</strong> dopamina 5 .<br />

L’incremento di dopamina riduce l’attività <strong>della</strong> corteccia motoria di tutti i<br />

bambini. L’effetto è più marcato nei bambini portatori di una variante genetica<br />

denominata DAT1, <strong>che</strong> provoca un’attività eccessiva dei trasportatori<br />

di dopamina e come conseguenza diminuisce la disponib<strong>il</strong>ità di questo<br />

neurotrasmettitore. Le alterazioni geneti<strong>che</strong> dei trasportatori di dopamina<br />

potrebbero essere implicate nella genesi dell’ADHD. 21<br />

Le patologie <strong>che</strong> appaiono nel corso dell’infanzia


22<br />

Schiaccia!<br />

Non Schiacciare! Cambia!<br />

Attivazione cerebrale nell’ADHD<br />

I bambini affetti da disturbi da deficit di attenzione e iperattività dimostravano una<br />

ridotta attività nella corteccia prefrontale mediana quando dovevano inibire una risposta<br />

motoria (immagine di sinistra). Lo stesso avveniva (immagine di destra), nelle regioni<br />

frontali e temporali del <strong>cervello</strong> quando dovevano cambiare compito.<br />

Katya Rubia e i suoi colleghi dell’istituto di psichiatria del King’s College a<br />

Londra hanno osservato lo stesso tipo di difetto di inibizione motoria in<br />

19 ragazzi <strong>che</strong> non avevano mai assunto dei farmaci per l’ADHD 6 . Questi<br />

risultati sono significativi, perchè gli autori fanno notare <strong>che</strong> i dati realizzati<br />

in precedenza potevano essere falsati dal fatto <strong>che</strong> i bambini assumevano<br />

farmaci per l’ADHD.<br />

Ut<strong>il</strong>izzando la risonanza magnetica funzionale, <strong>il</strong> gruppo di Rubia ha evidenziato<br />

un’attivazione cerebrale anormale in questi bambini e adolescenti<br />

<strong>che</strong> non hanno mai assunto dei farmaci, quando realizzavano dei compiti<br />

<strong>che</strong> implicavano l’inibizione motoria o quando dovevano passare da un<br />

procedimento ad un altro (ciò <strong>che</strong> richiede una flessib<strong>il</strong>ità cognitiva). I dati<br />

suggeriscono <strong>che</strong> non esiste un legame tra la ridotta-attivazione osservata<br />

in questi pazienti e l’esposizione prolungata a farmaci stimolanti. In<br />

entrambi i casi è stata osservata una ridotta-attivazione nella regione prefrontale<br />

del <strong>cervello</strong>, così come nelle regioni temporali e parietali, aree <strong>che</strong><br />

non erano mai state messe in relazione con l’ADHD.<br />

Lo spessore <strong>della</strong> corteccia è un indicatore dello sv<strong>il</strong>uppo cerebrale <strong>studia</strong>to<br />

sia nell’ADHD sia nell’autismo. I ricercatori del National Institute of


Mental Health diretti da Ph<strong>il</strong>ip Shaw, hanno misurato lo spessore <strong>della</strong><br />

corteccia cerebrale in 166 bambini affetti da ADHD 7 . Le immagini ottenute<br />

con la risonanza magnetica sono state ripetute circa ogni due anni e paragonate<br />

ad immagini realizzate in bambini in buona salute.<br />

Lo spessore <strong>della</strong> corteccia è un indicatore dello sv<strong>il</strong>uppo cerebrale<br />

<strong>studia</strong>to sia nell’ADHD sia nell’autismo.<br />

L’analisi di questi immagini ha evidenziato nei bambini affetti da ADHD un<br />

assottigliamento <strong>della</strong> corteccia nelle regioni del <strong>cervello</strong> <strong>che</strong> svolgono<br />

un ruolo importante nel controllo dell’attenzione. Immagini acquisite in<br />

momenti successivi hanno mostrato nei bambini con i sintomi più gravi,<br />

una corteccia particolarmente sott<strong>il</strong>e nella parte anteriore del <strong>cervello</strong>,<br />

vicino ad una regione <strong>che</strong> oltre agli aspetti dell’attenzione controlla l’inibizione<br />

di comportamenti inadeguati.<br />

Inoltre i bambini con una forma meno severa di ADHD presentano dei<br />

cambiamenti ben caratterizzati <strong>della</strong> corteccia parietale destra, <strong>che</strong> controlla<br />

alcuni degli aspetti fondamentali dell’attenzione. Alla fine dell’adolescenza,<br />

non c’era più differenza di spessore tra la loro corteccia cerebrale<br />

e quella dei bambini sani. Questa «normalizzazione» non è stata evidenziata<br />

nei bambini con dei gravi deficit. I risultati non sono stati influenzati<br />

dal fatto <strong>che</strong> i bambini assumessero o no dei farmaci.<br />

Tali risultati offrono un’immagine molto dettagliata <strong>della</strong> corteccia cerebrale<br />

dei bambini affetti da ADHD ed evidenziano dei cambiamenti <strong>che</strong><br />

secondo gli autori potrebbero essere un riflesso, se non <strong>il</strong> motore di un<br />

ristab<strong>il</strong>imento clinico.<br />

Come per l’autismo, gli studi di imaging suggeriscono l’origine delle<br />

disfun zioni cerebrali osservati nell’ADHD; tali studi potrebbero essere ut<strong>il</strong>i<br />

sul piano diagnostico e terapeutico.<br />

Paralisi cerebrale infant<strong>il</strong>e,<br />

<strong>il</strong> ruolo delle infezioni<br />

Nel 2006 la ricerca ha trovato nuovi indizi sull’importante ruolo delle infezioni<br />

nelle patologie dello sv<strong>il</strong>uppo come la paralisi cerebrale infant<strong>il</strong>e<br />

(PCI). La PCI è una malattia cronica e spesso grave del <strong>cervello</strong>, diagnosticab<strong>il</strong>e<br />

precocemente nell’infanzia, <strong>che</strong> provoca un’anomalia del controllo<br />

dei movimenti e <strong>della</strong> postura. Le cause <strong>della</strong> malattia sono generalmente<br />

sconosciute e non esiste alcun tipo di prevenzione. 23<br />

Le patologie <strong>che</strong> appaiono nel corso dell’infanzia


24<br />

Catherine Gibson e <strong>il</strong> suo gruppo dell’Università di Adelaide in Australia,<br />

hanno pubblicato nel British Medical Journal uno studio sulla possib<strong>il</strong>e<br />

implicazione di alcune infezioni virali nella PCI 8 . Gli scienziati hanno cercato<br />

la presenza di virus di tipo herpes in campioni di sangue neonatale<br />

essiccato proveniente da 443 bebè colpiti da PCI e da 883 bebè sani.<br />

I risultati evidenziano <strong>che</strong> i bebè esposti al virus dell’herpes durante la gravidanza<br />

sono molto più numerosi tra i bambini colpiti da PCI. È possib<strong>il</strong>e<br />

ipotizzare <strong>che</strong> questi virus, responsab<strong>il</strong>i per esempio <strong>della</strong> varicella o del -<br />

l’herpes labiale, siano implicati nello sv<strong>il</strong>uppo <strong>della</strong> PCI nel corso <strong>della</strong> vita<br />

intrauterina, un’ipotesi <strong>che</strong> dovrà essere verificata con successivi studi.


I disturbi<br />

del movimento<br />

Errato ripiegamento delle proteine:<br />

le inclusioni sono ut<strong>il</strong>i? 26<br />

L’infiammazione e la malattia di Parkinson 28<br />

Gli aspetti genetici <strong>della</strong> malattia di Parkinson 29<br />

Monitoraggio e trattamento <strong>della</strong> corea di Huntington 30<br />

25


26<br />

Nel 2006 gli scienziati hanno fatto <strong>progressi</strong> sulla lunga via <strong>che</strong> conduce<br />

dalla ricerca di base alla scoperta di nuovi trattamenti per i disturbi del<br />

movimento. Gli studi di laboratorio sul ripiegamento delle proteine, sui<br />

fenomeni infiammatori, sui fattori di crescita e la genetica hanno aperto<br />

nuove prospettive per monitorare e curare queste patologie. Alcuni trattamenti<br />

sono attualmente in fase di studio nell’animale, alcuni nell’uomo.<br />

Errato ripiegamento delle proteine: le inclusioni sono ut<strong>il</strong>i?<br />

L’azione delle proteine dipende dalla loro forma. Le cellule producono<br />

delle proteine costituite da lunghe catene di amminoacidi, <strong>che</strong> dopo<br />

essersi ripiegate e avvolte, assumono una struttura tridimensionale. Le proteine<br />

mal ripiegate non interagiscono in modo normale con le altre. Esse si<br />

aggregano tra loro formando dei depositi denominati inclusioni, osservati<br />

frequentemente nel <strong>cervello</strong> delle persone <strong>che</strong> soffrono di alcune malattie<br />

neurologi<strong>che</strong>.<br />

L’ alfasinucleina è la componente maggiore di queste inclusioni (denominate<br />

an<strong>che</strong> corpi di Lewy), la cui presenza nei neuroni è tipica <strong>della</strong> malattia<br />

di Parkinson, una patologia <strong>che</strong> provoca rigidità, tremito e disturbi del<br />

movimento. Si riscontrano i corpi di Lewy an<strong>che</strong> in una demenza detta<br />

appunto demenza a corpi di Lewy. Le inclusioni ric<strong>che</strong> di alfasinucleina si<br />

osservano an<strong>che</strong> nell’atrofia sistemica multipla, la cui sintomatologia è<br />

sim<strong>il</strong>e a quella <strong>della</strong> malattia di Parkinson e provoca dei problemi di linguaggio,<br />

di equ<strong>il</strong>ibrio e di coordinazione.<br />

Secondo due studi recenti, uno di Thomas Südhof e <strong>il</strong> suo gruppo i cui<br />

risultati sono apparsi in Cell, l’altro di Tracey Dickson e i suoi colleghi, pubblicato<br />

in Experimental Neurology, la funzione dell’alfasinucleina sarebbe<br />

quella di proteggere i neuroni dalle lesioni 1, 2 . Quando i livelli di questa<br />

proteina sono normali e <strong>il</strong> suo ripiegamento è corretto, l’alfasinucleina<br />

protegge la cellula. Se vi è una sovrapproduzione ed essa è mal ripiegata<br />

si formano degli aggregati <strong>che</strong> sembrano associati con le malattie. Per<br />

quale ragione?<br />

Sebbene sia una questione ancora controversa, è generalmente ammesso<br />

<strong>che</strong> l’alfasinucleina mal ripiegata <strong>che</strong> forma degli aggregati contribuisce<br />

alla morte delle cellule, ma <strong>il</strong> meccanismo è ancora sconosciuto. È possib<strong>il</strong>e<br />

<strong>che</strong> le proteine mal ripiegate non svolgano la loro funzione in modo corretto,<br />

ma sembra an<strong>che</strong> <strong>che</strong> esse interferiscano con le altre funzioni delle


cellule. Secondo lo studio di Richard Morimoto pubblicato in Science, un<br />

eccesso di proteine mal ripiegate disorienta <strong>il</strong> sistema di «assicurazione<br />

<strong>della</strong> qualità» <strong>della</strong> cellula, provocando <strong>il</strong> cattivo ripiegamento di altre proteine<br />

3 . Susan Lindquist e i suoi colleghi hanno dal canto loro pubblicato in<br />

Science, uno studio secondo <strong>il</strong> quale la presenza eccessiva di alfasinucleina<br />

interferisce con <strong>il</strong> movimento proteico all’interno delle cellule 4 .<br />

Basandosi sull’ipotesi <strong>che</strong> le inclusioni contribuiscono a ledere le cellule,<br />

sono state sv<strong>il</strong>uppate alcune terapie per prevenire gli aggregati e le inclusioni.<br />

In opposizione a quest’idea <strong>il</strong> gruppo diretto da David Housman e<br />

Aleksey Kazantsev ha pubblicato nella rivista Proceedings of the National<br />

Academy of Sciences i risultati di uno studio secondo <strong>il</strong> quale gli aggregati<br />

di proteine mal ripiegate sarebbero per la cellula un mezzo per proteggersi<br />

dagli effetti del cattivo ripiegamento delle proteine. Le inclusioni non<br />

provo<strong>che</strong> rebbero dei danni ma, al contrario, preserverebbero la cellula 5 .<br />

Quando questi autori hanno somministrato a dei topi portatori del modello<br />

<strong>della</strong> corea di Huntington e <strong>della</strong> malattia di Parkinson una sostanza<br />

Un sistema di difesa <strong>della</strong> cellula?<br />

Una cellula sotto stress, al centro dell’immagine, aumenta la produzione di alfasinu-<br />

cleina, una proteina del <strong>cervello</strong>. L’alfasinucleina potrebbe servire per proteggere dai<br />

danni provocati dall’errato ripiegamento delle proteine nelle patologie neurodegenera-<br />

tive come la malattia di Parkinson.<br />

I disturbi del movimento<br />

27


28<br />

denomi nata B2 <strong>che</strong> promuove la formazione di inclusioni, essi hanno<br />

costatato una riduzione dei danni cellulari.<br />

Mark Cookson in Experimental Neurology commentando gli effetti apparentemente<br />

paradossali dell’alfasinucleina, ha ipotizzato <strong>che</strong> a livelli normali,<br />

poco elevati, essa esercita un effetto protettore sulla cellula nervosa 6 .<br />

In caso di stress, per proteggersi la cellula aumenta la produzione di alfasinucleina,<br />

si formano quindi degli aggregati <strong>che</strong> interferiscono con <strong>il</strong> normale<br />

funzionamento. Se i piccoli aggregati si aggregassero tra loro formando<br />

delle inclusioni, la cellula sarebbe protetta dai danni. Una migliore<br />

comprensione del ruolo delle proteine mal ripiegate nelle patologie neurodegenerative<br />

potrà senza dubbio contribuire alla scoperta di nuovi farmaci<br />

in grado di prevenire queste lesioni.<br />

L’infiammazione e la malattia di Parkinson<br />

Nella malattia di Parkinson si osserva la morte prematura di una determinata<br />

popolazione di cellule. La causa di questa patologia è ancora sconosciuta.<br />

Un’ipotesi si basa sul ruolo svolto dall’infiammazione, <strong>che</strong> induce un<br />

accumulo di cellule reattive. James Bower e <strong>il</strong> suo gruppo di ricercatori del<br />

Mayo Clinic College of Medicine hanno paragonato gli incartamenti clinici<br />

di 196 pazienti affetti dalla malattia di Parkinson con quelli di 196 soggetti<br />

controllo. I risultati, pubblicati in Neurology, hanno evidenziato <strong>che</strong> i<br />

pazienti <strong>che</strong> hanno sv<strong>il</strong>uppato la malattia di Parkinson, erano più soggetti<br />

all’asma e al raffreddore allergico rispetto alle persone sane 7 .<br />

Alcune persone potrebbero avere delle risposte immunitarie<br />

<strong>che</strong> provocano sia le reazioni allergi<strong>che</strong> sia la malattia di Parkinson.<br />

I dati suggeriscono <strong>che</strong> alcune persone potrebbero avere delle risposte<br />

immunitarie <strong>che</strong> provocano sia le reazioni allergi<strong>che</strong> sia la malattia di Parkinson.<br />

Seguendo la stessa linea, <strong>il</strong> gruppo di Bower ha constatato <strong>che</strong> i farmaci<br />

<strong>che</strong> bloccano la risposta infiammatoria, come gli antinfiammatori non<br />

steroidei (FANS) potrebbero avere un ruolo protettivo e <strong>che</strong> <strong>il</strong> rischio di<br />

sv<strong>il</strong>uppare la malattia di Parkinson potrebbe essere inferiore per le persone<br />

<strong>che</strong> assumono questo tipo di farmaci.<br />

Nell’insieme, i risultati suggeriscono un nesso tra i fenomeni infiammatori e<br />

la malattia di Parkinson, altri lavori dovranno precisare la relazione tra i due<br />

studi. Comprendendo meglio la natura di questo legame avremo nuove<br />

informazioni sul meccanismo <strong>della</strong> malattia e diventerà quindi possib<strong>il</strong>e<br />

orientare le strategie terapeuti<strong>che</strong>.


Un gruppo diretto da Miguel Hernán ha pubblicato in Neurology uno<br />

studio sim<strong>il</strong>e ai due citati precedentemente 8 . Secondo questo lavoro, gli<br />

uomini <strong>che</strong> hanno assunto dei FANS diversi dall’aspirina (ad esempio l’ibuprofene)<br />

hanno <strong>il</strong> 20% in meno di possib<strong>il</strong>ità di sv<strong>il</strong>uppare la malattia di<br />

Parkin son, mentre le donne alle quali erano stati somministrati i FANS<br />

hanno <strong>il</strong> 20% in più di possib<strong>il</strong>ità di sv<strong>il</strong>uppare questa patologia rispetto alle<br />

persone <strong>che</strong> non assumono farmaci di questo tipo. La differenza uomodonna<br />

è stata una sorpresa, compatib<strong>il</strong>e però con i risultati di altri studi<br />

secondo i quali per i fattori di rischio <strong>della</strong> malattia di Parkinson esiste una<br />

differenza di sesso.<br />

Un altro studio ha dimostrato <strong>che</strong> la minociclina, un antibiotico somministrato<br />

dal 1970 per <strong>il</strong> trattamento dell’acne, inibisce l’infiammazione e protegge<br />

i neuroni. Raymond Swanson e i suoi colleghi dell’University of California<br />

and Veterans Affairs Medical Center, San Francisco, hanno <strong>studia</strong>to<br />

i possib<strong>il</strong>i meccanismi di questa protezione cellulare sulle colture di neuroni<br />

9 . Lo studio pubblicato in Proceedings of the National Academy of<br />

Sciences, mostra <strong>che</strong> la minociclina inibisce la proteina PARP-1, una proteina<br />

<strong>che</strong> reagisce alle lesioni del DNA intensificando l’infiammazione e la<br />

morte cellulare. Gli autori hanno concluso <strong>che</strong> questo farmaco bloccando<br />

la PARP-1 ha un effetto antinfiammatorio e neuroprotettore.<br />

L’effetto antinfiammatorio e di protezione neuronale <strong>della</strong> minociclina<br />

potrebbe avere interessanti implicazioni clini<strong>che</strong>. I risultati ottenuti nei<br />

modelli animali <strong>della</strong> malattia di Parkinson, <strong>della</strong> corea di Huntington e <strong>della</strong><br />

sclerosi laterale amiotrofica (SLA), sono promettenti. I risultati di un test clinico<br />

preliminare pubblicato in Neurology sembra fare <strong>della</strong> minociclina <strong>il</strong><br />

possib<strong>il</strong>e candidato per nuovi test clinici sulla malattia di Parkinson 10 , <strong>che</strong> si<br />

aggiungono a quelli in corso per la corea di Huntington e la SLA.<br />

Gli aspetti genetici <strong>della</strong> malattia di Parkinson<br />

I casi fam<strong>il</strong>iari <strong>della</strong> malattia di Parkinson rappresentano circa <strong>il</strong> 10% del<br />

totale, le mutazioni di almeno cinque geni sono implicate in questa forma<br />

di Parkinson. Studiando i geni i ricercatori hanno acquisito delle conoscenze<br />

sul meccanismo <strong>della</strong> malattia, <strong>che</strong> potrebbero offrire un beneficio<br />

per tutti i pazienti affetti dalla malattia di Parkinson.<br />

Due studi apparsi in Nature hanno esaminato le relazioni tra due geni<br />

diversi, «parkin» e «PINK1», implicati nella forma fam<strong>il</strong>iare <strong>della</strong> malattia di<br />

Parkin son 11, 12 . I due geni collaborano al mantenimento delle funzioni dei 29<br />

I disturbi del movimento


30<br />

mitocondri, le centrali energeti<strong>che</strong> <strong>della</strong> cellula. Questi studi confermano la<br />

vecchia idea secondo la quale una perturbazione <strong>della</strong> funzione mitocondriale<br />

potrebbe contribuire alla genesi <strong>della</strong> malattia di Parkinson.<br />

Il legame delle mutazioni dei due geni «parkin» o «PINK1» con la malattia di<br />

Parkinson era stato descritto precedentemente in individui in cui entrambe<br />

le copie del gene «parkin» o del gene «PINK1» erano difettose. Le persone<br />

con la mutazione in una singola copia del gene possono trasmetterla ai loro<br />

figli, s’ignorava tuttavia le conseguenze al ciò sul piano clinico. Due studi<br />

pubblicati in Archives of Neurology e un terzo apparso in Movement<br />

Disor ders, dimostrano <strong>il</strong> possib<strong>il</strong>e nesso tra la mutazione di una singola<br />

copia del gene e lo sv<strong>il</strong>uppo <strong>della</strong> malattia di Parkinson 13-15 .<br />

Il rischio di sv<strong>il</strong>uppare la malattia di Parkinson è più elevato<br />

nelle persone <strong>che</strong> possiedono una copia difettosa del gene «PINK1»<br />

rispetto ai membri <strong>della</strong> loro famiglia <strong>che</strong> ne possiedono<br />

due copie normali.<br />

Il rischio di sv<strong>il</strong>uppare la malattia di Parkinson è più elevato nelle persone<br />

<strong>che</strong> possiedono una copia difettosa del gene «PINK1» rispetto ai membri<br />

<strong>della</strong> loro famiglia <strong>che</strong> ne possiedono due copie normali. Nelle persone<br />

con una copia difettosa di «parkin», la malattia si manifesta più precocemente<br />

rispetto alla maggior parte delle persone <strong>che</strong> la sv<strong>il</strong>uppano, compresi<br />

i membri <strong>della</strong> famiglia nei quali le due copie sono normali. Dato <strong>che</strong><br />

è molto più frequente avere una copia di geni difettosi <strong>che</strong> due, <strong>il</strong> numero<br />

di persone colpite da queste mutazioni potrebbe essere più elevato<br />

del previsto.<br />

Monitoraggio e trattamento <strong>della</strong> corea<br />

di Huntington<br />

La corea di Huntington è una malattia genetica <strong>che</strong> sopraggiunge generalmente<br />

tra i 40 e i 50 anni. Essa è caratterizzata da uno sv<strong>il</strong>uppo <strong>progressi</strong>vo<br />

di movimenti incontrollati, da disturbi psichici e da un <strong>progressi</strong>vo deterioramento<br />

intellettivo.<br />

Se uno dei due genitori è malato, i figli hanno <strong>il</strong> 50% delle possib<strong>il</strong>ità di<br />

eredi tare <strong>il</strong> gene <strong>della</strong> malattia. Attualmente è a disposizione un test <strong>che</strong><br />

permette di identificare con precisione la presenza <strong>della</strong> mutazione. La<br />

maggior parte delle persone a rischio preferiscono però non sottomettersi<br />

al test poiché non esistono cure o mezzi di prevenzione e pochi trattamenti<br />

per i sintomi.


Una possib<strong>il</strong>e via per <strong>studia</strong>re sia la <strong>progressi</strong>one <strong>della</strong> malattia sia gli eventuali<br />

trattamenti è quella di monitorare le cellule immunitarie «microgliali».<br />

Tali cellule potrebbero infatti contribuire alla malattia sintetizzando delle<br />

sostanze <strong>che</strong> favoriscono l’infiammazione. Un gruppo di ricercatori diretto<br />

da Paola Piccini, ut<strong>il</strong>izzando la tomografia ad emissione di positroni, ha<br />

dimostrato <strong>che</strong> <strong>il</strong> livello di attivazione <strong>della</strong> microglia era correlato con la<br />

gravità clinica <strong>della</strong> corea di Huntington. Pubblicati in Neurology, i risultati<br />

convalidano la tesi dell’implicazione <strong>della</strong> microglia, ed è possib<strong>il</strong>e <strong>che</strong> ciò<br />

sia valido an<strong>che</strong> per altre patologie neurodegenerative 16 .<br />

Un trattamento possib<strong>il</strong>e per la malattia di Huntington consiste nel GDNF,<br />

un fattore neurotrofico derivato dalle cellule gliali (glial-derived neurotrophic<br />

factor) <strong>che</strong> protegge le cellule nervose e ne induce la ricrescita. An<strong>che</strong><br />

se un test clinico di vasta portata è stato abbandonato, nel 2006 sono stati<br />

realizzati degli studi su un numero meno elevato di casi <strong>che</strong> hanno dato<br />

risultati variab<strong>il</strong>i sull’effetto del GDNF nel trattamento <strong>della</strong> malattia di<br />

Parkin son 17-19 . Il GDNF è stato usato nel modello murino <strong>della</strong> corea di<br />

Huntington, in uno studio pubblicato in Proceedings of the National Academy<br />

of Sciences 20 . Il gruppo di Jeffrey Kordower si è servito di un virus<br />

per trasportare <strong>il</strong> GDNF nel <strong>cervello</strong> dei topi ed ha constatato un miglio -<br />

ramento del comportamento, un numero inferiore di neuroni morti e la<br />

riduzione <strong>della</strong> quantità di inclusioni. Altri studi dovranno confermare<br />

o meno se <strong>il</strong> suo uso potrà essere esteso alle persone affette dalla corea<br />

di Huntington.<br />

Sebbene non esista ancora un trattamento contro i processi patologici <strong>che</strong><br />

stanno alla base di questa malattia, sono a disposizione farmaci capaci di<br />

alleviare i sintomi <strong>della</strong> corea di Huntington e di migliorare la qualità di vita<br />

delle persone <strong>che</strong> ne sono colpite. Uno studio clinico su uno di questi trattamenti<br />

è stato pubblicato in Neurology 21 . In questo lavoro, <strong>della</strong> durata di<br />

12 settimane, i pazienti <strong>che</strong> hanno ricevuto la tetrabenazina, hanno avuto<br />

una riduzione significativa dei movimenti incontrollati rispetto ai pazienti<br />

trattati con un placebo.<br />

I disturbi del movimento<br />

31


Le lesioni<br />

del sistema nervoso<br />

Sfruttare <strong>il</strong> pensiero 34<br />

La riparazione del midollo spinale 34<br />

Gli ictus cerebrovascolari 37<br />

I tumori del <strong>cervello</strong> 38<br />

33


34<br />

Nella ricerca sulle lesioni del sistema nervoso centrale (SNC), uno tra i<br />

temi più importanti consiste nello <strong>studia</strong>re in quale modo la ricerca di base<br />

può contribuire allo sv<strong>il</strong>uppo di nuovi trattamenti. Per ora non esistono<br />

delle terapie efficaci, a causa <strong>della</strong> complessità dei meccanismi innescati<br />

dalle tre lesioni primarie del sistema nervoso centrale, i traumi del midollo<br />

spinale, gli ictus e i tumori cerebrali.<br />

I ricercatori hanno <strong>studia</strong>to i fenomeni connessi alla morte cellulare, alla<br />

rigenerazione dei nervi, alla genesi dei tumori, con l’obiettivo di trasformare<br />

le conoscenze acquisite in trattamenti, diretti contro specifi<strong>che</strong> molecole, in<br />

grado di prevenire o riparare le lesioni del sistema nervoso centrale.<br />

Sfruttare <strong>il</strong> pensiero<br />

Una notizia <strong>che</strong> ha destato molto scalpore nella stampa mondiale nel<br />

2006 è quella di un uomo paralizzato <strong>che</strong> con i pensieri è riuscito ad attivare<br />

un computer, un risultato <strong>che</strong> corona decenni di ricerca di base sul<br />

controllo cerebrale del movimento (questo soggetto è discusso an<strong>che</strong><br />

nel capitolo di Neuroetica alla pagina 41). Nello studio p<strong>il</strong>ota, pubblicato<br />

in Nature, John Donoghue, ricercatore alla Brown University e i suoi<br />

colla boratori di Harvard, hanno dimostrato <strong>che</strong> un’interfaccia computer<strong>cervello</strong><br />

può registrare l’attività neuronale <strong>della</strong> corteccia motoria primaria<br />

di una persona trasformandola in specifi<strong>che</strong> attività di apparecchiature<br />

periferi<strong>che</strong> 1 .<br />

Il soggetto in questione, affetto da una paralisi quasi completa, sequela di<br />

un trauma del midollo spinale <strong>che</strong> risaliva a tre anni prima, oggi riesce ad<br />

ut<strong>il</strong>izzare la posta elettronica, accendere <strong>il</strong> televisore e la luce, ad aprire e<br />

chiudere una mano protesica ed eseguire dei gesti semplici con un braccio<br />

multiarticolato. È questo un primo passo verso i robot diretti dal pensiero<br />

<strong>che</strong> potrebbero restituire autonomia alle persone paralizzate da traumi del<br />

sistema nervoso centrale. Gli autori tengono a precisare <strong>che</strong> questa tecnologia<br />

è ancora allo stadio sperimentale.<br />

La riparazione del midollo spinale<br />

Le differenti forme di lesioni del midollo spinale richiedono trattamenti<br />

diversificati, attualmente i ricercatori cercano di combinare le molteplici<br />

strategie terapeuti<strong>che</strong> nel modello animale. La difficoltà sostanziale <strong>che</strong><br />

essi riscontrano è quella di stimolare la rigenerazione degli assoni, le fibre<br />

nervose <strong>che</strong> trasmettono i segnali cerebrali da una cellula all’altra. Il fine è


quello di ottenere delle fibre nervose <strong>che</strong> dopo essere ricresciute nella<br />

giusta direzione si riconnettano ai loro obiettivi, ristab<strong>il</strong>endo in questo<br />

modo la comunicazione interneuronale.<br />

In corrispondenza <strong>della</strong> breccia provocata dalla rottura o dallo schiacciamento<br />

del midollo spinale, si forma un’impenetrab<strong>il</strong>e cicatrice gliale nella<br />

quale sono presenti delle molecole <strong>che</strong> inibiscono la ricrescita degli assoni<br />

e rendono difficoltoso <strong>il</strong> complesso processo <strong>della</strong> guida <strong>della</strong> ricrescita<br />

assonale. Gli scienziati cercano d’identificare e testare delle sostanze<br />

capaci di contrastare gli effetti inibitori <strong>della</strong> crescita assonale.<br />

Tra le sostanze <strong>studia</strong>te troviamo la condroitinasi ABC, un enzima di origine<br />

batterica <strong>che</strong> secondo studi precedenti frena all’interno <strong>della</strong> cicatrice la<br />

formazione di sostanze inibitrici denominate proteoglicani. James Massey<br />

e i suoi colleghi dell’Università di Louisv<strong>il</strong>le, <strong>il</strong> cui studio è stato pubblicato<br />

nel Journal of Neuroscience, dopo avere iniettato la condroitinasi nel<br />

tronco cerebrale di ratti affetti da trauma midollare a livello cervicale,<br />

hanno constatato la ricrescita assonale nel luogo <strong>della</strong> lesione, confermando<br />

in questo modo i risultati precedenti 2 .<br />

I ricercatori <strong>della</strong> Johns Hopkins e dell’Università del Michigan diretti da<br />

Ronald Schnaar hanno affermato in Proceedings of the National Academy<br />

of Sciences di avere scoperto <strong>che</strong> la condroitinasi ABC induce la ricrescita<br />

assonale in un modello animale di trauma midollare. Essi hanno scoperto<br />

inoltre un secondo enzima di origine batterica, la sialidasi, <strong>che</strong> sembra<br />

avere un effetto doppio rispetto alla condroitinasi 3 .<br />

Degli studi valutano le basi biologi<strong>che</strong> <strong>della</strong> ricrescita e<br />

<strong>della</strong> riconnessione assonale.<br />

Oltre a <strong>studia</strong>re gli effetti inibitori <strong>della</strong> ricrescita assonale, altri studi<br />

valutano le basi biologi<strong>che</strong> <strong>della</strong> ricrescita e <strong>della</strong> riconnessione assonale.<br />

In questo ambito tre gruppi di scienziati hanno pubblicato nel 2006 dei<br />

risultati preliminari.<br />

Yuqin Yin e Larry Benowitz, ricercatori al Ch<strong>il</strong>dren’s Hospital di Boston,<br />

hanno riferito in Nature Neuroscience <strong>che</strong> l’oncomodulina, un fattore di<br />

crescita presente naturalmente nell’organismo, ha aumentato da cinque a<br />

sette volte la ricrescita assonale in ratti con una lesione del nervo ottico 4 .<br />

Samuel Pfaff <strong>che</strong> dirige <strong>il</strong> laboratorio del Salk Institute, ha pubblicato<br />

nella rivista Neuron <strong>che</strong> un altro fattore di crescita, <strong>il</strong> fattore di crescita<br />

Le lesioni del sistema nervoso<br />

35


36<br />

dei fibroblasti, stimola la riconnessione degli assoni con i muscoli dopo<br />

la ricrescita assonale 5 . Infine, i ricercatori di Yale diretti da Paul Fors<strong>che</strong>r<br />

hanno affermato in Nature Cell Biology di avere identificato <strong>che</strong> la<br />

miosina II, una proteina implicata nei movimenti cellulari, aiuta a dirigere<br />

la ricrescita neuronale all’estremità dell’assone 6 . Queste scoperte danno<br />

nuova luce ai meccanismi implicati nello sv<strong>il</strong>uppo del sistema nervoso<br />

e potrebbero essere <strong>il</strong> veicolo per stimolare la crescita dei nervi lesi<br />

da traumi.<br />

Per favorire la rigenerazione assonale a livello di una lesione traumatica<br />

del midollo nel ratto, un gruppo di ricercatori <strong>della</strong> Case Western Reserve<br />

University diretto da Jerry S<strong>il</strong>ver ha combinato la condroitinasi ABC<br />

con una sorta di «passerella neuronale». Gli scienziati hanno inserito<br />

un segmento di nervo sciatico dell’animale nella breccia generata dal<br />

trauma, <strong>il</strong> trapianto ha formato un ponte per fac<strong>il</strong>itare l’organizzazione <strong>della</strong><br />

ricresci ta assonale.<br />

Per stimolare la rigenerazione degli assoni ed impedire lo sv<strong>il</strong>uppo <strong>della</strong><br />

cicatrice gliale, i ricercatori hanno poi somministrato regolarmente delle<br />

dosi di condroitinasi ABC con una pompa. In questi animali si è osservato<br />

un netto miglioramento <strong>della</strong> mob<strong>il</strong>ità se paragonato a quello dei ratti <strong>che</strong><br />

avevano subito la stessa procedura ma sostituendo la condroitinasi ABC<br />

con una soluzione salina inattiva. Nei ratti ai quali è stata somministrata la<br />

soluzione salina, non si è osservato né ricrescita assonale, né miglioramento<br />

dei movimenti. I risultati di questo studio sono stati pubblicati nel<br />

Journal of Neuroscience 7 .<br />

An<strong>che</strong> i ricercatori dalla Johns Hopkins University diretti da Douglas Kerr<br />

hanno scelto un approccio sim<strong>il</strong>e. Gli scienziati hanno trapiantato a degli<br />

animali con un trauma del midollo dei neuroni motori, e poi hanno<br />

iniettato nella lesione una miscela di sostanze destinate a neutra lizzare<br />

i segnali <strong>che</strong> inibiscono la ricrescita assonale. In seguito essi hanno<br />

sommi nistrato un fattore di crescita <strong>che</strong> induce gli assoni a connettersi<br />

con i loro obiettivi. Pubblicati in Annals of Neurology, i risultati evi -<br />

denziano un ristab<strong>il</strong>imento parziale <strong>della</strong> funzione motoria negli animali<br />

paralizzati 8 .<br />

Gli studi preliminari realizzati nel modello animale potrebbero in futuro<br />

contribuire a definire dei trattamenti per le persone <strong>che</strong> subiscono dei<br />

traumi midollari.


Gli ictus cerebrovascolari<br />

Nel corso degli ultimi decenni <strong>il</strong> numero di ictus cerebrovascolari (ICV) si è<br />

ridotto in modo considerevole grazie ai farmaci <strong>che</strong> agiscono su due dei<br />

principali fattori di rischio: l’ipertensione arteriosa e <strong>il</strong> colesterolo.<br />

Nell’ICV is<strong>che</strong>mico, secondario all’occlusione di un vaso sanguigno pro -<br />

vo cata da un coagulo di sangue, l’attivatore del plasminogeno di tipo<br />

tissu tale (tPA) dissolve i trombi contribuendo a limitare i danni. Questo<br />

farmaco deve però essere somministrato nelle tre ore <strong>che</strong> seguono<br />

l’episo dio acuto. Nella pratica <strong>il</strong> tPA è poco ut<strong>il</strong>izzato, in parte perché<br />

raramente i pazienti giungono così rapidamente in un servizio specia -<br />

lizzato.<br />

Il registro degli ICV dello stato del Minnesota mostra <strong>che</strong> solamente <strong>il</strong> 2%<br />

delle persone sono state trattate con <strong>il</strong> tPA. Tra gli individui <strong>che</strong> non hanno<br />

beneficiato di questo trattamento, <strong>il</strong> 41% è giunto all’ospedale troppo tardi<br />

e <strong>il</strong> 38% non sapeva specificare con precisione l’orario in cui è sopraggiunta<br />

la sintomatologia. I risultati di questo studio effettuato da Mathew<br />

Reeves, ricer catore alla Michigan State University, sono stati pubblicati<br />

in Neurology 9 .<br />

Il lavoro appena menzionato dimostra come sia importante scoprire dei farmaci<br />

capaci di preservare la funzione cerebrale e migliorare le possib<strong>il</strong>ità di<br />

recupero an<strong>che</strong> se non sono somministrati nelle tre ore <strong>che</strong> seguono l’apparizione<br />

<strong>della</strong> sintomatologia acuta.<br />

L’interesse continua ad essere incentrato sui farmaci <strong>che</strong> dissolvono<br />

i trombi ma con delle finestre terapeuti<strong>che</strong> più ampie.<br />

Un primo passo in questa direzione proviene da un test clinico realizzato<br />

con una sostanza neuroprotettrice <strong>che</strong> limita i danni cerebrali provocati<br />

dagli ICV is<strong>che</strong>mici. Le molecole neuroprotettrici sono <strong>studia</strong>te da una<br />

ventina d’anni, <strong>il</strong> NXY-059 è <strong>il</strong> primo farmaco sv<strong>il</strong>uppato secondo le nuove<br />

norme <strong>della</strong> ricerca clinica sugli ICV. Se questa sostanza è somministrata<br />

nelle sei ore <strong>che</strong> seguono l’esordio <strong>della</strong> sintomatologia acuta, essa riduce<br />

<strong>il</strong> tasso d’invalidità nei seguenti 90 giorni, ma non conduce ad un miglioramento<br />

delle funzioni neurologi<strong>che</strong>. Lo studio multisito è stato realizzato da<br />

Warren Wasiewski, del Western Infirmary a Glasgow in Scozia e pubblicato<br />

nel New England Journal of Medicine 10 . L’interesse continua ad<br />

essere incentrato sui farmaci <strong>che</strong> dissolvono i trombi ma con delle finestre<br />

terapeuti<strong>che</strong> più ampie. 37<br />

Le lesioni del sistema nervoso


38<br />

I tumori del <strong>cervello</strong><br />

I gliomi sono dei tumori cerebrali per i quali non disponiamo ancora di una<br />

terapia, <strong>il</strong> decesso sopraggiunge in generale nei due anni <strong>che</strong> seguono la<br />

diagnosi. L’origine dei gliomi è in gran parte sconosciuta e non esiste una<br />

prevenzione.<br />

La ricerca di base sulla genesi dei gliomi è incentrata sulle relazioni tra le<br />

cellule staminali e le cellule presenti nei tumori, in particolare sulla questione<br />

già esplorata da studi precedenti, di sapere se le cellule staminali<br />

producono delle sostanze <strong>che</strong> promuovono lo sv<strong>il</strong>uppo del tumore.<br />

Jeremy Rich e i suoi colleghi <strong>della</strong> Duke University hanno pubblicato nella<br />

rivista Cancer Research un articolo su un determinato tipo di cellule gliomatose<br />

denominate «stem-cell-like glioma cancer cell» per la loro somiglianza<br />

con le comuni cellule staminali 11 .<br />

I ricercatori hanno esaminato come le cellule del glioma inducono la crescita<br />

del tumore. Le cellule in questione sintetizzano in notevole quantità<br />

una sostanza naturale chiamata fattore di crescita dell’endotelio vascolare<br />

(VEGF) <strong>che</strong> promuove la formazione di vasi sanguigni attraverso i quali<br />

l’ossigeno e le sostanze nutritive giungono alle cellule gliomatose, contribuendo<br />

alla loro proliferazione e al loro sv<strong>il</strong>uppo.<br />

Nel frattempo, gli scienziati del National Institute of Neurological Disorders<br />

and Stroke e del National Cancer Institute diretti da Howard Fine hanno<br />

pubblicato in Cancer Cell, uno studio su un fattore di crescita denominato<br />

fattore di crescita delle cellule staminali (SCF) 12 , <strong>che</strong> sarebbe uno tra i<br />

responsab<strong>il</strong>i dello sv<strong>il</strong>uppo del tumore. Come <strong>il</strong> VEGF, esso contribuisce<br />

alla <strong>progressi</strong>one del tumore, creando un terreno favorevole alla formazione<br />

dei vasi sanguigni. Da qui l’interesse di trovare dei farmaci capaci di<br />

inibire la formazione dei vasi sanguigni tumorali, per privare di sangue e<br />

di ossigeno le cellule patogene.<br />

Per <strong>il</strong> trattamento del glioma, i ricercatori stanno <strong>studia</strong>ndo an<strong>che</strong> <strong>il</strong> potenziale<br />

ruolo terapeutico delle cellule staminali. Un gruppo diretto da Arturo Alvarez-<br />

Buylla, dell’Università <strong>della</strong> California a San Francisco, ha descritto in Neuron<br />

una molecola <strong>che</strong> regola la neurogenesi nell’adulto. Nel topo, quando questa<br />

molecola è stimolata in modo anomalo, induce lo sv<strong>il</strong>uppo di neoplasie invasive.<br />

Tali neoformazioni regrediscono quando cessa la stimolazione 13 . A partire<br />

da questi risultati diventa possib<strong>il</strong>e immaginare dei trattamenti <strong>che</strong> impediscano<br />

lo sv<strong>il</strong>uppo di gliomi maligni bloccando le vie di segnalazione.


Neuroetica<br />

Il placebo nei test clinici 40<br />

La privacy cerebrale 40<br />

Tecnologie emergenti e <strong>cervello</strong> umano 41<br />

Una concezione più dettagliata dell’inco<strong>scienza</strong> 43<br />

39


40<br />

Con la creazione <strong>della</strong> Società di Neuroetica (Neuroethics Society), nel<br />

2006 la neuroetica ha assunto una forma più esplicita. Fondata da auto -<br />

revoli scienziati, avvocati ed etici, questa società gestisce un sito web,<br />

www.neuroethicssociety.org e collabora con due pubblicazioni «partner»,<br />

l’American Journal of Bioethics e <strong>il</strong> Journal of Cognitive Neuroscience.<br />

Nel corso del 2006 sono stati realizzati <strong>progressi</strong> significativi (accompagnati<br />

da accesi dibattiti) in quattro tra gli ambiti più importanti <strong>della</strong> neuroetica:<br />

gli interventi in caso di disturbi emotivi e del comportamento, la<br />

privacy cerebrale, l’impatto delle tecnologie emergenti e l’evoluzione delle<br />

nostre conoscenze sugli stati d’inco<strong>scienza</strong> come ad esempio lo stato<br />

vegetativo persistente.<br />

Il placebo nei test clinici<br />

L’uso del placebo nei test clinici crea un problema etico concreto. Recentemente<br />

si è sv<strong>il</strong>uppato un ampio dibattito a proposito di uno studio realizzato<br />

da Sumant Khanna e pubblicato nel British Journal of Psychiatry. A<br />

circa 150 persone affette da disturbi maniacali è stato somministrato un<br />

placebo in sostituzione del risperidone, un farmaco antipsicotico ut<strong>il</strong>izzato<br />

in questi casi 1 . Alcuni medici hanno espresso un dubbio sulla validità del<br />

consenso informato ottenuto dai pazienti <strong>che</strong> hanno partecipato allo studio,<br />

spiega Ganapati Mudur nel British Medical Journal 2 , la questione è<br />

quella di sapere se le persone affette da disturbi dell’umore sono realmente<br />

in grado di dare un consenso informato.<br />

La privacy cerebrale<br />

Le sempre più sofisticate tecni<strong>che</strong> di imaging cerebrale fanno vac<strong>il</strong>lare i<br />

concetti più radicati sulla mente, come per esempio la nozione dell’inviolab<strong>il</strong>ità<br />

dei pensieri segreti di una persona. Alcuni scienziati hanno sv<strong>il</strong>uppato<br />

delle macchine <strong>della</strong> verità basate sulla risonanza magnetica funzionale<br />

(MRIf). I ricercatori sostengono <strong>che</strong> questo sistema è molto più preciso del<br />

tradizionale poligrafo, <strong>che</strong> valuta e misura le reazioni del sistema nervoso<br />

simpatico.<br />

Feroze Mohamed e i suoi colleghi hanno pubblicato in Radiology 3 i risultati<br />

di uno studio realizzato con la MRIf <strong>che</strong> simula un’inchiesta intrapresa in<br />

seguito ad una sparatoria in un ospedale. I ricercatori hanno identificato<br />

otto regioni del <strong>cervello</strong> significativamente più attive durante l’inganno<br />

rispetto ad una situazione neutra e due regioni in cui l’attività era molto più


importante quando le persone dicevano la verità rispetto ad una situazione<br />

emotivamente indifferente.<br />

Feroze Mohamed e i suoi colleghi hanno pubblicato in Radiology i<br />

risultati di uno studio realizzato con la MRIf <strong>che</strong> simula un’inchiesta<br />

intrapresa in seguito ad una sparatoria in un ospedale. I ricercatori<br />

hanno identificato otto regioni del <strong>cervello</strong> significativamente più attive<br />

durante l’inganno rispetto ad una situazione neutra e due regioni in<br />

cui l’attività era molto più importante quando le persone dicevano la<br />

verità rispetto ad una situazione emotivamente indifferente.<br />

Per ora la maggioranza dei neuroscienziati non ha espresso un’opinione a<br />

questo proposito. Un editoriale di Nature ha fatto appello alla comunità<br />

neuroscientifica, affinché i dubbi e le perplessità siano espresse chiaramente<br />

per essere pronti ad un lungo dibattito pubblico sulle implicazioni<br />

eti<strong>che</strong> di questa tecnologia così come sulla natura <strong>della</strong> sfera privata in sé 4 .<br />

Una nuova tecnica per esaminare i dati forniti dal neuroimaging, denominata<br />

«classificazione dei pattern», permette di predire in modo abbastanza<br />

preciso cosa sta guardando <strong>il</strong> soggetto prima <strong>che</strong> egli ne sia cosciente.<br />

An<strong>che</strong> se questa competenza evoca la preoccupante prospettiva <strong>della</strong><br />

lettura <strong>della</strong> mente, l’uso di questa tecnica per rivelare le menzogne è<br />

conforme alle stesse limitazioni del convenzionale poligrafo <strong>che</strong> disorienta<br />

le reazioni emotive del soggetto, spiega un editoriale di Nature Neuroscience.<br />

L’impatto delle tecni<strong>che</strong> <strong>della</strong> «classificazione dei pattern»<br />

dovrebbe manifestarsi soprattutto a livello <strong>della</strong> ricerca di base, perché<br />

permetterà agli scienziati di cominciare a capire «non solamente dove, ma<br />

an<strong>che</strong> come è trattata l’informazione» 5 .<br />

Un’altra area di interesse è la ricerca di marker biologici, come ad esempio<br />

delle anomalie cerebrali o delle mutazioni geneti<strong>che</strong> specifi<strong>che</strong>, <strong>che</strong> possono<br />

indicare una tendenza alla violenza. Nigel Eastman e Colin Campbell<br />

in Nature Reviews Neuroscience si chiedono se sia possib<strong>il</strong>e considerare la<br />

presenza di questi marker come una causalità in senso giuridico, e se è <strong>il</strong><br />

caso, se è accettab<strong>il</strong>e porre in detenzione preventiva delle persone <strong>che</strong><br />

presentano questi marker, per proteggere la società 6 .<br />

Tecnologie emergenti e <strong>cervello</strong> umano<br />

BrainGate è un test clinico unico nel suo genere <strong>che</strong> ut<strong>il</strong>izza l’interfaccia<br />

<strong>cervello</strong>-computer; <strong>il</strong> numero di Nature del 13 luglio 2006 ha consacrato a<br />

questo soggetto <strong>il</strong> suo articolo di fondo. BrainGate è un braccio robotico 41<br />

Neuroetica


42<br />

sv<strong>il</strong>uppato per Matt Nagle, un paziente tetraplegico a causa di una lesione<br />

al midollo spinale. Egli controlla <strong>il</strong> braccio robotico unicamente con la forza<br />

del pensiero, attraverso i segnali <strong>che</strong> <strong>il</strong> suo <strong>cervello</strong> invia al braccio, come<br />

ad esempio aprire e chiudere la mano (vedi an<strong>che</strong> <strong>il</strong> capitolo sulle lesioni<br />

del sistema nervoso pagina 34). I segnali motori inviati dal <strong>cervello</strong> di Matt<br />

Nagle sono raccolti da 96 elettrodi di un microchip impiantato nella sua<br />

corteccia motoria, decodificati ed ut<strong>il</strong>izzati per controllare i movimenti<br />

<strong>della</strong> protesi.<br />

A differenza di altri tipi di tecnologia destinati alle persone colpite da<br />

paralisi multipla, <strong>che</strong> ut<strong>il</strong>izzano per esempio l’attività elettrica a livello del<br />

cuoio capelluto o legata ai movimenti degli occhi, questa protesi neuro -<br />

motoria non richiede mesi di allenamento e nemmeno la completa attenzione<br />

<strong>della</strong> persona. Leigh Hochberg e i suoi colleghi precisano in Nature<br />

<strong>che</strong> Matt Nagle riesce ad aprire la posta elettronica fittizia o a muovere <strong>il</strong><br />

suo braccio an<strong>che</strong> conversando 7 .<br />

Quando <strong>il</strong> progresso tecnico avrà permesso di accelerare <strong>il</strong> trattamento dell’informazione<br />

e di affinare le possib<strong>il</strong>ità delle protesi neuromotorie si porrà<br />

la questione di quali sono le persone più adatte ad approfittarne e a quali fini<br />

esse dovranno essere ut<strong>il</strong>izzate (terapeutici, finanziari, psicosociali).<br />

Stephen Scott nello stesso numero <strong>della</strong> rivista, evoca la possib<strong>il</strong>ità <strong>che</strong> ut<strong>il</strong>izzando<br />

i circuiti di feed-back già esistenti nel <strong>cervello</strong>, queste protesi finiscano<br />

per modificare in modo sott<strong>il</strong>e la modalità con cui sono organizzati i<br />

segnali cerebrali stessi. Si stab<strong>il</strong>irebbe quindi tra <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> ed i dispositivi<br />

tecnici una simbiosi sempre più stretta, <strong>che</strong> offrirebbe una prospettiva<br />

incoraggiante per le persone colpite da paralisi 8 .<br />

In tutt’altro ambito, i <strong>progressi</strong> costanti del neuroimaging destano delle<br />

preoccupazioni a proposito delle «scoperte accidentali», fatte nel corso di<br />

analisi realizzate per altre ragioni, <strong>che</strong> evidenziano patologie inattese. Gli<br />

studi a questo proposito si moltiplicano. Un gruppo di lavoro costituito da<br />

una cinquantina di specialisti dell’imaging medico, dell’etica biomedica e<br />

del diritto, hanno valutato se i ricercatori avessero l’obbligo di informare di<br />

queste scoperte i pazienti <strong>che</strong> partecipano allo studio e in caso affermativo,<br />

qual è la condotta da adottare 9 .<br />

Le risposte non sono per niente evidenti. Le patologie scoperte in queste<br />

circostanze possono essere molto gravi, esistono tuttavia molti falsi positivi


<strong>che</strong> possono essere chiariti con una seconda analisi valutata da un radiologo<br />

diagnostico. Se avviene una scoperta accidentale nell’ambito di una<br />

ricerca, la persona <strong>che</strong> vi partecipa ha <strong>il</strong> diritto di essere informata, o di non<br />

sapere, o entrambi?<br />

Il gruppo di lavoro raccomanda vivamente ai ricercatori <strong>che</strong> lavorano con <strong>il</strong><br />

neuroimaging di prepararsi all’eventualità di scoperte accidentali e di elaborare<br />

un protocollo <strong>che</strong> deve essere presentato in modo chiaro, come se<br />

fosse parte del consenso informato. A questo proposito futuri lavori<br />

potranno fornire nuove linee guida, nell’intento di garantire l’integrità<br />

scientifica e di dare fiducia al pubblico.<br />

Una concezione più dettagliata dell’inco<strong>scienza</strong><br />

Le ricer<strong>che</strong> effettuate nel 2006 hanno evidenziato insoliti casi di pazienti<br />

colpiti da gravi traumi cerebrali. Henning Voss, Nicholas Schiff e i colleghi<br />

ricercatori di New York, del New Jersey e <strong>della</strong> Nuova Zelanda, hanno<br />

descritto nel Journal of Clinical Investigation <strong>il</strong> recupero spontaneo di un<br />

uomo <strong>che</strong> era stato per 19 anni in uno stato di co<strong>scienza</strong> minima, incapace<br />

di muoversi e di parlare in seguito ad un incidente automob<strong>il</strong>istico 10 . Il suo<br />

stato di salute nel corso degli anni è migliorato, <strong>il</strong> fatto <strong>che</strong> egli abbia<br />

ripreso co<strong>scienza</strong>, recuperato la parola e le sue facoltà cognitive e <strong>che</strong> sia<br />

ora capace di muovere tre arti, costituisce un evento senza precedenti.<br />

Esaminando <strong>il</strong> suo <strong>cervello</strong> con la risonanza magnetica del tensore di diffusione<br />

– una tecnica di imaging non invasiva – i ricercatori hanno dimostrato<br />

la ricrescita assonale <strong>che</strong> ha senza dubbio permesso la formazione di<br />

nuove connessioni tra i neuroni.<br />

Nello stesso articolo gli autori descrivono <strong>il</strong> caso di un altro paziente, an<strong>che</strong><br />

lui vittima di un incidente automob<strong>il</strong>istico, <strong>che</strong> ha passato più di un anno<br />

in uno stato vegetativo persistente e quattro anni in uno stato di co<strong>scienza</strong><br />

minima. Questo paziente non ha dimostrato un miglioramento clinico<br />

parago nab<strong>il</strong>e al primo e neppure una ricrescita assonale, ma i ricercatori non<br />

ne escludono l’eventualità. Essi ritengono <strong>che</strong> degli scan (MRI del tensore<br />

di diffusione, e la tomografia ad emissione di positroni) praticati poco tempo<br />

dopo l’incidente, permetterebbero di valutare meglio le possib<strong>il</strong>ità di ricablaggio<br />

cerebrale ed un’eventuale speranza di recupero a lungo termine.<br />

Sono emerse delle constatazioni incoraggianti sull’attività cerebrale an -<br />

<strong>che</strong> nell’ambito di uno studio diretto da Adrian Owen e pubblicate su 43<br />

Neuroetica


44<br />

Attività cerebrale nello stato vegetativo<br />

Paziente<br />

Volontari sani<br />

Imaging tennis Imaging navigazione spaziale<br />

Una paziente in uno stato vegetativo persistente ha mostrato un’attività nelle stesse aree<br />

cerebrali dei volontari in buona salute quando le si chiedeva di immaginarsi mentre<br />

giocava a tennis o mentre si muoveva nella sua casa.<br />

Science 11 . Una giovane donna, in seguito ad un incidente automob<strong>il</strong>istico<br />

si trova da cinque mesi in uno stato vegetativo persistente. Una MRIf praticata<br />

quando la paziente non dava alcun segno di reattività dimostrava<br />

chiaramente <strong>che</strong> in realtà essa era in grado di realizzare dei compiti cognitivi<br />

complessi.<br />

Quando i ricercatori pronunciavano ad alta voce delle frasi <strong>che</strong> contenevano<br />

talvolta an<strong>che</strong> delle parole con doppio senso, l’attività cerebrale delle<br />

zone del linguaggio <strong>della</strong> paziente presentavano un’attività paragonab<strong>il</strong>e a<br />

quella osservata in persone in buona salute. La sua attività cerebrale era<br />

normale an<strong>che</strong> quando le si chiedeva di immaginarsi mentre giocava a<br />

tennis o passeggiava nel suo appartamento.<br />

Queste osservazioni sono ancora più sconvolgenti poiché testimoniano in<br />

modo chiaro un’attività cerebrale <strong>che</strong> sottende a dei fenomeni normalmente<br />

associati ad uno stato di piena co<strong>scienza</strong>. L’idea dei neuroscienziati<br />

è <strong>che</strong> nelle persone in stato vegetativo possano sussistere delle «isole»


di funzioni intatte, non rivelate dai metodi clinici standard. L’ag<strong>il</strong>ità mentale<br />

di questa donna incapace di qualsiasi movimento sembra convalidare<br />

questa ipotesi e rinnova la speranza di conoscere più nel dettaglio gli stati<br />

di inco<strong>scienza</strong>.<br />

Queste osservazioni sono ancora più sconvolgenti poiché<br />

testimoniano in modo chiaro un’attività cerebrale <strong>che</strong> sottende<br />

a dei fenomeni normalmente associati ad uno stato<br />

di piena co<strong>scienza</strong>.<br />

Dato <strong>che</strong> solo in po<strong>che</strong> persone lo stato di salute migliora, ci si chiede se<br />

conviene ut<strong>il</strong>izzare in modo sistematico degli interventi costosi come la stimolazione<br />

cerebrale profonda o la stimolazione transmagnetica per ottenere<br />

un recupero, an<strong>che</strong> parziale, delle funzioni di comunicazione. Attualmente<br />

sono in corso delle ricer<strong>che</strong> per determinare le circostanze nelle<br />

quali questi interventi potrebbero essere efficaci, i loro risultati potrebbero<br />

aiutare ad identificare i pazienti <strong>che</strong> potrebbero trarne un beneficio.<br />

Neuroetica<br />

45


Le malattie<br />

neuroimmunologi<strong>che</strong><br />

La sclerosi multipla 48<br />

Il bersaglio di un attacco autoimmune 49<br />

Il controllo <strong>della</strong> risposta immunitaria 50<br />

Sistema immunitario e malattia di Alzheimer 51<br />

Il dolore neuropatico 53<br />

La plasticità 55<br />

La depressione come causa di infiammazione 55<br />

47


48<br />

Tra <strong>il</strong> sistema immunitario umano ed <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> sussiste una relazione<br />

spesso complicata. Dal punto di vista immunitario <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> è una regione<br />

priv<strong>il</strong>egiata, esso è popolato da un unico tipo di cellule immunitarie, la<br />

microglia. Per penetrare nell’encefalo, i batteri, i virus e le tossine devono<br />

oltrepassare la barriera emato-encefalica, un compatto strato di cellule<br />

<strong>della</strong> parete vascolare <strong>che</strong> regola <strong>il</strong> passaggio nel <strong>cervello</strong> delle sostanze<br />

contenute nel sangue. Quando questo accade, le cellule immunitarie<br />

accorrono per cercare di combattere l’intruso.<br />

Per errore le cellule immunitarie possono attaccare le normali cellule cerebrali,<br />

considerandole come invasori. Nella sclerosi multipla, le cellule<br />

immunitarie attaccano la mielina <strong>che</strong> avvolge gli assoni nel <strong>cervello</strong> e nel<br />

sistema nervoso centrale. Le cellule immunitarie possono assalire an<strong>che</strong> le<br />

proteine am<strong>il</strong>oidi <strong>che</strong> si formano nel <strong>cervello</strong> delle persone affette dalla<br />

malattia di Alzheimer; l’intensità dell’aggressione è tale <strong>che</strong> i fenomeni<br />

infiammatori generati ledono ulteriormente i neuroni. Un fenomeno sim<strong>il</strong>e<br />

potrebbe essere implicato an<strong>che</strong> nella malattia di Parkinson. (vedi «I disturbi<br />

del movimento», pag. 28).<br />

Il progresso più significativo realizzato dalla neuroimmunologia nel 2006 è<br />

stata la scoperta del meccanismo attraverso <strong>il</strong> quale certe cellule immunitarie<br />

si trasformano e attaccano la mielina nella sclerosi multipla. Altre ricer<strong>che</strong><br />

hanno provato ad ut<strong>il</strong>izzare <strong>il</strong> sistema immunitario per prevenire o<br />

addirittura capovolgere i fenomeni neurodegenerativi osservati nella ma -<br />

lattia di Alzheimer.<br />

La sclerosi multipla<br />

Nella sclerosi multipla la lacerazione <strong>della</strong> copertura di mielina <strong>che</strong> avvolge<br />

gli assoni neuronali, provocata dai ripetuti attacchi del sistema immunitario,<br />

disorganizza i segnali nervosi generando numerosi sintomi clinici. Gli<br />

scienziati ritenevano responsab<strong>il</strong>i di questi assalti le cellule T helper (denominate<br />

T H1), la cui funzione è segnalare al sistema immunitario la presenza<br />

di batteri o di virus all’interno delle cellule. Nel 2005 i ricercatori hanno<br />

scoperto <strong>che</strong> an<strong>che</strong> un altro tipo di cellule T helper, le T H17, svolge un<br />

ruolo essenziale all’inizio degli attacchi immunitari contro la mielina. Estelle<br />

Bettelli, ricercatrice alla Harvard Medical School di Boston, in un articolo<br />

pubblicato dalla rivista Nature, sostiene <strong>che</strong> le cellule T H17 sono <strong>il</strong> prodotto<br />

dell’esposizione delle cellule T immature alla combinazione di due molecole<br />

1 . Una di queste molecole è una proteina segnale chiamata fattore di


crescita beta (TGF-beta), l’altra, l’interleuchina 6 (IL-6), è una molecola<br />

immunitaria sintetizzata dalle cellule T <strong>che</strong> favorisce i fenomeni infiammatori.<br />

I topi sprovvisti di IL-6 non possedevano le cellule T H17 e non hanno<br />

sv<strong>il</strong>uppato la versione animale <strong>della</strong> sclerosi multipla.<br />

Yoichiro Iwakura e Harumichi Ishigame hanno scoperto <strong>che</strong> un fattore di<br />

crescita denominato interleuchina 23 (IL-23), trasforma le cellule T immature<br />

in cellule T H17 2 . Pubblicati nel Journal of Clinical Investigation, i risultati<br />

mostrano <strong>che</strong> bloccando l’IL-23 i ricercatori sono riusciti a ridurre in<br />

modo significativo lo sv<strong>il</strong>uppo <strong>della</strong> versione animale sia <strong>della</strong> sclerosi multipla,<br />

sia di un’altra malattia autoimmune denominata malattia infiammatoria<br />

dell’intestino. Alla luce dei risultati di questi due studi, è possib<strong>il</strong>e ipotizzare<br />

delle terapie <strong>che</strong> impedendo alle cellule T immature di differenziarsi<br />

in cellule T H17, potrebbero essere ut<strong>il</strong>izzate per curare alcune malattie<br />

auto immuni, tra le quali la sclerosi multipla.<br />

Il bersaglio di un attacco autoimmune<br />

In un’altra malattia infiammatoria, la neuromielite ottica, <strong>il</strong> sistema immunitario<br />

aggredisce la mielina <strong>che</strong> avvolge <strong>il</strong> nervo ottico, provocando una<br />

cecità parziale o totale. La neuromielite ottica è talvolta confusa con una<br />

manifestazione precoce <strong>della</strong> sclerosi multipla. Recentemente i ricercatori<br />

hanno scoperto <strong>che</strong> un anticorpo denominato NMO-IgG, <strong>che</strong> attacca la<br />

mielina nella neuromielite ottica, non è presente nei pazienti affetti da<br />

sclerosi multipla, suggerendo <strong>che</strong> questa malattia corrisponde ad uno stato<br />

patologico ben distinto.<br />

L’anticorpo NMO-IgG potrebbe svolgere un ruolo an<strong>che</strong> nella mielite trasversa,<br />

una malattia nella quale <strong>il</strong> sistema immunitario aggredisce la mielina<br />

degli assoni del midollo spinale, provocando una paralisi o dei disturbi<br />

motori. Brian Weinshenker e i suoi colleghi <strong>della</strong> Mayo Clinic hanno<br />

descritto in Annals of Neurology <strong>che</strong> circa <strong>il</strong> 40% dei pazienti gravemente<br />

colpiti da mielite trasversa risulta positivo l test per l’NMO-IgG; più <strong>della</strong><br />

metà di loro ha subito una recidiva nei 12 mesi seguenti. I pazienti senza<br />

l’anticorpo non avevano ricadute 3 .<br />

Prima di questa scoperta i medici non avevano nessuno strumento per identificare<br />

i pazienti <strong>il</strong> cui midollo spinale rischiava di essere <strong>il</strong> bersaglio di un<br />

nuovo attacco. Grazie al biomarker appena scoperto, essi possono identificare<br />

le persone <strong>che</strong> rischiano una recidiva, inclusi quelli <strong>che</strong> soffrono di mielite<br />

trasversa, ed è quindi giustificato un trattamento immunosoppressore. 49<br />

Le malattie neuroimmunologi<strong>che</strong>


50<br />

Qual è <strong>il</strong> bersaglio dell’anticorpo autoimmune NMO-IgG? Nel 2006 i ricercatori<br />

<strong>della</strong> Mayo Clinic diretti da Vanda Lennon, hanno scoperto <strong>che</strong> per<br />

errore quest’anticorpo è diretto contro l’aquaporina-4, una proteina scoperta<br />

di recente nel sistema nervoso centrale, <strong>che</strong> permette all’acqua di<br />

entrare ed uscire dalle cellule 4 . L’aquaporina-4 è prodotta essenzialmente<br />

dagli astrociti cerebrali, le cellule a forma di stella <strong>che</strong> rinforzano la barriera<br />

emato-encefalica e <strong>che</strong> impediscono <strong>il</strong> passaggio di sostanze nocive dal<br />

sangue al <strong>cervello</strong>.<br />

Sono stati evidenziati alti tassi di acquaporina-4 nel nervo ottico, nel<br />

midollo spinale e in certe regioni del tronco cerebrale, tutti possib<strong>il</strong>i obiettivi<br />

del sistema immunitario nelle persone affette da neuromielite ottica.<br />

Attraverso i vasi sanguigni, gli anticorpi NMO-IgG possono passare nel<br />

<strong>cervello</strong> e attaccare l’acquaporina-4. La scoperta dell’anticorpo NMO-IgG<br />

come marker <strong>della</strong> neuromielite ottica rappresenta un progresso essenziale<br />

per la diagnosi di questa malattia.<br />

Il controllo <strong>della</strong> risposta immunitaria<br />

Una risposta immunitaria incontrollata a livello cerebrale può generare<br />

delle malattie come la sclerosi multipla o <strong>il</strong> lupus eritematoso sistemico, ma<br />

cosa fa perdere <strong>il</strong> controllo al sistema immunitario?<br />

Una risposta immunitaria incontrollata a livello cerebrale<br />

può generare delle malattie come la sclerosi multipla<br />

o <strong>il</strong> lupus eritematoso sistemico, ma cosa fa perdere <strong>il</strong> controllo<br />

al sistema immunitario?<br />

Le <strong>che</strong>mochine inviano dei segnali alle cellule e regolano lo schieramento<br />

delle cellule immunitarie, i leucociti. Un gruppo diretto da Richard M.<br />

Ransohoff ha descritto in Nature Neuroscience <strong>che</strong> le fractalchine, una<br />

variante rara delle <strong>che</strong>mochine, costituiscono un elemento essenziale<br />

per <strong>il</strong> controllo <strong>della</strong> risposta immunitaria a livello cerebrale 5 . Liberando<br />

le fractal chine, le cellule immunitarie del <strong>cervello</strong> (la microglia) reprimono<br />

risposte eccessive da parte delle altre cellule implicate nella risposta<br />

immunitaria.<br />

Lavorando su un modello di patologie come la malattia di Parkinson o la<br />

sclerosi laterale amiotrofica, Ransohoff ha costatato <strong>che</strong> i topi nei quali era<br />

stato soppresso <strong>il</strong> gene <strong>che</strong> codifica per le fractalchine sembravano normali,<br />

ma i loro neuroni erano molto più danneggiati dalle reazioni infiammatorie<br />

eccessive.


CX3CR1 +/–<br />

CX3CR1 –/–<br />

Problemi nel controllo del sistema immunitario<br />

I topi senza <strong>il</strong> recettore per fractalchina (in basso), una proteina presente nelle cellule<br />

infiammatorie del <strong>cervello</strong>, aumentano nel tempo l’attività <strong>della</strong> microglia (da sinistra<br />

a destra). Questo aumento provoca danni neuronali maggiori nei modelli animali di<br />

malattie umane.<br />

a c e<br />

b d f<br />

Sistema immunitario e malattia di Alzheimer<br />

Nella malattia di Alzheimer si accumulano nel <strong>cervello</strong> dei frammenti di una<br />

proteina: la sostanza beta am<strong>il</strong>oide. Il sistema immunitario reagisce e interviene<br />

per cercare di distruggere questo deposito indesiderato. Ne conseguono<br />

dei fenomeni infiammatori <strong>che</strong> sicuramente peggiorano la malattia,<br />

o addirittura potrebbero esserne la causa. Nel 2002 <strong>il</strong> test clinico di un vaccino<br />

terapeutico per ridurre <strong>il</strong> volume delle plac<strong>che</strong> di sostanza beta am<strong>il</strong>oide<br />

è stato interrotto a causa <strong>della</strong> gravità dei sintomi infiammatori generati<br />

dalla risposta immunitaria nel <strong>cervello</strong> di alcuni pazienti.<br />

Michal Schwartz e i suoi colleghi del Weizmann Institute of Science in<br />

Israele, ritengono <strong>che</strong> sia possib<strong>il</strong>e trasformare le cellule T <strong>che</strong> generano i<br />

sintomi infiammatori, in alleati efficaci e sicuri per combattere le plac<strong>che</strong>. In<br />

un articolo pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences,<br />

i ricercatori sostengono di avere realizzato un’immunizzazione terapeutica<br />

somministrando a dei topi geneticamente predisposti alla formazione<br />

<strong>della</strong> sostanza am<strong>il</strong>oide, un modulatore del sistema immunitario<br />

ut<strong>il</strong>izzato nel trattamento <strong>della</strong> sclerosi multipla denominato glatiramer 51<br />

Le malattie neuroimmunologi<strong>che</strong>


52<br />

acetato (Copaxone). Tale trattamento, <strong>che</strong> stimola le cellule T, riduce le<br />

plac<strong>che</strong> e promuove la crescita delle cellule nell’ippocampo, fondamentale<br />

per le capacità mnemoni<strong>che</strong> e di apprendimento 6 .<br />

I ricercatori attribuiscono l’effetto positivo del trattamento alla produzione<br />

da parte delle cellule microgliali dell’ormone IGF-1, <strong>il</strong> fattore di crescita<br />

insulino-sim<strong>il</strong>e. L’IGF-1, sarebbe prodotto al posto <strong>della</strong> citochina TNFalpha<br />

(fattore di necrosi tumorale alfa) <strong>che</strong> innesca la reazione infiammatoria<br />

distruttiva. Secondo gli autori, una strada possib<strong>il</strong>e nel trattamento <strong>della</strong><br />

malattia di Alzheimer consiste nel cercare di modulare la riposta immunitaria.<br />

Il risultato di questi trattamenti potrebbe permettere di attaccare la<br />

sostanza am<strong>il</strong>oide senza generare devastanti reazioni infiammatorie.<br />

Schwartz ha dimostrato inoltre <strong>che</strong> se s’iniettano nel <strong>cervello</strong> dei topi le cellule<br />

T, esse contribuiscono alla nascita dei neuroni nelle regioni <strong>che</strong> come<br />

l’ippocampo sono devastate dalla malattia di Alzheimer. I ricercatori hanno<br />

paragonato i cervelli di due gruppi di topi vissuti entrambi in un ambiente<br />

stimolante, con molti giochi e oggetti nuovi: <strong>il</strong> primo gruppo era costituito<br />

da topi normali, <strong>il</strong> secondo da topi affetti da immunodeficienza combinata<br />

grave (SCID) privi di cellule T. Schwartz e <strong>il</strong> suo gruppo hanno costatato<br />

<strong>che</strong> a livello dell’ippocampo, un’area fondamentale nei processi di memorizzazione,<br />

nel primo gruppo di animali si osserva un’importante neurogenesi,<br />

quasi totalmente assente nei topi privi di cellule T.<br />

Nel 2006 si è rivelato promettente an<strong>che</strong> un altro approccio, basato sulla soppressione<br />

dell’infiammazione. Dei ricercatori diretti da Edward Tobinick, dell’Università<br />

<strong>della</strong> California di Los Angeles, hanno realizzato uno studio p<strong>il</strong>ota<br />

<strong>della</strong> durata di sei mesi durante <strong>il</strong> quale hanno somministrato a 15 persone<br />

colpite da una forma da moderata a grave <strong>della</strong> malattia di Alzheimer, delle<br />

iniezioni settimanali di etanercept, un farmaco <strong>che</strong> limita l’azione del TNFalpha<br />

e <strong>che</strong> ha un efficace effetto antinfiammatorio nell’artrite 7 .<br />

I partecipanti a questo studio hanno presentato un miglioramento significativo<br />

delle loro funzioni mentali. Lo studio rafforza quindi la tesi secondo<br />

la quale l’infiammazione in sé stessa contribuisce in modo importante alla<br />

demenza nella malattia di Alzheimer e <strong>che</strong> se si riuscisse a reprimerla,<br />

sarebbe possib<strong>il</strong>e rallentare o arrestare <strong>il</strong> declino mentale.<br />

I ricercatori <strong>della</strong> Case Western Reserve University, tuttavia, contestano la<br />

teoria secondo la quale le plac<strong>che</strong> di sostanza am<strong>il</strong>oide e le manifestazioni


infiammatorie <strong>che</strong> esse generano, sono l’origine <strong>della</strong> malattia. Secondo<br />

questi ricercatori, i sintomi risulterebbero dallo stress ossidativo, una<br />

produ zione eccessiva di sostanze ossidanti, <strong>che</strong> distruggono i neuroni. Gli<br />

autori di un articolo apparso in Current Alzheimer Research, Hyoung-gon<br />

Lee, Mark Smith, George Perry e i loro colleghi ritengono <strong>che</strong> le plac<strong>che</strong> di<br />

proteina beta am<strong>il</strong>oide rappresentano <strong>il</strong> tentativo del <strong>cervello</strong> di fron -<br />

teggiare lo stress ossidativo 8 . Essi sostengono <strong>che</strong> è <strong>il</strong>lusorio pensare di<br />

guarire la malattia di Alzheimer liberando <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> dalle plac<strong>che</strong> di beta<br />

am<strong>il</strong>oide, sarebbe invece più proficuo trovare l’origine e combattere lo<br />

stress ossidativo.<br />

Un gruppo di ricercatori <strong>della</strong> Case Western Reserve University<br />

sostiene <strong>che</strong> è <strong>il</strong>lusorio pensare di guarire la malattia di Alzheimer<br />

liberando <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> dalle plac<strong>che</strong> di beta am<strong>il</strong>oide.<br />

Un gruppo di ricercatori <strong>della</strong> Northwestern University Medical School<br />

diretti da Abdelhak Belmadani ha scoperto <strong>che</strong> le <strong>che</strong>mochine, oltre ad<br />

inviare segnali per regolare l’attività dei leucociti, governano la migrazione<br />

dei progenitori neuronali verso i luoghi d’infiammazione del <strong>cervello</strong>, compresi<br />

quelli provocati <strong>della</strong> malattia di Alzheimer. Quando l’infiammazione<br />

lede le cellule nervose, gli astrociti attivano le <strong>che</strong>mochine, <strong>che</strong> dirigono<br />

i progenitori neuronali adulti verso <strong>il</strong> luogo dove si trovano queste<br />

cellule lese.<br />

Tali scoperte potrebbero indirizzare le ricer<strong>che</strong> verso dei farmaci <strong>che</strong> stimolano<br />

<strong>il</strong> recupero dopo una lesione cerebrale, incoraggiando la migrazione<br />

di cellule neuronali progenitrici verso <strong>il</strong> luogo <strong>della</strong> lesione. I ricercatori<br />

<strong>della</strong> Northwestern nel Journal of Neuroscience 9 sostengono <strong>che</strong><br />

questo meccanismo potrebbe permettere la rigenerazione di nuovi neuroni<br />

per ripopolare l’ippocampo danneggiato dalla malattia di Alzheimer.<br />

Il dolore neuropatico<br />

Altre ricer<strong>che</strong> hanno analizzato <strong>il</strong> ruolo <strong>della</strong> microglia nel dolore neuropatico,<br />

un dolore cronico, spesso insopportab<strong>il</strong>e, <strong>che</strong> persiste a lungo dopo<br />

<strong>che</strong> <strong>il</strong> trauma, l’infezione o la tossina <strong>che</strong> l’ha originato è sparito. (vedi a<br />

questo proposito <strong>il</strong> capitolo «Il dolore», pagina 58).<br />

Il dolore neuropatico può sopraggiungere dopo la lesione dei nervi periferici,<br />

i nervi <strong>che</strong> non fanno parte del <strong>cervello</strong> e del midollo spinale. Secondo<br />

dei ricercatori dell’Università di Toronto diretti da Michael Salter, questa<br />

risposta anormale è una conseguenza dell’attività delle cellule microgliali<br />

Le malattie neuroimmunologi<strong>che</strong><br />

53


54<br />

La microglia media <strong>il</strong> dolore<br />

Dopo una lesione ai nervi periferici, la microglia si attiva nel corno dorsale del midollo<br />

spinale, rendendo i neuroni ipersensib<strong>il</strong>i. Questo genera una sensazione di dolore<br />

an<strong>che</strong> quando non sono presenti stimoli dolorosi.<br />

<strong>che</strong> una volta attivate liberano una sostanza chiamata BDNF (brain-derived<br />

neurotrophic factor), <strong>che</strong> intensifica i segnali del dolore trasmessi tra la<br />

microglia e i neuroni.<br />

Tale fenomeno interrompe i normali meccanismi <strong>della</strong> soppressione del<br />

dolore, esacerbando la sensib<strong>il</strong>ità dei neuroni an<strong>che</strong> in assenza di stimoli<br />

dolorosi. Secondo questa ricerca, pubblicata nell’European Journal of<br />

Physiology, i meccanismi di comunicazione delle cellule microgliali potrebbero<br />

costituire un obiettivo promettente per dei trattamenti volti a ridurre<br />

<strong>il</strong> dolore cronico dei nervi periferici 10 .<br />

Degli scienziati del Columbia University Medical Center hanno presentato<br />

una domanda di brevetto per dei farmaci <strong>che</strong> bloccano <strong>il</strong> dolore cronico<br />

inibendo un enzima denominato proteina chinasi G (PKG). I ricercatori<br />

hanno spiegato in Neuroscience <strong>che</strong> l’attività <strong>della</strong> PKG contribuisce<br />

all’ipereccitab<strong>il</strong>ità dei neuroni e ai segnali di dolore persistente <strong>che</strong> generano<br />

quest’ipereccitab<strong>il</strong>ità 11 . Essi hanno constatato <strong>che</strong> quando si inibiva la<br />

PKG, <strong>il</strong> dolore spariva, un’osservazione <strong>che</strong> rende questo enzima un obiettivo<br />

farma cologico ideale.


La plasticità<br />

Quando <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> giovane è vittima di un trauma, esso cerca di ristab<strong>il</strong>ire<br />

<strong>il</strong> suo cablaggio con vigore. Questo comportamento spontaneo è denominato<br />

plasticità cerebrale, un meccanismo <strong>che</strong> s’indebolisce <strong>progressi</strong>vamente<br />

con l’età. Dei ricercatori <strong>della</strong> Harvard Medical School hanno<br />

scoperto <strong>che</strong> la causa di questo indebolimento potrebbe essere una proteina<br />

del sistema immunitario chiamata «paired-immunoglobulin-like<br />

receptor-B» (PirB). Il gruppo diretto da Josh Syken ha pubblicato in<br />

Science un articolo nel quale spiega <strong>che</strong> nel corso <strong>della</strong> vita la facoltà di<br />

ricablaggio è conservata più a lungo nei topi privi di questa proteina 12 .<br />

Sembra dunque <strong>che</strong> un farmaco capace di inibire la proteina PirB potrebbe<br />

aiutare <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> a ristab<strong>il</strong>ire le connessioni interneuronali lese da un<br />

trauma del midollo spinale, da un ictus cerebrovascolare o da altro.<br />

La depressione come causa di infiammazione<br />

Alcuni ricercatori <strong>della</strong> Emory University School of Medicine di Atlanta,<br />

hanno constatato <strong>che</strong> esiste un legame tra sistema immunitario, depressione<br />

e stress in età precoce. Una risposta infiammatoria eccessiva allo<br />

stress può sensib<strong>il</strong>izzare l’organismo alle manifestazioni delle malattie<br />

infiammatorie.<br />

L’esposizione allo stress si traduce generalmente in una produzione<br />

maggiore di interleuchine-6 (IL-6) <strong>che</strong> favorisce i fenomeni infiammatori. Il<br />

gruppo diretto da Andrew H. M<strong>il</strong>ler e Christine Heim, <strong>il</strong> cui lavoro è stato<br />

pubblicato nell’American Journal of Psychiatry, ha chiesto a 28 uomini, di<br />

cui la metà soffriva di una depressione grave e aveva subito uno stress<br />

in età precoce, di risolvere dei problemi di calcolo e di parlare in pubblico,<br />

dei compiti <strong>che</strong> incrementano lo stress, dopo di <strong>che</strong> hanno dosato nel<br />

sangue l’IL-6 13 .<br />

Il tasso di IL-6 aumenta in tutti i partecipanti, ma l’incremento è doppio nel<br />

gruppo delle persone depresse. Questo studio è stato <strong>il</strong> primo a suggerire<br />

l’esistenza di un nesso tra la depressione maggiore, lo stress nella vita<br />

intrauterina e la salute generale.<br />

Le malattie neuroimmunologi<strong>che</strong><br />

55


Il dolore<br />

Scoperto un commutatore generale del dolore cronico 58<br />

L’anticipare <strong>il</strong> dolore può essere peggio del dolore stesso 59<br />

Dal pesticida all’antalgico 60<br />

La «contagiosità emotiva» del dolore 61<br />

C’è placebo e placebo 61<br />

57


58<br />

Il dolore è un grave problema non solamente per i medici ma an<strong>che</strong> per<br />

la società. Negli Stati Uniti <strong>il</strong> costo economico valutato come giornate lavorative<br />

perse, sommate alle spese per le cure, si avvicina ogni anno ai<br />

100 m<strong>il</strong>iardi di dollari (fonte: Partners Against Pain). Nel 2006 gli scienziati<br />

hanno fatto <strong>progressi</strong> nella comprensione dei meccanismi legati al dolore<br />

acuto e cronico, così come nello sv<strong>il</strong>uppo di mezzi per alleviarlo.<br />

Un gruppo di ricercatori ha identificato un «commutatore generale» del<br />

dolore neuropatico, una forma di dolore molto differente dal dolore acuto<br />

provocato da un trauma. Un altro gruppo ha constatato <strong>che</strong> l’anticipazione<br />

del dolore può essere peggio del dolore stesso. Degli scienziati <strong>che</strong><br />

<strong>studia</strong>va no dei pesticidi, hanno scoperto fortuitamente un inibitore di un<br />

enzima <strong>che</strong> potrebbe alleviare <strong>il</strong> dolore di tipo infiammatorio senza aumentare<br />

<strong>il</strong> rischio di infarto del miocardio se associato a farmaci come <strong>il</strong> rofe -<br />

coxib (Vioxx). Alcuni ricercatori canadesi hanno scoperto <strong>che</strong> i topi provano<br />

empatia, essi diventano sensib<strong>il</strong>i al dolore quando vedono dei<br />

congeneri soffrire. Altri ricercatori sostengono <strong>che</strong> l’effetto placebo di un<br />

trattamento antalgico dipende dal tipo di placebo e dalla situazione nella<br />

quale è somministrato.<br />

Scoperto un commutatore generale<br />

del dolore cronico<br />

Il dolore neuropatico secondario alla lesione dei nervi «periferici», situati al<br />

di fuori del <strong>cervello</strong> e del midollo spinale, è caratterizzato da una sensazione<br />

persistente di dolore lancinante o di bruciore. Esso è poco sensib<strong>il</strong>e<br />

agli oppioidi, gli analgesici più potenti a disposizione <strong>che</strong> comprendono la<br />

morfina, la codeina e l’ossicodone (Oxycontin).<br />

I ricercatori <strong>della</strong> Harvard Medical School diretti da Qiufu Ma hanno<br />

annunciato in Neuron di avere scoperto una sorta di «commutatore generale»<br />

del dolore neuropatico 1 . Si tratta del gene Runx 1, espresso unicamente<br />

nelle cellule nervose sensoriali denominate cellule nocicettive, <strong>che</strong><br />

attraverso i canali ionici <strong>della</strong> loro membrana, trasformano gli stimoli dolorosi<br />

in segnali nervosi.<br />

I ricercatori hanno esposto dei topi «knock-out» (nei quali <strong>il</strong> gene Runx 1 è<br />

stato soppresso) a stimoli termici, meccanici, infiammatori e neuropatici<br />

misurando la loro risposta al dolore in funzione del tempo <strong>che</strong> essi impiegavano<br />

a ritirare la zampa o se la leccavano.


I topi hanno risposto agli stimoli dolorosi di natura meccanica, ma non<br />

hanno dimostrato nessuna reazione agli stimoli termici, neuropatici e<br />

infiammatori. Lo sv<strong>il</strong>uppo delle loro cellule nocicettive era alterato e i canali<br />

ionici, <strong>che</strong> partecipano alla percezione del dolore termico e neuropatico,<br />

erano inesistenti.<br />

Gli autori ritengono <strong>che</strong> questa scoperta potrebbe avere importanti implicazioni<br />

nello sv<strong>il</strong>uppo di trattamenti più efficaci per <strong>il</strong> dolore neuropatico,<br />

<strong>che</strong> consistono per esempio nell’impedire l’espressione del gene Runx 1.<br />

L’anticipare <strong>il</strong> dolore può essere peggio del dolore stesso<br />

L’attesa di un’iniezione o di un intervento medico doloroso, per certe<br />

persone è più diffic<strong>il</strong>e da sopportare del dolore generato da questi gesti.<br />

Come dimostrato da uno studio pubblicato in Science, l’apprensione per<br />

<strong>il</strong> dolore può essere per certe persone più diffic<strong>il</strong>e da sopportare del<br />

dolore stesso.<br />

Studiando i meccanismi biologici dell’apprensione attraverso l’imaging<br />

cerebrale, un gruppo di ricercatori <strong>della</strong> Emory University School of Medicine<br />

diretti da Gregory Berns ha costatato <strong>che</strong> circa un terzo dei volontari<br />

<strong>che</strong> hanno subito delle scari<strong>che</strong> elettri<strong>che</strong> preferivano ricevere subito una<br />

scarica più forte, piuttosto <strong>che</strong> aspettare una scossa di minore intensità. Ai<br />

volontari sdraiati in un apparecchio per la risonanza magnetica nucleare,<br />

sono state somministrate nel piede 96 scosse d’intensità variab<strong>il</strong>e. La maggior<br />

parte di queste persone ha preferito ricevere una scossa elettrica più<br />

intensa, ma con un’attesa più breve.<br />

Lo studio indica <strong>che</strong> per la maggior parte dei volontari l’attesa <strong>della</strong> scossa<br />

elettrica era diffic<strong>il</strong>e da sopportare 2 . Gli individui <strong>che</strong> non potevano tollerare<br />

l’attesa e <strong>che</strong> ricevevano immediatamente una scarica più dolorosa,<br />

sono stati classificati nella categoria «apprensione estrema». Le persone<br />

<strong>che</strong> preferivano aspettare più a lungo una scarica di minore entità, nella<br />

categoria «apprensione moderata».<br />

I risultati mostrano <strong>che</strong> più la persona teme l’evento,<br />

più i centri nocicettivi del suo <strong>cervello</strong> si concentrano sull’attesa.<br />

Le immagini prodotte dalla risonanza magnetica mostrano <strong>che</strong> certe parti<br />

<strong>della</strong> «matrice algica» del <strong>cervello</strong>, la rete di strutture cerebrali sensib<strong>il</strong>i agli<br />

stimoli nocicettivi, tra cui <strong>il</strong> dolore, mostravano segni di attività prima <strong>che</strong><br />

l’individuo ricevesse la scossa elettrica. Nelle regioni cerebrali implicate<br />

Il dolore<br />

59


60<br />

nelle reazioni di timore e di ansia non è stata dimostrata una differenza <strong>che</strong><br />

ha permesso di distinguere tra le due categorie di apprensione. I risultati<br />

evidenziano <strong>che</strong> più la persona teme l’evento, più i centri nocicettivi del<br />

suo <strong>cervello</strong> si concentrano sull’attesa.<br />

Non è ancora chiaro <strong>il</strong> legame tra queste constatazioni e <strong>il</strong> modo in cui<br />

l’essere umano gestisce eventi sgradevoli, ma lo studio dei meccanismi<br />

neuro biologici <strong>che</strong> sottendono all’apprensione potrebbe fornire delle indicazioni<br />

per gestire più efficacemente <strong>il</strong> dolore.<br />

Dal pesticida all’antalgico<br />

Dopo <strong>il</strong> ritiro dal mercato del popolare farmaco Vioxx (rofecoxib), i ricercatori<br />

dell’Università <strong>della</strong> California a Davis potrebbero avere scoperto per<br />

caso un modo più sicuro per fronteggiare <strong>il</strong> dolore nelle persone <strong>che</strong> soffrono<br />

di artrite o altre malattie infiammatorie.<br />

L’obiettivo di questi ricercatori, totalmente estranei alle questioni antal -<br />

gi<strong>che</strong>, era quello di trovare dei pesticidi biologici <strong>che</strong> permettevano di<br />

regolare lo sv<strong>il</strong>uppo delle larve d’insetti. Nel corso del loro lavoro hanno<br />

scoperto un nuovo enzima umano <strong>che</strong> blocca indirettamente la produzione<br />

<strong>della</strong> COX2, una proteina con un ruolo attivo nel dolore e nel -<br />

l’infiammazione.<br />

La combinazione di questo enzima e dell’inibitore <strong>della</strong> COX2 permetterebbe<br />

di alleviare <strong>il</strong> dolore infiammatorio, riducendo gli effetti secondari<br />

provocati dai farmaci somministrati. Lavorando con dei roditori, i ricercatori<br />

hanno constatato <strong>che</strong> l’enzima in questione aveva la stessa efficacia di<br />

basse dosi di rofecoxib o celecoxib (Celebrex), un altro inibitore <strong>della</strong><br />

COX2, senza indurre però i cambiamenti chimici del sangue connessi alle<br />

gravi complicazioni cardiovascolari, come l’infarto del miocardio, apparsi<br />

nel corso di uno studio realizzato in precedenza e <strong>che</strong> hanno motivato <strong>il</strong><br />

ritiro del Vioxx.<br />

Gli autori, <strong>il</strong> cui lavoro è stato pubblicato in Proceedings of the National<br />

Academy of Sciences 3 , ritengono <strong>che</strong> la combinazione dei due inibitori<br />

<strong>della</strong> COX2 permette una riduzione notevole delle dosi di inibitore necessarie<br />

per <strong>il</strong> trattamento dell’infiammazione. Questa combinazione sembra<br />

indurre sulla chimica del sangue una riduzione <strong>della</strong> tendenza alla formazione<br />

di coaguli sanguigni, l’origine più frequente dell’infarto del mio -<br />

cardio. Il trattamento combinato permetterebbe tra l’altro di risolvere


<strong>il</strong> d<strong>il</strong>emma sull’uso dei potenti inibitori <strong>della</strong> COX2 per curare <strong>il</strong> dolore<br />

infiammatorio.<br />

La «contagiosità emotiva» del dolore<br />

Studi realizzati in passato hanno dimostrato <strong>che</strong> delle esperienze fatte in<br />

età precoce e certi fattori sociali possono aggravare <strong>il</strong> dolore cronico.<br />

Alcuni scienziati tedeschi hanno dimostrato <strong>che</strong> alcuni fattori sociali alterano<br />

la funzione cerebrale, rafforzando la sensazione di dolore 4 . Un altro<br />

studio ha mostrato <strong>che</strong> degli episodi di dolore subiti all’inizio <strong>della</strong> vita<br />

influenzano <strong>il</strong> modo di vivere <strong>il</strong> dolore all’età adulta 5 . Secondo un recente<br />

lavoro diretto da Jeffrey Mog<strong>il</strong>, pubblicato in Science, la risposta al dolore<br />

nei topi è più intensa alla presenza di un altro topo <strong>che</strong> soffre, l’empatia<br />

svolge quindi un ruolo nel dolore 6 .<br />

Inducendo dei dolori addominali tramite l’iniezione di acido acetico, i ricercatori<br />

del McG<strong>il</strong>l University’s Pain Genetics Laboratory, hanno determinato<br />

<strong>che</strong> i topi abituati gli uni agli altri dimostrano un tipo di empatia definita<br />

«contagio emotivo». L’animale riconosce lo stato emotivo dell’altro topo e<br />

si adatta. I ricercatori hanno scoperto <strong>che</strong> questi animali diventavano più<br />

sensib<strong>il</strong>i all’acido acetico se vedevano i loro sim<strong>il</strong>i soffrire in seguito ad uno<br />

stimolo termico doloroso.<br />

I topi interagiscono tra loro attraverso i ferormoni, delle sostanze chimi<strong>che</strong><br />

<strong>che</strong> permettono ai membri di una stessa specie di comunicare. Dopo avere<br />

bloccato l’olfatto, la visione e l’udito dei topi, gli autori hanno costatato <strong>che</strong><br />

essi avevano conservato la facoltà di percepire <strong>il</strong> dolore dei loro congeneri,<br />

esiste quindi tra questi animali una forma di comunicazione <strong>che</strong> influenza<br />

la risposta al dolore.<br />

Dato <strong>che</strong> l’interazione sociale svolge un ruolo importante nel comportamento<br />

indotto dal dolore cronico, le osservazioni fatte dal gruppo <strong>della</strong><br />

McG<strong>il</strong>l potrebbero essere ut<strong>il</strong>i per lo studio del dolore umano. Le scoperte<br />

fatte sul modello del topo potrebbero essere usate per <strong>studia</strong>re i meccanismi<br />

cerebrali umani implicati nel dolore, oltre <strong>che</strong> <strong>il</strong> ruolo dei fattori sociali<br />

nella sua gestione.<br />

C’è placebo e placebo<br />

Oltre 50 anni fa, un medico anestesista di Harvard, Henry K. Bee<strong>che</strong>r ha<br />

descritto per la prima volta l’effetto placebo. Per effetto placebo si intende<br />

<strong>il</strong> fenomeno per <strong>il</strong> quale i sintomi di un paziente sono alleviati grazie 61<br />

Il dolore


all’assunzione di un farmaco privo di principi attivi. Il gesto terapeutico è<br />

sufficiente per alleviare i sintomi a condizione <strong>che</strong> <strong>il</strong> paziente crede <strong>che</strong> <strong>il</strong><br />

trattamento sia efficace.<br />

In due studi pubblicati rispettivamente dal British Medical Journal e dal<br />

Journal of Neuroscience un gruppo diretto da Ted Kaptchuk, ricercatore al<br />

Osher Institute <strong>della</strong> Harvard Medical School, ha dimostrato <strong>che</strong> l’effetto<br />

placebo può essere modulab<strong>il</strong>e in relazione al tipo di placebo prescritto,<br />

così come al contesto nel quale è somministrato 7, 8 .<br />

L’effetto placebo può essere modulab<strong>il</strong>e in relazione al tipo di placebo<br />

prescritto, così come alla situazione nella quale è somministrato.<br />

62<br />

Nel primo di questi due studi, <strong>il</strong> gruppo di Kaptchuk ha somministrato<br />

un’agopuntura fittizia a 135 pazienti <strong>che</strong> soffrivano di forti dolori al braccio,<br />

altri 135 pazienti hanno ricevuto una pastiglia priva di principio attivo.<br />

I risultati si sono rivelati identici. Nel secondo studio, i trattamenti fittizi<br />

sono continuati in metà dei pazienti di ogni gruppo, l’altra metà ha ricevuto<br />

un trattamento attivo.<br />

I pazienti trattati con l’agopuntura fittizia hanno percepito un miglioramento<br />

del dolore più marcato rispetto a quelli <strong>che</strong> hanno ricevuto le pastiglie.<br />

Secondo Kaptchuk, <strong>il</strong> rituale implicato dall’agopuntura rinforza maggiormente<br />

l’effetto placebo, un’ipotesi di lavoro <strong>che</strong> con i suoi colleghi<br />

continua ad esplorare.<br />

Nella fase <strong>che</strong> comprendeva an<strong>che</strong> dei trattamenti attivi, i ricercatori hanno<br />

usato la risonanza magnetica nucleare per determinare quali sono i sistemi<br />

cerebrali attivati dall’agopuntura fittizia. Alcuni studi precedenti avevano<br />

evidenziato un ruolo importante nell’effetto placebo <strong>della</strong> corteccia prefrontale,<br />

dello striato e del tronco cerebrale. I ricercatori hanno costatato<br />

una forte associazione tra determinate regioni del <strong>cervello</strong> e l’effetto placebo.<br />

Tra queste, la corteccia insulare anteriore, <strong>che</strong> attiva le sensazioni<br />

fisi<strong>che</strong> come <strong>il</strong> dolore. Questi studi confermano <strong>che</strong> l’effetto placebo si<br />

manifesta con dei precisi cambiamenti delle funzioni cerebrali.


I disturbi psichiatrici, del comportamento<br />

e le dipendenze<br />

La schizofrenia 64<br />

Violenza e aggressione 66<br />

I disturbi d’ansia 67<br />

La depressione 68<br />

Il suicidio negli adolescenti 69<br />

La dipendenza alla cocaina 70<br />

63


64<br />

Come nel 2005, an<strong>che</strong> nel 2006 la ricerca sulla salute mentale ha continuato<br />

a <strong>studia</strong>re <strong>il</strong> ruolo dei geni e delle loro interazioni con i fattori ambientali<br />

nei disturbi psichiatrici. La novità del 2006 è costituita dall’attenzione<br />

agli aspetti clinici e genetici dei trattamenti.<br />

La ricerca sulla schizofrenia ha analizzato l’efficacia dei farmaci antipsicotici<br />

di recente commercializzazione, paragonandoli ai predecessori. Gli studi<br />

genetici sulla depressione si sono concentrati sulla ricerca di predittori dell’efficacia<br />

dei trattamenti antidepressivi e sugli eventuali nessi tra questi<br />

trattamenti e <strong>il</strong> suicidio. I ricercatori hanno inoltre cercato di capire se <strong>il</strong> trattamento<br />

antidepressivo assunto da una madre aumenta l’eventualità <strong>che</strong> i<br />

figli sv<strong>il</strong>uppino dei sintomi depressivi.<br />

La schizofrenia<br />

I farmaci antipsicotici costituiscono da molto tempo <strong>il</strong> trattamento principale<br />

per i pazienti affetti da schizofrenia. Purtroppo molte di queste molecole<br />

inducono sgradevoli effetti collaterali a causa dell’effetto inibitorio<br />

sul sistema dopaminergico. Spesso gli psichiatri preferiscono prescrivere<br />

degli antipsicotici di seconda generazione o «atipici», <strong>che</strong> riducono <strong>il</strong><br />

rischio di bloccare la trasmissione di dopamina nelle regioni del <strong>cervello</strong><br />

non direttamente implicate nella malattia. La questione da capire é se i farmaci<br />

di questa nuova classe terapeutica sono più efficaci e meglio tollerati<br />

dai pazienti rispetto agli antipsicotici di prima generazione.<br />

Secondo gli studi realizzati nel 2005 e nel 2006 da Jeffrey Lieberman e<br />

dai suoi colleghi, la maggior parte dei nuovi farmaci non è più efficace e<br />

nemmeno meglio tollerata. Il lavoro pubblicato nel 2005, non rivela nessuna<br />

differenza di efficacia tra i farmaci antipsicotici di prima e di seconda<br />

generazione 1 . Per quel <strong>che</strong> concerne la tolleranza, <strong>il</strong> tasso di abbandono<br />

<strong>della</strong> terapia farmacologica è un po’ ridotto con l’olanzapina, una molecola<br />

di seconda generazione in relazione agli altri farmaci, purtroppo però<br />

questo medicinale induce un fastidioso aumento di peso e altri effetti colla -<br />

terali metabolici.<br />

Gli stessi ricercatori hanno pubblicato nel 2006, nell’American Journal of<br />

Psychiatry, due studi nei quali hanno esaminato più dettagliatamente i<br />

tratta menti antipsicotici. Le persone affette da schizofrenia cronica <strong>che</strong><br />

perseverano nel trattamento sono più numerose con l’olanzapina e <strong>il</strong> risperidone<br />

rispetto agli antipsicotici atipici 2 .


Differenze tra farmaci antipsicotici<br />

Il ricercatore Jeffrey Lieberman ha paragonato l’efficacia degli antipsicotici di prima e di<br />

seconda generazione dimostrando <strong>che</strong> i nuovi farmaci sono globalmente meno efficaci.<br />

Nelle persone <strong>che</strong> non hanno tratto beneficio dagli antipsicotici atipici, gli<br />

autori si sono interessati all’efficacia <strong>della</strong> clozapina, un farmaco di ultimo<br />

ricorso a causa dei gravi effetti collaterali. I pazienti rispondono meglio alla<br />

clozapina rispetto ad un secondo antipsicotico atipico 3 .<br />

In uno studio indipendente realizzato a Cambridge in Gran Bretagna, Peter<br />

Jones e <strong>il</strong> suo gruppo di ricercatori, hanno <strong>studia</strong>to l’efficacia degli antipsicotici<br />

di seconda generazione nel trattamento <strong>della</strong> schizofrenia cronica. Ai<br />

partecipanti è stato prescritto in modo randomizzato un farmaco di prima o<br />

di seconda generazione. I pazienti sono stati seguiti per un anno da un<br />

medico all’oscuro del tipo di farmaco <strong>che</strong> essi assumevano. Il medico valutava<br />

i sintomi, gli effetti collaterali e la qualità di vita.<br />

Il gruppo di Peter Jones ipotizzava <strong>che</strong> i farmaci atipici fossero più efficaci<br />

dei loro predecessori, i risultati hanno tuttavia dimostrato <strong>il</strong> contrario. La<br />

reazione al trattamento e la qualità di vita erano migliori nei pazienti <strong>che</strong><br />

assumevano dei farmaci di prima generazione rispetto agli altri 4 .<br />

Come previsto, gli psichiatri sono rimasti stupiti dagli studi di Jeffrey Lieberman<br />

e di Peter Jones. I risultati suggeriscono <strong>che</strong> gli antipsicotici atipici dovrebbero<br />

essere riservati ai pazienti resistenti ai farmaci di prima generazione. 65<br />

I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze


66<br />

I neuroni dopaminergici sono sempre al centro <strong>della</strong> ricerca sulle cause<br />

<strong>della</strong> schizofrenia. I primi studi attribuivano alla secrezione eccessiva di<br />

dopamina una delle ragioni possib<strong>il</strong>i dei disturbi del comportamento osservati<br />

nella malattia. Secondo Michael O’Donovan, Michael Owen e i loro<br />

collaboratori, un’anomalia nel funzionamento delle cellule gliali potrebbe<br />

essere una causa <strong>della</strong> malattia. I ricercatori si sono basati sull’osservazione<br />

di differenze strutturali e volumetri<strong>che</strong> <strong>della</strong> materia bianca del <strong>cervello</strong><br />

(costituita dalle connessioni nervose) osservate post-mortem o con <strong>il</strong><br />

neuro imaging, tra persone affette da schizofrenia e soggetti in buona<br />

salute. Le cellule gliali sono parte del sistema nervoso centrale, esse producono<br />

la mielina, una sostanza isolante costituita da lipidi e da proteine<br />

<strong>che</strong> avvolge gli assoni dei neuroni e permette all’influsso nervoso di passare<br />

più fac<strong>il</strong>mente da una cellula cerebrale all’altra.<br />

I neuroni dopaminergici sono sempre al centro <strong>della</strong><br />

ricerca sulle cause <strong>della</strong> schizofrenia.<br />

Il loro studio, pubblicato in Proceedings of the National Academy of Sciences,<br />

indica <strong>che</strong> la variazione di un gene chiamato OLIG2, <strong>che</strong> regola la produzione<br />

di mielina, rende vulnerab<strong>il</strong>i alla schizofrenia le persone portatrici<br />

di questo gene. Secondo i ricercatori, ulteriori ricer<strong>che</strong> sui geni <strong>che</strong> controllano<br />

la produzione <strong>della</strong> mielina potranno migliorare le nostre conoscenze<br />

sui complessi meccanismi implicati nella genesi <strong>della</strong> schizofrenia 5 .<br />

Violenza e aggressione<br />

Da centinaia di anni si cerca di capire cosa porta l’uomo ad essere violento<br />

e ad aggredire i suoi sim<strong>il</strong>i. L’aspetto socio-ambientale di questa questione<br />

è stato ampiamente esplorato, l’analisi <strong>della</strong> componente genetica è stata<br />

invece più difficoltosa e ha dato adito a molteplici contestazioni.<br />

Il nesso genetico con i comportamenti violenti di cui oggi siamo più certi<br />

riguarda la monoamminossidasi A (MAOA), un enzima direttamente implicato<br />

nella degradazione metabolica di un neurotrasmettitore, la serotonina.<br />

Andreas Meyer-Lindenberg e <strong>il</strong> suo gruppo hanno pubblicato in<br />

Procee dings of the National Academy of Sciences i risultati di un lavoro<br />

nel quale <strong>il</strong> ruolo <strong>della</strong> MAOA è stato <strong>studia</strong>to con la tecnica denominata<br />

«morfometria basata sui voxel» (VBM: voxel-based morphometry). Un’innovativa<br />

tecnica di risonanza magnetica <strong>che</strong> si avvale di una particolare<br />

analisi morfometrica in grado di evidenziare an<strong>che</strong> modeste differenze<br />

del tessuto cerebrale non percepib<strong>il</strong>i con la risonanza magnetica tradizionale.<br />

I ricercatori hanno evidenziato delle differenze strutturali e funzionali


Il gene collegato alla violenza<br />

I risultati ottenuti con due tipi di risonanza magnetica, evidenziano delle differenze cere-<br />

brali nelle persone con una variante genetica collegata all’aggressività. In particolare<br />

sono ridotti <strong>il</strong> volume e l’attività di una regione, la corteccia del cingolo anteriore ( in gri-<br />

gio scuro). Questa regione controlla l’aggressività e le emozioni.<br />

significative nel <strong>cervello</strong> tra le persone violente senza antecedenti psichiatrici<br />

ma portatrici di una variante genetica <strong>che</strong> indebolisce l’espressione<br />

<strong>della</strong> MAOA e le persone <strong>che</strong> esprimono maggiormente la MAOA.<br />

Le persone con un’espressione ridotta <strong>della</strong> MAOA presentano una riduzione<br />

del volume di materia grigia a livello del giro del cingolo, dell’amigdala<br />

e <strong>della</strong> corteccia del cingolo anteriore. Mostrano inoltre un aumento<br />

dell’attività nell’amigdala e nelle regioni limbi<strong>che</strong>, strutture implicate nel<br />

trattamento degli stimoli emotivi, quando è chiesto loro di distinguere tra<br />

volti arrabbiati e spaventati.<br />

Gli autori hanno r<strong>il</strong>evato an<strong>che</strong> una differenza legata al sesso; l’attività dell’amigdala<br />

e l’ippocampo è più marcata negli uomini rispetto alle donne<br />

quando devono svolgere un test di memoria con una componente emotiva.<br />

Hanno notato <strong>che</strong> se sono molteplici i fattori <strong>che</strong> concorrono nei comportamenti<br />

violenti, potrebbe esserci una predisposizione biologica alla<br />

violenza impulsiva, in particolare nelle persone di sesso masch<strong>il</strong>e portatrici<br />

di questa variante genetica 6 .<br />

I disturbi d’ansia<br />

I geni sono stati an<strong>che</strong> al centro <strong>della</strong> ricerca sui disturbi d’ansia. Lavorando<br />

sul modello murino, Carrolee Barlow e i suoi colleghi del Salk Institute<br />

hanno identificato 17 geni la cui espressione è associata ai tipici sintomi 67<br />

I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze


68<br />

ansiosi. In uno studio pubblicato in Nature, gli autori ipotizzano come<br />

causa dei disturbi di tipo ansioso, due geni associati allo stress ossidativo.<br />

L’aumento <strong>della</strong> produzione di ossidanti porta alla morte dei neuroni.<br />

Dopo avere trasferito i geni nelle cellule di topo con l’aus<strong>il</strong>io di virus, i ricercatori<br />

hanno constatato un inasprimento del comportamento di tipo<br />

ansioso tra i topi <strong>che</strong> li esprimevano maggiormente 7 .<br />

Nello stesso ordine di idee, <strong>il</strong> gruppo diretto da David Goldman ha <strong>studia</strong>to<br />

i geni associati ad uno specifico disturbo d’ansia : i disturbi ossessivi compulsivi.<br />

I ricercatori hanno costatato <strong>che</strong> l’HTT, <strong>il</strong> gene per <strong>il</strong> trasportatore<br />

<strong>della</strong> serotonina, è implicato in questi disturbi. In un articolo pubblicato nel<br />

American Journal of Human Genetics, essi discutono la scoperta di una<br />

terza variante genetica del HTTLPR, mentre fino ad ora si riteneva esistessero<br />

solo due varianti. Diversi metodi di analisi genotipica hanno permesso<br />

di evidenziare una variante di questo gene <strong>che</strong> potrebbe rivoluzionare la<br />

nostra concezione neurobiologica dei disturbi ossessivi compulsivi 8 . Forse<br />

questi nuovi approcci genetici permetteranno di comprendere le cause<br />

finora diffic<strong>il</strong>i da cogliere di queste alterazioni del comportamento.<br />

La depressione<br />

La stimolazione cerebrale profonda continua a suscitare interesse per <strong>il</strong><br />

trattamento delle depressioni resistenti ai farmaci classici. I nuovi studi di<br />

Helen Mayberg e dei suoi colleghi <strong>della</strong> Emory University potrebbero<br />

chiarire se questa tecnica può venire estesa con profitto ad altre categorie<br />

di pazienti 9 .<br />

Tra gli altri temi <strong>studia</strong>ti, ci sono i fattori genetici <strong>che</strong> influenzano la risposta<br />

ai trattamenti antidepressivi abituali. Gli scienziati diretti da Francis McMahon<br />

hanno <strong>studia</strong>to le basi geneti<strong>che</strong> delle differenze individuali nei trattamenti<br />

antidepressivi. Studiando <strong>il</strong> DNA di 1953 pazienti affetti da depressione<br />

maggiore e trattati con <strong>il</strong> citalopram, un antidepressivo comune, i<br />

ricercatori hanno evidenziato un nesso significativo tra i buoni risultati terapeutici<br />

e la variante A del HTR2A, <strong>il</strong> gene responsab<strong>il</strong>e <strong>della</strong> sintesi del<br />

recettore alla serotonina. I risultati di questo studio sono stati pubblicati<br />

nell’American Journal of Human Genetics 10 .<br />

La variante A sarebbe sei volte più frequente nei soggetti di tipo caucasico<br />

rispetto ai pazienti afroamericani, questo potrebbe spiegare la minore<br />

sensi b<strong>il</strong>ità al citalopram di questi pazienti. I risultati forniscono degli elementi<br />

determinanti sul ruolo di questo gene nell’attività antidepressiva


dei farmaci e potrebbero spiegare le differenze nella risposta terapeutica<br />

osservate secondo l’origine dei pazienti.<br />

Quando le madri sono curate con dei farmaci antidepressivi<br />

per tre mesi, nei loro figli si osserva una riduzione <strong>della</strong> diagnosi<br />

di depressione e di altre malattie.<br />

Myrna Weissman e i suoi collaboratori hanno <strong>il</strong>lustrato un fenomeno interessante<br />

sulla depressione del bambino. È noto da molto tempo <strong>che</strong> i figli<br />

di genitori depressi hanno un rischio maggiore di sv<strong>il</strong>uppare a loro volta dei<br />

sintomi di depressione. Il gruppo <strong>della</strong> Weissman ha riportato nel Journal<br />

of the American Medical Association, <strong>che</strong> quando le madri sono curate<br />

con successo con dei farmaci antidepressivi per tre mesi, nei loro figli si<br />

osserva una riduzione <strong>della</strong> diagnosi di depressione e di altre malattie.<br />

Inversamente, i figli delle madri <strong>che</strong> restano depresse mostrano un<br />

aumento dei sintomi, ciò indica <strong>che</strong> dei fattori ambientali possono influire<br />

sulla psicopatologia di bambini ad alto rischio 11 .<br />

Il suicidio negli adolescenti<br />

Un gruppo di ricercatori diretto da Mark Olfson si è interessato ad un<br />

aspetto diverso del trattamento antidepressivo: la sua relazione con i tentativi<br />

di suicidio e i decessi osservati negli adulti e nei bambini. I risultati<br />

dello studio, pubblicati in Archives of General Psychiatry permettono di<br />

concludere l’assenza di un nesso fra trattamento antidepressivo e tentativi<br />

di suicidio o morte nell’adulto, ma è stato dimostrato un legame nei bambini<br />

e negli adolescenti. Alla luce di questi risultati occorre rendere attenti<br />

medici e genitori ai trattamenti farmacologici prescritti ai giovani pazienti 12 .<br />

La neurobiologia <strong>della</strong> depressione indotta dallo stress è <strong>il</strong> soggetto dello<br />

studio pubblicato in Nature Neuroscience da Eric Nestler e <strong>il</strong> suo gruppo.<br />

Gli autori hanno sottoposto dei topi ad uno stress cronico di frustrazione<br />

sociale, un precursore frequente dei disturbi depressivi. I ricercatori hanno<br />

osservato <strong>che</strong> lo stress ha ridotto la produzione del fattore neurotrofico<br />

BDNF nell’ippocampo e ha indotto dei cambiamenti in specifi<strong>che</strong> proteine<br />

associate alla trascrizione dei geni, un fenomeno chiamato met<strong>il</strong>azione<br />

degli istoni.<br />

In seguito i ricercatori hanno somministrato un trattamento antidepres -<br />

sivo sotto forma di dose quotidiana di imipramina. La molecola antidepressiva<br />

ha invertito gli effetti osservati, come se fosse stata somministrata<br />

I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze<br />

69


70<br />

un’infusione di BDNF. I risultati sembrano dimostrare <strong>che</strong> la met<strong>il</strong>azione<br />

degli istoni e i fenomeni a lei connessi, potrebbero essere un possib<strong>il</strong>e bersaglio<br />

interessante per i farmaci antidepressivi 13 .<br />

Mi<strong>che</strong>l Lazdunski e i suoi collaboratori hanno identificato un’altra area di<br />

interesse per i trattamenti antidepressivi. Secondo lo studio pubblicato<br />

in Nature Neuroscience, <strong>il</strong> TREK-1, un canale al potassio regolato dalla<br />

serotonina, è implicato nella resistenza alla depressione nei topi. I topi<br />

privi del canale TREK-1 dimostrano una notevole resistenza alla depressione<br />

sotto stress, questo canale potrebbe quindi essere l’obiettivo per dei<br />

farmaci antidepressivi 14 .<br />

La dipendenza alla cocaina<br />

Il desiderio di droga è la conseguenza di una maggiore secrezione di dopamina?<br />

Perché le immagini, i suoni o altri elementi <strong>che</strong> evocano l’uso di droghe<br />

possono innescare an<strong>che</strong> molti anni dopo delle reazioni condizionate<br />

in ex-tossicodipendenti?<br />

Grazie a degli studi di neuroimaging è noto <strong>che</strong> questo tipo di reazione è<br />

associata ad un’attivazione di determinate strutture del sistema limbico.<br />

Ut<strong>il</strong>izzando la tomografia ad emissione di positroni, un gruppo diretto da<br />

Nora Volkow ha evidenziato una secrezione condizionata di dopamina<br />

nello striato dorsale di ex-consumatori di cocaina ai quali è mostrato un<br />

video con delle scene connesse alla tossicomania.<br />

A giudicare dai risultati pubblicati nel Journal of Neuroscience, sembra <strong>che</strong><br />

i farmaci <strong>che</strong> impediscono una secrezione eccessiva di dopamina possano<br />

avere un ruolo ut<strong>il</strong>e nel trattamento delle dipendenze 15 .<br />

L’imaging funzionale ha an<strong>che</strong> mostrato <strong>che</strong> le immagini connesse alla tossicomania<br />

attivano diverse regioni del <strong>cervello</strong> tra le quali la corteccia prefrontale<br />

e l’amigdala. Queste strutture sono in relazione con l’area tegmentale<br />

ventrale (ATV), i cambiamenti sinaptici <strong>della</strong> quale posono orientare i<br />

ricercatori verso le cause neurobiologi<strong>che</strong> delle dipendenze, delle disintossicazioni<br />

e delle ricadute.<br />

Mu-Ming Poo e <strong>il</strong> suo gruppo hanno pubblicato in Nature Neuroscience i<br />

risultati di uno studio nel corso del quale hanno esaminato i neuroni dopaminergici<br />

dell’ATV di ratti in astinenza da cocaina. Gli scienziati hanno<br />

constata to in questi neuroni un livello più elevato di fattore neurotrofico


cerebrale (BDNF). Secondo gli autori è possib<strong>il</strong>e <strong>che</strong> l’aumento di secrezione<br />

del BDNF connesso alla disintossicazione induca sui neuroni dopaminergici<br />

dell’ATV un effetto eccitante: innesca una serie di reazioni <strong>che</strong><br />

inducono un forte desiderio di droga nelle persone <strong>che</strong> ricordano <strong>il</strong> loro<br />

passato di consumatore 16 .<br />

I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze<br />

71


I disturbi sensoriali<br />

e delle funzioni corporee<br />

Udito: la rigenerazione delle cellule cigliate<br />

nei mammiferi 74<br />

Come è possib<strong>il</strong>e riconoscere un volto 75<br />

La detezione dei feromoni 76<br />

I circuiti del sonno REM 76<br />

Orologi circadiani e alimentazione 77<br />

Identificato <strong>il</strong> recettore dell’acidità 79<br />

Cellule staminali e visione 79<br />

73


Grazie al progresso delle tecnologie, gli scienziati possono esplorare i<br />

complessi meccanismi del funzionamento cerebrale ed arricchire le loro<br />

conoscenze sui rapporti tra <strong>il</strong> <strong>cervello</strong>, i sensi e le funzioni corporee. È un<br />

ambito molto vasto; dagli strumenti <strong>della</strong> genomica ut<strong>il</strong>izzati per esplorare<br />

<strong>il</strong> meccanismo del sonno a movimenti oculari rapidi, all’influenza degli<br />

orologi circadiani sull’alimentazione, all’identificazione di una regione del<br />

<strong>cervello</strong> interamente dedicata al riconoscimento dei volti. Nel 2006 la<br />

<strong>scienza</strong> ha risposto a questioni fondamentali sull’udito, l’olfatto, <strong>il</strong> gusto e<br />

la visione.<br />

Udito: la rigenerazione delle cellule cigliate<br />

nei mammiferi<br />

La sordità neurosensoriale, una malattia attualmente irreversib<strong>il</strong>e, costi -<br />

tuisce la causa di perdita dell’udito più frequente negli Stati Uniti. Essa è<br />

la conseguenza di un danno alle cellule cigliate dell’orecchio interno in<br />

seguito all’età, all’esposizione a rumori particolarmente intensi e all’uso<br />

di determinati farmaci. Gli scienziati <strong>che</strong> cercano di sv<strong>il</strong>uppare nuovi<br />

trattamen ti per certi tipi di sordità, hanno appreso con soddisfazione la<br />

notizia secondo la quale queste cellule indispensab<strong>il</strong>i per l’udito potrebbero<br />

rigenerarsi.<br />

Questo lavoro lascia sperare <strong>che</strong> in futuro dei farmaci potranno<br />

riuscire a vincere certe forme di sordità nell’uomo.<br />

74<br />

Le cellule sensoriali dell’orecchio interno, la coclea, si rigenerano negli<br />

uccelli e in altri vertebrati inferiori, ma non nell’uomo o nei mammiferi in<br />

generale. Le cellule cigliate interessano da molto tempo gli scienziati <strong>che</strong><br />

cercano nuovi trattamenti per la perdita neurosensoriale dell’udito. In uno<br />

studio pubblicato su Nature, Ne<strong>il</strong> Seg<strong>il</strong>, Andy Groves e i loro colleghi del<br />

House Ear Institute di Los Angeles hanno scoperto <strong>che</strong> un gene denominato<br />

p27Kip1, o semplicemente p27, ostacola la divisione cellulare nell’orecchio<br />

interno 1 .<br />

Lavorando sulle cellule sensoriali di topo in coltura, i ricercatori hanno scoperto<br />

<strong>che</strong> negli animali appena nati questo gene è s<strong>il</strong>ente, per permettere<br />

alle cellule di sostegno di moltiplicarsi e di differenziarsi in cellule cigliate.<br />

Nelle colture di cellule di topi di due settimane al contrario, <strong>il</strong> gene p27 è<br />

attivo e blocca la divisione cellulare. I ricercatori hanno osservato <strong>che</strong> se<br />

nelle cellule di topi di due settimane <strong>il</strong> gene p27 è soppresso, si formano le<br />

cellule cigliate. La disattivazione del gene potrebbe quindi permettere di


Peli nelle orecchie<br />

Le cellule cigliate dell’orec-<br />

chio interno, riprese con un<br />

microscopio elettronico, nor -<br />

malmente non si rigenerano.<br />

I ricercatori hanno dimo-<br />

strato <strong>che</strong> inibendo l’attività<br />

di un gene nel topo, le cel-<br />

lule cigliate ricrescono rista-<br />

b<strong>il</strong>endo l’udito.<br />

ottenere una ricrescita delle cellule cigliate dell’orecchio interno così da<br />

ristab<strong>il</strong>ire le facoltà uditive.<br />

Questo fenomeno <strong>che</strong> per ora è stato evidenziato solo su colture di cellule<br />

di topo, lascia sperare <strong>che</strong> in futuro dei farmaci riusciranno a vincere certe<br />

forme di sordità nell’uomo.<br />

Come è possib<strong>il</strong>e riconoscere un volto<br />

Uno studio pubblicato in Science sostiene l’idea di alcuni neuroscienziati<br />

<strong>che</strong>, contrariamente ad altri, considerano <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> come un mosaico di<br />

regioni specializzate per lo svolgimento di specifici compiti 2 . Nell’ambito di<br />

questo studio, dei ricercatori <strong>della</strong> Harvard Medical School e dell’Università<br />

di Brema in Germania, hanno identificato un’area <strong>della</strong> corteccia visiva<br />

in cui tutti i neuroni sono specializzati per un unico compito: la percezione<br />

dei volti.<br />

Nell’uomo esistono dei neuroni specializzati la cui unica funzione<br />

è quella del riconoscimento dei volti.<br />

Ut<strong>il</strong>izzando la risonanza magnetica funzionale, un gruppo diretto da Margaret<br />

Livingstone ha identificato tre zone <strong>della</strong> corteccia cerebrale del<br />

macaco <strong>che</strong> apparentemente svolgono un ruolo importante nel riconoscimento<br />

dei volti. Dopo avere mostrato ai macachi 96 fotografie di volti,<br />

mani, corpi, frutti, oggetti diversi e delle immagini geometri<strong>che</strong>, i ricercatori<br />

hanno registrato l’attività elettrica individuale dei neuroni nella più<br />

grande delle tre regioni in questione. Essi hanno constatato <strong>che</strong> c’era una<br />

probab<strong>il</strong>ità 50 volte maggiore <strong>che</strong> i neuroni visivi (97% dei neuroni <strong>studia</strong>ti)<br />

I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee<br />

75


76<br />

reagissero ai volti rispetto alle altre immagini. Le altre immagini alle quali<br />

hanno reagito i neuroni visivi rappresentavano oggetti arrotondati, <strong>che</strong><br />

ricordavano la forma ovale del volto.<br />

Le importanti sim<strong>il</strong>itudini fisiologi<strong>che</strong> tra <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> del macaco e quello dell’uomo<br />

permettono di ipotizzare <strong>che</strong> esistono in quest’ultimo dei neuroni<br />

specializzati la cui unica funzione è quella del riconoscimento dei volti. Ut<strong>il</strong>izzando<br />

l’imaging per <strong>studia</strong>re <strong>il</strong> fenomeno del riconoscimento dei volti,<br />

potrebbe essere possib<strong>il</strong>e sv<strong>il</strong>uppare nuovi metodi per la detezione delle<br />

menzogne (vedi <strong>il</strong> capitolo sulla Neuroetica, p. 40).<br />

La detezione dei feromoni<br />

Il <strong>cervello</strong> di molti animali è in grado di rivelare i feromoni, i segnali chimici<br />

<strong>che</strong> permettono di attirare <strong>il</strong> sesso opposto. Il <strong>cervello</strong> umano sembrava non<br />

possedere questa facoltà, recenti studi dimostrano tuttavia <strong>che</strong> an<strong>che</strong> <strong>il</strong> <strong>cervello</strong><br />

umano reagisce ai feromoni. Probab<strong>il</strong>mente l’epitelio olfattivo, <strong>che</strong> contiene<br />

dei neuroni <strong>che</strong> riconoscono gli odori, è sensib<strong>il</strong>e an<strong>che</strong> ai feromoni.<br />

Gli scienziati del centro di ricerca sul cancro Fred Hutchinson di Seattle,<br />

hanno <strong>studia</strong>to <strong>il</strong> ruolo <strong>della</strong> detezione dei feromoni dell’epitelio olfattivo<br />

nel topo. Nel loro studio diretto da Stephen Liberles e Linda Buck e pubblicato<br />

in Nature, essi hanno identificato nell’epitelio olfattivo del topo dei<br />

recettori olfattivi denominati TAARs, trace amine-associated receptors 3 .<br />

Questi recettori sono diversi da quelli <strong>che</strong> captano gli odori. Secondo studi<br />

pubblicati in precedenza, alcuni sarebbero attivati da sostanze contenute<br />

nell’urina dei topi, notoriamente ricca di feromoni. Nel loro studio Liberles<br />

e Buck hanno scoperto <strong>che</strong> l’isoamylamina, una tra le sostanze alla quale<br />

reagiscono i TAARs, si comporta come un feromone e accelera la pubertà<br />

nel topo femmina.<br />

I TAARs potrebbero quindi costituire un modo alternativo di detezione dei<br />

feromoni. Dato <strong>che</strong> i geni <strong>che</strong> codificano per i TAARs sono presenti an<strong>che</strong><br />

nei pesci e negli esseri umani, è possib<strong>il</strong>e <strong>che</strong> questi ultimi usino questi<br />

recettori per riconoscere i feromoni.<br />

I circuiti del sonno REM<br />

Sebbene risalga ad oltre 50 anni la scoperta del sonno a movimenti oculari<br />

rapidi (REM, rapid-eye-movement) associato con <strong>il</strong> sogno, non è ancora<br />

noto come <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> passi dal sonno REM al sonno non REM.


Dei ricercatori <strong>della</strong> Harvard Medical School hanno descritto, nel 2006, <strong>il</strong><br />

modello di come <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> controlla <strong>il</strong> passaggio di entrata e uscita dalla<br />

fase REM. Lo studio, realizzato da Clifford Saper e dal suo gruppo, pubblicato<br />

in Nature, esamina i meccanismi <strong>che</strong> sottendono <strong>il</strong> sogno e l’abolizione<br />

del tono muscolare nel corso del sonno REM 4 .<br />

I modelli precedenti ponevano l’accento sull’interazione tra i neuroni<br />

colinergici, attivi durante <strong>il</strong> sonno REM e i neuroni monoaminergici <strong>che</strong><br />

invece erano inattivi. Il modello proposto dal gruppo di Harvard, <strong>che</strong> i<br />

ricercatori definiscono «flip-flop switch» (interruttore avanti-indietro),<br />

mostra tuttavia <strong>che</strong> la disattivazione di questi due tipi di neuroni influisce<br />

poco sul sonno REM.<br />

Essi hanno scoperto <strong>che</strong> l’interazione reciproca tra i neuroni provoca la<br />

liberazione di un messaggero chimico, l’acido gamma-aminobutirrico,<br />

presente nell’insieme del <strong>cervello</strong>, <strong>che</strong> legandosi ai neuroni, inibisce la<br />

loro attività.<br />

Un problema nella regolazione di quest’interazione potrebbe essere all’ori -<br />

gine di certe stranezze del sonno come <strong>il</strong> disturbo comportamentale nel<br />

sonno REM, durante <strong>il</strong> quale la persona vive fisicamente <strong>il</strong> suo sogno, o le<br />

allucinazioni ipnagogi<strong>che</strong>, una sorta di sogno in stato di veglia.<br />

I ricercatori di farmaci <strong>che</strong> aiutano a dormire non hanno mai considerato i<br />

passaggi tra i vari stadi del sonno. Comprenderne la regolazione potrebbe<br />

portare a dei trattamenti più efficaci dei disturbi del sonno.<br />

Orologi circadiani e alimentazione<br />

Gli scienziati sanno da molto tempo <strong>che</strong> se si nutrono gli animali unicamente<br />

durante le loro normali ore di sonno, si alterano i loro cicli del sonno<br />

e le funzioni biologi<strong>che</strong> così da permettere agli animali di essere svegli e<br />

all’erta quando <strong>il</strong> cibo è disponib<strong>il</strong>e. Due diversi studi pubblicati da un<br />

gruppo <strong>della</strong> Harvard Medical School e l’altro da ricercatori dell’University<br />

of Texas Southwestern Medical Center, ipotizzano le ragioni <strong>che</strong> potrebbero<br />

spiegare <strong>il</strong> cambiamento.<br />

Il gruppo di Harvard, diretto da Clifford Saper, si è interessato al nucleo<br />

dorso mediale dell’ipotalamo (DMH), <strong>che</strong> è in contatto con le regioni del<br />

<strong>cervello</strong> implicate nell’alimentazione, <strong>il</strong> metabolismo energetico, la rego -<br />

lazione dello stato di veglia e di sonno, la temperatura corporea ed altri 77<br />

I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee


78<br />

Corteccia<br />

Sonno<br />

Ipotalamo<br />

0,4 mm<br />

lateralmente alla linea mediana<br />

VLPO<br />

Termoregolazione<br />

MPO<br />

GABA<br />

SCN<br />

vSPZ<br />

Stimoli <strong>della</strong> fame<br />

Leptina<br />

Mangiare e dormire per sopravvivere<br />

R<strong>il</strong>ascio di<br />

corticosteroidi<br />

VMH<br />

PVH<br />

LHA<br />

Il nucleo dorso mediale dell’ipotalamo controlla <strong>il</strong> ciclo sonno-veglia, l’alimentazione, la<br />

temperatura corporea. Questa regione cerebrale può sincronizzare l’orologio cerebrale<br />

interno situato nel nucleo soprachiasmatico a dipendenza <strong>della</strong> disponib<strong>il</strong>ità di cibo.<br />

processi. Lo studio, pubblicato su Nature Neuroscience, mostra <strong>che</strong> <strong>il</strong><br />

DMH può staccarsi dall’orologio biologico del <strong>cervello</strong> e determinare un<br />

nuovo orario interno, per approfittare del cibo a disposizione 5 .<br />

Gli scienziati hanno dimostrato <strong>che</strong> <strong>il</strong> DMH può staccarsi<br />

dall’orologio biologico del <strong>cervello</strong> e determinare un nuovo orario<br />

interno, così da approfittare <strong>della</strong> disponib<strong>il</strong>ità di cibo.<br />

Il secondo studio, pubblicato da Masashi Yanagisawa e i suoi colleghi in<br />

Proceedings of the National Academy of Sciences, mostra <strong>che</strong> i neuroni<br />

del DMH contengono un orologio solitamente inattivo. Quando è ridotta la<br />

disponib<strong>il</strong>ità di cibo, esso si sincronizza sui momenti di disponib<strong>il</strong>ità alimentare,<br />

permettendo al DMH di stab<strong>il</strong>ire <strong>il</strong> suo ritmo circadiano <strong>che</strong><br />

esclude l’orologio biologico cerebrale 6 .<br />

Questi due studi propongono alla ricerca sugli orologi circadiani e l’alimentazione<br />

nuovi obiettivi <strong>che</strong> potrebbero essere interessanti per sv<strong>il</strong>uppare<br />

dei trattamenti contro l’obesità.<br />

CRH<br />

dSPZ<br />

ARC<br />

Ghrelina<br />

Veglia, alimentazione<br />

Orexina<br />

MCH<br />

Glutammato<br />

TRH<br />

DMH


Identificato <strong>il</strong> recettore dell’acidità<br />

Gli umani hanno sulla lingua delle pap<strong>il</strong>le gustative <strong>che</strong> permettono di<br />

distinguere cinque gusti specifici: amaro, dolce, salato, acido e l’umami, un<br />

termine giapponese <strong>che</strong> designa <strong>il</strong> sapore del glutammato monosodico. Gli<br />

scienziati hanno identificato i recettori <strong>che</strong> r<strong>il</strong>evano tre di questi gusti:<br />

amaro, dolce ed umami.<br />

Nel 2006 due studi realizzati indipendentemente da due gruppi di ricercatori<br />

hanno identificato una proteina <strong>che</strong> permette agli esseri umani e ad<br />

alcune delle specie animali di percepire l’acidità e altri gusti, presenti negli<br />

alimenti avariati o acerbi. La proteina, di cui si parla in Nature e in Proceedings<br />

of the National Academy of Sciences, è la PKD2L1, presente in<br />

alcune delle pap<strong>il</strong>le gustative ma assente in quelle <strong>che</strong> riconoscono <strong>il</strong><br />

dolce, l’amaro e l’umami 7, 8 .<br />

Il gruppo dell’Università <strong>della</strong> California di San Diego, diretto da Charles<br />

Zuker, ha pubblicato <strong>il</strong> suo studio in Nature. Questi ricercatori hanno lavorato<br />

con dei topi geneticamente privati <strong>della</strong> PKD2L1. Gli animali reagiscono<br />

agli altri sapori, ma sono completamente indifferenti all’acido citrico,<br />

all’aceto o altri sapori acidi.<br />

Il gruppo <strong>della</strong> Duke University, diretto da Hiroaki Matsunami, ha affermato<br />

in Proceedings of the National Academy of Sciences <strong>che</strong> con studi di<br />

questo genere si comprenderà la modalità con la quale <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> tratta le<br />

informazioni sensoriali e come l’industria potrà in futuro servirsene per<br />

modificare <strong>il</strong> sapore degli alimenti.<br />

Cellule staminali e visione<br />

Le cellule staminali embrionali potrebbero diventare un trattamento per la<br />

degenerazione maculare sen<strong>il</strong>e (DMS). Prima causa di cecità nelle persone<br />

di oltre 65 anni, questa malattia è secondaria ad un deterioramento <strong>della</strong><br />

retina e <strong>della</strong> macula, la regione situata al centro <strong>della</strong> retina, da cui dipende<br />

la visione centrale.<br />

In certi tipi di degenerazione maculare, si atrofizzano <strong>progressi</strong>vamente le<br />

cellule dell’epitelio pigmentato <strong>della</strong> retina, <strong>che</strong> rivestono la base retinica.<br />

In uno studio pubblicato in Cloning and Stem Cells, un gruppo dell’Oregon<br />

Health and Science University diretto da Raymond Lund ha trasformato<br />

le cellule staminali embrionali in cellule dell’epitelio pigmentato <strong>della</strong><br />

retina, poi le ha iniettate negli occhi di ratti malati 9 . Dopo sei settimane, gli 79<br />

I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee


scienziati, esaminando la visione degli animali hanno constatato <strong>che</strong> i ratti<br />

<strong>che</strong> avevano ricevuto le cellule staminali trasformate avevano una visione<br />

in gran parte conservata, gli animali non trattati erano pressoché ciechi.<br />

Gli scienziati, esaminando la visione degli animali hanno<br />

constatato <strong>che</strong> i ratti <strong>che</strong> avevano ricevuto le cellule staminali<br />

trasformate avevano una visione in gran parte conservata,<br />

gli animali non trattati erano pressoché ciechi.<br />

80<br />

In un altro studio dello stesso genere, diretto da Robin Ali all’University<br />

College di Londra, sono state trapiantate delle cellule <strong>che</strong> si sono trasformate<br />

nelle cellule recettrici <strong>della</strong> retina, i fotorecettori 10 . Questi studi indicano<br />

<strong>che</strong> le cellule staminali e altre cellule primitive possono essere una via<br />

possib<strong>il</strong>e per <strong>il</strong> trattamento <strong>della</strong> degenerazione maculare.<br />

Malgrado queste scoperte, gli autori evidenziano <strong>che</strong> la malattia oculare<br />

del ratto non può essere assim<strong>il</strong>ata alla degenerazione maculare <strong>che</strong> colpisce<br />

l’essere umano. Altri studi dovranno dimostrare se questa via può<br />

essere intrapresa per curare la forma umana <strong>della</strong> patologia.


Cellule staminali<br />

e neurogenesi<br />

La neurogenesi nella corteccia cerebrale 82<br />

Una risposta spontanea alle lesioni 84<br />

Neurogenesi ed ep<strong>il</strong>essia 86<br />

Gli antidepressivi stimolano uno stadio specifico<br />

<strong>della</strong> neurogenesi 86<br />

Le proteine patogene e lo sv<strong>il</strong>uppo delle cellule<br />

del <strong>cervello</strong> 87<br />

Le cellule di sostegno diventano cancerogene 88<br />

La proteina Notch attiva le cellule staminali 89<br />

81


82<br />

Nel corso dell’intera vita nel <strong>cervello</strong> nascono nuovi neuroni, un fenomeno<br />

denominato neurogenesi. La neurogenesi costituisce per <strong>il</strong> <strong>cervello</strong><br />

uno strumento per autoripararsi <strong>che</strong> potrebbe essere usato a fini terapeutici,<br />

le anomalie <strong>della</strong> neurogenesi potrebbero an<strong>che</strong> contribuire allo<br />

sv<strong>il</strong>uppo di certi disturbi. Le cellule immature e versat<strong>il</strong>i conosciute come<br />

cellule staminali continuano a far sperare in nuove terapie. Nel 2006 i ricercatori<br />

hanno fatto passi avanti nella conoscenza delle vie <strong>che</strong> esse ut<strong>il</strong>izzano<br />

per trasformarsi in neuroni. Ma le staminali riescono a svolgere precisi<br />

compiti nel <strong>cervello</strong>?<br />

La neurogenesi nella corteccia cerebrale<br />

Dal 1998 è noto <strong>che</strong> nell’ippocampo del <strong>cervello</strong> umano adulto nascono<br />

nuovi neuroni, è meno chiaro se la neurogenesi avviene an<strong>che</strong> in altre<br />

regioni del <strong>cervello</strong>. Non è nemmeno possib<strong>il</strong>e affermare con certezza<br />

se l’adattab<strong>il</strong>ità cerebrale, definita plasticità, è una conseguenza del<br />

riadattamento delle cellule già esistenti oppure <strong>della</strong> produzione di<br />

nuove cellule.<br />

Esiste un metodo innovativo per datare le cellule cerebrali: <strong>il</strong> carbonio 14<br />

( 14 C). Negli anni 1950 in seguito a test nucleari, questo elemento è stato<br />

liberato nell’atmosfera in quantità considerab<strong>il</strong>i. Il 14 C è stato quindi assorbito<br />

dal DNA dei vegetali, degli animali e degli uomini e decade in quantità<br />

misurab<strong>il</strong>i nel tempo. Nel 2005 un gruppo di ricercatori del Karolinska Institute<br />

di Stoccolma diretto da Jonas Frisen ha dimostrato <strong>che</strong> la concentrazione<br />

di 14 C nella corteccia cerebrale delle persone adulte è identica a<br />

quella dell’atmosfera al momento <strong>della</strong> loro nascita, quindi pochi, quasi<br />

nessuno dei neuroni corticali sono stati prodotti nel corso <strong>della</strong> vita.<br />

Frisen e i suoi colleghi si sono associati a diversi altri laboratori per ampliare<br />

lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati su Proceedings of the National<br />

Academy of Sciences 1 . Lavorando su campioni di tessuto cerebrale pre -<br />

levati nel corso dell’autopsia di sette persone nate tra <strong>il</strong> 1933 e <strong>il</strong> 1973, i<br />

ricercatori hanno misurato la concentrazione di C14 in tutti i lobi cerebrali.<br />

Il livello di C14 misurato corrisponde alla concentrazione atmosferica di<br />

carbonio al momento <strong>della</strong> loro nascita, un’ulteriore dimostrazione <strong>che</strong> la<br />

neurogenesi corticale cessa alla nascita.<br />

Gli autori ipotizzano <strong>che</strong> nell’ippocampo le cellule <strong>che</strong> nascono svolgono<br />

un ruolo in certi tipi di memoria. Le funzioni cognitive come l’apprendimento


e l’analisi dipendono al contrario dalle cellule corticali presenti alla nascita,<br />

per quel <strong>che</strong> riguarda la corteccia la stab<strong>il</strong>ità prevale sulla plasticità.<br />

I neuroni corticali sembrano essere tra le prime cellule<br />

prodotte nell’embrione umano.<br />

La corteccia cerebrale è <strong>il</strong> luogo delle funzioni «superiori», come <strong>il</strong> pensiero<br />

e l’analisi, essa è considerata come la parte del <strong>cervello</strong> <strong>che</strong> distingue<br />

l’uomo dalle altre specie. Uno studio riportato in Nature Neuroscience<br />

mostra <strong>che</strong> i neuroni corticali sembrano essere tra le prime cellule prodotte<br />

nell’embrione umano.<br />

Alcuni ricercatori diretti da Colin Blakemore, dell’Università d’Oxford e<br />

Pasko Rakic, <strong>della</strong> Yale University, hanno identificato una popolazione<br />

diffe rente di neuroni <strong>che</strong> appare nel corso delle prime settimane di gravidanza.<br />

Tali predecessori nascono nell’area <strong>che</strong> diventerà la corteccia,<br />

apparendo prima dei neuroni <strong>che</strong> costituiscono gli strati più profondi del<br />

<strong>cervello</strong>. Nel corso dello sv<strong>il</strong>uppo cerebrale essi migrano verso determinati<br />

luoghi <strong>della</strong> corteccia.<br />

I precursori producono un insieme di proteine specifi<strong>che</strong>, <strong>che</strong> possono<br />

essere identificate con dei markers, quindi costituiscono una popolazione<br />

cellulare differente. Questa scoperta dimostra <strong>che</strong> le prime cellule del<br />

<strong>cervello</strong> specificamente «umano» appaiono ad uno stadio molto precoce<br />

dello sv<strong>il</strong>uppo embrionale. Essa è importante perché permette di comprendere<br />

meglio lo sv<strong>il</strong>uppo normale del <strong>cervello</strong>, ma an<strong>che</strong> l’origine di<br />

numerosi disturbi cognitivi 2 . Per esempio, recenti scoperte sull’autismo<br />

suggeriscono delle anomalie dello sv<strong>il</strong>uppo corticale (vedi a questo proposito<br />

«Le patologie <strong>che</strong> appaiono nel corso dell’infanzia» pag. 18).<br />

L’uso terapeutico delle cellule staminali dipende dalla loro capacità di trasformarsi<br />

in cellule specializzate necessarie per correggere una determinata<br />

malattia. Secondo un articolo pubblicato in Nature Neuroscience, la<br />

loro plasticità, o pluripotenza, ha dei limiti 3 .<br />

Un gruppo diretto da Sally Temple, dell’Albany Medical College, a New<br />

York, ha scoperto <strong>che</strong> la tempistica <strong>che</strong> regola lo sv<strong>il</strong>uppo corticale è<br />

codificata nelle cellule progenitrici <strong>che</strong> danno origine ai neuroni e non<br />

dipende da segnali generati dall’ambiente. La corteccia si sv<strong>il</strong>uppa in<br />

strati successivi, i neuroni di ogni strato sono prodotti secondo un programma<br />

determinato.<br />

Cellule staminali e neurogenesi<br />

83


84<br />

I ricercatori hanno scoperto <strong>che</strong> quando le cellule neurali progenitrici prelevate<br />

da topi erano isolate e fatte crescere in coltura, i neuroni <strong>che</strong> ne risultavano,<br />

apparivano nella stessa sequenza come se fossero in un <strong>cervello</strong><br />

embrionale. Ad ogni stadio dello sv<strong>il</strong>uppo le staminali in questione hanno<br />

perduto parte <strong>della</strong> loro plasticità. Togliendo <strong>il</strong> gene denominato Foxg1,<br />

necessario allo sv<strong>il</strong>uppo <strong>della</strong> corteccia, i ricercatori sono riusciti a ristab<strong>il</strong>ire<br />

<strong>il</strong> timing <strong>che</strong> dirigeva la prima metà <strong>della</strong> gestazione dei neuroni, ma<br />

non quello <strong>della</strong> fine <strong>della</strong> gestazione.<br />

Tale scoperta possiede importanti implicazioni per l’uso terapeutico delle<br />

cellule staminali. Essa indica <strong>che</strong> la sequenza dello sv<strong>il</strong>uppo è programmata<br />

fin dall’inizio e <strong>che</strong> è breve l’intervallo di tempo nel quale le cellule possono<br />

essere fuorviate dal loro «destino».<br />

Una risposta spontanea alle lesioni<br />

Numerosi studi realizzati nell’animale dimostrano <strong>che</strong> nel <strong>cervello</strong> adulto<br />

una lesione provoca un aumento <strong>della</strong> neurogenesi, un fenomeno <strong>che</strong><br />

conosciuto nei dettagli potrebbe essere sfruttato per curare le lesioni prodotte<br />

da traumi o da incidenti vascolari. Nella rivista Journal of Neuroscience,<br />

T. Yamashita e i suoi colleghi, affermano di avere scoperto <strong>che</strong><br />

dopo un ictus, delle cellule staminali neurali <strong>che</strong> abitualmente producono<br />

solo le cellule olfattive, hanno dato origine a nuovi neuroni nello striato, <strong>il</strong><br />

luogo dove si era prodotta la lesione 4 .<br />

I nuovi neuroni hanno stab<strong>il</strong>ito le connessioni con le vicine cellule dello<br />

striato. Questo potrebbe avere delle implicazioni terapeuti<strong>che</strong> nel trattamento<br />

degli ictus cerebrovascolari e di altri disturbi neurologici.<br />

Studiando <strong>il</strong> ruolo <strong>della</strong> neurogenesi nel recupero dopo un ictus nell’uomo,<br />

David Greenberg e <strong>il</strong> suo gruppo del Buck Institute for Age<br />

Research, hanno cercato la presenza di nuovi neuroni nelle biopsie<br />

dei tessuti <strong>che</strong> provenivano da lesioni cerebrali secondarie ad un ICV.<br />

Come affermato in Proceedings of the National Academy of Sciences,<br />

nelle aree attorno alla lesione gli scienziati hanno trovato dei marker<br />

molecolari <strong>che</strong> attestano la presenza di nuovi neuroni, in particolare in<br />

prossimità dei vasi sanguigni <strong>che</strong> producono i fattori di crescita <strong>che</strong><br />

stimo lano la divisione e la crescita dei neuroni nel corso <strong>della</strong> neuro -<br />

genesi 5 . Si può concludere quindi <strong>che</strong> esiste un certo grado di neuro -<br />

genesi spontanea e <strong>che</strong> potrebbe essere amplificato con l’aus<strong>il</strong>io di<br />

farmaci.


Neurogenesi e lesioni del midollo spinale<br />

Il gruppo di ricerca diretto da Fred Gage, nella foto, e da Michael Tuszynski, del<br />

Salk Institute, ha dimostrato <strong>che</strong> i nuovi neuroni appaiono spontaneamente dopo<br />

una lesione del midollo spinale. Questo processo può servire per lo sv<strong>il</strong>uppo di nuove<br />

terapie.<br />

La neurogenesi potrebbe costituire una reazione<br />

spontanea an<strong>che</strong> alle lesioni del midollo spinale,<br />

un fenomeno <strong>che</strong> potrebbe diventare<br />

un’opzione terapeutica.<br />

La neurogenesi potrebbe costituire una reazione spontanea an<strong>che</strong> alle<br />

lesioni del midollo spinale, un fenomeno ut<strong>il</strong>izzab<strong>il</strong>e come possib<strong>il</strong>e terapia.<br />

Michael Tuszynski, Fred Gage e i loro colleghi del Salk Institute<br />

hanno pubblicato in Journal of Neuroscience i risultati di uno studio<br />

sulle scimmie rhesus adulte. Dopo avere generato una lesione speri -<br />

mentale nel midollo spinale di questi animali, <strong>il</strong> numero di cellule <strong>che</strong><br />

si sono appena divise è 80 volte superiore al normale 6 . Sette mesi dopo<br />

la lesione, molte di queste cellule si sono trasformate in diversi tipi di<br />

cellule di sostegno, alcune delle quali producono la mielina, indispensab<strong>il</strong>e<br />

per gli assoni dei neuroni lesi. Questo studio evidenzia <strong>che</strong> la neurogenesi<br />

costituisce un beneficio per le lesioni traumati<strong>che</strong> del midollo<br />

spinale, un fenomeno <strong>che</strong> potrebbe essere amplificato da terapie<br />

appropriate. 85<br />

Cellule staminali e neurogenesi


86<br />

Neurogenesi ed ep<strong>il</strong>essia<br />

Alcuni studi realizzati nell’animale mostrano <strong>che</strong> le crisi convulsive stimolano<br />

la neurogenesi. Uno studio pubblicato in un numero speciale di<br />

Hippo campus, <strong>il</strong> cui tema era la neurogenesi, indica <strong>che</strong> le cellule appena<br />

nate non si trasformano in neuroni sostitutivi ma in cellule gliali, <strong>che</strong> non<br />

trasmettono quindi i segnali nervosi ma adempiono le funzioni di supporto,<br />

come per esempio fabbricare la mielina 7 . Jack Parent e i suoi collaboratori<br />

del Medical Center dell’Università del Michigan, hanno indotto nel topo<br />

delle convulsioni con delle sostanze chimi<strong>che</strong>. Per due settimane essi<br />

hanno osservato un incremento delle cellule cerebrali evidenziato con una<br />

molecola <strong>che</strong> si fissa sulle cellule in divisione.<br />

Lo studio pone quindi un’importante questione:<br />

per quale ragione <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> produce diversi tipi di cellule<br />

in risposta a differenti lesioni?<br />

Le cellule si sono trasformate in cellule gliali e non in neuroni, come dopo<br />

una lesione prodotta da un ictus cerebrovascolare. Questo studio pone<br />

quindi un’importante questione: per quale ragione <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> produce<br />

diversi tipi di cellule in risposta a differenti lesioni? Ulteriori ricer<strong>che</strong> sulla<br />

neurogenesi come strumento di riparazione permetteranno di sv<strong>il</strong>uppare<br />

nuovi farmaci per l’ep<strong>il</strong>essia.<br />

Secondo lo studio di un altro gruppo di ricercatori diretto da Jack Parent, la<br />

neurogenesi generata dopo le crisi convulsive potrebbe costituire parte<br />

del problema. Nell’uomo e nell’ep<strong>il</strong>essia temporale sperimentale, per<br />

esempio, si osserva un’anomalia di una parte dell’ippocampo denominata<br />

strato granulare del giro dentato. I ricercatori hanno riportato in Annals of<br />

Neurology <strong>che</strong> nei ratti affetti da prolungate crisi convulsive, le cellule progenitrici<br />

di questa regione migrano e si sv<strong>il</strong>uppano in modo anormale 8 .<br />

Sebbene in alcune aree dell’ippocampo la neurogenesi persiste nel corso<br />

di tutta la vita, i ricercatori ipotizzano <strong>che</strong> le crisi convulsive disorganizzano<br />

la migrazione dei neuroni, da cui una cattiva integrazione delle cellule<br />

appena nate e una possib<strong>il</strong>e ricorrenza delle crisi.<br />

Gli antidepressivi stimolano uno stadio specifico<br />

<strong>della</strong> neurogenesi<br />

Si ritiene <strong>che</strong> gli antidepressivi amplifichino la neurogenesi nell’ippocampo.<br />

Occorre attendere da tre a quattro settimane prima <strong>che</strong> gli antidepressivi<br />

attualmente a disposizione migliorino l’umore delle persone <strong>che</strong><br />

soffrono di disturbi depressivi. Circa un terzo dei pazienti non trae nessun


eneficio da questo trattamento. Numerosi studi suggeriscono <strong>che</strong> i farmaci<br />

come la fluoxetina (Prozac) debbono <strong>il</strong> loro effetto ad un’aumentata<br />

neurogenesi. Se questo fenomeno fosse conosciuto nel dettaglio, sarebbe<br />

senza dubbio possib<strong>il</strong>e sv<strong>il</strong>uppare dei farmaci <strong>che</strong> stimolano la neurogenesi<br />

in modo più mirato.<br />

Dei ricercatori dei Cold Spring Harbor Laboratories hanno riportato in Proceedings<br />

of the National Academy of Sciences di avere creato dei topi<br />

«reporter» nei quali i nuclei delle cellule nate da precursori neurali contengono<br />

una proteina blu fluorescente 9 . Controllando nei neuroni «blu»<br />

diverse proteine marker e poi esponendo le cellule alla fluoxetina, i ricercatori<br />

hanno confermato <strong>che</strong> l’obiettivo del farmaco erano le cellule staminali<br />

ad un determinato stadio del loro sv<strong>il</strong>uppo. Scoprendo nuove vie per<br />

stimolare questa popolazione sarebbe possib<strong>il</strong>e trovare farmaci antidepressivi<br />

più efficaci con un effetto sull’umore più rapido.<br />

Le proteine patogene e lo sv<strong>il</strong>uppo delle cellule del <strong>cervello</strong><br />

La proteina prione è nota soprattutto per la sua azione patogena, infatti, se<br />

mal ripiegata essa costituisce l’agente patogeno dell’encefalopatia, meglio<br />

conosciuta come la malattia <strong>della</strong> mucca pazza o <strong>il</strong> suo equivalente nell’uomo,<br />

la malattia di Creutzfeldt-Jakob. Da qual<strong>che</strong> anno sappiamo <strong>che</strong> i<br />

prioni non sono degli agenti patogeni per definizione, ma piegandosi e<br />

dispie gandosi essi possono assumere una forma anormale, patogena. In<br />

Oltre la mucca pazza<br />

I ricercatori stanno stu-<br />

diando <strong>il</strong> ruolo normale<br />

dei prioni in una cellula<br />

sana, la cui azione è<br />

conosciuta meglio nelle<br />

patologie. Nella foto, la<br />

proteina normale è visi-<br />

b<strong>il</strong>e nei nuclei dei neu-<br />

roni in via di sv<strong>il</strong>uppo. La<br />

struttura <strong>della</strong> proteina<br />

normale è visib<strong>il</strong>e sullo<br />

sfondo.<br />

Cellule staminali e neurogenesi<br />

87


88<br />

funzione <strong>della</strong> quantità dei prioni anormalmente dispiegati la malattia si<br />

sv<strong>il</strong>upperà o no. Resta invece meno conosciuto <strong>il</strong> ruolo <strong>della</strong> proteina<br />

prione quando ha una conformazione normale.<br />

Secondo lo studio pubblicato in Proceedings of the National Academy of<br />

Sciences dal gruppo di Jeffrey Macklis <strong>della</strong> Harvard University e di Susan<br />

Lindquist del Massachusetts Institute of Technology, i prioni abbondano<br />

nelle regioni del <strong>cervello</strong> dove avviene la neurogenesi. Nel loro studio<br />

hanno dimostrato la stretta correlazione tra la quantità di prioni presenti e<br />

la velocità con cui le cellule precursore si differenziano in neuroni. Nei<br />

topi modificati <strong>che</strong> producono una quantità eccessiva di prioni, la proliferazione<br />

di cellule cerebrali è più importate rispetto ai topi normali o i topi<br />

knock-out 10 . Successivi studi <strong>che</strong> premetteranno di comprendere meglio<br />

<strong>il</strong> ruolo di queste proteine nel <strong>cervello</strong> normale, potranno fornire nuovi<br />

approcci per prevenire e trattare le malattie a prioni.<br />

Secondo lo studio di un gruppo dell’University of Central Florida diretto da<br />

Kiminobu Sugaya e pubblicato su Stem Cells Development, quando i precursori<br />

<strong>della</strong> proteina am<strong>il</strong>oide raggiungono dei livelli troppo alti, come nel<br />

caso <strong>della</strong> malattia di Alzheimer, le cellule staminali potrebbero trasformarsi<br />

in astrociti invece di neuroni 11 . I ricercatori si sono accorti <strong>che</strong> se si<br />

aggiunge la proteina am<strong>il</strong>oide nelle cellule staminali neurali umane in coltura,<br />

esse intensificano la loro differenziazione in astrociti. Se la proteina è<br />

bloccata con un anticorpo, s’impedisce la differenziazione.<br />

Nei topi geneticamente modificati per produrre <strong>della</strong> sostanza beta am<strong>il</strong>oide,<br />

le cellule staminali umane trapiantate si sono differenziate in cellule<br />

gliali invece di neuroni. I risultati sembrano indicare <strong>che</strong> dei livelli elevati<br />

dei precursori <strong>della</strong> proteina am<strong>il</strong>oide possono contrastare gli sforzi autorigeneranti<br />

del <strong>cervello</strong> cambiando <strong>il</strong> destino delle cellule, <strong>che</strong> si trasformano<br />

in cellule gliali invece di trasformarsi in neuroni di sostituzione. Si tratta di<br />

un meccanismo <strong>che</strong> dovremo comprendere meglio per potere ut<strong>il</strong>izzare in<br />

futuro le cellule staminali nell’intento di curare la malattia di Alzheimer o<br />

altre forme di demenza.<br />

Le cellule di sostegno diventano cancerogene<br />

Il meccanismo <strong>che</strong> determina se una cellula staminale neurale si trasforma<br />

in neurone o in cellula di sostegno potrebbe essere al centro di una scoperta<br />

<strong>che</strong> non suggerisce nulla di buono: le cellule staminali sarebbero<br />

in grado di dare origine a dei tumori. È quello <strong>che</strong> afferma in Neuron un


gruppo diretto da Arturo Alvarez-Buylla, dell’Università <strong>della</strong> California a<br />

San Francisco. I ricercatori hanno identificato un gruppo di cellule staminali<br />

neurali dotate di un recettore per un fattore di crescita 12 . Un’infusione di<br />

questo fattore di crescita ha indotto una crescita eccessiva di queste cellule<br />

<strong>che</strong> presentavano caratteristi<strong>che</strong> tumorali (vedi an<strong>che</strong> <strong>il</strong> capitolo sulle<br />

Lesioni del sistema nervoso, pag. 38).<br />

Il meccanismo <strong>che</strong> determina se una cellula staminale neurale<br />

si trasforma in neurone o in cellula di sostegno potrebbe essere al<br />

centro di una constatazione <strong>che</strong> non suggerisce nulla di buono:<br />

le cellule staminali potrebbero dare origine a dei tumori.<br />

Patricia Casaccia-Bonnef<strong>il</strong> e <strong>il</strong> suo gruppo <strong>della</strong> Robert Wood Johnson<br />

Medical School hanno descritto nel Journal of Neuroscience <strong>che</strong> an<strong>che</strong> la<br />

neuroglia poteva diventare cancerogena a causa <strong>della</strong> mancanza di apoptosi,<br />

la morte cellulare fisiologica programmata <strong>della</strong> cellula 13 . I ricercatori<br />

hanno realizzato degli studi su dei topi knock-out, privati del gene p53, <strong>che</strong><br />

dà <strong>il</strong> segnale dell’apoptosi.<br />

L’assenza del gene p53 non porta però automaticamente ad un tumore. Se<br />

ai topi è somministrato uno stimolo <strong>che</strong> provoca una forma sperimentale di<br />

cancro, le loro cellule staminali neurali mostrano profondi cambiamenti,<br />

compatib<strong>il</strong>i con i tumori, come per esempio delle divisioni cellulari più<br />

rapide e una differenziazione incompleta.<br />

La proteina Notch attiva le cellule staminali<br />

Lo scopo <strong>della</strong> terapia con le cellule staminali è attivare le cellule staminali<br />

«endogene» presenti naturalmente nell’organismo. Ronald McKay, ricercatore<br />

al National Institute of Neurological Disorders and Stroke, ha pub -<br />

blicato in Nature un modello di espansione delle cellule staminali <strong>che</strong><br />

potrebbe contribuire alla realizzazione di quest’obiettivo 14 .<br />

L’attivazione di un recettore chiamato Notch induce una cascata di fenomeni<br />

<strong>che</strong> promuovono la sopravvivenza delle cellule staminali neurali.<br />

Quando dei ratti adulti portatori di una lesione indotta da un ictus cerebrovascolare<br />

sperimentale sono stati trattati con una molecola <strong>che</strong> blocca <strong>il</strong><br />

recettore Notch, i ricercatori hanno osservato un aumento delle cellule<br />

progenitrici ed un miglioramento delle facoltà motorie. Questo studio suggerisce<br />

un metodo efficace per aumentare <strong>il</strong> numero di cellule staminali in<br />

coltura o somministrate a degli animali <strong>che</strong> hanno ricevuto un trapianto,<br />

oppure per riattivare delle cellule staminali s<strong>il</strong>enti.<br />

Cellule staminali e neurogenesi<br />

89


90<br />

Il campo delle cellule staminali è sempre stato florido, gli studi appena citati<br />

mostrano però <strong>che</strong> <strong>il</strong> cammino da percorrere è ancora lungo. Orientare lo<br />

sv<strong>il</strong>uppo delle cellule staminali affinché esse diano origine a dei tipi di cellule<br />

precise (neuroni e cellule di sostegno) e non cellule tumorali, resta la<br />

grande sfida per la ricerca.


I disturbi del pensiero<br />

e <strong>della</strong> memoria<br />

La malattia di Alzheimer 92<br />

Chi sv<strong>il</strong>uppa l’Alzheimer conclamato 94<br />

Una causa <strong>della</strong> demenza frontotemporale 95<br />

Memoria normale: un grande passo avanti 95<br />

91


92<br />

Nel 2006 <strong>il</strong> b<strong>il</strong>ancio <strong>della</strong> ricerca sul pensiero e la memoria è incerto: in<br />

certi ambiti sono state realizzate scoperte notevoli, in altri campi occorre<br />

invece fare una pausa e riconsiderare le piste percorse.<br />

La malattia di Alzheimer<br />

Una delle principali caratteristi<strong>che</strong> <strong>della</strong> malattia di Alzheimer è la presenza<br />

di plac<strong>che</strong> costituite da beta am<strong>il</strong>oide nel <strong>cervello</strong> delle persone <strong>che</strong> ne<br />

sono affette. Da una decina d’anni gli scienziati hanno consacrato gran<br />

parte del loro lavoro alla manifestazione fisica di questa malattia nell’ipotesi<br />

<strong>che</strong> riuscendo a ridurre la formazione o a fare scomparire le plac<strong>che</strong>, l’impatto<br />

<strong>della</strong> malattia sarebbe stato attenuato.<br />

Nel 2006 diversi studi hanno però dimostrato <strong>che</strong> le plac<strong>che</strong> in sé stesse<br />

potrebbero non essere all’origine <strong>della</strong> malattia. Esse sono degli aggregati<br />

costituiti da piccoli peptidi <strong>che</strong> si dispongono negli spazi tra i neuroni, formati<br />

a partire da una proteina di dimensioni maggiori, denominata precursore dell’am<strong>il</strong>oide.<br />

Studi precedenti, eseguiti su topi <strong>che</strong> esprimevano la proteina<br />

umana precursore dell’am<strong>il</strong>oide, hanno dimostrato <strong>che</strong> le anomalie comportamentali<br />

come <strong>il</strong> disturbo <strong>della</strong> memoria spaziale si manifestano prima dell’apparizione<br />

delle plac<strong>che</strong>. Secondo quest’ipotesi, i frammenti di proteine<br />

potrebbero non avere nessuna relazione con la malattia, oppure i danni ai neuroni<br />

sono generati da piccoli aggregati <strong>che</strong> non hanno l’aspetto delle plac<strong>che</strong>.<br />

Una placca è costituita da centinaia di migliaia di frammenti di proteina, ma<br />

Sylvain Lesné e i suoi colleghi <strong>della</strong> University of Minnesota Medical<br />

School a Minneapolis, hanno notato <strong>che</strong> è sufficiente avere aggregati<br />

costituiti da soli 12 frammenti per vedere i primi segni di deterioramento<br />

<strong>della</strong> memoria negli animali.<br />

I ricercatori hanno purificato i piccoli ammassi ottenuti dal <strong>cervello</strong> di animali<br />

malati e li hanno iniettati nel <strong>cervello</strong> di animali sani. I risultati pubblicati<br />

in Nature mostrano <strong>che</strong> gli animali sani sono diventati incapaci di imparare<br />

a muoversi in un labirinto 1 .<br />

In modo sim<strong>il</strong>e, dei ricercatori del Buck Institute for Age Research a Novato<br />

in California, hanno pubblicato in Proceedings of the National Academy of<br />

Sciences <strong>che</strong> i topi con una variante <strong>della</strong> proteina <strong>che</strong> la rendeva incapace di<br />

produrre la sostanza beta am<strong>il</strong>oide, pur non presentando le caratteristi<strong>che</strong><br />

plac<strong>che</strong> <strong>della</strong> malattia di Alzheimer sv<strong>il</strong>uppavano i disturbi <strong>della</strong> memoria 2 .


In questi casi <strong>il</strong> colpevole sembra dunque un piccolo frammento <strong>della</strong><br />

proteina precursore dell’am<strong>il</strong>oide definito C-31. Secondo i ricercatori, le<br />

plac<strong>che</strong> situate negli spazi tra i neuroni sarebbero all’origine del problema,<br />

ma la C-31 termina <strong>il</strong> lavoro, penetrando nelle cellule. I ricercatori dell’Università<br />

del Minnesota, così come quelli del Buck Institute for Age Research<br />

ritengono <strong>che</strong> i farmaci capaci di bloccare la formazione dei piccoli<br />

ammassi di materiale proteico o di impedire la formazione <strong>della</strong> proteina<br />

C-31, potrebbero contribuire a limitare i danni provocati dalla malattia di<br />

Alzheimer nell’uomo.<br />

Il ruolo delle plac<strong>che</strong> di beta am<strong>il</strong>oide nella malattia di Alzheimer è stato<br />

rimesso in questione an<strong>che</strong> da ricer<strong>che</strong> effettuate sul tessuto cerebrale<br />

umano. Da molti decenni gli scienziati sanno <strong>che</strong> è possib<strong>il</strong>e avere delle<br />

plac<strong>che</strong> nel <strong>cervello</strong> senza sv<strong>il</strong>uppare la malattia. Per conoscere con<br />

quale frequenza si osservano le plac<strong>che</strong> nelle persone in buona salute, i<br />

ricercatori del Rush Alzheimer’s Disease Center dell’Università di Chicago<br />

diretti da David Bennett, hanno seguito oltre 2000 persone appartenenti<br />

a due comunità diverse. I risultati di questo studio sono stati pubblicati<br />

in Neurology 3 .<br />

I partecipanti allo studio sono stati sottomessi annualmente ad un test neuropsicologico<br />

per essere sicuri <strong>che</strong> con <strong>il</strong> passare del tempo non sv<strong>il</strong>uppassero<br />

dei sintomi di demenza. Su 134 delle persone decedute <strong>che</strong> hanno<br />

messo a disposizione <strong>il</strong> loro <strong>cervello</strong> per un’autopsia, due presentavano<br />

delle plac<strong>che</strong>, <strong>che</strong> secondo gli attuali criteri corrisponde ad un rischio elevato<br />

di sv<strong>il</strong>uppare la malattia. 48 mostravano delle plac<strong>che</strong> nella regione<br />

limbica, classificab<strong>il</strong>e quindi come un rischio medio. La sola differenza <strong>che</strong><br />

David Bennett e i suoi colleghi hanno r<strong>il</strong>evato nel funzionamento mentale<br />

tra queste 50 persone e le 84 nelle quali non sono state trovate delle plac<strong>che</strong>,<br />

è un funzionamento leggermente meno buono <strong>della</strong> memoria episodica<br />

e autobiografica degli avvenimenti vissuti.<br />

Perché con lo stesso grado di neuropatologia, certe persone sono<br />

in buona salute e altre sv<strong>il</strong>uppano la malattia? Ecco una questione<br />

centrale, alla quale molti ricercatori cercano ora di rispondere.<br />

Da questi risultati <strong>il</strong> gruppo di Bennett ha tratto due conclusioni. La prima è<br />

<strong>che</strong> una riduzione leggera <strong>della</strong> memoria episodica può segnalare un inizio<br />

<strong>della</strong> malattia di Alzheimer. La seconda è <strong>che</strong> l’essere umano possiede<br />

generalmente più neuroni di quelli <strong>che</strong> gli servono per la vita quotidiana,<br />

<strong>che</strong> i ricercatori definiscono «riserva neurologica». Molti individui possono 93<br />

I disturbi del pensiero e <strong>della</strong> memoria


94<br />

quindi tollerare un livello significativo di danni neuronali e di patologia<br />

alzhei meriana senza <strong>che</strong> la memoria sia gravemente lesa e senza presentare<br />

sintomi di demenza.<br />

Perché con lo stesso grado di neuropatologia, certe persone sono in buona<br />

salute e altre sv<strong>il</strong>uppano la malattia? Ecco una questione centrale, alla<br />

quale molti ricercatori cercano ora di rispondere.<br />

Chi sv<strong>il</strong>uppa l’Alzheimer conclamato<br />

Grazie alla ricerca si cominciano a comprendere meglio le ragioni per le<br />

quali non tutte le persone anziane con dei disturbi <strong>della</strong> memoria sv<strong>il</strong>uppano<br />

la malattia di Alzheimer con tutti i suoi sintomi. Attualmente non<br />

esiste un test <strong>che</strong> permette di distinguere i pazienti <strong>che</strong> resteranno stab<strong>il</strong>i<br />

da quelli <strong>il</strong> cui stato di salute continuerà a deteriorarsi. Tali informazioni<br />

potrebbero essere ut<strong>il</strong>i per le persone coinvolte, medici, pazienti, famiglie<br />

per pianificare piani di cura per i pazienti <strong>che</strong> sv<strong>il</strong>upperanno la malattia di<br />

Alzheimer. A questo proposito nel 2006 sono stati pubblicati due studi <strong>che</strong><br />

hanno apportato dei <strong>progressi</strong> significativi.<br />

Matthias Tabert, del New York State Psychiatric Institute and Columbia<br />

University di New York, ha seguito 63 adulti in buona salute e 148 pazienti<br />

affetti da disturbi cognitivi leggeri, uno stato intermediario tra la memoria<br />

normale e la demenza. I risultati pubblicati in Archives of General Psy -<br />

chiatry, mostrano <strong>che</strong> in tre anni <strong>il</strong> deficit cognitivo leggero si è trasformato<br />

in malattia di Alzheimer in 34 dei 148 pazienti 4 .<br />

Quando <strong>il</strong> disturbo cognitivo leggero corrisponde a dei disturbi <strong>della</strong><br />

memoria, <strong>il</strong> rischio di deterioramento è relativamente minore, solo 2 dei 20<br />

pazienti di questo gruppo hanno sv<strong>il</strong>uppato la malattia di Alzheimer. Nello<br />

stesso intervallo, la proporzione è stata di 32 su 64 nei pazienti <strong>che</strong> oltre ai<br />

disturbi <strong>della</strong> memoria manifestavano an<strong>che</strong> dei deficit cognitivi. Sembra<br />

quindi <strong>che</strong> con i test neuropsicologici sia possib<strong>il</strong>e distinguere tra queste<br />

due situazioni e quindi predire quali tra i pazienti affetti da deficit cognitivo<br />

leggero, presentano un rischio maggiore.<br />

Alcuni ricercatori dell’Università <strong>della</strong> California a Los Angeles, si sono<br />

basati su delle caratteristi<strong>che</strong> fisi<strong>che</strong> per trovare i pazienti affetti da disturbi<br />

cognitivi leggeri <strong>che</strong> presentano un elevato rischio di malattia di Alzheimer<br />

5 . Ut<strong>il</strong>izzando la risonanza magnetica ad alta definizione, i ricercatori<br />

hanno constatato – come descritto in Archives of Neurology – <strong>che</strong> <strong>il</strong> rischio


di sv<strong>il</strong>uppare la malattia è più elevato quando <strong>il</strong> volume dell’ippocampo è<br />

ridotto. All’inizio dello studio gli autori hanno notato un’atrofia più pronunciata<br />

di una determinata regione dell’ippocampo nei pazienti <strong>che</strong> nel corso<br />

del tempo hanno sv<strong>il</strong>uppato la malattia, rispetto ai pazienti <strong>che</strong> sono rimasti<br />

stab<strong>il</strong>i. Potere identificare i casi «pre-alzheimer» sarà senza dubbio un<br />

elemento delle strategie tese a prevenire o ritardare l’appa rizione <strong>della</strong><br />

malattia di Alzheimer.<br />

Una causa <strong>della</strong> demenza frontotemporale<br />

La malattia di Alzheimer è la forma di demenza più conosciuta, ma non è la<br />

sola. La seconda in ordine di frequenza a colpire le persone prima dei<br />

65 anni è la demenza frontotemporale. Gli individui <strong>che</strong> ne sono affetti<br />

presen tano dei disturbi del comportamento, dei cambiamenti <strong>della</strong> personalità<br />

e diventano disinibiti. La memoria è generalmente conservata.<br />

La demenza frontotemporale ha una forte componente genetica. La causa,<br />

in alcune tra le sue forme, è una mutazione <strong>della</strong> proteina tau associata ai<br />

microtuboli. S’ignoravano invece le cause di altre forme <strong>che</strong> non sembravano<br />

coinvolgere la mutazione di questo gene. Due gruppi di ricerca<br />

hanno scoperto nel 2006, nei pazienti affetti da queste forme atipi<strong>che</strong> di<br />

demenza frontotemporale, delle mutazioni di un altro gene: la proteina<br />

alterata è un fattore di crescita chiamato progranulina.<br />

Questo gene è espresso da una grande varietà di neuroni <strong>della</strong> corteccia<br />

oltre <strong>che</strong> dalle cellule <strong>della</strong> microglia, le cellule immunitarie del <strong>cervello</strong>. In<br />

due studi apparsi in Nature, i ricercatori avevano ipotizzato <strong>che</strong> la progranulina<br />

fosse importante per la sopravvivenza dei neuroni e <strong>che</strong> la perdita di<br />

una copia del gene <strong>della</strong> progranulina fosse sufficiente per attivare <strong>il</strong> fenomeno<br />

<strong>della</strong> neurodegenerazione 6, 7 . Da notare <strong>che</strong> la progranulina induce<br />

nell’animale l’espressione di altri fattori di crescita <strong>che</strong> possono contribuire<br />

alla sopravvivenza delle cellule.<br />

L’identificazione delle mutazioni <strong>che</strong> stanno alla base <strong>della</strong> demenza fronto -<br />

temporale apre nuove piste per sv<strong>il</strong>uppare farmaci destinati a combatterle.<br />

Memoria normale: un grande passo avanti<br />

Gli scienziati sostengono da qual<strong>che</strong> tempo <strong>che</strong> la codifica dei ricordi è collegata<br />

a dei cambiamenti dell’intensità delle connessioni sinapti<strong>che</strong> <strong>che</strong><br />

uniscono i neuroni. La codifica di un ricordo dovrebbe quindi aumentare<br />

l’efficacia <strong>della</strong> sinapsi e rinforzare la comunicazione tra le cellule vicine. 95<br />

I disturbi del pensiero e <strong>della</strong> memoria


96<br />

neurone<br />

presinaptico<br />

neurone postsinaptico<br />

Grazie per la memoria<br />

neurotrasmettitore<br />

recettori<br />

ioni<br />

apprendimento<br />

proteina PKM-zeta<br />

I ricercatori hanno scoperto <strong>che</strong> la potenzializzazione a lungo termine, <strong>che</strong> sta alla base<br />

dei processi mnemonici, dipende da una proteina chiamata PKM-zeta. Quando questa<br />

proteina è inibita i ratti dimenticano comportamenti appresi in precedenza.<br />

Questo fenomeno è definito potenzializzazione a lungo termine (LTP). Tre<br />

studi realizzati nel 2006 hanno fornito la quasi-certezza <strong>che</strong> essa costituisce<br />

<strong>il</strong> fondamento neuronale <strong>della</strong> memoria.<br />

I ricercatori si sono concentrati su tre ipotesi: la prima è <strong>che</strong> bloccando l’LTP<br />

con degli inibitori chimici s’impedisce l’apprendimento. La seconda è <strong>che</strong> imparare<br />

un compito o una specifica informazione coinvolge l’LTP nella regione del<br />

<strong>cervello</strong> <strong>che</strong> tratta questo tipo d’informazione. La terza è <strong>che</strong> l’eradicazione<br />

dell’LTP con degli agenti chimici nella regione del <strong>cervello</strong> <strong>che</strong> tratta questo<br />

tipo d’informazioni induce un’amnesia con perdita dei comportamenti appresi.<br />

Uno studio pubblicato in precedenza aveva già confermato l’esattezza<br />

<strong>della</strong> prima ipotesi. Nell’ambito di una delle esperienze realizzate nel 2006,<br />

Jonathan Whitlock e i suoi colleghi del Howard Hughes Medical Institute e<br />

del Massachusetts Institute of Technology hanno insegnato a dei ratti a<br />

non avventurarsi nella parte scura <strong>della</strong> loro gabbia perché vi ricevevano<br />

una leggera scarica elettrica. Come pubblicato in Science, man mano <strong>che</strong><br />

gli animali integravano quest’informazione, gli autori hanno potuto osservare<br />

la formazione di LTP nel loro ippocampo. Nei roditori questa struttura<br />

è <strong>il</strong> centro dell’apprendimento spaziale 8 .<br />

Agnès Gruart, dell’Università Pablo de Olavide a Siviglia in Spagna, ha<br />

ottenuto risultati sim<strong>il</strong>i <strong>che</strong> ha pubblicato nel Journal of Neuroscience 9 . Il


suo gruppo ha constatato <strong>che</strong> l’apprendimento induceva LTP nell’ippocampo<br />

dei topi e <strong>che</strong> delle sostanze <strong>che</strong> inibivano la trasmissione neurale<br />

bloccavano sia l’apprendimento sia la formazione di LTP.<br />

Realizzando un successivo passo avanti, un gruppo diretto da Eva Pastalkova,<br />

del SUNY Downstate Medical Center di Brooklyn a New York, ha<br />

pubblicato nello stesso numero di Science <strong>che</strong> gli animali nei quali si bloccava<br />

l’LTP con delle sostanze chimi<strong>che</strong> dimenticavano i comportamenti<br />

<strong>che</strong> avevano appreso, senza <strong>che</strong> questo escludesse la trasmissione sinaptica<br />

o <strong>che</strong> impedisse gli ulteriori apprendimenti 10 .<br />

Questi studi dimostrano <strong>che</strong> l’ipotesi <strong>della</strong> formazione dei ricordi, da qual<strong>che</strong><br />

tempo sostenuta dai ricercatori, è molto probab<strong>il</strong>mente corretta.<br />

I disturbi del pensiero e <strong>della</strong> memoria<br />

97


Referenze<br />

Introduzione<br />

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Le patologie <strong>che</strong> appaiono nel corso dell'infanzia<br />

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Illustrazioni / Fotografie<br />

P. 5: Photograph courtesy of David C. Van Essen<br />

P. 11: Photograph courtesy of Steven E. Hyman<br />

P. 20: Photographs courtesy of Stephen Dager<br />

P. 22: Image courtesy of Katya Rubia<br />

P. 27: Image courtesy of Mark Cookson<br />

P. 43: Image courtesy of Adrian Owen<br />

P. 51: Image courtesy of Richard Ransohoff<br />

P. 54: Image courtesy of Simon Beggs<br />

P. 65: Photograph courtesy of Jeffrey Lieberman<br />

P. 67: Image courtesy of Andreas Meyer-Lindenberg and Joshua Buckholtz, NIMH/IRP<br />

P. 75: Image courtesy of House Ear Institute<br />

P. 78: Illustration by Benjamin Reece<br />

P. 85: Photograph courtesy of Fred Gage<br />

P. 87: Image courtesy of Jeffrey Macklis<br />

P. 96: Illustration by Benjamin Reece<br />

109


Immaginate<br />

un mondo ...


112<br />

… in cui la malattia di Alzheimer, la malattia<br />

di Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica,<br />

la retinite pigmentosa e le altre cause di<br />

cecità, saranno fac<strong>il</strong>mente diagnosticate ad<br />

uno stadio precoce e immediatamente curate<br />

con medicinali <strong>che</strong> ne impediscono <strong>il</strong> deterioramento<br />

prima <strong>che</strong> le lesioni divengano<br />

troppo gravi.<br />

… in cui saranno noti i fattori ambientali<br />

e genetici <strong>che</strong> predispongono le persone<br />

alle malattie mentali. Dove esistono dei precisi<br />

test diagnostici e dei trattamenti mirati<br />

– medicinali, sostegno psicologico, interventi<br />

preventivi – disponib<strong>il</strong>i e ut<strong>il</strong>izzati su vasta<br />

scala.<br />

… in cui le nuove conoscenze sullo sv<strong>il</strong>uppo<br />

del <strong>cervello</strong> permetteranno sia di trarre un<br />

maggior beneficio dai primi anni di apprendimento<br />

sia di combattere le patologie associate<br />

all’età.<br />

… in cui le lesioni del midollo spinale non<br />

saranno più sinonimo di paralisi a vita, poiché<br />

sarà possib<strong>il</strong>e programmare <strong>il</strong> sistema nervoso<br />

così da ricostruire i circuiti neurali e ristab<strong>il</strong>ire<br />

l’attività muscolare.<br />

… in cui gli individui non saranno più<br />

schiavi delle tossicodipendenze e dell’alco -<br />

lismo, perché esisteranno dei trattamenti<br />

fac<strong>il</strong>mente accessib<strong>il</strong>i, <strong>che</strong> agendo a livello<br />

delle vie nervose permetteranno d’interrompere<br />

i fenomeni responsab<strong>il</strong>i delle crisi di astinenza<br />

e <strong>il</strong> bisogno impellente di consumare<br />

delle sostanze generatrici di dipendenza.<br />

… in cui la vita delle persone non sarà<br />

più in balia <strong>della</strong> depressione e dell’ansia<br />

perché per curarle disporremo di efficaci<br />

medi cinali.<br />

An<strong>che</strong> se tale visione può sembrare irreale ed<br />

utopica, stiamo vivendo un momento <strong>della</strong><br />

storia delle neuroscienze straordinariamente<br />

promettente e fecondo. I <strong>progressi</strong> realizzati<br />

dalla ricerca nel corso dell’ultimo decennio,<br />

oltrepassano le nostre aspettative. Le conoscenze<br />

sui meccanismi fondamentali del funzionamento<br />

cerebrale si sono ampliate e oggi<br />

possiamo cominciare a trarre un beneficio<br />

pratico dal loro potenziale.<br />

Abbiamo già cominciato a concepire delle<br />

strategie, delle nuove tecni<strong>che</strong> e delle terapie<br />

per combattere differenti malattie e disturbi<br />

neurologici. Fissando degli obiettivi terapeutici<br />

e applicando le conoscenze attuali, sarà<br />

possib<strong>il</strong>e sv<strong>il</strong>uppare dei trattamenti efficaci<br />

<strong>che</strong>, in alcuni casi, permetteranno di ottenere<br />

la guarigione completa.<br />

I grandi <strong>progressi</strong> delle neuroscienze ci permettono<br />

inoltre di valutare l’entità di ciò <strong>che</strong><br />

ancora non conosciamo. Questo fatto costituisce<br />

senza dubbio uno stimolo <strong>che</strong> sprona<br />

la ricerca fondamentale ad esplorare questioni<br />

più ampie sul funzionamento <strong>della</strong><br />

materia vivente, per formulare le domande di<br />

ordine complesso <strong>che</strong> portano alle scoperte<br />

scientifi<strong>che</strong>.<br />

La ricerca clinica e fondamentale svolta in<br />

modo coordinato da migliaia di scienziati, ha<br />

generato un insieme di conoscenze nelle<br />

diverse discipline, <strong>che</strong> variano dagli studi<br />

delle strutture molecolari e dei medicinali, alla<br />

visualizzazione cerebrale, alle scienze cognitive<br />

e alla ricerca clinica, <strong>che</strong> possono essere<br />

messe al servizio <strong>della</strong> lotta contro le malattie<br />

e i disturbi neurologici.<br />

Come scienziati continueremo a progredire<br />

sia individualmente nei nostri rispettivi ambiti,<br />

sia cooperando con i nostri colleghi di altri<br />

campi scientifici, moltiplicando le occasioni di<br />

collaborazioni interdisciplinari.


La fiducia del pubblico nella <strong>scienza</strong> è essenziale<br />

per adempiere la nostra missione. Il dialogo<br />

tra i ricercatori e la gente sarà bas<strong>il</strong>are<br />

soprattutto in considerazione delle conseguenze<br />

eti<strong>che</strong> e sociali del progresso <strong>della</strong><br />

ricerca sul <strong>cervello</strong>.<br />

La <strong>Dana</strong> Alliance for Brain Initiatives e la European<br />

<strong>Dana</strong> Alliance for the Brain riuniscono<br />

degli specialisti nelle neuroscienze pronti<br />

ad intraprendere progetti ambiziosi, come<br />

abbiamo potuto osservare nel 1992 a Cold<br />

Spring Harbor, New York, dove fu stab<strong>il</strong>ito un<br />

vero e proprio calendario di ricerca per gli<br />

Stati Uniti e una seconda volta nel 1997,<br />

quando si è costituito <strong>il</strong> gruppo europeo con<br />

i suoi peculiari obiettivi e mete. Si tratta ora,<br />

da una parte e dall’altra dell’Atlantico, di fissare<br />

nuovi scopi per orientare i <strong>progressi</strong> <strong>che</strong><br />

possono essere realizzati a corto e a medio<br />

termine. Provando ad immaginare i futuri benefici,<br />

cerchiamo di accelerare l’andamento di<br />

questa nuova era delle neuroscienze, per<br />

riuscire a raggiungere più rapidamente gli<br />

obiettivi prefissati.<br />

Gli obiettivi<br />

Combattere gli effetti devastanti <strong>della</strong><br />

malattia di Alzheimer. In questa patologia si<br />

osserva <strong>il</strong> deposito cerebrale di una piccola<br />

frazione proteica denominata proteina am<strong>il</strong>oide,<br />

estremamente tossica per le cellule<br />

nervose. Grazie alla sperimentazione animale<br />

oggi si conosce <strong>il</strong> meccanismo biochimico e<br />

genetico di quest’accumulo. Ut<strong>il</strong>izzando <strong>il</strong><br />

modello animale sono stati sv<strong>il</strong>uppati nuovi<br />

medicinali e un vaccino potenzialmente efficace,<br />

sia per prevenire <strong>il</strong> deposito <strong>della</strong> proteina<br />

am<strong>il</strong>oide sia per cercare di rimuoverlo.<br />

Tali terapie <strong>che</strong> saranno prossimamente spe -<br />

rimentate nell’uomo, offrono la speranza<br />

di combattere efficacemente questo mecca -<br />

nismo patologico.<br />

Scoprire la miglior terapia per la malattia di<br />

Parkinson. I medicinali <strong>che</strong> agiscono sulle vie<br />

dopaminergi<strong>che</strong> del <strong>cervello</strong>, hanno dato<br />

buoni risultati nel trattamento dei disturbi<br />

motori nella malattia di Parkinson. Sfortuna -<br />

tamente in molti pazienti, dopo 5 a 10 anni<br />

questo effetto terapeutico tende a diminuire.<br />

Attualmente sono in via di sv<strong>il</strong>uppo nuove<br />

molecole <strong>che</strong> cercano, da un lato di prolungare<br />

l’azione dei medicamenti dopaminergici,<br />

dall’altro di frenare la selettiva perdita neurale<br />

<strong>che</strong> è all’origine <strong>della</strong> malattia. Per i pazienti<br />

<strong>che</strong> non rispondono alla terapia medicamentosa,<br />

esiste la possib<strong>il</strong>ità di trarre un beneficio<br />

dall’approccio chirurgico denominato stimolazione<br />

cerebrale profonda. Nuove forme di<br />

visualizzazione cerebrale permetteranno di<br />

determinare se questi trattamenti riescono a<br />

salvare i neuroni dalla distruzione e a rista b<strong>il</strong>ire<br />

<strong>il</strong> normale funzionamento dei circuiti neurali.<br />

Diminuire l’incidenza degli ictus cerebrali e<br />

perfezionare <strong>il</strong> trattamento degli episodi<br />

acuti. Smettere di fumare, mantenere <strong>il</strong> tasso<br />

di colesterolo e <strong>il</strong> peso corporeo a livelli ragionevoli<br />

con un’alimentazione e un’attività fisica<br />

appropriate, sono, associati al depistaggio e al<br />

trattamento del diabete, i modi per ottenere<br />

una diminuzione spettacolare del numero degli<br />

incidenti cerebrovascolari e delle malattie cardia<strong>che</strong>.<br />

Nel caso degli ictus, con una diagnosi<br />

ed un intervento precoce, <strong>il</strong> paziente migliora<br />

rapidamente e i postumi <strong>della</strong> malattia sono<br />

minori. In futuro esisteranno nuovi trattamenti<br />

volti a ridurre l’impatto acuto degli incidenti<br />

cerebrovascolari sulle cellule del <strong>cervello</strong>. Le<br />

nuove tecni<strong>che</strong> di riab<strong>il</strong>itazione, <strong>che</strong> traggono<br />

profitto dalle conoscenze sulla capacità del<br />

<strong>cervello</strong> di recuperare dopo un trauma, permetteranno<br />

di progredire in questa via.<br />

Immaginate un mondo ...<br />

Sv<strong>il</strong>uppare trattamenti più efficaci per i di -<br />

sturbi dell’umore come la depressione, la<br />

schizofrenia, i disturbi ossessivi e <strong>il</strong> distur -<br />

bo bipolare. Grazie alla determinazione <strong>della</strong> 113


114<br />

sequenza del genoma umano, saranno scoperti<br />

i geni <strong>che</strong> predispongono ad alcune di<br />

queste malattie. Le recenti tecni<strong>che</strong> di visualizzazione<br />

cerebrale offriranno l’opportunità<br />

di osservare l’azione esercitata da questi geni<br />

nel <strong>cervello</strong>. Sarà quindi possib<strong>il</strong>e esaminare<br />

la disfunzione dei circuiti neurali nelle persone<br />

colpite dalle patologie dell’umore. Di -<br />

sporremo di una diagnosi più sicura, l’uso di<br />

medicinali già esistenti sarà più efficace e la<br />

ricerca porrà nuove basi teori<strong>che</strong> per sv<strong>il</strong>uppare<br />

agenti terapeutici innovativi.<br />

Scoprire le cause geneti<strong>che</strong> e neurobiolo -<br />

gi<strong>che</strong> dell’ep<strong>il</strong>essia e migliorarne <strong>il</strong> trattamento.<br />

Comprendere l’origine genetica dell’ep<strong>il</strong>essia<br />

e i meccanismi neurologici <strong>che</strong><br />

scatenano le crisi, fornirà l’opportunità per<br />

una diagnosi preventiva e per trattamenti<br />

mirati. I <strong>progressi</strong> realizzati nel campo delle<br />

terapie chirurgi<strong>che</strong> offriranno in futuro delle<br />

alternative terapeuti<strong>che</strong> molto preziose.<br />

Scoprire vie innovative per prevenire e<br />

curare la sclerosi multipla. Per la prima volta<br />

disponiamo di medicinali <strong>che</strong> modificano <strong>il</strong> de<br />

corso di questa malattia. Queste nuove molecole<br />

alterano le risposte immunitarie dell’organismo,<br />

riducendo <strong>il</strong> numero e la gravità<br />

delle crisi. Nuovi metodi permetteranno di<br />

arrestare la <strong>progressi</strong>one a lungo termine<br />

<strong>della</strong> sclerosi multipla, <strong>che</strong> è dovuta alla<br />

distruzione delle fibre nervose.<br />

Sv<strong>il</strong>uppare dei trattamenti più efficaci per i<br />

tumori del <strong>cervello</strong>. Molte forme di tumori<br />

cerebrali sono diffic<strong>il</strong>i da curare, soprattutto<br />

quelle maligne o secondarie a tumori di origine<br />

non cerebrale. Le tecni<strong>che</strong> di visualiz -<br />

zazione, la radioterapia mirata, i differenti<br />

metodi <strong>che</strong> trasportano le sostanze medicamentose<br />

al tumore, così come l’identificazione<br />

di marker genetici, fac<strong>il</strong>iteranno la diagnosi<br />

e permetteranno di sv<strong>il</strong>uppare nuove<br />

piste terapeuti<strong>che</strong>.<br />

Migliorare <strong>il</strong> recupero dopo lesioni traumati<strong>che</strong><br />

al <strong>cervello</strong> o al midollo spinale. Attualmente<br />

sono allo studio dei trattamenti <strong>che</strong><br />

limitano i danni ai tessuti consecutivi ai traumi<br />

e si sperimentano sostanze <strong>che</strong> promuovono<br />

<strong>il</strong> ristab<strong>il</strong>imento delle connessioni nervose.<br />

Ben presto alcune tecni<strong>che</strong> di rigenerazione<br />

cellulare <strong>che</strong> permettono la sostituzione dei<br />

neuroni morti oppure lesi, passeranno dallo<br />

stadio <strong>della</strong> sperimentazione animale ai test<br />

clinici sull’uomo. Da segnalare an<strong>che</strong> <strong>il</strong> trapianto<br />

di microchip miniaturizzati <strong>che</strong> controllano<br />

i circuiti nervosi e ridanno una certa<br />

mob<strong>il</strong>ità agli arti paralizzati.<br />

Trovare soluzioni innovative per la gestione<br />

del dolore. Il dolore non deve essere più sottovalutato.<br />

La ricerca sulla sua origine e sui<br />

meccanismi neurologici <strong>che</strong> lo mantengono,<br />

fornirà agli specialisti delle neuroscienze gli<br />

strumenti di cui necessitano per sv<strong>il</strong>uppare<br />

dei trattamenti antalgici efficaci e mirati.<br />

Combattere la tossicodipendenza all’origine,<br />

nel <strong>cervello</strong>. I ricercatori hanno identificato<br />

i circuiti nervosi implicati in ognuno dei<br />

differenti tipi di dipendenza e hanno clonato<br />

alcuni dei recettori più importanti di queste<br />

sostanze. I <strong>progressi</strong> realizzati nella visualizzazione<br />

cerebrale, identificando i meccanismi<br />

neurobiologici <strong>che</strong> trasformano un <strong>cervello</strong><br />

normale in un <strong>cervello</strong> sottomesso alla dipendenza,<br />

permetteranno di sv<strong>il</strong>uppare dei trat -<br />

tamenti per annullare o compensare tali alterazioni.<br />

Comprendere i meccanismi cerebrali implicati<br />

nella risposta allo stress, all’ansia e alla<br />

depressione. La salute mentale è <strong>il</strong> requisito<br />

indispensab<strong>il</strong>e per una buona qualità di vita.<br />

Lo stress, l’ansia e la depressione, oltre a perturbare<br />

la vita delle persone, possono avere<br />

un effetto devastante sulla società. Se capiremo<br />

meglio i meccanismi <strong>della</strong> risposta allo<br />

stress e i circuiti neurali implicati nell’ansia e


nella depressione, sapremo sv<strong>il</strong>uppare delle<br />

strategie preventive e dei trattamenti efficaci.<br />

La strategia<br />

Trarre vantaggio delle conoscenze fornite<br />

dalla genomica. Disponiamo oggi <strong>della</strong> se -<br />

quen za completa dei geni <strong>che</strong> costituiscono <strong>il</strong><br />

genoma umano. Nel corso dei prossimi 10 a<br />

15 anni avremo la possib<strong>il</strong>ità di stab<strong>il</strong>ire quali<br />

geni sono attivi in ogni regione del <strong>cervello</strong>, in<br />

tutti gli stadi dell’esistenza dalla vita embrionale<br />

a quella adulta, passando dall’infanzia e<br />

dall’adolescenza. Sarà allora possib<strong>il</strong>e identificare<br />

nelle diverse patologie neurologi<strong>che</strong> o<br />

psichiatri<strong>che</strong>, i geni alterati e le proteine assenti<br />

o anormali. Questo approccio ha già permesso<br />

agli scienziati di stab<strong>il</strong>ire l’origine genetica<br />

di malattie come la corea di Huntington,<br />

l’atassia spinocerebellare, la distrofia muscolare<br />

e la sindrome del cromosoma X frag<strong>il</strong>e.<br />

Le conoscenze fornite dalla genetica e le sue<br />

applicazioni nella diagnosi clinica, promettono<br />

di rivoluzionare la neurologia e la psichiatria<br />

e rappresentano una delle maggiori<br />

sfide delle neuroscienze. La disponib<strong>il</strong>ità di<br />

un nuovo e potente strumento, i microchip di<br />

DNA, accelererà notevolmente questo processo<br />

aprendo nuove vie per la diagnosi clinica<br />

e la concezione di nuovi trattamenti.<br />

Applicare le nostre conoscenze sullo sv<strong>il</strong>uppo<br />

del <strong>cervello</strong>. Dal concepimento alla<br />

morte, <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> passa attraverso differenti<br />

stadi dello sv<strong>il</strong>uppo con periodi di vulnerab<strong>il</strong>ità<br />

e di crescita <strong>che</strong> possono essere favoriti<br />

oppure ostacolati. Per migliorare <strong>il</strong> trattamento<br />

dei disturbi dello sv<strong>il</strong>uppo come l’autismo,<br />

i disturbi da deficit di attenzione e le difficoltà<br />

dell’apprendimento, le neuroscienze<br />

dovranno elaborare un quadro più dettagliato<br />

dello sv<strong>il</strong>uppo cerebrale. Siccome <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> è<br />

l’unico organo ad avere dei problemi specificamente<br />

collegati agli stadi dello sv<strong>il</strong>uppo<br />

come l’adolescenza o la vecchiaia, capirne le<br />

trasformazioni in quelle precise fasi, permetterà<br />

di sv<strong>il</strong>uppare trattamenti efficaci.<br />

Ut<strong>il</strong>izzare l’enorme potenziale offerto dalla<br />

plasticità cerebrale. Traendo profitto dalla<br />

neuroplasticità, cioè dalla capacità del <strong>cervello</strong><br />

di adattarsi e di mo<strong>della</strong>rsi, i neuroscienziati<br />

faranno progredire le terapie per le ma -<br />

lattie neurodegenerative e offriranno metodi<br />

per migliorare la funzione cerebrale sia nei<br />

soggetti sani sia nelle persone malate. Nei<br />

prossimi dieci anni, le terapie di sostituzione<br />

cellulare e di promozione <strong>della</strong> formazione di<br />

nuove cellule neurali, daranno l’opportunità<br />

di ottenere nuovi trattamenti per gli ictus<br />

cerebrali, i traumi del midollo spinale e la<br />

malattia di Parkinson.<br />

Comprendere l’essenza dell’essere umano.<br />

Come funziona <strong>il</strong> <strong>cervello</strong> ? Oggi gli specialisti<br />

nelle neuroscienze sono in grado di porre le<br />

grandi domande sul funzionamento del <strong>cervello</strong><br />

dell’uomo e di fornire le prime risposte.<br />

Quali sono i meccanismi e quali i circuiti nervosi<br />

<strong>che</strong> permettono all’essere umano di formare<br />

dei ricordi, di prestare attenzione, di<br />

percepire ed esprimere delle emozioni, di<br />

prendere delle decisioni, di ut<strong>il</strong>izzare <strong>il</strong> linguaggio,<br />

di essere creativo? Lo sforzo per<br />

sv<strong>il</strong>uppare una teoria del funzionamento<br />

cerebrale, offrirà importanti opportunità per<br />

massimizzare <strong>il</strong> potenziale dell’essere umano.<br />

Gli strumenti<br />

Immaginate un mondo ...<br />

La sostituzione cellulare. I neuroni adulti<br />

non possiedono la facoltà di riprodursi per<br />

sostituire le cellule perse in seguito a traumi o<br />

a malattie. Le tecni<strong>che</strong> <strong>che</strong> ut<strong>il</strong>izzano la capacità<br />

delle cellule staminali neurali (i progenitori<br />

dei neuroni) di differenziarsi in neuroni,<br />

potrebbero rivoluzionare <strong>il</strong> trattamento delle<br />

patologie neurologi<strong>che</strong>. Il trapianto delle cellule<br />

staminali neurali, correntemente usato 115


116<br />

nella sperimentazione animale, sarà ben presto<br />

applicato all’uomo. Controllare lo sv<strong>il</strong>uppo<br />

di queste cellule, dirigerle verso le precise<br />

regioni del <strong>cervello</strong> e indurle a stab<strong>il</strong>ire le<br />

connessioni appropriate, sono le molteplici<br />

questioni sulle quali la ricerca lavora senza<br />

sosta.<br />

I meccanismi di riparazione neurali. Ut<strong>il</strong>izzando<br />

i meccanismi di riparazione propri del<br />

sistema nervoso, <strong>che</strong> in alcuni casi rigenerano<br />

i neuroni e in altri ristab<strong>il</strong>iscono i circuiti, <strong>il</strong> <strong>cervello</strong><br />

ha la capacità di «riparare se stesso».<br />

Rinforzare questa capacità significa ridare una<br />

speranza di guarigione alle persone vittime di<br />

traumi cranici o di lesioni del midollo spinale.<br />

Delle tecni<strong>che</strong> per arrestare o prevenire la<br />

neurodegenerazione. Molte patologie come<br />

la malattia di Parkinson, la malattia di Alzheimer,<br />

la corea Huntington o la sclerosi laterale<br />

amiotrofica, sono la conseguenza <strong>della</strong> degenerazione<br />

di una specifica popolazione di cellule<br />

in una determinata regione cerebrale. I<br />

trattamenti attuali agiscono unicamente sul<br />

sintomo, non alterano la perdita <strong>progressi</strong>va<br />

dei neuroni. Le nuove conoscenze sui meccanismi<br />

<strong>che</strong> sottendono la morte cellulare, offriranno<br />

metodi per prevenire la degenerazione<br />

cellulare e quindi arrestare la <strong>progressi</strong>one di<br />

queste malattie.<br />

Le tecni<strong>che</strong> <strong>che</strong> modificano l’espressione<br />

genetica nel <strong>cervello</strong>. Nell’animale da laboratorio<br />

è possib<strong>il</strong>e rinforzare oppure bloccare<br />

l’azione <strong>che</strong> certi geni specifici esercitano sul<br />

<strong>cervello</strong>. Attualmente le mutazioni geneti<strong>che</strong><br />

<strong>che</strong> provocano nell’uomo malattie neurologi<strong>che</strong><br />

come la corea di Huntington e la sclerosi<br />

laterale amiotrofica, sono sperimentate nei<br />

modelli animali per scoprire dei trattamenti<br />

capaci di prevenire i fenomeni di neurodegenerazione.<br />

Queste tecni<strong>che</strong> hanno fornito tra<br />

l’altro dati interessanti sul normale funzio -<br />

namento del <strong>cervello</strong> durante lo sv<strong>il</strong>uppo,<br />

l’apprendimento e la formazione dei ricordi.<br />

La modulazione dell’espressione dei geni è<br />

uno degli strumenti più efficaci per <strong>studia</strong>re i<br />

fenomeni normali e patologici del <strong>cervello</strong>, in<br />

futuro potrà essere ut<strong>il</strong>izzata per curare<br />

numerosi disturbi cerebrali.<br />

I <strong>progressi</strong> delle tecni<strong>che</strong> di visualizzazione.<br />

Sono stati effettuati notevoli <strong>progressi</strong><br />

nella visualizzazione strutturale e funzionale<br />

del <strong>cervello</strong>. Sv<strong>il</strong>uppando delle tecni<strong>che</strong> in cui<br />

l’immagine <strong>della</strong> funzione cerebrale è dettagliata<br />

e rapida quanto le funzioni stesse,<br />

avremo a disposizione delle immagini in<br />

tempo reale. Queste tecnologie permetteranno<br />

allora ai ricercatori di osservare le<br />

regioni del <strong>cervello</strong> implicate nella riflessione,<br />

nell’apprendimento e nelle emozioni.<br />

Dispositivi elettronici capaci di sostituire le<br />

vie cerebrali non funzionali. Nel prossimo<br />

futuro sarà certamente possib<strong>il</strong>e aggirare le<br />

vie cerebrali non funzionali ut<strong>il</strong>izzando dei<br />

microelettrodi capaci di registrare l’attività<br />

cerebrale. Il loro compito sarà quello di convertire<br />

l’attività del <strong>cervello</strong> in segnali elettrici<br />

<strong>che</strong> saranno inviati al midollo spinale, ai nervi<br />

motori o direttamente ai muscoli. Dei trapianti<br />

costituiti da batterie di questi elettrodi collegati<br />

a dispositivi informatizzati e miniaturizzati,<br />

ridaranno speranza alle persone <strong>che</strong><br />

hanno subito una lesione permettendo <strong>il</strong><br />

recupero dell’integrità funzionale.<br />

I nuovi metodi <strong>della</strong> ricerca farmaceutica. I<br />

<strong>progressi</strong> realizzati nel campo <strong>della</strong> biologia<br />

strutturale, <strong>della</strong> genomica e <strong>della</strong> chimica<br />

computerizzata, permettono ai ricercatori di<br />

creare una quantità di molecole senza precedenti,<br />

molte delle quali possiedono un grande<br />

interesse clinico. In determinati casi le nuove<br />

tecni<strong>che</strong> di screening ad alto flusso, ut<strong>il</strong>izzate<br />

in particolare dalle « gene chips » e da altre<br />

tecnologie, potranno diminuire <strong>il</strong> tempo <strong>che</strong> intercorre<br />

tra la scoperta di un nuovo principio


attivo e la sua valutazione clinica. In alcuni<br />

casi la riduzione di tempo passerà da diversi<br />

anni a qual<strong>che</strong> mese.<br />

Immaginate un mondo ...<br />

117


Members of EDAB<br />

AGID Yves Hôpital de la Salpêtrière, Paris, France<br />

AGUZZI Adriano University of Zurich, Switzerland<br />

ANDERSEN Per University of Oslo, Norway<br />

ANTUNES João Lobo University of Lisbon, Portugal<br />

AUNIS Dominque INSERM Strasbourg, France<br />

AVENDAÑO Carlos University of Madrid, Spain<br />

BADDELEY Alan University of York, UK<br />

BARDE Yves-Alain University of Basel, Switzerland<br />

BELMONTE Carlos Instituto de Neurosciencias,<br />

Alicante, Spain.<br />

BENABID Alim-Louis INSERM and Joseph Fourier<br />

University of Grenoble, France<br />

BEN-ARI Yehezkel INSERM-INMED, Marse<strong>il</strong>le,<br />

France<br />

BENFENATI Fabio University of Genova, Italy<br />

BERGER Michael University of Vienna, Austria<br />

BERLUCCHI Giovanni Università degli Studi di<br />

Verona, Italy<br />

BERNARDI Giorgio University Tor Vergata-Roma,<br />

Italy<br />

BERTHOZ Alain Collège de France, Paris, France<br />

BEYREUTHER Konrad University of Heidelberg,<br />

Germany<br />

BJÖRKLUND Anders Lund University, Sweden<br />

BLAKEMORE Colin Medical Research Counc<strong>il</strong>, UK<br />

BOCKAERT Joel CNRS, Montpellier, France<br />

BORBÉLY Alexander University of Zurich,<br />

Switzerland<br />

BRANDT Thomas University of Munich, Germany<br />

BRUNDIN Patrik Lund University, Sweden<br />

BUDKA Herbert University of Vienna, Austria<br />

BUREˇS Jan Academy of Sciences, Czech Republic<br />

BYSTRON Irina University of St Petersburg, Russia<br />

CARLSSON Arvid University of Gothenburg,<br />

Sweden<br />

CATTANEO Elena University of M<strong>il</strong>an, Italy<br />

CHANGEUX Jean-Pierre Institut Pasteur, Paris,<br />

France<br />

CHERNISHEVA Marina University of St Petersburg,<br />

Russia<br />

CHVATAL Alexandr Institute of Experimental<br />

Medicine ASCR, Prague, Czech Republic<br />

CLARAC François CNRS, Marse<strong>il</strong>le, France<br />

CLEMENTI Francesco University of M<strong>il</strong>an, Italy<br />

COLLINGRIDGE Graham University of Bristol, UK;<br />

President of the British Neuroscience Association<br />

CUÉNOD Mi<strong>che</strong>l University of Lausanne,<br />

Switzerland<br />

CULIC M<strong>il</strong>ka University of Belgrade, Yugoslavia<br />

DAVIES Kay University of Oxford, UK<br />

DEHAENE Stanislas INSERM, Paris, France<br />

DELGADO-GARCIA José Maria Universidad<br />

Pablo de Olavide, Sev<strong>il</strong>le, Spain; President of the<br />

Spanish Neuroscience Society<br />

DICHGANS Johannes University of Tübingen,<br />

Germany<br />

DOLAN Ray University College, London, UK<br />

DUDAI Yadin Weizmann Institute of Science,<br />

Rehovot, Israel<br />

ELEKES Károly Hungarian Academy of Sciences,<br />

Tihany, Hungary; President of the Hungarian<br />

Neuroscience Society<br />

ESEN Ferhan Osmangazi University, Eskisehir,<br />

Turkey<br />

EYSEL Ulf Ruhr-Universität Bochum, Germany<br />

FERRUS Alberto Instituto Cajal, Madrid, Spain<br />

FIESCHI Cesare University of Rome, Italy<br />

FOSTER Russell University of Oxford, UK<br />

FRACKOWIAK Richard University College<br />

London, UK<br />

FREUND Hans-Joachim University of Düsseldorf,<br />

Germany<br />

FREUND Tamás University of Budapest, Hungary<br />

FRITSCHY Jean-Marc University of Zurich,<br />

Switzerland


GARCIA-SEGURA Luis Instituto Cajal, Madrid,<br />

Spain<br />

GISPEN W<strong>il</strong>lem University of Utrecht,<br />

The Netherlands<br />

GJEDDE Albert Aarhus University Hospital,<br />

Denmark<br />

GLOWINSKI Jacques Collège de France, Paris,<br />

France<br />

GREENFIELD Susan The Royal Institution of Great<br />

Britain, London, UK<br />

GRIGOREV Igor Institute of Experimental Medicine,<br />

St Petersburg, Russia<br />

GRILLNER Sten Karolinska Institute, Stockholm,<br />

Sweden<br />

HARI Riitta Helsinki University of Technology,<br />

Espoo, Finland<br />

HARIRI Nuran University of Ege, Izmir, Turkey;<br />

President of the Turkish Neuroscience Society<br />

HERMANN Anton University of Salzburg, Austria<br />

HERSCHKOWITZ Norbert University of Bern,<br />

Switzerland<br />

HIRSCH Etienne Hôpital de la Salpêtrière, Paris,<br />

France<br />

HOLSBOER Florian Max-Planck-Institute of<br />

Psychiatry, Munich, Germany<br />

HOLZER Peter University of Graz, Austria<br />

HUXLEY Sir Andrew University of Cambridge, UK<br />

INNOCENTI Giorgio Karolinska Institute,<br />

Stockholm, Sweden<br />

IVERSEN Leslie University of Oxford, UK<br />

IVERSEN Susan University of Oxford, UK<br />

JACK Julian University of Oxford, UK<br />

JEANNEROD Marc Institut des Sciences Cognitives,<br />

Bron, France<br />

JOHANSSON Barbro Lund University, Sweden<br />

KACZMAREK Leszek Nencki Institute of<br />

Experimental Biology, Warsaw, Poland.<br />

KASTE Markku University of Helsinki, Finland<br />

KATO Ann Centre Médical Universitaire, Geneva,<br />

Switzerland<br />

KENNARD Christopher Imperial College School<br />

of Medicine, London, UK<br />

KERSCHBAUM Hubert University of Salzburg,<br />

Austria<br />

KETTENMANN Helmut Max-Delbrück-Centre for<br />

Molecular Medicine, Berlin, Germany<br />

KORTE Martin Technical University Braunschweig,<br />

Germany<br />

KOSSUT Malgorzata Nencki Institute of<br />

Experimental Biology, Warsaw, Poland<br />

KOUVELAS Elias University of Patras, Greece<br />

KRISHTAL Oleg Bogomoletz Institute of<br />

Physiology, Kiev, Ukraine<br />

LANDIS Theodor University Hospital Geneva,<br />

Switzerland<br />

LANNFELT Lars University of Uppsala, Sweden<br />

LAURITZEN Martin University of Copenhagen,<br />

Denmark<br />

LERMA Juan Instituto de Neurociencias,<br />

CSIC-UMH, Alicante, Spain<br />

LEVELT W<strong>il</strong>lem Max-Planck-Institute for<br />

Psycholinguistics, Nijmegen, The Netherlands<br />

LEVI-MONTALCINI Rita EBRI, Rome, Italy<br />

LIMA Deolinda University of Porto, Portugal<br />

LOPEZ-BARNEO José University of Sev<strong>il</strong>le, Spain<br />

MAGISTRETTI Pierre University of Lausanne,<br />

Switzerland<br />

MALACH Rafael Weizmann Institute of Science,<br />

Rehovot, Israel<br />

MARIN Oscar Universidad Miguel Hernandez-<br />

CSIC, Spain<br />

MATTHEWS Paul University of Oxford, UK<br />

MEHLER Jacques SISSA, Trieste, Italy<br />

MELAMED Eldad Tel Aviv University, Israel<br />

MONYER Hannah University Hospital of<br />

Neurology, Heidelberg, Germany<br />

MORRIS Richard University of Edinburgh,<br />

Scotland; President, Federation of European<br />

Neuroscience Societies<br />

MOSER Edvard Norwegian University of Science<br />

and Technology, Trondheim, Norway<br />

NALECZ Katarzyna Nencki Institute of Experimental<br />

Biology, Warsaw, Poland<br />

NEHER Erwin Max-Planck-Institute for Biophysical<br />

Chemistry, Göttingen, Germany


NIETO-SAMPEDRO Manuel Instituto Cajal,<br />

Madrid, Spain<br />

NOZDRACHEV Alexander State University of<br />

St Petersburg, Russia<br />

OERTEL Wolfgang Ph<strong>il</strong>ipps-University, Marburg,<br />

Germany<br />

OLESEN Jes Glostrup Hospital, Copenhagen,<br />

Denmark; Chairman, European Brain Counc<strong>il</strong><br />

ORBAN Guy Catholic University of Leuven, Belgium<br />

PÁRDUCZ Árpád Hungarian Academy of Sciences,<br />

Szeged, Hungary<br />

PEKER Gonul University of Ege Medical School,<br />

Izmir, Turkey; President, Turkish Neuroscience Society<br />

PETIT Christine Institut Pasteur & Collège de<br />

France, Paris, France<br />

POCHET Roland Université Libre de Bruxelles,<br />

Belgium<br />

POEWE Werner Universitätsklinik für Neurologie,<br />

Innsbruck, Austria<br />

POULAIN Dominique Université Victor Segalen,<br />

Bordeaux, France; President, French Neuroscience<br />

Society<br />

PROCHIANTZ Alain CNRS and Ecole Normale<br />

Supérieure, Paris, France<br />

PYZA Elzbieta Jagiellonian University, Krakow,<br />

Poland<br />

RAFF Martin University College London, UK<br />

RAISMAN Geoffrey Institute of Neurology,<br />

University College London, UK<br />

RIBEIRO Joaquim Alexandre University of<br />

Lisbon, Portugal<br />

RIZZOLATTI Giacomo University of Parma, Italy<br />

ROSE Steven The Open University, UK<br />

ROTHWELL Dame Nancy University of<br />

Man<strong>che</strong>ster, UK<br />

RUTTER Sir Michael King’s College London, UK<br />

SAKMANN Bert Max-Planck-Institute for Medical<br />

Research, Heidelberg, Germany<br />

SCHWAB Martin University of Zurich, Switzerland<br />

SEGAL Menahem Weizmann Institute of Science,<br />

Rehovot, Israel<br />

SEGEV Idan Hebrew University, Jerusalem, Israel<br />

SHALLICE Tim University College London, UK<br />

SINGER Wolf Max-Planck-Institute for Brain<br />

Research, Frankfurt, Germany<br />

SMITH David University of Oxford, UK<br />

SPERK Günther University of Innsbruck, Austria<br />

STEWART Michael The Open University, UK<br />

STOERIG Petra Heinrich-Heine University,<br />

Düsseldorf, Germany<br />

STRATA Pierogiorgio University of Turin, Italy<br />

SYKOVA Eva Institute of Experimental Medicine<br />

ASCR, Prague, Czech Republic<br />

THOENEN Hans Max-Planck-Institute for<br />

Psychiatry, Martinsried, Germany<br />

TOLDI József University of Szeged, Hungary<br />

TOLOSA Eduardo University of Barcelona, Spain<br />

TSAGARELI Merab Beritashv<strong>il</strong>i Institute of<br />

Physiology, Tblisi, Republic of Georgia<br />

VETULANI Jerzy Institute of Pharmacology,<br />

Krakow, Poland<br />

VIZI Sylvester Hungarian Academy of Sciences,<br />

Budapest, Hungary<br />

WALTON John Lord of Detchant University of<br />

Oxford, UK<br />

WINKLER Hans Austrian Academy of Sciences,<br />

Innsbruck, Austria<br />

ZEKI Semir University College London, UK<br />

ZILLES Karl Heinrich-Heine-University, Düsseldorf,<br />

Germany<br />

BAW Term Members<br />

AZOUZ Rony Ben-Gurion University of the Negev,<br />

Israel<br />

BATTAGLINI Paolo University of Trieste, Italy<br />

CASTRO LOPES José University of Porto, Portugal<br />

CLARKE Stephanie University of Lausanne,<br />

Switzerland; President, Swiss Society of Neuroscience<br />

DEXTER David Imperial College, London, UK<br />

DIETRICHS Espen University of Oslo, Norway<br />

DE ZEEUW Chris Department of Neuroscience,<br />

Erasmus MC, Rotterdam, The Netherlands


GRAUER Ettie Israel Institute of Biological<br />

Research, Israel<br />

HAGOORT Peter F.C. Donders Centre for<br />

Cognitive Neuroimaging, The Netherlands<br />

LYTHGOE Mark University College London, UK<br />

MALVA João University of Coimbra, Portugal<br />

MOHORKO Nina University of Ljubljana, Slovenia<br />

MOLDOVAN Mihai The Panum Institute, University<br />

of Copenhagen, Denmark<br />

NALEPA Irena Polish Academy of Sciences,<br />

Warsaw, Poland<br />

REPOVS Grega Washington University, St Louis,<br />

USA<br />

SKALIORA Irini Biomedical Research <strong>Foundation</strong><br />

of the Academy of Athens, Greece<br />

STAMATAKIS Antonis University of Athens,<br />

Greece<br />

STOOP Ron University of Lausanne, Switzerland<br />

ZAGREAN Ana-Maria Carol Dav<strong>il</strong>a University of<br />

Medicine and Pharmacy, Bucharest, Romania<br />

ZAGRODZKA Jolanta Nencki Institute of<br />

Experimental Biology, Warsaw, Poland<br />

Federation of European Neuroscience<br />

Societies Presidents<br />

BÄHR Mathias University Hospital Göttingen,<br />

Germany; President, German Neuroscience Society<br />

BARTH Friedrich G. Austrian Academy of<br />

Sciences, Austria; President, Austrian Neuroscience<br />

Society<br />

BOER Gerard Netherlands Institute for Brain<br />

Research, The Netherlands; President, Dutch<br />

Neurofederation<br />

BRESJANAC Marja Institute of Pathophysiology,<br />

Ljubljana, Slovenia; President, Slovenian<br />

Neuroscience Association (SINAPSA)<br />

DE OLIVEIRA Catarina Resende University of<br />

Coimbra, Portugal; President, Portuguese Society for<br />

Neuroscience<br />

DE SCHUTTER Erik University of Antwerp,<br />

Belgium; President, Belgian Society for Neuroscience<br />

DI CHIARA Gaetano University of Cagliari, Italy;<br />

President, Italian Society for Neuroscience (SINS)<br />

FRANDSEN Aase Copenhagen University Hospital,<br />

Denmark; President, Danish Society for Neuroscience<br />

HUCHO Ferdinand Freie Universität Berlin,<br />

Germany; President, European Society for<br />

Neuro<strong>che</strong>mistry<br />

JOËLS Marian University of Amsterdam, The<br />

Netherlands; President, The Dutch Neurofederation<br />

KHECHINASHVILI Simon Beritsashv<strong>il</strong>i Institute<br />

of Physiology, Tblisi, Republic of Georgia; President,<br />

Georgian Neuroscience Association<br />

KOSTOVIC Ivica Institute for Brain Research,<br />

Zagreb, Croatia; President, Croatian Society for<br />

Neuroscience<br />

MENDLEWICZ Julien ULB Erasme Hospital,<br />

Brussels, Belgium; President, European College of<br />

Neuropsycopharmacology<br />

PITKÄNEN Asla University of Kuopio, Finland;<br />

FENS Secretary General<br />

PRZEWLOCKI Ryszard Polish Academy of<br />

Sciences, Krakow, Poland; President, Polish<br />

Neuroscience Society<br />

ROTSHENKER Shlomo The Hebrew University of<br />

Jerusalem; President, Israel Society of Neuroscience<br />

SAGVOLDEN Terje University of Oslo, Norway;<br />

President, Norwegian Neuroscience Society<br />

STENBERG Tarja Institute of Biomedicine/<br />

Physiology Biomedicum, Helsinki, Finland; President,<br />

Finnish Brain Research Society<br />

STYLIANOPOULOU Fotini University of Athens,<br />

Greece; President, Hellenic Society for Neuroscience<br />

SYKA Josef Academy of Sciences, Prague, Czech<br />

Republic; President, Czech Neuroscience Society<br />

ZAGREAN Leon Carol Dav<strong>il</strong>a University of<br />

Medicine, Bucharest, Romania; President, National<br />

Neuroscience Society of Romania<br />

January 2007


A <strong>Dana</strong> Alliance for the Brain Inc Publication prepared by EDAB,<br />

the European subsidiary of DABI<br />

Stampato in Svizzera 6.2007

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