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Crash - James G. Ballard.pdf - Autistici/Inventati

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ichiedeva un enorme sforzo fisico di guida.<br />

«Dove stiamo andando?» chiese lei, quando, all'uscita dalla galleria, mi diressi verso gli edifici del<br />

terminal.<br />

«Al parcheggio a più piani. La sera, i piani superiori sono vuoti.»<br />

Aeroporto e dintorni erano occupati da una vaga gerarchia di prostitute. Il primo scaglione lavorava<br />

negli alberghi o nelle discoteche dove non s'udiva mai musica, ma che sorgevano in comoda vicinanza<br />

delle camere da letto delle migliaia di passeggeri in transito che non lasciavano mai l'aeroporto; il<br />

secondo batteva gli edifici del terminal e i mezzanini dei ristoranti. Seguiva quindi un esercito di<br />

professioniste indipendenti che affittavano stanze a giornata negli immobili lungo l'autostrada.<br />

Arrivati al parcheggio a più piani dietro l'edificio del trasporto-merci, salii a cerchio per i piani inclinati di<br />

quell'obliquo e ambiguo edificio, e fermai in uno spazio vuoto fra le auto sul tetto spiovente. Riposte le<br />

banconote nella borsetta argentata, la donna abbassò il volto preoccupato sul mio grembo,<br />

slacciandomi espertamente con una mano la cerniera dei pantaloni. Poi cominciò a lavorarmi<br />

sistematicamente il pene di bocca e di mano, allargando comodamente le braccia sulle mie ginocchia. La<br />

pressione dei duri gomiti mi fece trasalire.<br />

«Che hanno le tue gambe: hai avuto un incidente?» fece lei, come se parlasse di un crimine sessuale.<br />

Mentre si applicava a portare in vita il mio pene, lasciai correre lo sguardo giù per la sua forte schiena,<br />

osservando la congiunzione fra i contorni delle spalle, segnati dalle bretelle del reggiseno, e l'elaborata<br />

decorazione del cruscotto dell'auto americana, e quella fra la sua natica soda nella mia sinistra e le<br />

chiesuole pastello dell'orologio e del tachimetro. Incoraggiato da quelle scale incappucciate, il mio<br />

anulare sinistro mosse verso il suo ano.<br />

Dal piazzale sottostante salì un suonare di clacson. Un flash lampeggiò sopra la mia spalla, illuminando la<br />

faccia sbalordita della stanca prostituta, col mio pene in bocca, i capelli sbiaditi sparsi sulle razze<br />

cromate del volante. Spintala da parte, guardai giù dal parapetto. Un pullman delle linee aeree aveva<br />

tamponato un tassi in sosta all'esterno del Terminal Europeo. Due tassisti e un uomo con ancora in<br />

mano la sua borsa di plastica stavano estraendo l'autista ferito dalla vettura. Il piazzale d'accesso era<br />

bloccato da un immane ingorgo di autobus e tassi. Abbaglianti in azione, un'auto della polizia montò sul<br />

marciapiede e avanzò tra passeggeri e facchini, travolgendo una valigia col parafango.<br />

Distratto da un riflesso di movimento sul montante cromato del parabrezza, guardai alla mia destra. A<br />

poco più di cinque metri di distanza, oltre gli spazi-macchina vuoti, c'era un uomo seduto sul cofano di<br />

un'auto ferma a ridosso del parapetto di cemento, con una macchina fotografica. Lo riconobbi: era il<br />

tizio alto dalla fronte segnata di cicatrici che mi aveva osservato vicino al luogo dell'incidente sotto il<br />

cavalcavia, il medico in camice bianco dell'ospedale. Svitata la lampadina opaca, la scagliò lontano, sotto<br />

le macchine. Poi estrasse la foto dal retro della polaroid guardandomi senza particolare interesse, come<br />

uno abituato a vedere prostitute e clienti sul tetto del parcheggio a più piani.<br />

«Basta. Va bene così.» La donna era occupata nella ricerca di un pene ormai errante; le feci segno di<br />

tirarsi su. Risistemati i capelli con l'aiuto dello specchietto retrovisore, smontò dall'auto senza uno<br />

sguardo e si diresse all'ascensore.<br />

Il tizio con la macchina fotografica si mise a gironzolare per il parcheggio. Guardando l'interno della sua<br />

auto attraverso il lunotto posteriore, vidi il sedile del passeggero coperto di attrezzatura fotografica:<br />

macchine, un treppiedi, una scatola di lampadine da flash. A un morsetto del cruscotto era fissata una<br />

cinepresa.<br />

L'uomo tornò alla sua auto, la macchina fotografica dall'impugnatura a pistola brandita come un'arma.<br />

Quando fu al parapetto, gli abbaglianti dell'auto della polizia gli illuminarono la faccia. Allora mi resi<br />

conto d'averla già vista molte volte, quella faccia butterata, in dozzine di programmi televisivi<br />

dimenticati e di profili giornalistici: apparteneva a Vaughan, al dottor Robert Vaughan, ex specialista di<br />

elaboratori elettronici. A suo tempo uno dei primi scienziati televisivi nuovo stile, Vaughan aveva<br />

sposato a un alto grado di fascino personale — folti capelli neri su una faccia segnata, giacca americana<br />

da combattimento — una maniera aggressiva da teatrante, e una convinzione assoluta nei riguardi<br />

dell'argomento trattato: l'applicazione delle tecniche elettroniche al controllo di tutti i sistemi<br />

internazionali di traffico. Nei primi programmi del suo ciclo, tre anni addietro, aveva saputo proiettare<br />

un'immagine potente: quella, quasi, dello scienziato-teppista, circolante dal laboratorio al centro<br />

televisivo in sella a una moto di grossa cilindrata. Colto, ambizioso e capace di autopubblicità, ciò che<br />

l'aveva salvato dall'essere poco più di un invadente arrivista munito di dottorato di ricerca era stata una

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