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ESSERE EUROPEI SENZA BARRIERE - Gigliolazanetti.eu

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GIGLIOLA ZANETTI<br />

<strong>ESSERE</strong> <strong>EUROPEI</strong><br />

<strong>SENZA</strong><br />

<strong>BARRIERE</strong>


Riguardo a tutte le azioni di iniziativa e di creazione<br />

c’è una verità elementare:<br />

appena uno si impegna a fondo<br />

anche la Provvidenza si muove.<br />

Johann Wolfgang Goethe<br />

Non è necessario fare grandi cose.<br />

Basta fare le piccole cose con amore.<br />

MADRE TERESA DI CALCUTTA.<br />

1


Se non impariamo<br />

dalla storia saremo<br />

obbligati a riviverla,<br />

è vero! Ma se non<br />

cambiamo il futuro<br />

saremo costretti a<br />

subirlo, e questo<br />

potrebbe essere anche<br />

peggio!<br />

Alvin Toffler<br />

Se ho visto così<br />

lontano, è perché<br />

sono salito sulle<br />

spalle dei giganti.<br />

Isaac Newton<br />

2


L’idea di avviare una nuova cultura che salvaguardi l’identità <strong>eu</strong>ropea, sia pure nel<br />

contesto del dialogo interculturale e interreligioso, anima i temi presentati nel libro. In una<br />

società democratica “ordine” significa integrazione della diversità, recupero e valorizzazione<br />

della risorse, pari opportunità nella diversità, molteplicità nell’unità e unità nella molteplicità,<br />

pluriverso anziché universo, organizzazione. Le idee pregiudiziali sono una sorta di “filtro<br />

deformante” rigidamente inforcato dalle persone come se fosse una “lente colorata” inserita<br />

negli occhiali e mai tolta. A loro volta queste idee sono il frutto di esperienze di vita, di<br />

osservazioni, ma anche di una crescita personale che può essere incompleta o interrotta da<br />

eventi traumatici o disturbanti. Il pregiudizio è bidirezionale, rivolgendosi tanto alle<br />

minoranze quanto alle maggioranze da parte delle minoranze.<br />

L’unità e la coesione dell’Europa implicano l’abbattimento delle “barriere mentali”<br />

che dividono popoli e nazioni. Una pedagogia focalizzata sull’identità è finalizzata a dissipare<br />

i danni connessi all’omologazione, all’omogeneizzazione e all’uniformismo “a tutti i costi”.<br />

La delocalizzazione da una parte e l’immigrazione dall’altra hanno comportato una<br />

paura di perdita di identità, che può essere arginata ripristinando la conservazione dell’identità<br />

originaria, tenendo comunque presente che l’identità evolve e si arricchisce attraverso le<br />

pluriappartenenze. Mantenendo salde le radici, tuttavia, non corriamo il rischio angosciante di<br />

sentirci sradicati e depauperati del nostro patrimonio identitario.<br />

3


SOMMARIO<br />

PREMESSA………………………………………………………………………………….p.6<br />

CAPITOLO INTRODUTTIVO……………………………………………………………..p.7<br />

Capitolo I<br />

PREGIUDIZIO, DIDATTICA E PEDAGOGIA…………………………………………p.37<br />

- Anche gli scienziati hanno pregiudizi?……………………………………………………p.37<br />

- La didattica della storia nella formazione dell’individuo…………………………………p.44<br />

- Insegnare la storia in un’ottica evolutiva………………………………………………….p.61<br />

Capitolo II<br />

QUANDO GLI SCHEMI CULTURALI COSTITUISCONO UNA GABBIA………..p.71<br />

- La pedagogia come formazione dell’identità……………………………………………..p.71<br />

- Nuovi progetti educativi…………………………………………………………………..p.76<br />

- Il superamento del pregiudizio nell’educazione dei bambini………………………..……p.83<br />

- Individualismo o cooperazione?………………………………………………………..…p.90<br />

- La percezione comune e condivisa………………………………………………………p.118<br />

Capitolo III<br />

LA POLITICA SOCIALE DELL’EUROPA INCENTRATA SULL’IDENTITÀ……p.133<br />

- Il viaggio dell’Eroe o Eroina……………………………………………………………p.133<br />

- Dialogo o guerra?……………………………………………………………………….p.152<br />

Capitolo IV<br />

INVITO A SVILUPPARE UN PROGETTO…………………………………………..p.172<br />

- La funzione delle radici nell’espansione del progresso………………………………….p.172<br />

- Nuove strade da percorrere………………………………………………………………p.190<br />

- Fra tradizione innovazione: la donna di oggi e di domani………………………………p.212<br />

4


Capitolo V<br />

LE “LENTI” CHE METTIAMO TRA NOI E LA REALTÀ……………………….p.219<br />

- L’influenza delle mappe cognitive culturali di dominazione……………………………p.219<br />

- La memoria e la storia possono fondare l’Identità Nazionale?………………………….p.244<br />

Capitolo VI<br />

DOVE STIAMO ANDANDO…………………………………………………………...p.259<br />

- Il futuro dell’integrazione <strong>eu</strong>ropea………………………………………………………p.259<br />

- La nuova Costituzione e la nuova Europa……………………………………………….p.271<br />

- L’intesa USA-Europa si rafforza………………………………………………………...p.283<br />

- L’Europa dà il primo sì alla Turchia……………………………………………………..p.291<br />

RIFLESSIONI CONCLUSIVE ………………………………………………………….p.316<br />

BIBLIOGRAFIA………………………………………………………………………….p.335<br />

5


PREMESSA<br />

Il libro nasce dall’intento di portare ad una riflessione costruttiva e condurre alla<br />

formazione di una nuova consapevolezza. Oltre alla separazione tra laici e cristiani, tra<br />

sostenitori della destra e della sinistra, è possibile intravedere la ragionevolezza e la<br />

consistenza dei valori condivisi e delle radici comuni che hanno edificato l’Europa e possono<br />

ricostruirla.<br />

Proprio la multiculturalità ci chiama a rientrare nuovamente in noi stessi. La Carta dei<br />

diritti fondamentali può essere un primo passo, un segno che l’Europa cerca nuovamente in<br />

maniera cosciente la sua anima. Divisa sulla guerra in Iraq, sulle relazioni con gli USA, sulle<br />

organizzazioni t<strong>eu</strong>nistiche, sui confini in Medio Oriente, sulle politiche di difesa, di<br />

immigrazione e di sicurezza, sul seggio all’ONU, l’Europa è chiamata a definire la propria<br />

identità e a declinare le proprie radici culturali e religiose. Non può rifiutarsi di chiamare i<br />

problemi per nome, all’insegna del “linguaggio politicamente corretto”.<br />

L’idea relativistica ad oltranza, per cui le culture e le religioni sono tutte uguali e l’una<br />

vale l’altra non considera il livello evolutivo raggiunto da ciascuna sul piano della<br />

valorizzazione dell’individuo, dei diritti umani, ecc. Il relativismo dogmatico e arrogante,<br />

anziché essere portatore di tolleranza, si fa dunque fautore di una disgregazione della nostra<br />

coscienza identitaria e fa terra bruciata delle nostre radici comuni, preparando il terreno<br />

all’attecchimento di “identità forti”.<br />

É dunque necessario un rinnovamento spirituale prima che politico: un percorso<br />

evolutivo che dia senso allo sviluppo tecnologico, economico e sociale. Il libro è rivolto a tutti<br />

coloro che desiderano confrontarsi sui problemi epocali come l’Europa, l’Occidente, l’Islam,<br />

la guerra ecc.<br />

Il suggerimento di impostare una pedagogia e una didattica finalizzate a richiamare<br />

l’attenzione di ciascun cittadino <strong>eu</strong>ropeo di ogni fascia di età sul cammino evolutivo che può<br />

portare ad una nuova coscienza identitaria, fa da contorno ai temi sviluppati nel volume.<br />

d’Europa.<br />

Ho scritto questo libro tra il 2003 e il 2005 al servizio del mio Paese e degli Stati Uniti<br />

Ringrazio le mie valide collaboratrici, Roberta Morena e Vanna Mondin, che hanno<br />

contribuito alla realizzazione della parte grafica del libro.<br />

6


CAPITOLO INTRODUTTIVO<br />

Questo libro costituisce il terzo volume dedicato all’esplorazione del pregiudizio nelle<br />

sue componenti limitanti e nelle strategie applicabili sul piano culturale per smantellarlo. È<br />

nato come continuazione logica del volume “Barriere ideologiche e democrazia”, focalizzato<br />

sulla presentazione delle ideologie e in particolare del Comunismo, come esperienza storica,<br />

di trasformazione sociale, politica ed economica e come fase culturale e ideologica. Il<br />

Nazismo come periodo storico e culturale si contrappone dialetticamente al Comunismo,<br />

includendo le “aberrazioni” degli estremismi. Nella sezione successiva viene proposta una<br />

riflessione sulla struttura delle ideologie di vario genere e sulle conseguenze terribili che<br />

hanno in comune.<br />

Il presente volume si sofferma principalmente sul tema della politica sociale, culturale<br />

e scolastica, prendendo in considerazione in special modo le caratteristiche dell’individuo, il<br />

suo livello di evoluzione, la sua sensibilità, il suo stile cognitivo, le “intelligenze multiple” di<br />

cui i vari soggetti sono dotati.<br />

Una crescente consapevolezza dei modelli sociali imposti.<br />

Quando frequentavo le scuole elementari e medie, percepivo prima inconsciamente e<br />

poi sempre più coscientemente, man mano che i miei studi superiori mi portavano alla<br />

consapevolezza “scientifica”, che una sorta di indottrinamento ideologico veniva impartita<br />

comprimendo le potenzialità entro binari precostituiti dalla società, dalle istituzioni, dalla<br />

cultura. Mancava il “rispetto” dello studente in quanto “persona” che segue un percorso<br />

evolutivo da “supportare”, ma non da deviare o “correggere” in base a parametri prefissati.<br />

Soprattutto mi ha colpita la percezione che ho avvertito, retaggio di un post-fascismo ancora<br />

imperante, in relazione ai “ruoli” entro cui la società aveva incanalato rigidamente le donne e,<br />

specularmente, gli uomini. Ricordo che un giorno, a 16-17 anni, ad uno che si occupava della<br />

“supervisione delle studentesse”, una sorta di psicologo ante-litteram, ho detto: “Io ho<br />

interessi da intellettuale”. E lui mi ha risposto: “Tu devi essere una buona moglie e madre. E<br />

poi, le donne che hanno interessi da intellettuali sono antipatiche”. Allora non capivo perché,<br />

da uomo, mi avesse dato questa risposta. Poi, con il passare del tempo, ho compreso che<br />

l’assegnazione rigida di un ruolo alle donne costituisce una barriera pregiudiziale difensiva<br />

7


eretta dall’uomo per esercitare un predominio, in linea con la cultura del Guerriero Imperante,<br />

che divide il mondo in due categorie: dominanti e dominati, superiori e inferiori. Ho preso<br />

coscienza delle caratteristiche dell’interazione soprattutto attraverso la “terapia sistemico-<br />

relazionale”. In quell’ambito ho imparato a distinguere i rapporti simmetrici, su un piano<br />

paritario, da quelli complementari, fondati su un livello up (superiore) e uno down (inferiore)<br />

e le loro patologie.<br />

Ma è stata soprattutto l’esplorazione del Viaggio evolutivo che mi ha fatto<br />

comprendere come le persone, pur avendo uguale dignità, si trovano su piani evolutivi<br />

diversi, per cui costituirebbe una grave ingiustizia trattare le persone come se fossero tutte<br />

uguali. Di qui l’importanza di una politica scolastica mirante ad incoraggiare la crescita,<br />

partendo dalla considerazione del livello evolutivo in cui ciascuno si trova e lasciando ampi<br />

spazi di libertà per ciascuno di “scegliersi la sua strada”. Se una ragazza è una Atena “per<br />

natura”, con interessi da intellettuale, non è opportuno applicarle una politica di “incremento<br />

demografico” spingendola a fare dieci figli per onorare lo stato di una numerosa prole.<br />

Seguendo la sua “natura”, potrà onorare lo stato e la società diventando un’abile<br />

ambasciatrice di pace, una scienziata, una studiosa ecc.<br />

E uno stato calato nell’archetipo del Saggio, non penalizzerà queste donne,<br />

escludendole dal “posto giusto” solo perché, in quanto donne, non si conformano agli schemi<br />

del Guerriero che siamo abituati a conoscere e, spesso, infaustamente. Nella nostra società<br />

non si dà né spazio, né considerazione alle donne che non si comportano da Guerrieri,<br />

secondo gli schemi maschili. Invece, è proprio la modificazione di questi schemi attuata<br />

dall’introduzione del Femminile a fare della diversità della donna rispetto all’uomo<br />

l’elemento-chiave di correzione degli “errori” degli uomini. Le caratteristiche di un sistema<br />

democratico, rispetto ad uno autoritario, sono infatti costituite dalla flessibilità e dalla capacità<br />

di autocorreggersi.<br />

Ma le donne non potranno correggere gli “errori” degli uomini, finché non ne<br />

prenderanno coscienza, e non potranno prenderne coscienza se si limiteranno ad imitarli,<br />

accettandone le premesse e i comportamenti come “naturali” e “scontati”. In altre parole, le<br />

donne che “copiano” gli uomini e i loro “schemi mentali” non sono di aiuto alla società nel<br />

modificarne le premesse e gli esiti “negativi”. Allora, donne sì, ma evolute seguendo la<br />

propria “diversità”, che introduce “ricchezza” nella società, nel correggerne gli “errori”.<br />

I parametri di valutazione sulle donne, presenti quasi esclusivamente in base alla<br />

bellezza fisica e particolarmente in voga durante le epoche passate, sembrano orientati verso<br />

un ridimensionamento. Un giorno, non conoscendo il nome di una mamma e della figlia, che<br />

8


frequentavano la scuola di mio figlio, le descrissi fisicamente ed espressi “provocatoriamente”<br />

un commento sulla compagna di classe di mio figlio, appartenente a un’altra sezione: “Non è<br />

tanto bella!”. Ed egli esclamò: “Ma è una cervellona: ha tutti ‘ottimo’ in pagella!”. Con un po’<br />

di sorpresa e compiacimento, pensai che il giudizio di mio figlio fosse molto più evoluto<br />

rispetto a quello imperante durante il nazifascismo, che ha determinato il modo di vedere le<br />

donne della generazione del nonno. Oggi molti ragazzi preferiscono avere un rapporto<br />

simmetrico, alla pari, con le ragazze, in modo da avere nella compagna un’interlocutrice<br />

dialettica, una consigliera fidata. Il rapporto complementare con una donna, del tipo<br />

dominante/dominato, diffuso durante il nazifascismo, in cui la donna era considerata una<br />

proprietà da rilevare più che un soggetto dotato di pari dignità, risorse e diritti, sembra<br />

destinato ad entrare in una fase di decadenza nella nostra cultura, anche se sopravvive in altre<br />

culture, come quella islamica.<br />

Io sono cresciuta in una generazione in cui, se una donna era particolarmente<br />

intelligente e brillante negli studi, molti mormoravano alle spalle che “aveva successo<br />

mentalmente perché era brutta”, in una sorta di ipercompensazione. Viceversa, ci si aspettava<br />

che una donna bella non dovesse “faticare” per avere successo, all’insegna del detto: “Il bello<br />

non suda”. Poi un po’ alla volta il mondo universitario si è popolato di donne belle e al tempo<br />

stesso intelligenti, ma spesso vigeva il pregiudizio, secondo cui: “Se è intelligente, non voglio<br />

conoscerla”, come se la categoria dell’intelligenza comportasse una sorta di fatica o di sfida<br />

per gli uomini, che non avevano voglia di “armeggiare dialetticamente”.<br />

Francamente, è un po’ difficile capire l’affermazione di qualcuno: “La donna deve<br />

essere un po’ inferiore all’uomo”. Se contestualizziamo questa affermazione, che ho sentito<br />

pronunciare, da un punto di vista psicologico, possiamo cogliere un bisogno di controllo e di<br />

dominio che affonda le radici non solo in una cultura “primitiva” o “arretrata”, ma anche in<br />

radicati complessi di inferiorità o comunque in una palese insicurezza della personalità. Il<br />

dialogo, infatti, si regge su un rapporto paritario e chi si esprime in quel modo è cresciuto in<br />

una famiglia rigida, in cui manca un rapporto di vera comunicazione e ciascuno si fa la sua<br />

vita coabitando sotto lo stesso tetto. In tale contesto, manca lo scambio di punti di vista e<br />

ciascuno afferma o impone narcisisticamente il proprio, litigando con l’altro se non lo accetta<br />

tale e quale viene prospettato.<br />

Le carenze culturali, evolutive e individuali connesse ad una simile visione della<br />

donna sono lampanti.<br />

Se una donna osa contrastare una simile ottica, viene liquidata come “femminista”,<br />

con tono dispregiativo.<br />

9


Eppure, se non si riflette sull’inconsistenza del presupposto che sostiene una simile<br />

affermazione, si può finire per accondiscendere, persuasi che forse è proprio così: la donna<br />

deve essere inferiore all’uomo.<br />

La nostra cultura, d’altro lato, è carica di messaggi che orientano in questa direzione,<br />

tutte le volte che donne notoriamente non ai massimi livelli di intelligenza, cultura e<br />

“discrezione”, vengono saldamente ancorate, con la persuasione dei messaggi pubblicitari, a<br />

stati d’animo positivi, desiderabili.<br />

I pubblicitari propongono immagini che mettono chi le riceve in uno stato d’animo<br />

ricettivo, <strong>eu</strong>forico, e al culmine dell’esperienza “ancorano” il destinatario con il loro<br />

messaggio. E questo lo ripetono alla televisione, sui periodici, alla radio, in modo che<br />

l’“ancora” venga ad essere continuamente rafforzata e innescata.<br />

donne.<br />

Così si crea un’associazione tra uno stato d’animo e un certo modo di presentare le<br />

Per noi è importante osservare gli effetti che sulla cultura di massa hanno ripetuti<br />

impatti, avere consapevolezza di ciò che mettiamo nelle nostre menti, accertarci che favorisca<br />

la realizzazione dei nostri sforzi.<br />

Che cosa accadrebbe se si riuscisse a cambiare la rappresentazione interna della<br />

donna-oggetto e della donna-inferiore?<br />

Ci sono gli strumenti culturali per cambiare i pregiudizi che gravano sulle donne. I<br />

mass media possono imprimere una direzione che determinerà la destinazione. È importante<br />

scoprire la direzione della corrente, per evitare di trovarsi a bordo di un guscio di noce senza<br />

remi, sull’orlo delle cascate del Niagara. Il compito di un leader consiste nell’indicare la<br />

strada, cartografare il terreno, scoprire i sentieri che conducono a esiti migliori.<br />

Propongo di assumere maggiore consapevolezza di ciò che vediamo, udiamo e<br />

sperimentiamo in continuazione e di prestare attenzione al nostro modo di rappresentarci,<br />

individualmente e collettivamente, le relative esperienze. Se vogliamo ottenere, nell’ambito<br />

delle nostre famiglie, comunità, paesi e nel mondo intero i risultati che desideriamo,<br />

dobbiamo diventare molto più coscienti.<br />

Ciò che continuamente rappresentiamo a livello di massa tende ad essere interiorizzato<br />

da masse enormi, e si tratta di rappresentazioni che condizionano i futuri comportamenti di<br />

una società e del mondo intero. Se vogliamo creare un mondo accettabile, dobbiamo<br />

continuamente rivedere e riprogettare ciò che possiamo fare per dar vita a rappresentazioni<br />

produttive per tutti noi, su scala unitaria e globale.<br />

Possiamo imparare a servirci del nostro cervello in modo da scegliere i comportamenti<br />

10


e le rappresentazioni interne suscettibili di fare di noi individui migliori, e del nostro un<br />

mondo migliore. Si può assumere consapevolezza del quando e del come veniamo<br />

programmati e manipolati, e stabilire se i comportamenti e i modelli che ci vengono trasmessi<br />

dal piccolo schermo riflettono o meno i nostri reali valori.<br />

La pubblicità è stata definita “la scienza di bloccare l’umana intelligenza quanto basta<br />

per ricavarne denaro”, e non sono pochi quelli che vivono in un mondo di intelligenza<br />

perennemente bloccata. L’alternativa consiste nel far ricorso a qualcosa di meno rozzo.<br />

Anziché rispondere a tutte le tendenze e ai messaggi trasmessi come i cani di Pavlov - che<br />

furono condizionati a salivare al suono di un campanello, in precedenza associato alla carne -,<br />

potremmo diventare coscienti del quando e del come veniamo programmati a rispondere agli<br />

stimoli dei mass media.<br />

Adesso, è agli albori una generazione che si sente anche allettata dalle sfide mentali<br />

delle “donne alla pari” e mio figlio di 10 anni sembra lusingato dalla raccolta di queste sfide<br />

da parte delle sue compagne “cervellone”, che a scuola prendono anche voti migliori dei suoi<br />

soprattutto nelle materie letterarie.<br />

Ho letto su un periodico locale di informazione, cultura e tempo libero, il commento<br />

relativo alle elezioni amministrative del 2004 svoltesi in una cittadina vicina. Sottolineava che<br />

due candidate donne, in termini di preferenze, hanno sbaragliato i colleghi uomini,<br />

dimostrando che le donne in politica riescono ad ottenere più consensi degli uomini. Il<br />

segreto? Secondo le due candidate-avversarie, il loro successo è stato decretato dalle doti che<br />

hanno in comune: la passione (per la politica, ma non solo), l’energia, la determinazione, la<br />

forza, l’onestà, la schiettezza. Ma condividono altre cose ancora: un titolo di studio<br />

accademico, la passione per la letteratura, l’insegnamento, una famiglia, due figli, il disordine<br />

organizzato con cui portano avanti la loro esistenza divisa tra pubblico e privato.<br />

Alla domanda dell’intervistatrice: “E’ difficile conciliare vita professionale, famiglia e<br />

politica?”, una di esse risponde: “Si può fare rinunciando però ai propri tempi. E comunque la<br />

politica fa bene. Fa avvicinare ai giovani, permette di capire meglio le nuove generazioni”.<br />

Condivido questo punto di vista. E l’attività di psicoterap<strong>eu</strong>ta acuisce la sensibilità verso i<br />

problemi reali delle persone, e dei giovani in particolare, preparando il/la terap<strong>eu</strong>ta alla<br />

comprensione delle situazioni e ad uscire dall’impasse. Secondo l’altra vincitrice delle<br />

elezioni e ora assessore, a parte qualche ingiustificato senso di colpa nei confronti dei figli,<br />

impegnarsi professionalmente e in politica è un mezzo per realizzarsi perché “la politica è<br />

un’opportunità unica e insostituibile per concretizzare i propri ideali, per realizzare tutto ciò<br />

che avresti voluto che gli altri facessero”.<br />

11


Invece di subire pressoché passivamente le decisioni degli uomini, si impara dunque a<br />

realizzare con le proprie forze, aguzzando l’ingegno, ciò che si vorrebbe che gli altri<br />

facessero.<br />

È giunto il momento che le donne diventino consapevoli del contributo effettivo e<br />

indispensabile che possono offrire all’evoluzione della società. Il loro punto di vista non è<br />

meno importante di quello degli uomini e può rivelarsi di portata strategica per sbloccare<br />

situazioni che talvolta gli uomini non riescono né a contenere né a “sanare”.<br />

La donna che ha unito l’America.<br />

Forse non molti <strong>eu</strong>ropei sanno che la festa nazionale americana del Giorno del<br />

Ringraziamento è stata creata, non già da un uomo politico, bensì da una donna animata dal<br />

forte desiderio di unificare gli USA. Si chiamava Sarah Joseph Hale e riuscì in un’impresa in<br />

cui per oltre duecentocinquant’anni altri avevano fallito. Nella tradizione americana, da<br />

quando i Padri Pellegrini nell’ottobre del 1621 hanno “reso grazie” per essere approdati sani e<br />

salvi sulle coste del Nuovo Mondo, in quelle che erano allora le colonie inglesi d’America<br />

non si è tenuta nessuna celebrazione regolare o unitaria del Giorno del Ringraziamento. Solo<br />

la vittoria nella Guerra di Indipendenza fu celebrata per la prima volta da tutto il Paese, ma<br />

neppure questa tradizione si mantenne. Il terzo Giorno del Ringraziamento (il primo era stato<br />

quello dei Padri Pellegrini, il secondo quello per la vittoria sugli inglesi) fu festeggiato dopo<br />

la stesura della Costituzione, quando il presidente George Washington proclamò il 26<br />

novembre 1789 giornata nazionale di rendimento di grazie; ma neppure questa divenne<br />

un’occasione ricorrente.<br />

Poi, nel 1827, comparve sulla scena Sarah Joseph Hale, una donna impegnata e tenace.<br />

Madre di cinque figli, scelse di mantenere se stessa e la famiglia con i propri scritti, e questo<br />

in un periodo della storia americana in cui a ben poche donne era concesso di riuscire in una<br />

professione del genere. Direttrice di una rivista femminile, riuscì ad assicurarle grande<br />

diffusione con una tiratura di centocinquantamila copie. Divenne famosa per le sue campagne<br />

di stampa a favore dell’ammissione delle donne ai college, della creazione dei campi di gioco<br />

pubblici e di asili nido. Ma la causa a cui si dedicò con maggior fervore, fu l’istituzione di un<br />

Giorno del Ringraziamento nazionale e permanente, e a tale scopo si servì della sua rivista<br />

come di un potente strumento per influire su coloro che erano in grado di imporre una<br />

tendenza del genere alla nazione. E per quasi trentasei anni continuò a battersi per la<br />

realizzazione di questo suo sogno, indirizzando lettere personali a presidenti e governatori.<br />

Ogni anno sulla sua rivista pubblicava allettanti menu da Giorno del Ringraziamento, racconti<br />

12


e poesie sullo stesso tema, proponendo l’istituzione della festività con un’ininterrotta serie di<br />

editoriali.<br />

Fu la Guerra di secessione a fornire alla Hale il destino di esprimere il suo punto di<br />

vista in modo tale da far presa sull’intera nazione. Scrisse per esempio: “Non sarebbe forse un<br />

grande vantaggio dal punto di vista sociale, nazionale e religioso, il fatto che il<br />

Ringraziamento Americano fosse stabilito una volta per tutte?”. E nell’ottobre del 1863<br />

affermava nel suo editoriale mensile: “Accantonando i particolarismi e gli interessi locali che<br />

potrebbero essere invocati da ogni singolo stato o territorio che desideri scegliere un proprio<br />

momento per la celebrazione, non sarebbe più nobile, più veramente americano, essere una<br />

nazione unitaria allorché offriamo a Dio il nostro tributo di gioia e gratitudine per le<br />

benedizioni dell’anno?”. Indirizzò una lettera al segretario di Stato William Seward che a sua<br />

volta la fece leggere al presidente Abraham Lincoln, il quale si convinse dell’opportunità di<br />

un momento di fusione nazionale e quattro giorni dopo emanò un proclama in cui si<br />

dichiarava Giorno del Ringraziamento nazionale giovedì di novembre 1863. Fu un atto di<br />

importanza storica di cui va dato merito a una donna tenace e dotata della capacità di<br />

persuadere servendosi dei media esistenti.<br />

Una Guerriera evoluta sa combattere le sue battaglie per unire, anziché per dividere,<br />

por portare la pace, anziché la guerra.<br />

Il Guerriero negativo e il Guerriero evoluto.<br />

Fa parte del Guerriero involuto e primitivo la mentalità unilaterale e irritante che<br />

trasforma ogni incontro in una rissa o si sforza costantemente di attirare gli altri alla propria<br />

causa. Questa forma di violenza occulta o manifesta è tipica del Guerriero Ombra, negativo.<br />

Questo Guerriero non riesce a vedere il mondo da altre prospettive che la propria. Per lui il<br />

mondo è fatto di eroi, cattivi e vittime da salvare. Egli deve provare incessantemente che è<br />

meglio degli altri e, volendo essere il migliore, necessariamente finisce per “definire” gli altri<br />

come inferiori. Nelle sue espressioni più negative e più gravi, questo desiderio di essere<br />

superiore agli altri non è controllato da alcun valore superiore né da alcun sentimento umano.<br />

Il vandalismo culturale e la profanazione di luoghi sacri al culto, come chiese e<br />

cimiteri, sono sempre esistiti, soprattutto in periodi di guerra e tensioni sociali, non solo a<br />

danno delle Chiese cristiane, ma anche ebraiche e di altre religioni.<br />

Nel 2003 a Varese un crocifisso in legno, alto circa quattro metri, è andato in fiamme<br />

lungo la Via Sacra del Sacro Monte di Varese. Si tratterebbe di un atto doloso, secondo una<br />

prima ricostruzione: accanto è stata infatti ritrovata una bottiglietta contenente liquido<br />

13


infiammabile. “C’è amarezza - ha commentato l’arciprete, don Angelo Corno - ma credo si<br />

tratti del gesto di uno squilibrato: evitiamo di farne un caso più grande di quello che è”. Il<br />

Santuario di Santa Maria del Monte sopra Varese è uno dei simboli della spiritualità<br />

ambrosiana, meta di pellegrinaggi e raduni. Sull’episodio segnalato da alcuni fedeli che si<br />

recavano a messa, ha indagato la Digos.<br />

Il punto della questione, trattato nel corso del libro, non è il vandalismo, ma<br />

l’intolleranza culturale manifestata da individui come Mister Adel Smith, presidente di un<br />

piccolo gruppo di combattenti per l’Islam, che hanno fatto della rimozione del Crocifisso dai<br />

luoghi pubblici una battaglia legale, appellandosi al giudice dell’Aquila. Questo evento non<br />

può essere sottovalutato, anche se è di piccole proporzioni, perché è altamente indicativo di<br />

una mentalità che fino a questo momento non ha avuto la “spavalderia” di manifestarsi, ma si<br />

sta sempre più diffondendo con atteggiamenti impositivi. In altre parole, Smith ha deciso di<br />

acquistare potere e controllo sugli altri avvalendosi della battaglia per la rimozione del<br />

Crocifisso da scuole e ospedali. Coloro che ragionano come Smith dividono il mondo in due<br />

categorie sulla base del proprio egocentrismo. Quelli che si oppongono alle loro mire e ai loro<br />

desideri vanno distrutti, vinti o convertiti. Essi possono proteggere le vittime dagli altri, ma il<br />

prezzo che questi Guerrieri negativi pretendono per questo è che a quel punto le stesse vittime<br />

siano totalmente asservite al loro dominio. È questo il caso di ogni tipo di imperialismo e<br />

quello sbandierato da Smith è un vero e proprio genere di predominio imperialista. Questo<br />

atteggiamento si esplica anche verso le donne islamiche che pagano un prezzo altissimo per<br />

essere protette da questi “gerarchi nazisti”.<br />

La strategia messa in atto da Smith, tuttavia, può seguire varie “traiettorie”. Il fatto che<br />

guadagni terreno o decida di attuare una ritirata dipende tuttavia dalla politica dei governi, che<br />

può essere più o meno adatta a trattare questo delicato problema, tenendo presente che per<br />

l’integralista la debolezza equivale ad un invito ad aumentare l’aggressività e il desiderio di<br />

conquista territoriale, politica e strategica.<br />

Ed è significativo che il caso Smith sia scoppiato pochi giorni dopo la proposta di<br />

legge del vice presidente del Consiglio Fini sull’estensione del voto agli immigrati per le<br />

elezioni amministrative, come se questa “concessione” avesse sollecitato la “fase delle<br />

richieste” di ben altra portata, che coinvolgono il livello identitario dei cittadini italiani. Alla<br />

“debolezza” apparente del governo è subentrata la rivendicazione di “diritti immaginari” di<br />

Smith di veder “tutelati” i suoi figli dall’immagine del Crocifisso appesa alle pareti dell’aula.<br />

Le condizioni affinché possa esserci il dialogo sono costituite da un livello relazionale<br />

paritario i cui viene accettata la tesi dell’altro. A tutt’oggi nella nostra società multiculturale,<br />

14


non sembra che i valori condivisi e l’identità nazionale fondata su tali valori siano stati<br />

accettati quali radici fondanti e costitutive della nostra società. Per questa ragione, riteniamo<br />

opportuno mettere in rilievo quanto e come tali radici storico-culturali rappresentino per<br />

l’“inconscio collettivo” della nazione italiana e dell’Europa il fondamento basilare della<br />

propria identità.<br />

L’omogeneizzazione, il livellamento, l’appiattimento rappresentano la negazione della<br />

propria storia e l’annullamento della propria identità. In nome della tolleranza, non si può<br />

tollerare di essere calpestati nella propria identità e nella propria storia. Ma per ottenere<br />

rispetto dagli altri, bisogna innanzitutto essere consapevoli della propria identità, riconoscerne<br />

la matrice storico-culturale e i valori condivisi che supportano tale identità. Rispetto della<br />

diversità significa anche avere coscienza della propria diversità e chiederne il rispetto. Ciò<br />

non significa rinunciare a cercare un’intesa basata sui valori condivisi tra identità diverse, ma<br />

definire i confini tra ciò che può essere accettato sul piano storico-culturale e ciò che<br />

contraddistingue una diversità tra livelli evolutivi che non può essere ricondotta sullo stesso<br />

piano. In altre parole, il livello evolutivo di Mister Smith fissato sul lato Ombra del Guerriero<br />

non può essere messo sullo stesso piano di un Guerriero evoluto che cerca il dialogo<br />

paritetico. I due livelli sono troppi distanti evolutivamente per poter trovare un’intesa. In tal<br />

caso, il dialogo non sembra possibile, in quanto manca da una parte il riconoscimento della<br />

tesi dell’altro.<br />

Qualora sia possibile il dialogo, la definizione della propria identità storico-culturale è<br />

essenziale per poter chiedere all’altro il riconoscimento di tale identità. Come posso, infatti,<br />

chiedere all’altro di rispettare la mia identità, se non so nemmeno io quale sia? Dovrei<br />

chiedere all’altro di definirmi? Se non so chi sono, è facile che venga annullato e calpestato da<br />

chi sa quali sono le sue radici, la sua storia, la sua battaglia.<br />

Non basta manifestare per la pace; bisogna agire per rendere possibile la pace. E la<br />

presa di coscienza delle proprie radici storico-culturali, nel rispetto di quelle altrui,<br />

rappresenta un modo efficace di agire per rendere possibile la pace, chiedendo il rispetto della<br />

propria identità, della propria storia, dei propri valori condivisi, del proprio legame con il<br />

territorio.<br />

Solo se saremo in grado di proteggere la nostra identità storico-culturale dalla<br />

profanazione e dall’insulto di pregiudizi indotti da ideologie fondamentaliste - come l’idea<br />

che tutti gli occidentali sono crociati o colonialisti - potremo passare dal ruolo di pacifisti a<br />

quello di pacificatori, che investono le loro energie per salvaguardare la propria cultura e<br />

civiltà, e non solo l’ambiente. Gli ambientalisti si preoccupano della cattiva gestione dei<br />

15


ifiuti tossici e nucleari, della concentrazione di onde elettromagnetiche in prossimità dei<br />

centri abitativi, della contaminazione chimica, degli OGM, dell’effetto serra, della<br />

deforestazione, dell’estinzione di specie animali e vegetali rare, ma non hanno messo in luce<br />

che il Crocifisso di Tor Vergata è finito, mutilato, in una discarica. Non valutano le “tossine<br />

psichiche” che vengono messe in circolo nella società, contaminando, non il paesaggio, ma le<br />

“menti”. Chi si prenderà cura della nostra cultura, delle nostre migliori tradizioni, delle nostre<br />

radici dagli assalti dei fondamentalisti, ma, più ancora, dell’inedia ammantata di tolleranza dei<br />

nostri connazionali ed <strong>eu</strong>ropei?<br />

La cultura degli ultimi duecento anni, in occidente, è anticristiana. Mentre l’Islam si è<br />

fermato al Medioevo e non si è cimentato con la filosofia post-medioevale, il cristianesimo si<br />

è cimentato con il pensiero laico.<br />

La cultura contemporanea laica è nemica tanto dell’Islam che del Cristianesimo e fa<br />

piazza pulita della tradizione occidentale: ciò va ben al di là di un ingenuo scetticismo. Sotto<br />

certi aspetti, c’è più congruenza tra cristianesimo e islamismo che si rifanno entrambi alla<br />

sapienza greca. Non dimentichiamo che Averroé e Avicenna mettono d’accordo il Corano e la<br />

filosofia greca. La critica radicale al cristianesimo condotta dalla cultura laica negli ultimi due<br />

secoli sembra aver escluso le componenti del cristianesimo dalla filosofia della scienza. La<br />

scienza, per la cultura moderna, è probabilistica e relativistica, in quanto ogni affermazione<br />

che implica “certezza” e “credo” è espressione di una religione, non di una scienza.<br />

Proseguendo su questa strada, tuttavia, per coerenza, il relativista non potrebbe<br />

nemmeno attraversare un incrocio con un semaforo, perché tutto è relativo nel valutare la<br />

destra e la sinistra e indicare con certezza di che colore è il semaforo.<br />

Si dice anche che la scienza è atea, senza Dio. Ma lo scienziato relativista ateo è una<br />

contraddizione in termini, perché l’ateismo è una professione di “fede nella non-esistenza di<br />

Dio”.<br />

Per difendersi dal fondamentalismo come pretesa di negare l’autonomia della legge<br />

umana rispetto a quella divina di cui i fondamentalisti sono portatori, dopo il 1789 i fautori<br />

della “rivoluzione laica” sono diventati i paladini del “laicismo fondamentalista”, assai vicino<br />

al relativismo radicale.<br />

Accanto al fondamentalismo religioso, che comprende il fondamentalismo<br />

musulmano, cattolico, induista, ebraico ecc., possiamo dunque annoverare anche il<br />

fondamentalismo laico ben espresso dalla Rivoluzione Francese e in particolare dal Regime<br />

del Terrore. Ma si potrebbe anche parlare del “fondamentalismo ateo” della Rivoluzione<br />

Russa e del regime di Stalin, che ha fatto fucilare un milione di persone senza processo e ne<br />

16


ha fatto morire decine di milioni nel Gulag.<br />

Il relativismo culturale laico del nostro tempo, dietro la copertura di tolleranza, in<br />

realtà si rifiuta di affrontare i problemi e di trovare una soluzione efficace. Non sembra infatti<br />

“vero” che tutte le civiltà sono uguali o che una è superiore ad un’altra, secondo la famosa<br />

espressione di Berlusconi, che ha suscitato tante polemiche internazionali all’inizio del suo<br />

secondo mandato elettorale (il primo si è concluso rapidamente). Anche religioni<br />

apparentemente “inoffensive” come l’induismo hanno portato gravi problemi sul piano dei<br />

diritti umani.<br />

La filosofia relativista del nostro tempo indebolisce le difese: non posso parlare ad una<br />

forte identità se io stesso sono privo di identità e non so chi sono.<br />

L’Occidente non sa reagire e difendersi di fronte alla minaccia dell’Islam. La libertà di<br />

opinione appare il bene supremo, ma essa non può distruggere la libertà dell’altro.<br />

Il cardinale Ratzinger, Segretario di Stato del Vaticano, invitato al Senato italiano nel<br />

maggio 2004, ha parlato di “odio di sé dell’occidente strano e patologico. L’Occidente non<br />

ama più se stesso e vede solo ciò che è deprecabile della propria storia”. Pertanto, gli occorre<br />

una “critica e umile accettazione di sé, se vuole sopravvivere”. Inoltre, aggiunge il cardinale,<br />

“la multiculturalità è abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio”. Bisogna “nutrire<br />

rispetto per ciò che sono”, per il proprio bagaglio culturale e storico.<br />

I cristiani si lasciano vilipendere in nome della tolleranza. La loro debolezza inerme<br />

attizza lo spirito di conquista degli aspiranti invasori.<br />

L’avere una forte identità non è affatto incompatibile con il dialogo; anzi, lo agevola,<br />

perché suscita il rispetto dell’interlocutore che non diventa aggressivo e sprezzante. Noi<br />

crediamo di diventare aggressivi, se abbiamo una forte identità come consapevolezza dei<br />

nostri valori e delle nostre radici. Viceversa, proprio la sicurezza ci fa diventare meno ansiosi<br />

e, perciò, più disponibili al dialogo. Per dare una stretta di mano, occorrono le mani di due<br />

interlocutori sullo stesso piano. Con una sola mano, non si stringe nulla. È il “nulla<br />

identitario” che dovrebbe spaventarci, non l’energia della stretta.<br />

Il relativista è più intollerante di uno con una forte identità, come dimostra la storia<br />

recente delle prese di posizione nei confronti del velo islamico. Il relativismo affievolisce le<br />

nostre difese culturali e, perciò, attizza le velleità di espansione di conquista di altre culture<br />

più agguerrite e più “identitarie”. Il relativismo non ci dà più argomenti da dibattere né forza<br />

di combattere per la tutela delle nostre radici e dei nostri valori condivisi. Il relativismo<br />

laicista di stato spalanca le porte all’annichilimento della nostra cultura. Il relativismo<br />

culturale genera disorientamento e quel genere di ansia diffusa che deriva dal “tutto è vero,<br />

17


anche il suo contrario”. Non avendo più punti di riferimento, l’individuo si rifugia nel<br />

conformismo da automi, tipico delle democrazie moderne, oppure nelle ideologie totalitarie.<br />

Non è forse un caso che il fondamentalismo islamico si stia espandendo nella nostra società e<br />

in particolare in quelle democrazie <strong>eu</strong>ropee in cui una certa interpretazione della laicità dello<br />

stato favorisce di fatto l’attecchimento di ideologie politiche e religiose di ogni genere,<br />

proprio perché lo stato si presenta “vuoto” di identità. Per contenere l’irruenza di un’identità,<br />

non si può contrapporre il “vuoto”, ma un’altra identità. Il “vuoto” di identità, al contrario,<br />

sollecita a riempire questo vuoto con contenuti ideologici fondamentalisti.<br />

Negli anni ’70, Acquaviva parlava dell’“eclissi del sacro” e della religione come figlia<br />

dell’ignoranza, della paura e della povertà. Oggi sembra invece che la cultura religiosa sia<br />

connessa ad una raffinata e laicissima sensibilità ai valori storico-culturali della nostra civiltà.<br />

Ignorarla significherebbe sprofondare nell’abisso dell’ignoranza, dell’ottusità,<br />

dell’insensibilità, del degrado morale.<br />

Cristo appartiene alla nostra cultura e alla nostra civiltà e non al clero e al loro<br />

insegnamento. Non voglio essere fraintesa; occorre distinguere tra le due dimensioni: Cristo è<br />

la figura carismatica che ha improntato la nostra civiltà e il clero è una categoria in parte<br />

responsabile della Rivoluzione Francese e della decapitazione dello stesso clero; ma, ahimè,<br />

insieme ad esso la Rivoluzione ha ucciso anche Cristo e il cristianesimo, issando in sua vece<br />

una “religione laica, politica”. È giunto il momento di operare una distinzione tra Cristo e il<br />

clero, come a suo tempo la Rivoluzione Francese separò il potere politico da quello religioso,<br />

estromettendo indebitamente anche Cristo e il cristianesimo dal concetto di “laicità dello<br />

stato”.<br />

Ora invochiamo il ripristino di Cristo, del valore della persona che egli ha introdotto<br />

nella nostra cultura e civiltà, all’interno delle istituzioni <strong>eu</strong>ropee, quale parte integrante<br />

costitutiva della nostra Identità Europea.<br />

I diritti umani di cui oggi ci facciamo portatori hanno una matrice cristiana.<br />

Prescindere da Cristo significa amputare la nostra Identità della linfa vitale che egli ci ha<br />

trasmesso con il Vangelo.<br />

“Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Matteo 24, 35), dice<br />

Gesù, a conclusione della parabola del fico: “Quando ormai il suo ramo diventa tenero e<br />

spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete tutte queste<br />

cose, sappiate che Egli, è proprio alle porte” (Matteo, 24, 32-33).<br />

Alcune righe più avanti, Gesù espone una metafora: “Qual è dunque il servo fidato e<br />

prudente che il padrone ha preposto ai suoi domestici con l’incarico di dar loro il cibo al<br />

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tempo dovuto? Beato quel servo che il padrone al ritorno troverà ad agire così! In verità vi<br />

dico: gli affiderà l’amministrazione di tutti i suoi beni. Ma se questo servo malvagio dicesse<br />

in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a bere<br />

e a mangiare con gli ubriaconi, arriverà il padrone quando il servo non se l’aspetta e nell’ora<br />

che non sa, lo punirà con rigore e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano; e là sarà<br />

pianto e stridore di denti” (Matteo 24, 45-50). Non è difficile cogliere nelle parole di Gesù<br />

una chiara allusione alle “percosse” che la Chiesa avrebbe inflitto ai fedeli e non, attraverso i<br />

Tribunali dell’Inquisizione, il Santo Uffizio, i roghi degli eretici e delle donne definite<br />

“streghe” dai misantropi ecc. Il fatto di bere e mangiare con gli ubriaconi potrebbe essere<br />

connesso con le “mollezze” denunciate da Lutero nei confronti della Chiesa del suo tempo.<br />

Non mi si fraintenda: la denuncia dei misfatti della Chiesa non coincide affatto con il distacco<br />

dalla Chiesa stessa, come in una Famiglia la critica al comportamento dei genitori non<br />

coincide affatto con il rinnegamento della propria appartenenza alla famiglia.<br />

L’uso che il “clero umano” ha fatto del Vangelo è una questione che riguarda la storia<br />

della Chiesa e delle sue aberrazioni, a cominciare dalle crociate, dall’Inquisizione, dai roghi<br />

degli eretici e delle donne, dall’Indice dei libri proibiti e si potrebbe prolungare l’elenco fino a<br />

riempire alcune pagine.<br />

Cristo è parte della nostra cultura, mentre la Chiesa rientra nella sfera di influenza<br />

politica e, a suo tempo, anche militare, di uno Stato a tutti gli effetti, con i suoi difetti e i suoi<br />

pregi, che può essere accettato o rifiutato a seconda del gradimento soggettivo.<br />

D’altro lato, il “laico” Gesù che ha detto espressamente “date a Cesare quel che è di<br />

Cesare e a Dio quello che è di Dio”, separando nettamente il potere politico da quello<br />

religioso, probabilmente non avrebbe gradito che lo Stato laico permettesse lo scempio che è<br />

stato fatto del Crocifisso di Tor Vergata, abbandonato in una discarica alla mercé di ogni<br />

vandalismo. Qui si pone il problema non tanto - e non solo - della tutela dei beni culturali, ma<br />

soprattutto dei significati storico-culturali e dei valori condivisi dalla nostra cultura e dalla<br />

nostra civiltà. La questione rimanda alla definizione della nostra Identità di Europei e non<br />

solo di cristiani.<br />

Il Crocifisso è un simbolo culturale che non fa riferimento ad una fede o ad una Chiesa<br />

specifica. Nelle interviste televisive fatte alla popolazione dopo la richiesta di Mister Smith di<br />

togliere il Crocifisso dall’aula del figlio, ho sentito un uomo dichiaratamente comunista che<br />

ha detto: “Il Crocifisso appartiene alla nostra cultura”.<br />

La pace comporta assunzione di responsabilità anche nella definizione della propria<br />

identità e nella difesa dei valori condivisi che la sostengono.<br />

19


Ricusare o ignorare le proprie radici e la propria identità storico-culturale significa<br />

lasciare libero campo all’affermazione incontrollata di altre identità che prenderanno il<br />

sopravvento imponendo la loro logica, spesso di matrice ideologica, con tutte le implicazioni<br />

già segnalate relative all’ideologia. Ciò non significa che la nostra cultura debba essere<br />

convinta della propria superiorità su tutte le altre, ma diventare consapevole della propria<br />

identità e affermarla, sia pure col rispetto per le altre identità, senza paura di essere accusata<br />

di “fascismo” da chi non ha compreso la differenza tra la cultura del dialogo e del rispetto per<br />

gli altri nella consapevolezza della propria identità e quell’ideologia repressiva che ha<br />

soppresso la libertà di stampa, di associazione e di opinione.<br />

Al Qaida costituisce un nuovo tipo di Islam che sta nascendo. Nel maggio 2004 il boia<br />

si stava accingendo a decapitare, in ripresa con la videocamera, il povero imprenditore<br />

americano colpevole di essere presente in Iraq al momento sbagliato, quando i terroristi<br />

volevano esibire un trofeo di barbarie come rappresaglia per le torture inflitte ai prigionieri<br />

iracheni. Si udiva in contemporanea un proclama rivolto agli “islamici donnicciole che non<br />

seguono la loro strada”. L’urlo “Allah è grande” ha coperto il grido di morte della vittima.<br />

L’associazione tra Allah e la barbarica uccisione resta impressa nel video che ha fatto il giro<br />

del mondo via Internet.<br />

Gli islamici che non seguono la strada della barbarie vengono raffigurati simili alle<br />

donne. Questa “equivalenza complessa” ci fa capire quanto importante sia il ruolo della donna<br />

nell’affermazione dei diritti umani e civili. Basti pensare che in Giordania, Paese islamico<br />

moderato, c’è il delitto d’onore e un terzo delle vittime ha meno di 28 anni. La violenza<br />

contro le donne è legalizzata e istituzionalizzata. Una donna stuprata viene uccisa dai<br />

familiari, fratelli o padre, perché ha infangato l’onore lasciandosi violentare. Ad Istanbul, nel<br />

2004, una giovane stuprata e segregata per tre giorni che ha denunciato il crimine alla polizia,<br />

è stata uccisa dal fratello, perché ha disonorato la famiglia. I matrimoni contrattati sono molto<br />

diffusi nell’ambiente islamico, e le ragazze sono costrette a sposare chi viene designato dalla<br />

famiglia come marito, come se la donna fosse una schiava che non può esercitare diritti e non<br />

può avere alcuna proprietà, nemmeno della sua persona.<br />

Il timore che le donne islamiche cambino ha portato una parte dell’Islam a chiudere i<br />

rapporti con l’Occidente e con gli USA. La “questione femminile”, pertanto, è di importanza<br />

cruciale nell’evoluzione della cultura e della civiltà. Battersi per il riconoscimento della<br />

dignità della donna equivale a far evolvere la cultura e la civiltà. È opportuno precisare che il<br />

tema della dignità della donna non evidenzia solo il suo ruolo di moglie e madre, ma anche le<br />

sue risorse umane e mentali, indispensabili nella costruzione della società e nella salvaguardia<br />

20


dei valori condivisi, che vengono trasmessi innanzitutto ai figli.<br />

Parallelamente all’“Islam molteplice”, che oggi comprende anche la terrificante<br />

ideologia di Al Qaida, codificabile come il peggiore nazislamismo, si fa strada una<br />

deislamizzazione del modello islamico, a cominciare dalle donne, che vedono le “colleghe”<br />

occidentali “diverse”.<br />

Anche se il mancato riconoscimento dei diritti fondamentali della donna ha bloccato il<br />

processo di avvicinamento all’Occidente, è tuttavia possibile il dialogo con l’Islam per<br />

favorire questo percorso. E l’evoluzione della Tunisia in questa direzione rappresenta una<br />

chiara testimonianza di questa possibilità. D’altro lato, è dal maggio 2004 che in Arabia<br />

Saudita è stato concesso alle donne il diritto di guidare l’auto. Su questo terreno, è ancora<br />

possibile fare altri passi avanti.<br />

Per combattere il nazislamismo, con la partecipazione dei Paesi islamici moderati e/o<br />

contrari al progetto imperialista di Al Qaida, occorre intervenire con una strenua resistenza,<br />

paragonabile a quella <strong>eu</strong>ropea contro il nazifascismo durante la seconda guerra mondiale, che<br />

non implica solo l’impiego delle forze militari. Il 29 maggio 2004, in prossimità della sua<br />

visita all’Italia, Bush parla della “guerra in Iraq come quella contro il nazismo. Al Qaida è il<br />

nuovo nemico come il nazifascismo”. Rilancia “una nuova strategia per combattere il<br />

nemico... Sconfiggeremo il nemico e manterremo l’Iraq come terreno di libertà”.<br />

Il nazislamismo va combattuto su vari fronti e a molteplici livelli di intervento, che<br />

non comprendono solo o principalmente quello militare, come vedremo nel corso<br />

dell’esposizione. È di importanza cruciale il dialogo con l’Islam, in cui gli islamici si<br />

impegnino a capire noi, mentre noi cerchiamo di capire loro. In Francia cresce l’ostilità verso<br />

i musulmani; un sondaggio reso noto in Italia il 21 maggio 2004 al TG2 serale indica che<br />

l’Islam non è considerato compatibile con i valori della Repubblica Francese.<br />

Non a caso i fondamentalisti e i terroristi ripudiano energicamente il dialogo,<br />

considerato il “nemico” della diffusione delle idee estremiste.<br />

L’altro fronte su cui combattere consiste nell’assertività, in cui non c’è la titubante<br />

ritrosia nel sostenere le nostre radici storico-culturali e i nostri valori condivisi, che<br />

supportano la nostra Identità Europea, nazionale, regionale, locale.<br />

In effetti, oggi, è diffusa una cultura del diritto di professare la propria fede, ma non la<br />

cultura del dovere di salvaguardare la nostra cultura.<br />

Il timore esitante di affermare la propria eredità cristiana e greco-romana getta benzina<br />

sul fuoco alle menti che intendono imporre le loro regole alla nostra società con la strategia<br />

del terrore, per conquistarci, ricalcando così le orme dei nazisti intenzionati a germanizzare<br />

21


l’Europa. Oggi i nazislamisti vogliono fare dell’Europa un califfato, islamizzandoci nella<br />

cultura e imponendo le loro regole e la loro politica con gli attentati.<br />

La Resistenza civile e culturale che le donne possono opporre con i loro valori e le<br />

loro risorse umane e intellettuali va ben al di là del ruolo di staffette che veniva loro<br />

assegnato durante la Resistenza nella seconda guerra mondiale.<br />

Sarà bene ricordare qui il determinismo culturale messo in evidenza dagli studi<br />

comparati degli antropologi. Le qualità femminili descritte da Helene D<strong>eu</strong>tsch, in particolare<br />

la “passività”, non dovrebbero pertanto essere viste come dati costituzionali, bensì in gran<br />

parte come emanazione della nostra cultura.<br />

Nel mondo protetto del bambino, la società non comprende che l’ambiente immediato<br />

familiare e scolastico, il quale fa sentire la sua presenza ed esercita la sua pressione. È fuori<br />

discussione che gli aspetti sociologici giocano un ruolo molto importante, in quanto la<br />

struttura della famiglia, gli atteggiamenti dei genitori, tutta l’educazione, sono determinati dal<br />

sistema socio-culturale in cui è inscritto il cerchio assai limitato che circonda il bambino. Se<br />

gli psicologi ne hanno spesso fatto astrazione, ciò è dovuto al fatto che abbiamo inteso la<br />

socializzazione dell’individuo limitatamente al quadro della nostra civiltà occidentale. Entro<br />

tale quadro, la socializzazione si realizza pressoché costantemente nella stessa maniera, cioè<br />

attraverso stadi ben determinati, simili nei diversi ambienti e paesi. Le variazioni, peraltro non<br />

molto importanti, riguardano soprattutto l’età in cui appaiono questi stadi, non l’ordine della<br />

loro successione.<br />

Da un tipo di cultura ad un altro, in compenso, e per quanto esistano delle costanti<br />

sicure, queste fasi saranno più o meno percettibili e non rivestiranno sempre lo stesso<br />

significato. Per fornire un esempio scelto fra tanti, Jean Piaget ha rilevato la forma animistica<br />

del pensiero infantile già verso i sette-otto anni. Nulla di simile accade, secondo Margaret<br />

Mead, per i bambini Manus, popolo primitivo di un’isola della Nuova Guinea, caratterizzato<br />

da un marcato realismo. I piccoli Manus non credono come i loro coetanei occidentali che la<br />

luna o il sole siano come delle persone; essi non attribuiscono né intenzioni né sentimenti alle<br />

cose inanimate e tutto questo perché i genitori Manus non hanno mai insegnato ai loro<br />

bambini a vedere il mondo se non in una prospettiva reale e naturalistica. L’estrema rarità del<br />

gioco simbolico - il “giocare a fingere di”, ossia ciò che una bambina definiva assai<br />

significativamente “giocare a mentire” - si spiega nello stesso modo. Secondo la Mead<br />

l’animismo infantile sarebbe favorito in buona parte, nella nostra cultura, da atteggiamenti<br />

ludici e compiacenti dell’adulto. Al contrario, l’animismo che si incontra in quasi tutte le<br />

civiltà primitive deriva da credenze tradizionali, trasmesse da una generazione all’altra.<br />

22


Studiando i vari aspetti dell’evoluzione sociale dell’essere umano, è dunque possibile<br />

scorgere analogie e differenze tra una cultura e l’altra.<br />

L’aspetto a mio avviso fin qui trascurato riguarda la consapevolezza “politica”<br />

dell’influenza del sistema socio-culturale sulla concezione del ruolo e delle risorse umane e<br />

mentali femminili. L’affossamento del femminile nella progettazione politica della nostra<br />

società è forse alla base di molte sciagure, tra cui la guerra.<br />

La posizione della donna nella società attuale.<br />

Ai nostri giorni i cambiamenti sociali, economici e politici hanno modificato o stanno<br />

modificando in maniera radicale la posizione della donna. La ragazza moderna è cresciuta<br />

nell’idea che dovrà diventare capace di arrangiarsi da sola. Sono rare le ragazze che non<br />

apprenderanno un mestiere. Sociologi e psicologi parlano volentieri di “virilizzazione” della<br />

donna e di “femminilizzazione” dell’uomo. Ed è vero che le differenze fra i sessi tendono ad<br />

attenuarsi, sia nel modo di vestire, sia nelle diverse professioni, nelle attività che sempre<br />

meno si dividono in esclusivamente femminili o esclusivamente maschili. La nostra società<br />

tecnologica sta forse dando vita ad un nuovo tipo di donna? Non è impossibile, ma<br />

un’evoluzione di quest’ordine è sempre estremamente lenta. La trasformazione che si viene<br />

profilando non sembra tuttavia essere accompagnata da un adeguamento “politico”, in quanto<br />

coloro che elaborano i programmi sono uomini. In effetti, sono ancora rare le donne che, nella<br />

loro professione o nelle loro attività sociali, politiche, ecc., occupano dei posti-chiave. I ruoli<br />

di subalterne - senza alcun senso peggiorativo - che la società continua a far loro svolgere<br />

mantiene la società a livello di “vino nuovo” in otri vecchi. Così le risorse umane, intellettuali<br />

e morali delle donne vengono sprecate, annullate e confinate a ruoli marginali, a tutela di una<br />

presuntuosa quanto anacronistica “superiorità maschile”, “dominazione maschile”, “direttività<br />

maschile”.<br />

La separazione dei sessi è stata a lungo attuata nelle scuole e sul lavoro, o addirittura è<br />

stato negato alle donne l’accesso a certi impieghi, come il lavoro in banca, fino a qualche<br />

decennio fa. È indubbio che quando oggi, un ragazzo e una ragazza, un uomo e una donna,<br />

condividono giornalmente determinate attività, sono esposti alla reciproca stimolazione<br />

sessuale, ma tale stimolazione non è estranea alla nostra civiltà, né potenzialmente distruttiva.<br />

È il genere di stimolazione che l’individuo deve imparare a dominare, e gli sarà certo più<br />

facile conseguire tale risultato attraverso le esperienze della vita reale, anziché con fantasie a<br />

vuoto, o con le sole attività ricreative. Il mondo è fatto di due sessi e qualsiasi separazione tra<br />

i sessi impedisce la condivisione del maggior numero di esperienze e il completamento<br />

23


vicendevole. Svolgere insieme un problema di algebra, avere in comune un insegnante<br />

antipatico, reagire in modo diverso a una poesia o a una crisi scolastica, sono tutte esperienze<br />

che preparano alla vita comune meglio di quanto possa fare una sala da ballo.<br />

Dare alle donne l’opportunità e lo spazio di cimentarsi accanto agli uomini nella<br />

scuola e nella vita significa arricchire la società di nuove risorse e non impoverirla, come<br />

temono alcuni.<br />

Berthe Reymond-Rivier scriveva nel 1965 (prima edizione in francese) nel libro “Lo<br />

sviluppo sociale del bambino e dell’adolescente” che “il giorno in cui le donne maneggeranno<br />

le leve del comando, le cose cambieranno sicuramente e non necessariamente nel senso più<br />

favorevole” 1 . Il radicamento della diffidenza verso le donne sembra dunque pervadere anche<br />

il mondo degli psicologi, i cui “pregiudizi culturali” contribuiscono a rallentare l’utilizzo delle<br />

migliori risorse femminili nella società. Le donne sono esseri complessi, al pari degli uomini,<br />

e in loro ci sono molti tratti che possono essere definiti femminili o maschili dalla cultura.<br />

Questa definizione, a sua volta, può rientrare in categorie pregiudiziali. Ad esempio,<br />

considerare la passività come femminile equivale a dire che una donna, per essere<br />

graziosamente femminile, deve essere necessariamente passiva.<br />

È ragionevole supporre, viceversa, che una donna dalla personalità equilibrata e ben<br />

formata, possa utilizzare caratteristiche femminili come la sensibilità, la dolcezza o maschili<br />

come la durezza o la competitività, a seconda delle esigenze imposte dalle situazioni. Come<br />

ho dimostrato in altri volumi, basandomi sulla mia esperienza di psicoterap<strong>eu</strong>ta, oggi le donne<br />

sono in grado di svolgere svariati ruoli con passione, competenza e tenacia: il ruolo di moglie,<br />

madre e lavoratrice in carriera. Ciò che manca è l’appoggio politico-sociale in questa impresa.<br />

E ritengo che solo altre donne possano interpretare bene i bisogni delle donne al riguardo.<br />

Nei sistemi totalitari l’individuo appartiene allo stato e, pertanto, viene “inquadrato”<br />

per vivere in funzione degli interessi dello stato.<br />

Sia il comunismo che il nazifascismo promuovono il livellamento e<br />

l’irreggimentazione di massa, in cui l’individuo è “un granello di polvere”, per usare<br />

un’espressione di Hitler.<br />

L’istituzione del pensiero unico, dell’unilogica, riduce la dialettica parlamentare ad un<br />

unico partito di stato riconosciuto legittimamente.<br />

Nei sistemi democratici, viceversa, l’individuo appartiene a se stesso e l’accento viene<br />

posto sulla responsabilizzazione individuale nelle scelte e nelle realizzazioni.<br />

1 Reymond-Rivier B., Lo sviluppo sociale del bambino e dell’adolescente, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 188<br />

24


Al posto dell’omogeneizzazione di massa c’è la valorizzazione della dignità,<br />

dell’unicità dell’individuo che fa di ciascuno un essere diverso dagli altri e al tempo stesso<br />

con pari diritti e doveri di fronte allo stato.<br />

La considerazione delle caratteristiche individuali porta anche ad individuare diversi<br />

livelli di crescita e a sollecitare l’evoluzione a livelli superiori man mano che l’individuo è<br />

pronto per tale passaggio. L’obiettivo è la realizzazione di una umanità compiuta, matura e,<br />

come tale, pronta ad elargire le proprie risorse ai fratelli, concittadini, connazionali e al<br />

mondo intero.<br />

La plurilogica, che esprime la possibilità di vedere il medesimo oggetto di<br />

osservazione da svariati punti di vista, girando attorno ad esso, è un altro tratto distintivo delle<br />

democrazie. Il rispetto della diversità dei punti di vista esprime la capacità del sistema di<br />

essere flessibile e di autocorreggersi in base all’effetto della molteplicità dei punti di vista.<br />

Il punto di vista delle donne è vitale e determinante nella cultura incentrata sulle<br />

risorse e le peculiarità individuali. Proprio la diversità della donna rispetto all’uomo, infatti,<br />

può correggere gli “errori” di valutazione e di attuazione pratica degli interventi da parte degli<br />

uomini. Una delle maestre di mio figlio, durante una cena conviviale di conclusione della<br />

quinta elementare, mi ha parlato a lungo della sua esperienza nella scuola elementare in cui<br />

insegna da oltre vent’anni. Ha espresso questa valutazione: “Nel grande numero osserviamo<br />

differenze tra maschi e femmine. Le bambine sono più riflessive, più moderate, più tenaci, più<br />

pratiche, e sviluppano prima la concettualizzazione, anche se i maschi sono più simpatici, con<br />

le loro battute”.<br />

fondamentali.<br />

Queste differenze potranno arricchire l’umanità di contributi sostanziali e<br />

Un obiettivo auspicabile.<br />

Essere <strong>eu</strong>ropei senza barriere pregiudiziali costituisce un obiettivo da raggiungere, una<br />

condizione desiderata e desiderabile. Ma per realizzare questa condizione occorre forse<br />

predisporre un “piano”. La leadership deve rispondere alla sfida di come seguire il percorso<br />

che porta allo stato desiderato.<br />

Il processo generale della creatività e della pianificazione efficace comporta<br />

innanzitutto la capacità di esplorare un oggetto da un gran numero di posizioni percettive<br />

diverse. L’osservazione di uno dei disegnatori che collaborano con Walt Disney illumina<br />

questo aspetto essenziale della strategia di Disney: “E’ come se ci fossero tre diversi Walt, il<br />

sognatore, il realista, e il critico. Non sapevi mai quale di queste personalità avresti<br />

25


incontrato”. L’individuazione di un qualunque piano degno di questo nome comporta la<br />

necessità di coordinare le tre componenti descritte dal processo o le tre personalità: il<br />

sognatore, il realista e il critico. Privo del sostegno del realista, il sognatore non è in grado di<br />

tradurre le sue idee in espressioni tangibili. Il critico e il sognatore da soli, senza il contributo<br />

del realista, non possono che restare prigionieri di un perenne conflitto. Il sognatore e il<br />

realista possono creare un’idea, che però senza il critico rischia di non essere davvero buona.<br />

Il critico, d’altro canto, senza il realista e il sognatore, non è che un predatore.<br />

La funzione costruttiva del critico è quella di favorire il processo di valutazione e di<br />

rifinitura dei prodotti del pensiero creativo. Chi ha capacità innovative, ma manca di realismo<br />

e di prospettiva critica, finisce per avere un’idea al minuto, ma non riesce a tradurla in pratica.<br />

Una pianificazione efficace comporta la capacità di sintetizzare processi e fasi diverse.<br />

La capacità di sognare (il sognatore) è necessaria per formare idee e obiettivi nuovi. La<br />

capacità realistica (il realista) è indispensabile per tramutare i concetti in espressioni concrete.<br />

La capacità critica (il critico) è essenziale per filtrare le idee e per affinarle. Ciascuna di<br />

queste fasi costituisce di per sé una strategia di pensiero complessiva che spesso tende ad<br />

entrare conflitto con le altre, invece di sostenerle. 2<br />

Il sognatore accede ad una “visione”, il realista sente, agisce, associa e si muove, il<br />

critico osserva a distanza con sufficiente distacco, per dare uno sguardo all’intero progetto,<br />

valutare persone e situazioni e i rapporti che li collegano, e le specifiche azioni. L’eccessiva<br />

vicinanza comporta il rischio di essere influenzati direttamente da altre posizioni percettive o<br />

di influenzarle. Se il critico è troppo vicino al sognatore e al realista, rischia di inibire la<br />

visione del primo e di interferire con la pianificazione del secondo.<br />

In quanto realisti, bisogna avere la capacità di spezzare i sogni in unità di dimensioni<br />

gestibili e di porle in sequenza.<br />

“Il sognatore presta attenzione al ‘quadro d’insieme’ con l’atteggiamento di chi ritiene<br />

che tutto sia possibile - scrive Dilts -. In generale, la fase di sogno è tendenzialmente orientata<br />

a una dimensione futura a lungo termine. Il pensiero qui si concentra su un quadro più ampio<br />

e sugli elementi più vari in modo da generare nuove scelte e alternative. L’oggetto primario di<br />

attenzione è costituito dalla generazione del contenuto del piano o dell’idea (il ‘che cosa’)”. 3<br />

2 Cfr. Dilts R. B., Leadership e visione creativa, Guerini e Associati, Milano, 1998, pp. 89-93<br />

3 Ibidem p. 94<br />

26


Un modello evoluto e innovativo<br />

Ma per realizzare i suoi sogni, “il realista agisce ‘come se’ il sogno fosse possibile e si<br />

concentra sulla formulazione di una serie successiva di approssimazioni alle azioni richieste<br />

per attuare davvero il sogno. La fase realistica muove verso il futuro in modo più orientato<br />

all’azione e opera in un quadro temporale più ristretto della fase del sogno. Il realista è spesso<br />

più concentrato su procedure e operazioni. Il suo oggetto principale di attenzione è ‘come’<br />

implementare il piano o l’idea”. 4<br />

La concentrazione su procedure e operazioni mette in moto l’apparato organizzativo<br />

intorno al piano o all’idea. Il processo di valutazione critica implica un distanziamento dal<br />

progetto con un “secondo sguardo” che si mette ad osservare dal punto di vista del pubblico,<br />

del destinatario del “messaggio” o del “cliente finale”. “Il critico cerca di evitare i problemi -<br />

scrive Dilts - e garantire la qualità del progetto applicando tutta una serie di criteri e valutando<br />

la tenuta dell’idea o del piano in vari scenari ipotetici. La fase critica comporta un’analisi<br />

logica del percorso diretta a individuare cosa potrebbe andare male e cosa può essere evitato.<br />

La fase critica deve incentrarsi su questioni a breve e a lungo termine e andare in cerca di<br />

possibili fonti di problemi nel passato come nel futuro. L’oggetto primario di attenzione è qui<br />

costituito dal ‘perché’ del piano”. 5<br />

In sintesi, se rivolgiamo l’attenzione a coloro che vogliono, sanno e si concedono<br />

l’opportunità di agire secondo un modello evoluto e innovativo, possiamo verificare che essi<br />

hanno la capacità di sintetizzare in sé tre caratteristiche:<br />

a) di vedere oltre l’ovvio, costruendo nuove idee e obiettivi (il sognatore);<br />

b) di approcciare le situazioni in modo realistico (il realista);<br />

c) di filtrare le idee per ridefinirle (il critico).<br />

Sono supportati da valori e da convinzioni che li portano a considerare possibile “un<br />

mondo a cui le persone desiderano appartenere”. 6<br />

Nel loro mondo la paura, quando c’è, assume la forma di tensione costruttiva, che<br />

genera curiosità, coraggio, desiderio di realizzazione e li porta a tenere presenti le<br />

conseguenze delle loro azioni, ma non genera profezie autoavverantisi e non impedisce<br />

loro l’azione.<br />

4 Ibidem p. 94<br />

5 Ibidem p. 94<br />

6 Dilts R., Leadership e visione creativa, op. cit. p. 94<br />

27


La visione del cambiamento è la visione di un cambiamento generativo, che crea<br />

nuove possibilità e li arricchisce.<br />

Uno dei principali obiettivi di questo libro consiste pertanto nell’identificare problemi<br />

potenziali: scoprire alcuni problemi potenziali e suggerire azioni preventive. Una delle<br />

situazioni più drammatiche da constatare si verifica quando i problemi assumono dimensioni<br />

così mastodontiche da risultare ormai al di fuori del controllo. Allora si fanno avanti e<br />

vengono votati personaggi come Adolf Hitler o Benito Mussolini, in linea con la logica che<br />

suggerisce: a mali estremi, estremi rimedi. Per evitare questo impatto così crudo con i<br />

problemi, quando ormai è troppo tardi per porvi rimedio con metodi “democratici”, bisogna<br />

riconoscerli in tempo, come si fa con l’azione preventiva nei confronti del cancro. Un’azione<br />

di monitoraggio continuo della “salute” dei cittadini evita l’avanzata del “male” in sordina,<br />

per poi accorgersene quando è in uno stadio così avanzato che non è più possibile arrestarlo.<br />

Coloro che non riescono ad agire una leadership evoluta ed innovativa, sono ancorati a<br />

convinzioni e pregiudizi limitanti su di sé, sugli altri e sul mondo.<br />

Talvolta, ai leader manca la coerenza tra contenuti compresi, condivisi e dichiarati e<br />

contenuti impliciti nei loro comportamenti e nelle loro azioni.<br />

Ci sono leader che proclamano l’importanza di uno spirito di collaborazione, di<br />

partecipazione e di condivisione di responsabilità da parte dei collaboratori e poi li<br />

disorientano usando uno stile di natura autoritaria che li squalifica o li disorienta.<br />

E ci sono altri leader che proclamano l’importanza di costruire e condividere uno<br />

sguardo verso l’orizzonte, l’identità e i valori dell’organizzazione, e poi si preoccupano solo<br />

di raggiungere risultati immediati che riconfermino prima di ogni cosa la loro immagine.<br />

Quando la leadership assume comportamenti schizofrenici e paradossali, diventa poco<br />

credibile, confusa, demotivante, inefficace e non consente la costruzione di situazioni che<br />

favoriscano e facilitino l’innovazione, l’evoluzione, il cambiamento e la realizzazione di<br />

risultati positivi.<br />

Da cosa dipende quel divario, a volte molto evidente, tra quanto dichiarato da molti<br />

leader, in accettazione di modelli di leadership evoluta e innovativa e quanto effettivamente<br />

operato nella pratica? Quali stati mentali ed emozionali conducono a generare comportamenti<br />

in contrasto con i modelli compresi, condivisi e dichiarati?<br />

Si innescano emozioni e si determinano comportamenti attivati da automatismi<br />

acquisiti nel passato e spesso obsoleti e/o inadeguati. Il loro sistema di archiviazione del<br />

mondo, mancando di reazioni di scelta, non permette all’individuo di provare emozioni e<br />

agire comportamenti diversi dai soliti archiviati.<br />

28


Krishnamurti descrive questo stato con queste parole:<br />

Conduco un certo tipo di vita; penso secondo certi schemi; ho certe credenze e certi dogmi e<br />

non voglio che questi schemi vengano turbati, perché in essi ho le mie radici. Non voglio che vengano<br />

turbati perché i turbamenti producono uno stato di ignoranza che io non gradisco. Se vengo strappato a<br />

tutto ciò che conosco e in cui credo, voglio essere ragionevolmente sicuro dello stato di cose a cui<br />

vado incontro. Così, le cellule cerebrali hanno creato uno schema e quelle cellule cerebrali si rifiutano<br />

di creare un altro schema, che potrebbe essere incerto.<br />

Il movimento dalla certezza all’incertezza è ciò che chiamo paura ... non ho paura nel<br />

momento presente, niente mi sta accadendo, nessuno mi sta minacciando o mi sta portando via<br />

qualcosa. Ma al di là del momento presente c’è uno strato più profondo della mente che<br />

inconsciamente o consciamente sta pensando a cosa potrebbe accadere nel futuro o si sta<br />

preoccupando che qualcosa del passato possa raggiungermi. Dunque, ho paura del passato e del<br />

futuro. 7<br />

I nostri comportamenti stanno in un rapporto forte, ma non esplicito, con le nostre<br />

emozioni e le nostre convinzioni. Per cambiare comportamento, dobbiamo occuparci di<br />

convinzioni, emozioni, valori che, certo, sono riferiti al contesto professionale, ma riguardano<br />

profondamente la persona.<br />

Attraverso la paura, si realizza un orientamento negativo che è parte del problema e<br />

impedisce di svolgere al meglio il ruolo di leader. E “l’orientamento negativo è un grosso<br />

ostacolo alla volontà di portare nella propria vita uno spirito di innovazione” 8 .<br />

La paura può avere varie accezioni e significati: sospetto, diffidenza, sfiducia,<br />

preoccupazione, ansia, angoscia. E si esprime in collera, disprezzo, risentimento, rancore,<br />

irritazione, insofferenza, presunzione, rabbia, invidia, indifferenza, senso di superiorità ecc.<br />

La paura di ciò che potrà accadere è connessa alla resistenza al cambiamento del leader. I<br />

contenuti della paura possono essere svariati: paura di perdere il controllo della situazione, di<br />

7 Krishnamurti J., Sulla paura, Astrolabio , Roma, 1998<br />

8 Bandler R., Il tempo per cambiare, NLP Italy, Alessio Roberti Editore, Urgnano, Bergamo, 2003<br />

29


perdere uno status, di non farcela a sostenere il peso del cambiamento o di saperne gestire le<br />

conseguenze, di non essere adeguati a cambiare le cose, di non essere più considerati come<br />

prima, di perdere prestigio e potere, di fallire, di essere smascherati. Al di là di questi possibili<br />

contenuti, si tratta comunque di una paura legata all’aspettativa di un possibile pericolo<br />

futuro. È una proiezione negativa nel futuro di esperienze passate, spesso infantili, vissute in<br />

assenza di risorse.<br />

La persona dominata dalla paura non è consapevole che nel suo presente ha acquisito<br />

tali risorse o può facilmente acquisirle, mettendosi così in condizione di disfarsi della paura.<br />

La persona che prova questa paura e coloro che appartengono al suo sistema rimangono<br />

prigionieri delle proprie convinzioni, percezioni e aspettative negative che ne minano la<br />

creatività e la capacità di affrontare positivamente il cambiamento. Spesso si tenta di ignorare<br />

o rimuovere questa paura, ma essa rimane e, non essendo riconosciuta e affrontata, miete<br />

vittime: il soggetto che la vive e chi lo circonda.<br />

Occorre dunque agire sull’emozione all’origine del comportamento, intervenendo e<br />

modificando i processi interni alla persona, che influenzano e condizionano questa emozione.<br />

Bisogna costruire un percorso definendo la propria emozione, riconoscere le convinzioni<br />

limitanti e i comportamenti conseguenti e capire da dove provengono, liberare l’emozione e<br />

cercare alternative al comportamento, ricercando e attivando le risorse.<br />

Se la paura blocca l’innovazione, come possiamo associare il cambiamento ad un<br />

arricchimento e sciogliere la paura, per sostituirla con l’anticipazione positiva, la curiosità, la<br />

determinazione?<br />

Perché un leader riesca ad applicare concretamente un modello di leadership evoluta e<br />

innovativa non è sufficiente che lo comprenda e lo condivida cognitivamente, ma è<br />

indispensabile che il suo mondo entri in contatto con le risorse che aprono le porte alle scelte<br />

e alle possibilità e ne attivi il potenziale.<br />

Dove domina la paura, nasce il bisogno di dominare gli altri con gli strumenti che si<br />

hanno a disposizione: il proprio ruolo, il controllo, le parole, l’imposizione. Viceversa, quei<br />

leader che riescono ad applicare nuovi modelli, non agiscono sotto l’azione di una minaccia o<br />

di una ferita interiore che crea lo stato di difesa e di fuga.<br />

Abitiamo in un mondo caratterizzato da continui mutamenti ed incertezze, dove le<br />

organizzazioni sono sempre più impegnate a ripensare e ridisegnare la propria cultura e le<br />

proprie azioni. In questo contesto, la figura del leader è chiamata a percorrere strade inusuali,<br />

a volte anche piene di buche, giocando un ruolo primario come catalizzatore di nuovi modi di<br />

vivere nell’organizzazione e come attivatore e facilitatore del cambiamento.<br />

30


Ridisegnare la propria cultura e le proprie azioni<br />

Se per esempio al computer si forniscono informazioni inesatte o incomplete, anche i<br />

risultati che se ne otterranno saranno dello stesso tipo. E oggi sono molti, nella nostra società,<br />

quelli che si preoccupano o meno della qualità delle informazioni ed esperienze che toccano<br />

loro quotidianamente. L’<strong>eu</strong>ropeo medio passa un po’ di tempo al giorno davanti al televisore.<br />

È di importanza decisiva vigilare sull’alimento che viene fornito alle nostre menti, se<br />

vogliamo che i giovani crescano e se vogliamo aumentare la nostra capacità di sperimentare a<br />

fondo e goderci la vita.<br />

Se ci formiamo rappresentazioni interne relative alla distruzione di città convincendoci<br />

che è un bene che questo accada, saranno quelle rappresentazioni a governare il nostro<br />

comportamento.<br />

La creazione di tendenze è uno dei compiti principali di una leadership.<br />

Per fare del mondo un luogo in cui si viva meglio, dobbiamo trasmettere messaggi<br />

produttivi che possano trasformare il mondo e farne quello che vorremmo che fosse.<br />

Il mondo è governato dai persuasori. Quali sentimenti in merito alla guerra fa sorgere<br />

in noi un film come Rambo? Fa apparire le stragi, i bombardamenti al napalm come un grande<br />

spasso, una furibonda allegria. E questo può renderci più o meno recettivi all’idea di andare a<br />

combattere in guerra. Ma un solo film non basterebbe a cambiare i comportamenti di<br />

un’intera nazione ed è anche doveroso sottolineare che probabilmente Sylvester Stallone non<br />

mira a promuovere stragi. I suoi film si incentrano sulla possibilità di superare forti<br />

limitazioni mediante duro lavoro e disciplina. Costituiscono modelli della possibilità di<br />

vincere contro ogni probabilità del contrario. Ma dobbiamo osservare gli effetti che sulla<br />

cultura di massa hanno ripetuti impatti, acquistare consapevolezza di ciò che mettiamo nelle<br />

nostre menti.<br />

Anziché lasciarci influenzare da immagini di Rambo che, in preda a una sorta di<br />

delirio, uccide altri esseri umani, non sarebbe meglio dedicare la nostra esistenza a trasmettere<br />

i messaggi produttivi che possono trasformare il mondo e farne quello che vorremmo che<br />

fosse?<br />

Che cosa accadrebbe se si riuscisse a cambiare la rappresentazione interna della guerra<br />

in tutto il mondo? E se lo stesso potere e la stessa tecnologia capaci di indurre grandi masse a<br />

combattere potessero venire impiegati per superare differenze di valori e celebrare la<br />

fratellanza di tutti i popoli? Ma questa tecnologia esiste? Certamente. Forse non basterà<br />

produrre qualche film, mostrarlo a tutti, per far cambiare il mondo. Gli strumenti, comunque,<br />

ci sono.<br />

31


Bisogna tuttavia partire da un punto: assumere consapevolezza di ciò che vediamo,<br />

udiamo e sperimentiamo in continuazione e prestare attenzione al nostro modo di<br />

rappresentarci, individualmente e collettivamente, le relative esperienze. Dobbiamo diventare<br />

più coscienti di ciò che succede intorno a noi.<br />

Se siamo in grado di proiettare su scala di massa le nostre rappresentazioni interne<br />

circa i comportamenti umani, circa ciò che è armonioso, efficace, positivo, possiamo avviare i<br />

nostri figli, la nostra città, il nostro stato, il nostro mondo, verso altre direzioni.<br />

Ciò che rappresentiamo ininterrottamente a livello di massa tende ad essere<br />

interiorizzato da masse enormi, e si tratta di rappresentazioni che condizionano la società e il<br />

mondo. Per creare un mondo accettabile, dobbiamo continuamente revisionare e riprogettare<br />

ciò che possiamo fare per dare vita a rappresentazioni feconde su scala unitaria e globale.<br />

Oggi si parla di aumento del potere personale, del modo di apprendere a ottenere<br />

successo nel rispettivo campo di attività. Ma che senso ha essere il sovrano di un pianeta<br />

moribondo?<br />

Tutto ciò di cui parleremo avrà la massima efficacia, se ce ne serviremo in modo<br />

positivo, tale da assicurare successo agli altri, oltre che a noi stessi.<br />

Il potere supremo ha carattere sinergico: deriva dal fatto che gli individui cooperino,<br />

anziché lavorare ognuno per contro proprio. Oggi possediamo la tecnologia necessaria per<br />

mutare le nostre percezioni e quelle degli altri, ed è suonata l’ora di servircene in maniera<br />

efficace per migliorare noi stessi e, quindi, il mondo che ci circonda.<br />

È indispensabile uno stile di leadership capace di proiettare una visione chiara delle<br />

direzioni da seguire, di tenere un atteggiamento aperto e costruttivo, di trasformare qualsiasi<br />

tipo di problema in un’opportunità di crescita, di mobilitare in ogni individuo tutta l’energia<br />

che può esprimere, di costituire un fondamentale punto di riferimento per gli altri componenti<br />

dell’organizzazione.<br />

In un’epoca dove l’unica costante è il cambiamento, la differenza che fa la differenza<br />

nella leadership è la spinta evolutiva che riesce a realizzare.<br />

In breve, un leader deve essere in grado di padroneggiare abilità relative a quattro<br />

aree: la guida di se stesso, la relazione con i collaboratori, la capacità di gestire strategie atte<br />

al raggiungimento degli obiettivi, il governo del sistema nel quale opera. Deve guidare il<br />

cambiamento e motivare profondamente i collaboratori, costruire quella visione comune e<br />

quel gioco di squadra necessari per realizzare in modo eccellente gli obiettivi<br />

dell’organizzazione.<br />

Questo modello di leadership evoluta e innovativa, tuttavia, si trova spesso di fronte<br />

32


alla discrepanza tra quanto dichiarato e/o condiviso cognitivamente e quanto effettivamente<br />

agito nel quotidiano. In effetti, comprendere e condividere cognitivamente un modello non<br />

significa necessariamente avere la capacità e l’effettiva volontà di applicarlo.<br />

C’è una prassi che viene definita “politica aikido”: si serve del principio del contesto<br />

di consenso per dirigere il comportamento in modo da minimizzare i conflitti.<br />

Trovando un terreno comune e proponendo un’alternativa valida, si può giungere a un<br />

accordo vantaggioso per entrambe le posizioni.<br />

La situazione che si crea, lungi dal costituire una sconfitta per qualcuno, rappresenta<br />

un’ottima chance. Gli effetti benefici ci sono per tutte le parti interessate perché si riesce a<br />

trovare una soluzione senza vincitori né vinti, e la gente è in grado di imparare a intraprendere<br />

un’azione concreta per raggiungere un certo risultato, scoprendo in sé nuove potenzialità, una<br />

nuova fiducia.<br />

Lo spirito comunitario che deriva dalla collaborazione e dall’aver intrapreso iniziative<br />

concrete è assai più costruttivo della contesa o competizione tra due duellanti.<br />

Nel Colorado e New Messico, gli agricoltori della San Luis Valley per tradizione<br />

facevano ricorso alla legna da ardere come principale fonte di energia, ma i grandi proprietari<br />

terrieri avevano recintato i terreni sui quali i contadini raccoglievano la legna. Si trattava di<br />

gente poverissima. Ma ci fu chi si mise alla loro testa persuadendoli che la nuova situazione,<br />

lungi dal costituire una sconfitta, era anzi un’ottima chance. Si procedette alla costruzione di<br />

uno degli impianti a energia solare più redditizia al mondo, e i contadini ne ricavarono un<br />

sentimento di forza collettiva e cooperazione che mai avevano avuto prima.<br />

costruttive.<br />

Tutte le parti interessate riuscirono a trovare una soluzione senza vinti né vincitori.<br />

Pochi persuasori impegnati e capaci possono quindi avviare tendenze positive e<br />

Spetta dunque ai singoli leader superare convinzioni e pregiudizi limitanti che<br />

impediscono di realizzare un modello evoluto e innovativo, tenendo presente che una cosa è<br />

applicare tecniche e stili di leadership e un’altra è essere leader. La differenza è determinata<br />

dalla naturalezza, dai tempi di reazione, dall’auto-percezione dell’impegno e del dispendio di<br />

risorse dedicate, dalla coerenza con il proprio sistema di valori, dal senso di appartenenza ad<br />

una certa configurazione identificativa. Chi fa, agisce artificialmente un ruolo, anche con<br />

competenza ed efficacia; chi è, esprime la propria identità ed i propri valori naturalmente con<br />

quel ruolo.<br />

33


Scenari futuri.<br />

Durante un’intervista del 22 giugno 2004 condotta da Tim Sebastian, alla trasmissione<br />

Hard Talk della BBC, e rivolta al ministro degli Esteri italiano Franco Frattini, l’attenzione<br />

dell’intervistatore veniva concentrata sugli errori del passato, ma il ministro ha<br />

opportunamente rilevato che bisogna guardare al futuro, non al passato. La fase critica che<br />

comporta un’analisi logica del percorso diretta ad individuare cosa potrebbe andare male e<br />

cosa può essere evitato va orientata in modo costruttivo a sondare la tenuta del progetto o<br />

dell’idea in vari scenari ipotetici futuri. Non ci si concentra sul passato e sulla critica di esso<br />

se ciò costituisce semplicemente una “diversione” rispetto alla nuova strategia adottata per<br />

conseguire l’obiettivo. Tradotto in soldoni, se l’oggetto primario di attenzione è costituito dal<br />

“perché” del piano, non ci si sofferma inutilmente a guardare indietro. Se l’obiettivo è quello<br />

di fronteggiare nel modo migliore il terrorismo, valutiamo le strategie politiche possibili, oltre<br />

a quelle militari. Una strategia politica efficace, a mio avviso, consiste nel consolidare la<br />

struttura politica dell’Europa, in modo che non possa offrire ai terroristi l’immagine di un<br />

facile terreno di conquista, perché è debole, insicura e politicamente scompaginata. Le<br />

strategie anti<strong>eu</strong>ropeiste di sbarramento della crescita dell’Europa sul piano politico, della<br />

difesa e della sicurezza, pertanto, fanno il gioco dei terroristi e del loro piano di<br />

attecchimento. E anche la politica estera e sociale ha un peso enorme per quanto riguarda<br />

l’immagine che l’Europa offre di sé: può apparire un colosso inespugnabile o una casetta di<br />

paglia. Gli USA possono offrire un aiuto prezioso all’Europa nel rafforzarne l’immagine di<br />

fortezza inespugnabile attraverso un’alleanza nelle strategie e negli obiettivi.<br />

La politica culturale è estremamente importante nel profilare le linee guida che<br />

possono consentire la tutela del nostro patrimonio di civiltà. La soluzione culturale e politica<br />

al problema del terrorismo va attentamente valutata, perché quella poliziesca e militare ha già<br />

rivelato le sue falle.<br />

Il ministro degli Esteri Frattini ha parlato nell’intervista citata di cultural patrimony da<br />

tutelare, riferendosi alla costruzione del nuovo Iraq. Ma noi siamo altrettanto attenti a<br />

presidiare la nostra identità culturale, le nostre risorse di civiltà o siamo disposti a svenderle<br />

al primo acquirente che ci assicuri l’“oro nero?” Siamo orgogliosi del nostro patrimonio di<br />

tradizioni culturali e religiose o tendiamo a nasconderlo per non apparire “provinciali”,<br />

“arretrati”, “retrogradi”? Il bisogno di radicamento e di appartenenza ad un territorio, ad una<br />

cultura, ad una civiltà, ad un’etnia, ad una religione, ad un gruppo sociale ecc. è uno dei<br />

bisogni più potenti dell’individuo, su cui si innesta il senso di identità.<br />

Ogni società è organizzata in modo differente dalle altre e ha una sua cultura. La<br />

34


cultura di un popolo è tutto ciò che gli esseri umani scelgono di fare per soddisfare i propri<br />

bisogni: il modo di coltivare i campi, di cucinare i cibi, di costruire gli oggetti, di vestirsi, di<br />

danzare, di scrivere ecc.<br />

La lingua è uno degli elementi culturali più importanti di una società e tra le persone<br />

che parlano la stessa lingua si crea un forte senso di unione e di appartenenza alla stessa<br />

cultura. Alcune lingue <strong>eu</strong>ropee come l’inglese, lo spagnolo e il francese sono arrivate in ogni<br />

luogo della Terra in seguito alle migrazioni e alle conquiste territoriali.<br />

Un altro elemento che rende diverse le culture dei popoli è la religione. Esistono<br />

religioni monoteiste, che affermano l’esistenza di un solo Dio, religioni politeiste, secondo le<br />

quali esistono molti dei, e religioni animiste, per cui piante e animali hanno in sé spiriti buoni<br />

e cattivi. Secondo gli scienziati che studiano i popoli e le loro culture, ogni società porta con<br />

sé l’esperienza delle generazioni precedenti. Le abitudini e i comportamenti di ogni società<br />

sono però anche il risultato degli scambi culturali avvenuti in passato tra i vari popoli della<br />

terra. Per questo motivo lo studio di società diverse dalla nostra ci aiuta a capire meglio anche<br />

noi stessi.<br />

Uno Stato nazionale comprende un territorio abitato da persone con la stessa lingua e<br />

le stesse tradizioni. Nel 2004 l’Europa ha “compreso” politicamente 25 territori. Ora occorre<br />

creare una unità che vada oltre le diversità culturali.<br />

Le tre repubbliche che si affacciano sul Mar Baltico, Estonia, Lettonia e Lituania,<br />

entrate in Europa nel 2004, si sono rese indipendenti negli anni 1990-1991, tramite<br />

referendum popolare, dalla Comunità di Stati Indipendenti sorta nel 1991 dopo il crollo<br />

dell’Unione Sovietica. Gli aiuti economici dei paesi <strong>eu</strong>ropei, soprattutto scandinavi, hanno<br />

messo in moto un processo di modernizzazione dell’agricoltura e dell’industria delle tre<br />

repubbliche, che hanno un’economia in via di crescita e sviluppo. Le capitali Tallinn<br />

(Estonia), Riga (Lettonia) e Vilnius (Lituania) sono sedi della maggior parte delle attività<br />

industriali e commerciali dei tre paesi. L’intensificazione degli scambi economici e culturali<br />

dell’Europa con altri paesi richiede un breve accenno introduttivo, per contestualizzarli<br />

soprattutto in riferimento al tema dell’immigrazione e della politica sociale <strong>eu</strong>ropea.<br />

Le scuole sono sempre più gremite di studenti provenienti dalle più diverse parti<br />

dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e dell’America e il tema dell’integrazione non può<br />

misconoscere la coscienza identitaria, anche se è auspicabile un’educazione focalizzata sul<br />

rispetto delle reciproche identità, della legalità, delle istituzioni del Paese in cui si vive e si<br />

lavora.<br />

Nell’ultimo anno di scuola elementare di mio figlio ho assistito ad una presa di<br />

35


coscienza sempre maggiore della scuola di tale bisogno. Nel discorso introduttivo della festa<br />

di fine anno di una delle maestre compariva questa consapevolezza: c’è stato un preciso<br />

riferimento alla riscoperta dei giochi tradizionali che facevano i genitori e i nonni all’aria<br />

aperta: mosca cieca, palla avvelenata, guardie e ladri ecc. Inoltre, in una classe è stata allestita<br />

un’aula come si presentava nella generazione dei nonni e bisnonni. Ho saputo anche che<br />

durante l’arco della scuola elementare sono state invitate alcune nonne ultraottantenni, per<br />

raccontare ai bambini com’era la vita ai loro tempi. Questa modalità di collegamento con le<br />

radici storiche e territoriali è tutt’altro che antiquata. È un modo sano di fondare la propria<br />

identità e di dissipare le “ansie da sradicamento”.<br />

Vergognarsi delle proprie radici è un modo rozzo e provinciale di negare la propria<br />

identità. Ho conosciuto una colta signora siciliana, che mi ha comunicato il suo imbarazzo,<br />

quando il figlio nato al Nord l’ha rimproverata perché ha seguito una splendida usanza basata<br />

sulla solidarietà, che porta gli abitanti del centro-sud d’Italia, a portare cibo in abbondanza<br />

alla famiglia che vive un lutto, in concomitanza del funerale. Questa usanza interpreta il<br />

disagio in cui vivrebbe la donna oberata dell’impegno di cucinare per i parenti che vengono a<br />

trovarla per farle le condoglianze, alleviandola di una fatica in più, in occasione della<br />

cerimonia funebre.<br />

Queste riflessioni a sfondo culturale ci introducono alla presentazione della struttura<br />

del libro, che si articola in sei capitoli. Il primo è focalizzato sulla didattica della storia nella<br />

formazione dell’individuo e sui “filtri” pregiudiziali che ne alterano la visione. Il secondo è<br />

incentrato sulla pedagogia come formazione dell’identità. Il terzo si occupa della politica<br />

sociale dell’Europa incentrata sull’identità. Il quarto invita a sviluppare un progetto che<br />

prende in considerazione sia tradizione che innovazione. Il quinto si snoda intorno alle mappe<br />

cognitive che organizzano il nostro pensiero. Il sesto è rivolto alla riflessione sul futuro<br />

dell’Europa.<br />

36


CAPITOLO I<br />

PREGIUDIZIO, DIDATTICA E PEDAGOGIA<br />

ANCHE GLI SCIENZIATI HANNO PREGIUDIZI?<br />

La conoscenza scientifica è condizionata da presupposti impliciti ed elementi arbitrari,<br />

che possono essere assimilati al pregiudizio nella misura in cui sfuggono al controllo<br />

consapevole e razionale, e dirottano l’attenzione verso binari obbligati e ripetitivi. Scrive<br />

Whitehead: “La difficoltà non si trova tanto in ciò che l’autore dice quanto in ciò che non<br />

dice, e non tanto in ciò che sa di aver postulato, quanto in ciò che ha postulato<br />

inconsapevolmente”. 1<br />

Kuhn sostiene che le strutture e i contenuti delle teorie scientifiche sono<br />

invariabilmente influenzati dalle credenze degli scienziati. Naturalmente le credenze<br />

scientifiche ammissibili sono limitate dall’osservazione e dall’esperienza che però, da sole,<br />

non sono in grado di determinare completamente un particolare insieme di tali credenze.<br />

Conseguentemente, ogni teoria scientifica contiene alcuni elementi arbitrari: “Un elemento<br />

arbitrario, composto di accidentalità storiche e personali, è sempre presente, come elemento<br />

costitutivo, nelle convinzioni manifestate da una data comunità scientifica in un dato<br />

momento”. “La scienza ... è affermata sulla base della assunzione che la comunità scientifica<br />

sa che cosa è il mondo”. 2<br />

Gli elementi arbitrari sono quindi, consapevolmente o no, introdotti da coloro che<br />

fanno scienza in base alle proprie credenze. Il meccanicismo ottocentesco è un caso in cui è<br />

particolarmente evidente l’influenza di alcune convinzioni presenti in alcuni settori della<br />

comunità scientifica sui contenuti delle teorie scientifiche. Dapprima si ha un progressivo<br />

1 Citato da Keeney Bradford P., L’estetica del cambiamento, Astrolabio, Roma, 1983, p. 34<br />

2 Kuhn Thomas S., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1962, p. 23<br />

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trionfo della meccanica entro la scienza: vengono “ridotti” alla meccanica alcuni fondamentali<br />

capitoli della fisica, nati indipendenti (termologia, ottica, acustica); quindi si comincia a<br />

pensare che tutti i fenomeni fisici siano spiegabili in termini meccanici, che massa, forza e<br />

movimento siano la chiave di lettura della completa intelligibilità della natura. A questo punto<br />

la meccanica, più che come una “scienza”, si presenta come una “concezione scientifica del<br />

mondo”, che propone se stessa come quadro generale entro cui ogni scienza particolare deve<br />

potersi riconoscere e che, così facendo, esporta in altre discipline il proprio apparato di<br />

convinzioni sulla realtà. 3<br />

Il pensiero scientifico esige quindi una contestualizzazione in un preciso contesto<br />

psico-antropo-sociologico, ossia va posto in relazione al contesto in cui sono nate alcune<br />

convinzioni presenti in alcuni settori della comunità scientifica sui contenuti delle teorie<br />

scientifiche.<br />

La storia delle matematiche ci fornisce un altro esempio, che evidenzia l’arbitrarietà di<br />

alcuni presupposti scientifici e l’accidentalità delle circostanze che conducono alla<br />

consapevolezza di tale arbitrarietà. Per circa duemila anni, la geometria <strong>eu</strong>clidea fu<br />

considerata la “vera” geometria, ossia la rigorosa e oggettiva ricostruzione delle proprietà e<br />

delle relazioni dello spazio. A cavallo della metà dell’ottocento nacquero le ben note<br />

geometrie rivali (le geometrie non - <strong>eu</strong>clidee) fondate, su una forma di negazione del<br />

postulato della parallela. Dopo i primi momenti di incertezza, di scetticismo e di<br />

sbandamento, questo fatto provocò una riflessione approfondita sui fondamenti di questa<br />

scienza, da cui derivò un mutamento di prospettiva circa la sua stessa natura: in breve volgere<br />

di tempo, essa non fu più considerata come la scienza dello spazio, ma come una collezione di<br />

vari sistemi di postulati fra loro diversi, ma ugualmente legittimi. 4<br />

Ogni disciplina, o branca, o orientamento scientifico, o griglia di osservazione agevola<br />

i suoi cultori nel notare alcune cose, ma al tempo stesso impedisce loro di notarne altre.<br />

Keeney ammette: “Io sono convinto che qualsiasi posizione, prospettiva, quadro di<br />

riferimento concettuale o idea, sia l’espressione parziale di un tutto che non riusciamo mai a<br />

cogliere completamente”. 5<br />

3 Cfr. Agazzi E., Temi e problemi di filosofia della fisica, Ed. Abete, Roma, 1974, pp. 23-26<br />

4 Cfr. Agazzi E., Temi e problemi di filosofia della fisica. op. cit. pp. 62-67<br />

5 Keeney Bradford P., L’estetica del cambiamento, op. cit. p. 15<br />

38


E Gordon, Meyers-Anderson scrivono: “Le nostre convinzioni/metri di paragone,<br />

regole personali e professionali non racchiudono tutto ciò che è possibile: al contrario,<br />

limitano ciò che è possibile”. 6<br />

In conclusione, ogni apparato di idee determina il rifiuto o l’ignoranza di quanto<br />

sembra sprovvisto di senso o di realtà alla luce dei suoi assiomi e dei suoi principi; implica<br />

quindi una sua opacità ed un suo acciecamento, dovuti alla parzialità del punto di vista di<br />

ogni singola scienza e agli “elementi arbitrari”immessi nella teoria scientifica stessa dalla<br />

soggettività dei membri della comunità scientifica.<br />

D’altronde, la conoscenza - anche la conoscenza scientifica - è inseparabile dal<br />

soggetto che conosce. Heisenberg, premio Nobel per la fisica, sostiene che noi non<br />

conosciamo mai il mondo: “L’oggetto della ricerca scientifica non è più la natura in sé, ma la<br />

natura sottoposta alle interrogazioni dell’uomo ... Le leggi naturali, che noi formuliamo<br />

matematicamente nella teoria quantistica, non trattano più delle particelle elementari in sé, ma<br />

della nostra conoscenza delle particelle elementari”. In altre parole: non vi è di fronte a noi<br />

l’oggetto, ma la struttura complessa e inscindibile osservatore – oggetto”. 7<br />

Ma come? Possibile che proprio uno scienziato metta in dubbio l’oggettività della<br />

scienza, che di solito viene data per scontata? Il problema nasce dal fatto che il termine<br />

“oggettività” è di significato abbastanza ambiguo, poiché si presta a due diverse<br />

interpretazioni. È possibile significare che una caratteristica è oggettiva in quanto inerente<br />

all’oggetto percepito; oppure che è oggettiva in quanto indipendente dal soggetto che<br />

percepisce. Ed è in questo secondo senso che (senza addentrarci troppo nelle dispute<br />

filosofiche) le proposizioni scientifiche vengono considerate oggettive; quando, cioè,<br />

osservatori diversi danno luogo alla medesima osservazione. Più che di oggettività in senso<br />

forte, quindi, si può parlare di intersoggettività. Occorre inoltre aggiungere che, affinché<br />

soggetti diversi possano compiere le stesse osservazioni con identici risultati, necessitano di<br />

un addestramento, di una socializzazione in tal senso.<br />

E ciò porta alla creazione di una realtà consensuale, su cui sono d’accordo, in quanto<br />

sono stati addestrati, in un certo quadro culturale, ad avere una certa visione di determinati<br />

fenomeni in conformità con le esigenze e le aspettative di un determinato modello cognitivo.<br />

6 Gordon D., Meyers-Anderson M., La psicoterapia ericksoniana. Phoenix, Astrolabio, Roma, 1984, p. 17<br />

7 Cfr. Agazzi E., Temi e problemi di filosofia della fisica, op. cit. p. 34<br />

39


Un sapere di tipo scientifico consiste nel rifondare la psicologia con le stesse regole<br />

della fisica: osservabilità e ripetibilità dei fenomeni, ricerca delle costanti, della differenza che<br />

fa la differenza, di modelli e paradigmi. 8<br />

Ogni teoria, ogni forma di sapere, compreso il sapere scientifico, è condizionata e<br />

limitata dalla sua “mappa” cognitiva, che rinvia al territorio, ma non coincide con il territorio.<br />

La nostra rappresentazione della realtà non è la realtà stessa, la mappa non è il<br />

territorio. Questa considerazione vale per ogni tipo di rappresentazione di realtà, anche per<br />

quelle strutturate in una qualche forma di sapere e per le stesse teorie scientifiche, per motivi<br />

tra loro logicamente interconnessi, che abbiamo sopra esposto: la conoscenza scientifica è<br />

condizionata da presupposti impliciti ed elementi arbitrari; la conoscenza, anche la<br />

conoscenza scientifica, è inseparabile dal soggetto che conosce. Un altro motivo ci porta ad<br />

ipotizzare che ci siano limiti insiti nella conoscenza scientifica: il punto di vista di ogni<br />

scienza è limitato e parziale. Scrive Laing: “Quelli che nella scienza empirica sono chiamati<br />

‘dati’ (data), essendo in realtà scelti arbitrariamente dalla natura dell’ipotesi già formulata,<br />

potrebbero più onestamente essere chiamati ‘presi’ (capta)” 9 .<br />

La scienza occidentale nasce con Galileo, quando, nel “Dialogo sui massimi sistemi”,<br />

afferma: “Perché, o noi vogliamo specolando tentar di penetrare l’essenza vera ed intrinseca<br />

delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni.<br />

Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle<br />

prossime sustanze naturali che nelle remotissime e celesti ... Ma se volessimo fermarci<br />

nell’apprensione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco<br />

ne i corpi lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi”.<br />

Lo spartiacque, ciò che caratterizza la scienza moderna come sapere non filosofico, è<br />

la rinuncia all’indagine sull’essenza e alle aspirazioni metafisiche. Il fisico costruisce l’ottica<br />

senza sapere il preciso “che cosa è” la luce; l’elettrologia senza sapere bene “che cosa è”<br />

l’elettricità; la termologia senza sapere bene “che cosa è” il calore; la fisica atomica senza<br />

avere una nozione del tutto soddisfacente di “che cosa è” l’atomo e così via. 10<br />

8 Si veda al riguardo: Zanetti G., Il linguaggio dell’analogia, SOMSE, Torino, 1984<br />

9 Laing citato in: Keeney Bradford P., L’estetica del cambiamento, op. cit. p. 33<br />

10 Cfr. Agazzi E., Temi e problemi di filosofia della fisica, op. cit. pp. 10-11<br />

40


Dal fatto di limitare il proprio interesse ad “alcune affezioni”, deriva l’esigenza di<br />

distinguere tra aspetti diversi inerenti agli oggetti e di scegliere quelli che saranno oggetto<br />

della teoria. Uno stesso oggetto d’esperienza può essere oggetto di indagine di varie scienze, e<br />

come oggetto di indagine viene “costruito” in modo diverso da ogni scienza. Ad esempio, è<br />

possibile studiare una penna dal punto di vista della fisica (studiandone il peso, la resistenza<br />

alla torsione, ecc.), dal punto di vista della chimica (studiando la composizione chimica dei<br />

materiali di cui la penna è costituita, ecc.), dal punto di vista dell’economia 8studiando la<br />

penna come oggetto di acquisto/vendita, ecc.)<br />

Tutti questi punti di vista ci dicono molte cose, ma nessuno di loro, e nemmeno la loro<br />

sommatoria, sono esaustivi; si limitano a studiare alcune caratteristiche dal proprio specifico<br />

punto di vista, trascurandone altre.<br />

L’esperienza personale di ognuno di noi può aiutarci a comprendere questo “limite”<br />

del sapere scientifico: la nostra focalizzazione su qualcosa implica la nostra non-<br />

focalizzazione su tutto il resto del mondo, e dalla focalizzazione su alcuni elementi piuttosto<br />

che su altri dipendono i diversi punti di vista. “... sempre e inevitabilmente, ha luogo una<br />

selezione dei dati, poiché la totalità dell’universo, passato e presente, non può essere osservata<br />

da alcun punto d’osservazione assegnato”. 11<br />

Il punto di vista dell’osservatore, a sua volta, è connesso a presupposti più o meno<br />

consapevoli, a credenze in interazione con presupposti culturali più ampi, a valori e relativi<br />

criteri, che portano a focalizzarsi su alcuni elementi piuttosto che su altri. Nella misura in cui<br />

si è consapevoli del condizionamento esercitato dai propri presupposti o “filtri”, si può<br />

mettersi in posizione “meta”, al di là e al di fuori del condizionamento stesso o perlomeno<br />

riducendone la portata coercitiva sulla nostra sfera cognitiva.<br />

La consapevolezza dei presupposti impliciti.<br />

La posizione “meta” assunta nell’analizzare le due principali ideologie del XX secolo<br />

implica la consapevolezza dei presupposti impliciti in esse, e anche la consapevolezza dei<br />

presupposti che mi hanno guidata nell’esame del modello che ha orientato l’esplorazione.<br />

Se i valori e i relativi criteri adottati nello scrutare le due culture descritte fossero stati<br />

diversi dai miei, avrei potuto magari prendere in considerazione altre culture. Nell’impegno<br />

ad indagare i presupposti impliciti del modello che ha guidato l’indagine, occorre la<br />

consapevolezza che tale impegno riguarda un processo senza fine: non si arriverà mai a<br />

11 Cfr. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976, p. 23<br />

41


conoscere tutti i propri presupposti. “Nessuno può diventare pienamente consapevole delle<br />

proprie premesse. Per molti versi, le premesse sono come le piante dei piedi; siccome ci si<br />

poggia sopra, è impossibile guardarle”. 12 La precisa consapevolezza dei limiti causati dai<br />

presupposti impliciti fornirebbe indicazioni utili allo scopo di trascenderli. Alcuni presupposti<br />

impliciti della cultura occidentale sono difficili da cogliere perché molto profondi e, come<br />

osserva Keeney, “una premessa, quanto più e fondamentale, tanto meno è accessibile alla<br />

coscienza” 13 .<br />

L’abilità e la naturale predisposizione ad indagare i presupposti, espliciti e non, può<br />

essere applicata a se stessi? Si può suggerire la domanda: “Che cosa, adesso, non sto<br />

notando?” Ma questa domanda non ha una griglia analitica di riferimento, sembra<br />

un’aspirazione, una direzione di crescita, più che una competenza esplicitata, formalizzata e<br />

trasferibile.<br />

Ho conosciuto un affermato professionista siriano nato in Italia e abituato alle<br />

relazioni internazionali, che mi ha detto: “Io sono arabo, per cui posso parlare male degli<br />

arabi. Non è razzismo”.<br />

Vorrei far notare che ogni concezione o atteggiamento pregiudiziale che riguarda un<br />

gruppo etnico, religioso, nazionale, regionale ecc, - e quindi prescinde dalla valutazione<br />

diretta principalmente all’individuo considerato nelle sue caratteristiche peculiari -, è razzista,<br />

sia che riguardi altre razze o la propria.<br />

In altri termini, è vero che è possibile estrarre, sia pure in via cautelativa, alcune<br />

caratteristiche che accomunano un popolo, fino a parlare di dimensione archetipica collettiva,<br />

ma è anche vero che i tratti individuali e soprattutto il livello evolutivo raggiunto<br />

contrassegnano la personalità di ciascuno assai di più di una generica designazione collettiva<br />

che rischia di essere pregiudiziale. In effetti il pre-giudizio è un giudizio affibbiato ad un<br />

individuo in quanto appartenente ad una categoria di persone, che non tiene conto dei veri<br />

tratti distintivi della persona.<br />

Pertanto, si può avere un pregiudizio anche sulla propria gente, non appena ci si<br />

esprime in questi termini: “Gli italiani sono dei simpatici inconcludenti. Gli arabi sono ...”.<br />

Gli attributi generici e non personalizzati, in definitiva, sono quasi sempre<br />

12 Boscolo L. Bertrando P., Terapia sistemica individuale, Cortina, Milano, 1996, p. 68<br />

13 Keeney Bradford P., L’estetica del cambiamento, op. cit. p. 174<br />

42


pregiudiziali e riduttivi, perché pretendono di incasellare dentro etichette stereotipate il flusso<br />

dinamico dei processi psichici, delle motivazioni, delle aspettative, degli obiettivi, che sono<br />

assolutamente individuali.<br />

Forse non ci soffermiamo abbastanza a riflettere sull’arbitrarietà di alcune<br />

categorizzazioni affrettate o sommarie con cui cataloghiamo gli esseri umani, smistandoli<br />

come facciamo con gli abiti invernali da sostituire con quelli estivi o viceversa.<br />

È da questo punto di partenza che possiamo rivisitare i vari temi sviluppati nel corso<br />

del libro “Barriere ideologiche e democrazia”.<br />

43


LA DIDATTICA DELLA STORIA NELLA FORMAZIONE DELL’INDIVIDUO<br />

Un nuovo approccio all’analisi della storia.<br />

La teoria della trasformazione culturale introduce un nuovo approccio nell’analisi<br />

della storia. Esso si basa su uno studio multidisciplinare che attinge a molteplici e disparati<br />

settori: sociologia, antropologia, archeologia, storia, economia, linguistica, scienze politiche,<br />

biologia, lo studio della mitologia e del folklore, la teoria dell’auto-organizzazione dei<br />

sistemi, la teoria del caos e la dinamica non-lineare. Forse il punto essenziale è che, a<br />

differenza di approcci convenzionali che si concentrano quasi esclusivamente su ciò che è<br />

stata giustamente chiamata “la storia dell’uomo”, attinge ad una serie di dati che comprende<br />

l’umanità in entrambe le sue componenti, femminile e maschile. Inoltre, questo nuovo<br />

approccio attinge ad una serie di dati che comprende non solo la storia, ma anche la preistoria.<br />

Qualcuno ha osservato che “noi siamo ciò che ricordiamo”. La memoria storica fa<br />

parte della nostra identità. Ma dobbiamo comprendere il significato degli eventi prendendo le<br />

distanze da essi. Affinché la memoria storica si traduca in “lezione della storia”, dobbiamo<br />

“guardarla” da una dimensione evolutiva diversa, rispetto a quella del periodo storico<br />

esaminato. In altri termini, per comprendere il vero significato storico delle dittature,<br />

dobbiamo vivere in un autentico spirito democratico. Analogamente, se portiamo occhiali con<br />

lenti colorate di rosso, non distinguiamo il vero colore degli oggetti: quelli bianchi ci<br />

sembrano rossi e quelli della stessa tonalità di rosso delle lenti vengono percepiti come gli<br />

altri oggetti bianchi. Pertanto, dobbiamo toglierci gli occhiali per vedere i veri colori reali o,<br />

fuori metafora, “uscire” dal periodo storico in esame, per osservare senza “filtri deformanti”.<br />

Per fornire un esempio circa la possibilità di fare “autocritica”, togliendosi le “lenti<br />

deformanti”, il 15 giugno 2004 Giovanni Paolo II ha ribadito il “mea culpa” pronunciato nel<br />

Giubileo, con la richiesta di perdono della Chiesa per i peccati di intolleranza e per le violenze<br />

compiute nel corso della storia e, in particolare, per gli abusi contro la persona umana<br />

commessi dall’ Inquisizione ed ha invitato a proseguire la ricerca storica. L’occasione al Papa,<br />

per questo nuovo pronunciamento, è offerta dalla pubblicazione degli Atti del convegno sulla<br />

Inquisizione, da lui voluto nel 1998, con la partecipazione di 29 storici ed esperti della<br />

materia. I loro studi, ora pubblicati in un volume dalla Biblioteca Apostolica Vaticana,<br />

servirono come base fondamentale per il gesto penitenziale della Chiesa durante l’Anno Santo<br />

2000. Il libro, di oltre 700 pagine, è accompagnato da una lettera del Pontefice al cardinale<br />

Roger Etchegaray, che fu presidente del Comitato centrale per l’Anno Santo. Nella missiva<br />

Giovanni Paolo II spiega perché prese quella iniziativa: “Nell’opinione pubblica - scrive -<br />

44


l’immagine della Inquisizione rappresenta quasi il simbolo di antitestimonianza e scandalo. In<br />

quale misura questa immagine è fedele alla realtà? Prima di chiedere perdono è necessario<br />

avere conoscenza esatta dei fatti e collocare le mancanze rispetto alle esigenze evangeliche, là<br />

dove esse effettivamente si trovano”. Presentando il volume, il cardinale George Cottier,<br />

presidente della Commissione storica che organizzò il convegno, ha sottolineato la perplessità<br />

di alcuni prelati che temevano si offrissero argomenti ai detrattori della Chiesa.<br />

Tuttavia, è opportuno sottolineare che la Chiesa non può che beneficiare di una<br />

coraggiosa autocritica, soprattutto presso gli intellettuali sensibili ai valori umani. Errare è<br />

umano e la Chiesa è fatta di uomini, di cui alcuni sono più illuminati e ispirati dallo spirito<br />

evangelico di altri. Comprendere questo significa salvaguardare l’autentico messaggio di<br />

Cristo, unica garanzia di “purezza spirituale”.<br />

Il cardinale Louis Tauran , “bibliotecario di Santa Romana Chiesa”, ha dato notizia di<br />

“cinque sacchi di libri proibiti” scomparsi in circostanze misteriose dal Sant’Uffizio nel 1559:<br />

ritrovati, furono restituiti alla Congregazione, sede dell’Inquisizione, dopo tre secoli: si stanno<br />

ancora studiando ed è probabile che tra essi ci siano anche opere di Erasmo da Rotterdam.<br />

Altre curiosità sono emerse. Secondo il dottor Agostino Borromeo, curatore del<br />

volume, “la ricchezza dei dati forniti consente di rivedere alcuni luoghi comuni assai diffusi<br />

tra i non specialisti: il ricorso alla tortura e la condanna alla pena di morte non furono così<br />

frequenti come si è per molto tempo creduto”, ed oggi “è possibile fare una storia della<br />

Inquisizione, prescindendo dai luoghi comuni”. Alcuni dati: su 150 mila processi<br />

dell’Inquisizione spagnola, tredici furono “le streghe” finite sul rogo; quella portoghese ha<br />

bruciato 4 persone, quella italiana 36. Il numero di imputati al rogo dell’Inquisizione si<br />

calcola in un centinaio contro i centomila dei tribunali civili. E sembra che le cosiddette<br />

“streghe” bruciate nell’ambiente protestante fossero in numero assai superiore che in ambito<br />

cattolico.<br />

L’osservazione secondo cui noi siamo ciò che ricordiamo va quindi ritoccata<br />

aggiungendo che il significato di ciò che ricordiamo cambia, a seconda del nostro stadio<br />

evolutivo. Perciò, nella misura in cui prendiamo le distanze da un passato che è servito come<br />

esperienza di vita per evolvere ad un livello superiore, ma che non ci appartiene in quanto non<br />

rifaremmo mai le stesse esperienze di allora con la visione del mondo - o mappa cognitiva -<br />

che abbiamo oggi, possiamo dire che la nostra identità attuale è diversa da quella di allora. In<br />

breve, non è utile tagliare i ponti con il passato, perché possiamo trarne utili insegnamenti per<br />

il futuro, ma al tempo stesso è possibile, e spesso auspicabile, che non ci riconosciamo più in<br />

quel passato, sotto la spinta evolutiva che ci ha portato ad elevarci a nuovi e più progrediti<br />

45


livelli.<br />

Per inciso, è utile ricordare che la didattica del percorso storico dell’umanità ha a che<br />

fare con lo scorrere del tempo, per cui la collocazione temporale degli eventi e dei periodi<br />

storici non è possibile prima di una certa fascia di età.<br />

Scrive Brenner al riguardo: “Debbono passare diversi anni prima che un bambino<br />

sviluppi un senso del tempo, prima che vi sia per lui qualcosa di comprensibile fuori dal ‘qui<br />

ed ora’, così che questa caratteristica del pensiero del processo primario non è che un tratto<br />

familiare dei primi anni di vita” 14 .<br />

D’altro lato, questa caratteristica permane nelle persone con gravi disturbi mentali, in<br />

cui predomina il pensiero del processo primario: “Il senso del tempo, o l’aver a che fare con il<br />

tempo, non esiste nel pensiero del processo primario; non vi è nulla del tipo di ‘prima’ o<br />

‘dopo’, di ‘ora’ ed ‘allora’, di ‘iniziale’, ‘successivo’ ed ‘ultimo’. Passato, presente e futuro<br />

sono una cosa sola nel processo primario” 15 .<br />

Peraltro, la distorsione del tempo è un fenomeno caratteristico della trance e uno dei<br />

più validi indizi di risveglio dalla trance è costituito dagli sforzi che le persone fanno per<br />

riorientare il proprio corpo 16 .<br />

Il 27 gennaio 2004 manifestazioni e celebrazioni sono state organizzate per non<br />

dimenticare la Shoah, lo sterminio degli ebrei. La memoria impegna tutti: istituzioni, società,<br />

cittadini. La televisione ha trasmesso La partita della memoria, in cui il calcio ha riunito i<br />

giocatori provenienti dal mondo televisivo e due giocatrici professioniste, nel tentativo di<br />

uscire dalle cerimonie di Palazzo. Nel calcio si verificano fenomeni di antisemitismo e<br />

razzismo, che vanno rivisitati all’interno di una partita emblematica. Il ricavato della partita<br />

sarà interamente devoluto per costruire a Roma il Museo dell’Olocausto, dedicato al dolore<br />

della comunità ebraica romana, che il 16 ottobre 1943 subì la deportazione nei campi di<br />

sterminio nazisti. Il premier Berlusconi ha annunciato l’istituzione di un comitato contro<br />

l’antisemitismo. L’Italia fu responsabile dell’uccisione di 4.000 persone nella Risiera di S.<br />

Sabba a Trieste, munita di forno crematorio.<br />

14 Brenner C., Breve corso di psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1967, pp. 63-64<br />

15 Brenner C., Breve corso di psicoanalisi, op. cit. p. 63<br />

16 Cfr. Erickson M. H., Rossi E. L., Rossi S. I., Tecniche di suggestione ipnotica, Astrolabio, Roma, 1979, p. 345<br />

46


Elie Wiesel, ebreo deportato a 15 anni a Buchenwald e vincitore del premio Nobel per<br />

la Pace nel 1986, presentandosi come “figlio di genitori ebrei con tradizione ebraica”, ha fatto<br />

un discorso introduttivo in cui ha parlato dell’“uso della memoria per scongiurare altri atti di<br />

brutalità”. E ha aggiunto: “Quando le minoranze soffrono, dobbiamo aiutarle. Ho imparato<br />

che sono libero solo quando anche gli altri sono liberi. Tutte le volte che gli altri non sono<br />

liberi, la mia libertà non è libertà”.<br />

Rispetto e tolleranza per le minoranze vanno di pari passo con la cultura della<br />

memoria, in quanto il pericolo della demonizzazione del diverso viene esteso agli immigrati e<br />

a tutte le minoranze.<br />

Le iniziative che implicano il ricordo di tragedie come lo sterminio vanno estese nelle<br />

scuole, per coltivare la sensibilità. Wiesel dichiara: “Noi ebrei morimmo perché il mondo fu<br />

indifferente”. La sconfitta dell’indifferenza segna un passo avanti nel cammino della civiltà.<br />

Wiesel ha ricordato tutti i Paesi e popoli che soffrono, soprattutto in Africa, continente<br />

dimenticato. Qui 40 milioni di persone sono state prese e portate altrove: non si sa dove.<br />

L’epurazione di popoli e persone in Ruanda e Kurdistan fa parte di una triste storia recente.<br />

Finché ci saranno uomini assetati di potere che possono decidere di sradicare dalla<br />

propria terra intere famiglie, questi crimini si ripeteranno tragicamente. Ricordare serve<br />

dunque per agire, innanzitutto attraverso la prevenzione. Secondo un sondaggio trasmesso<br />

durante la partita, pare che il 40% degli italiani dica di farla finita con l’Olocausto. All’interno<br />

dello stesso sondaggio, per 9 paesi <strong>eu</strong>ropei il 15% della popolazione è ostile agli ebrei. Ma<br />

l’Olocausto rappresenta solo la fase estrema di un atteggiamento di odio razziale che è<br />

presente anche oggi e si manifesta in tante forme di discriminazione e avversione più o meno<br />

larvate verso le minoranze etniche e religiose. Ad Auschwitz è morto un milione di ebrei e a<br />

Treblinka 850.000. E dopo la liberazione molti non ce l’hanno fatta a sopravvivere<br />

psicologicamente e si sono suicidati, come Primo Levi, che ha raccontato la sua storia nel<br />

libro: “Se questo è un uomo”.<br />

Nella nostra società attuale il seme velenoso che può far crescere la mala pianta va<br />

distrutto nel nostro animo, prima che si traduca in altre tragiche realtà. In quel periodo moti<br />

sapevano, anche se ritenevano di non sapere e capire e quindi non si fece nulla.<br />

Nel 1941 una Dichiarazione si oppose allo sterminio degli ebrei. Nel 1944 fu<br />

distribuito un rapporto dalla Svizzera al Vaticano. Il 25 agosto 1944 le fotografie scattate<br />

dall’alto dagli inglesi riprendevano la realtà dei forni crematori con il pennacchio di fumo e le<br />

pire di cadaveri bruciati a cielo aperto, perché i forni crematori erano insufficienti.<br />

Nel marzo 1944 il governo ungherese si rifiutò di consegnare gli ebrei riuniti nei<br />

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ghetti, nei campi e nelle case ebraiche. In pochi giorni Eichmann, capo delle SS in Ungheria<br />

organizzò la deportazione ad Auschwitz di 475 mila persone, dicendo loro che sarebbero stati<br />

portati in Germania a lavorare. Oggi ci si chiede se questa massiccia operazione realizzata in<br />

così breve tempo sarebbe stata possibile senza la connivenza o l’indifferenza della<br />

popolazione.<br />

Il problema dell’indifferenza tocca la coscienza civile, che va educata fin dalla scuola<br />

materna e non riguarda solo la maggioranza della popolazione, ma anche le minoranze, in<br />

quanto il pregiudizio è bidirezionale, rivolgendosi tanto alle minoranze quanto alle<br />

maggioranze da parte delle minoranze. Bisogna togliersi le “lenti deformanti” del pregiudizio,<br />

per imparare a muoversi adeguatamente nella realtà e non sprofondare nel degrado culturale.<br />

In effetti, si può verificare anche una regressione a stadi inferiori tutte le volte che si instaura<br />

un imbarbarimento dei costumi, come è successo durante il nazifascismo, quando l’esigenza<br />

di ordine e controllo sociale ha creato un clima di intimidazione, violenze e terrore,<br />

impoverendo le menti e gli animi.<br />

Il nazifascismo propagandava una concezione dell’ordine come irreggimentazione,<br />

gerarchizzazione, secondo lo schema dominante/dominato, e annientamento della diversità<br />

considerata come disturbo e minaccia. La Shoah, che significa “sterminio”, riguardava<br />

specialmente gli ebrei, ma anche zingari, prostitute, omosessuali, oppositori politici, testimoni<br />

di Geova, il clero cattolico polacco, prigionieri sovietici che affollarono i campi di<br />

concentramento e, in particolare, il grande, quello di Auschwitz.<br />

Tuttavia, non esiste solo una concezione nazifascista dell’ordine. In una società<br />

democratica “ordine” significa integrazione della diversità, recupero e valorizzazione delle<br />

risorse, pari opportunità nella diversità, molteplicità nell’unità e unità nella molteplicità,<br />

pluriverso anziché universo, organizzazione.<br />

Partendo dall’idea di esplorare le barriere del pregiudizio, sembra quasi che ci siamo<br />

persi nei meandri della storia, lasciando parlare i fatti, i personaggi, gli eventi. In realtà, dietro<br />

i fatti, i personaggi e gli eventi, ci sono le idee che fanno camminare la storia. Alla fine, ci<br />

siamo soffermati a controllare il contenuto delle idee pregiudiziali o dei “filtri deformanti”<br />

rigidamente inforcati dalle persone come se fossero “lenti colorate” inserite negli occhiali e<br />

mai tolte.<br />

A loro volta, queste idee sono il frutto di esperienze di vita, di osservazioni, ma anche<br />

di una crescita personale che può essere incompleta o interrotta da eventi traumatici o<br />

disturbanti.<br />

Non bastano le idee-informazione; occorrono le idee-guida e le idee-forza. Esplorando<br />

48


il libro scolastico di storia di Vª elementare di mio figlio, ho constatato con piacere che non<br />

dispensa più solo una massa di informazioni, come succedeva quando io frequentavo le<br />

elementari. Finalmente i libri educano al senso critico fin dalle elementari, presentando<br />

documenti e testimonianze, e ponendo domande che formano la mente del bambino al<br />

confronto critico, all’osservazione, all’esplorazione personale. Le risposte scritte dei bambini<br />

alle domande del libro sondano la loro capacità di penetrazione critica degli eventi. Così, ho<br />

verificato che questa prassi ha inoculato in mio figlio la passione per la storia. In libreria, si<br />

sofferma sui libri di storia e si fa regalare libri di approfondimento delle varie epoche storiche.<br />

Mi chiede insistentemente di riportarlo ad Auschwitz per rivedere meglio ciò che non ha<br />

avuto il tempo di esaminare con accuratezza.<br />

Qualcuno ha affermato che “l’Europa è nata nel lager nazista”, nella Babele di lingue<br />

ed etnie diverse. Tuttavia, ad un esame più approfondito, l’assembramento coatto all’insegna<br />

dell’ideologia del predominio e della gerarchizzazione a qualunque livello sociale, anche nel<br />

lager, rendeva impossibile o estremamente difficile proprio quella solidarietà che è il motore<br />

dell’unione e mobilita le risorse e la forza dell’alleanza. Lo studio dei resoconti dei<br />

sopravvissuti, che hanno raccontato la loro esperienza disumana nel lager, ci porta a<br />

concludere che la gerarchizzazione messa in atto anche nel lager, per cui i vari detenuti<br />

“contavano” in modo diverso ed erano trattati a seconda della scala gerarchica in cui erano<br />

collocati, azionava uno spirito competitivo per la sopravvivenza che annullava l’“umanità”.<br />

Questo schema rese spesso le vittime carnefici dei loro simili. Per portare un semplice<br />

esempio, il cappello del detenuto era fondamentale per sopravvivere. Chi era trovato senza<br />

cappello al momento degli appelli, veniva fucilato. E c’era chi di notte rubava il cappello a<br />

qualcuno che nemmeno conosceva, sapendo che il giorno dopo sarebbe stato fucilato.<br />

L’Europa non può essere costruita per semplice assembramento o comunanza di<br />

interessi commerciali. Occorre un“anima <strong>eu</strong>ropea”, che non può nascere in una situazione<br />

coatta di lotta per la sopravvivenza o di semplice interesse commerciale per sopravvivere<br />

come nazione all’interno di un super-stato che protegga gli interessi di tutti.<br />

La BCE può provvedere ai bisogni di un super-stato, ma è l’“anima” di ciascun<br />

cittadino <strong>eu</strong>ropeo che è chiamata a mettersi in gioco per costruire l’Europa Unita.<br />

Quando il 27 gennaio 1945 i russi hanno aperto i cancelli di Auschwitz e gli anglo-<br />

americani quelli di altri campi di concentramento sparsi in Europa, si è pensato a cercare i<br />

responsabili di questa triste realtà nelle gerarchie naziste. Non si è andati più in là,<br />

chiedendosi in quale misura l“anima” degli <strong>eu</strong>ropei era stata contagiata da un “morbo” che<br />

attacca periodicamente l’umanità, come le famigerate influenze che hanno fatto milioni di<br />

49


morti.<br />

Questa malattia, che si chiama “razzismo” e “pregiudizio razziale”, sta contagiando di<br />

nuovo l’Europa e crea una barriera al suo ricompattamento unitario e alla formazione di una<br />

coscienza civile matura nei giovani, nelle future classi dirigenti. Occorre seminare<br />

preventivamente nelle coscienze dei giovani, per raccogliere frutti “salutari” in futuro. Al<br />

riguardo, è indicativo che solo all’inizio del 2004 siano state diffuse via Internet le foto<br />

scattate dagli aerei britannici che hanno sorvolato Auschwitz nel 1944, vari mesi prima che<br />

venissero aperti i cancelli liberando sette mila superstiti.<br />

Come si può rilevare dalla presentazione del nazismo, Hitler, Rosenberg e gli altri<br />

esponenti del “vertice” nazista non eccellevano per quanto concerne la “crescita” umana. Si<br />

può notare che in essi predominano il bisogno di vincere amorale e ossessivo, la crudeltà,<br />

l’uso del potere a fini di conquista, la concezione delle differenze come di una minaccia,<br />

tipiche del livello negativo del Guerriero Ombra. Cosa si intende per Guerriero negativo?<br />

Certi Guerrieri non riescono semplicemente a vedere il mondo da altre prospettive che la<br />

propria. Mister Adel Smith, di cui abbiamo parlato a lungo nel precedente volume, ne è un<br />

esempio eclatante. Per loro il mondo è fatto di eroi, cattivi e vittime da salvare. Per Mister<br />

Smith, in effetti, il mondo è fatto dagli eroi dell’Islam, primo fra tutti Maometto, dai cattivi,<br />

costituiti dagli infedeli, che seguono Cristo anziché Maometto o dai musulmani moderati, non<br />

fondamentalisti, e dalle vittime da salvare, ossia i seguaci di Smith, peraltro pochi, che lui<br />

spera forse di infoltire con le sue apparizioni televisive e le sue prese di posizione da<br />

Guerriero.<br />

Lo schema eroe, cattivo, vittima.<br />

Questa mentalità unilaterale può costituire un fatto grave. “In effetti l’affidarsi troppo<br />

all’intreccio eroe/cattivo/vittima - scrive Pearson - finisce in pratica con un’autoconvalida, per<br />

cui ci sono sempre cattivi e vittime (e quindi guerra, povertà e oppressione) solo perché l’eroe<br />

ne ha bisogno per sentirsi eroe. L’aspetto negativo dell’archetipo è la convinzione che non va<br />

bene essere semplicemente umani. Dobbiamo provare che siamo meglio degli altri. Il<br />

Guerriero vuol essere migliore - e necessariamente questo lascia gli altri in condizioni di<br />

inferiorità, il che, secondo l’etica del Guerriero, non dev’essere” 17 .<br />

Nelle sue manifestazioni più negative e più gravi, questo desiderio di essere superiori<br />

agli altri non è controllato da alcun valore superiore né da alcun sentimento umano.<br />

17 Pearson S. C., Risvegliare l’eroe dentro di noi, Astrolabio, Roma, 1992 op. cit. p. 113<br />

50


D’altronde, la configurazione del pregiudizio quale “filtro deformante”, che avalla la<br />

posizione di predominio rispetto ad altri considerati inferiori, è ben descritta da Gesù, quando<br />

parla dei farisei:<br />

Allora Gesù, volgendosi alle torbe e ai discepoli, disse: “Sulla cattedra di Mosè si sono assisi<br />

gli scribi e i farisei. Fate dunque e osservate tutto ciò che vi dicono; ma non agite secondo le opere<br />

loro, perché dicono e non fanno. Legano, infatti, pesi gravi e insopportabili e li caricano sulle spalle<br />

degli uomini; ma essi non li vogliono muovere neppure con un dito. Fanno poi tutte le loro azioni per<br />

essere veduti dagli uomini: portano infatti, larghe le loro filatterie, e mettono lunghe frange sui<br />

mantelli; amano i primi posti nei conviti e i primi seggi nelle sinagoghe; vogliono essere salutati nelle<br />

pubbliche piazze, ed essere dalla gente chiamati: Maestri. Ma voi non vogliate essere chiamati maestri,<br />

perché uno solo è il vostro Maestro, e voi siete tutti fratelli. [...] Chi è il maggiore tra voi, sarà vostro<br />

servo. Chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia, sarà esaltato. [...] Guai a voi, scribi e farisei ipocriti<br />

che percorrete il mare e la terra per fare un proselito, e quando lo è diventato, ne fate un figlio della<br />

Guerra, il doppio di voi”.<br />

“Guai a voi, guide cieche, che dite: Se uno giura per il tempio, non è niente; ma se uno giura<br />

per l’oro del tempio, resta obbligato. Insensati e ciechi! Che cosa è più importante, l’oro o il tempio<br />

che santifica l’oro? [...] Guai a voi, scribi e farisei ipocriti! Che pagate la decina della menta,<br />

dell’aneto e del cimino, ma trascurate le cose più essenziali della legge: la giustizia, la misericordia e<br />

la fedeltà. Queste sono le cose che bisogna fare, senza trascurare quelle.<br />

Guide cieche, scolate il moscerino e inghiottite il cammello! Guai a voi, scribi e farisei<br />

ipocriti! Che pulite il di fuori del bicchiere e del piatto, mentre il di dentro è pieno di rapina e di<br />

mondezza. Fariseo cieco! Lava prima il didentro del bicchiere e del piatto; sicché anche il di fuori<br />

diventi pulito”. (Matteo, 23, 1-26)<br />

Al versetto 14, la Volgata dice: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti! Che divorate le case delle<br />

vedove, col pretesto di lunghe orazioni: per questo sarete giudicati più severamente”.<br />

Queste affermazioni di Gesù, che mettono in luce la colossale mistificazione di un<br />

sistema di potere-prevaricazione, sono sempre attuali. I parametri di valutazione e di azione di<br />

chi ha potere sono spesso pregiudiziali in quanto tutelano esclusivamente gli interessi di una<br />

categoria di persone a scapito delle altre e fissano delle categorie di “superiorità” e di<br />

“inferiorità”, perché il Guerriero vuole essere migliore.<br />

E il Guerriero negativo struttura un apparato di potere finalizzato ad enfatizzare la sua<br />

collocazione di superiorità basata sulla forza delle armi e sullo spirito di gruppo o di massa.<br />

Una delle caratteristiche della cultura nazista è l’irreggimentazione anche per quanto<br />

riguarda l’assunzione di coreografie di massa e di modelli comportamentali da Guerriero. Nei<br />

51


egimi dittatoriali, in effetti, non si dà spazio all’espressione individuale, perché tutto deve<br />

essere controllato dall’alto.<br />

Come si è accennato nel capitolo sul nazismo, inserito nel volume “Barriere<br />

ideologiche e democrazia”,Baldur von Schirach, il capo della Gioventù hitleriana, fece largo<br />

uso di rituali e coreografie di massa, già presenti nel bagaglio storico dei movimenti giovanili<br />

tedeschi degli anni Venti, per inculcare i postulati ideologici del regime. La Gioventù<br />

hitleriana maschile comprendeva due fasce di età: dai 10 ai 14 ani e dai 15 ai 18.<br />

Il desiderio di essere superiori più essere espresso anche in ambito nazionale come<br />

volontà di una nazione di prevalere sulle altre secondo lo schema superiore/inferiore. Al<br />

riguardo, la presidenza italiana nel secondo semestre del 2003 si è manifestata contraria ad<br />

un’Europa a due velocità, ritenuta “arrogante e inaccettabile” da Berlusconi, secondo<br />

un’affermazione del 10 dicembre 2003. In effetti, separare i più dotati dai meno dotati,<br />

incoraggiando i primi a dominare gli altri in base ad un parametro di produzione, non tiene<br />

conto di altri parametri evolutivi come la solidarietà e la crescita sociale e civile.<br />

Il Guerriero negativo e il Guerriero evoluto.<br />

Poiché si può usare il proprio potere per migliorare il mondo o solo per acquistare<br />

potere e controllo sugli altri, per seguire la strada del Guerriero è essenziale una scelta tra il<br />

bene e il male. Il Guerriero che mina le istituzioni e la stabilità democratica di un Paese non<br />

può essere annoverato tra i Guerrieri evoluti. Il 2 febbraio 2004 a Milano sono stati<br />

condannati cinque islamici, ritenuti fiancheggiatori di Bin Laden, a pene detentive da 4 a 8<br />

anni per associazione a delinquere. D’altro lato a Guantanamo si sta consumando il suicidio<br />

della democrazia occidentale. Questa prigione USA a Cuba rappresenta per l’occidente<br />

l’accettazione dell’imbarbarimento dello scontro.<br />

Il Guerriero che è passato fino in fondo dalla parte del male, come Hitler, divide il<br />

mondo in due categorie sulla base del proprio egocentrismo. Quelli che si oppongono alle sue<br />

mire e ai suoi desideri vanno distrutti, vinti o convertiti. Si possono proteggere le vittime dagli<br />

altri, ma il prezzo che il Guerriero negativo pretende per questo è che a quel punto le stesse<br />

vittime siano totalmente asservite al suo dominio. È il caso di ogni tipo di imperialismo, sia<br />

che si tratti di una nazione che ne conquista un’altra, sia che si tratti del padrone che opprime<br />

gli operai o del marito che schiaccia la moglie.<br />

Le conquiste civili, tuttavia, hanno reso la guerra indesiderabile alla coscienza di una<br />

gran numero di individui e hanno reso la libera espressione e l’espansione dei diritti umani<br />

l’orizzonte irrinunciabile di una civiltà planetaria. L’espressione della Bibbia “Il Signore<br />

52


degli eserciti è il re della gloria” va quindi contestualizzata in relazione al periodo storico, per<br />

non assumere in maniera unilaterale la guerra come un bene, quando viene dichiarata in nome<br />

del Dio degli eserciti.<br />

Il problema dell’archetipo del Guerriero oggi è che tanti cosiddetti Guerrieri non sono<br />

affatto tali. Sono orfani, che placano il loro senso di mancanza di potere cercando di<br />

surclassare o controllare gli altri. Sono ps<strong>eu</strong>do-Guerrieri, non Guerrieri. 18<br />

Viceversa, per il Guerriero arrivato al livello più evoluto, la vera guerra è sempre<br />

contro i nemici interiori: l’accidia, il cinismo, la disperazione, l’irresponsabilità. È il coraggio<br />

di affrontare i draghi interiori quello che in ultima analisi ci permette di affrontare quelli<br />

esteriori con intelligenza, autodisciplina e saggezza.<br />

Mio figlio sceglie i momenti più insoliti per farmi domande “impegnative”. Una delle<br />

circostanze preferite è la partenza mattutina per la scuola, nel corridoio di casa, mentre mi sto<br />

infilando le scarpe e la giacca per uscire. Il 27 gennaio 2004, all’improvviso, mi chiede: “I<br />

cinesi e i russi sono pericolosi?”. Imbarazzata dall’attributo usato, gli chiedo “perché<br />

sarebbero pericolosi”. E lui risponde: “Perché sono mafiosi”. Gli faccio notare che si potrebbe<br />

dire la stessa cosa degli italiani, solo perché qualcuno è stato identificato come “mafioso”. Il<br />

discorso è proseguito precisando che non si può attribuire ad un intero gruppo una qualifica<br />

solo perché qualcuno si è fatto notare per certe caratteristiche. Il pregiudizio nasce spesso con<br />

domande e risposte avute dai genitori o da figure importanti per il bambino, come gli<br />

insegnanti o i nonni. L’assunzione di atteggiamenti radicali verso determinati gruppi etnici o<br />

religiosi nasce nella rigidità delle posizioni assunte dalle figure significative che circondano il<br />

bambino.<br />

Il costo della lotta contro i draghi interiori, che vengono proiettati e visti all’esterno<br />

nei cosiddetti “nemici”, può essere elevatissimo, perché il mondo è spesso un posto difficile.<br />

È importante essere abbastanza duri non solo per resistere, ma anche per scegliersi le battaglie<br />

giuste. I Guerrieri maturi, specialmente quelli che si fidano delle proprie capacità, non devono<br />

combattere per ogni cosa. Si scelgono con cure le cause per cui battersi. 19<br />

Del resto sulla scia delle precedenti riflessioni, si può anche rilevare che un malinteso<br />

senso del rispetto verso altre credenze religiose può portare a rinnegare il credo della propria<br />

18 Cfr. op. cit. p. 113<br />

19 Cfr. op. cit. p. 119<br />

53


collettività di appartenenza. Il 29 febbraio 2004 il Telegiornale trasmette la notizia che il<br />

direttore di una scuola elementare dice “no” alla visita di un vescovo per non imbarazzare<br />

sette bambini di religione diversa. In questa decisione permane un dubbio: il “no” era rivolto<br />

ad un rappresentante del clero cattolico o ad un rappresentante della religione di Cristo? Si<br />

tratta di un “no” rivolto all’istituzione o alla religione, al contenente o al contenuto? Riguardo<br />

alla repulsione manifestata da Mister Smith verso il Crocifisso, è chiaro che si tratta di una<br />

posizione contro una religione. Ma nel caso del direttore didattico il dubbio resta.<br />

Il seguente brano di Carol S. Pearson merita di essere presentato come promemoria per<br />

chiunque decida di cimentarsi in una battaglia o voglia interpretare i differenti periodi storici<br />

in una prospettiva che non contempli solo lotte, conquiste e perdite territoriali, prese del<br />

potere, domino e soggiogamento di popoli:<br />

Il Guerriero si pone un traguardo ed escogita strategie per raggiungerlo. Individua le sfide e gli<br />

ostacoli che presumibilmente incontrerà e come superarli uno per uno. Insieme, individua gli avversari<br />

che possono provare a mettergli il bastone tra le ruote per non farlo arrivare al traguardo. Il Guerriero<br />

di livello inferiore semplifica la situazione riducendo l’avversario a nemico e utilizzando ogni mezzo<br />

per sconfiggerlo - nel caso della guerra - arrivando a ucciderlo senza alcun rimorso.<br />

I Guerrieri evoluti cercano di convincere gli altri a sostenere le loro battaglie. Comprendono la<br />

politica di un’organizzazione e in che modo assicurarsi il sostegno alla propria causa. Riescono a<br />

evitare il voto o la decisione definitiva finché non sono certi di poter contare sul consenso di cui hanno<br />

bisogno. Arrivano al combattimento vero e proprio solo come ultima risorsa, dopo aver valutato ogni<br />

altra possibilità. 20<br />

I Guerrieri evoluti comprendono la politica di un’organizzazione e trovano il modo di<br />

assicurarsi l’appoggio alla propria causa integrandosi nella dimensione sociale del luogo in<br />

cui operano.<br />

In base al presupposto che il cittadino immigrato lavora e vive in un paese che non è<br />

quello di origine, si pone la questione del livello di integrazione sul piano umano, sociale e<br />

politico, che gli è consentito dall’attuale ordinamento. Se si sente escluso sul piano politico in<br />

quanto non ha accesso al voto, il malessere provocato non giova il suo senso di integrazione.<br />

Va trattato come una “parte scissa”, di cui va esplorata l’origine della scissione, per poi farla<br />

20 Ibidem pp. 119-120<br />

54


crescere fino all’età attuale del soggetto. In altri termini, vanno esaminate le situazioni che<br />

hanno condotto all’immigrazione e va esaminata la modalità più idonea per integrare<br />

l’immigrato nel tessuto sociale in modo che non si senta e non operi in veste di “parte scissa”.<br />

Solidarietà e cooperazione internazionale.<br />

A Venezia l’esperienza dei campi profughi ha funzionato: dopo 8 anni i due campi che<br />

c’erano in terraferma sono stati smantellati e dei 500 ospiti che nel tempo sono stati accolti<br />

nelle due strutture ben 475 si sono inseriti nel tessuto abitativo, lavorativo e sociale del<br />

Veneto.<br />

La strategia con la quale è stata gestita l’emergenza profughi e i successivi interventi<br />

d’accoglienza fin da subito è stata nell’ottica della continuità e della progettualità. Scopo<br />

dell’intervento infatti era quello dell’inserimento nel tessuto sociale di queste persone che<br />

scappavano da una guerra nella ex Jugoslavia, e pensare solo ad interventi di tipo assistenziale<br />

non sarebbe bastato.<br />

Attraverso progetti mirati che hanno accompagnato passo dopo passo il percorso<br />

d’integrazione dei profughi e delle loro famiglie, infatti, i più piccoli hanno potuto frequentare<br />

la scuola mentre per i più grandi c’è stata la possibilità di un inserimento nel mondo del<br />

lavoro che, ad esperienza campi terminata, ha consentito a tanti nuclei familiari di acquistarsi<br />

una casa.<br />

Il Comune ha dato loro solo un piccolo contributo, per il resto ogni famiglia s’è fatta<br />

carico delle spese ed ha comprato casa un po’ in tutto il Veneto orientale; in qualche<br />

occasione, visto che si trattava di famiglie rom composte anche da una ventina di persone,<br />

sono stati comprati dei vecchi rustici che poi sono stati ristrutturati. Si è voluto evitare in<br />

quest’ultima fase di definitiva integrazione sociale con il territorio che si creassero dei ghetti<br />

etnici, e così l’acquisto delle case è stato indirizzato guardando ad un ampio settore di<br />

territorio.<br />

Alcune famiglie, meno di dieci, sono state invece ospitate in alloggi del comune o<br />

dell’Ater. In quei casi si trattava di persone già in graduatoria.<br />

L’uscita da un’ottica puramente assistenziale, dunque, si è rivelata la chiave vincente<br />

di questa esperienza.<br />

Il Veneto nel 2004 ha dato il via ad un piano di cooperazione internazionale.<br />

Per gli interventi di cooperazione decentrata allo sviluppo e di solidarietà<br />

internazionale la Regione del Veneto spenderà, per il 2004, 2 milioni 700mila <strong>eu</strong>ro. La Giunta<br />

regionale, infatti, su proposta dell’assessore regionale per i diritti umani, ha approvato il piano<br />

55


annuale 2004 degli interventi di cooperazione decentrata allo sviluppo (2.300.000) e<br />

solidarietà internazionale (400.000).<br />

“In questi anni - spiega l’assessore Isi Coppola - si è venuto moltiplicando il numero<br />

dei soggetti delle relazioni internazionali, con ruoli, natura giuridica e poteri estremamente<br />

diversi. Per noi il termine ‘globalizzazione’ sta a significare che ci sono interessi ‘alti’ la cui<br />

tutela non può essere affidata alla mera gestione di un club esclusivo di Stati ma richiedono<br />

invece la compartecipazione, dal basso. Con una parte dello stanziamento di 400.000 <strong>eu</strong>ro per<br />

la solidarietà internazione, saranno finanziate iniziative regionali dirette (125.000), mentre i<br />

rimanenti 275.000 <strong>eu</strong>ro saranno destinati a interventi di carattere emergenziale; dei 2 milioni<br />

300mila <strong>eu</strong>ro dello stanziamento per interventi di cooperazione decentrata allo sviluppo, la<br />

metà sarò destinata a finanziare iniziative regionali dirette e l’altra metà a finanziare iniziative<br />

a contributo. Le aree di intervento ritenute geopoliticamente più importanti sono: l’Africa<br />

subsahariana, l’America Centrale e Meridionale, l’Europa Orientale, il Mediterraneo<br />

meridionale e il Medio Oriente”.<br />

Emergenza immigrazione.<br />

Servono massicci investimenti <strong>eu</strong>ropei in Africa per arginare il fenomeno<br />

dell’immigrazione clandestina dando lavoro a milioni di africani nella loro terra. Mirko<br />

Tremaglia, ministro per gli Italiani nel mondo, torna ad avanzare la sua proposta. Bisogna<br />

pensare alle esigenze immediate “dell’umanità, dell’accoglienza e della convivenza civile”,<br />

dice l’esponente di AN. E anche, come ha segnalato il ministro dell’Interno Pisanu- nella<br />

prima metà di agosto 2004, di fronte all’intensificarsi degli sbarchi clandestini provenienti<br />

dall’Africa - alla necessità che l’Europa assuma le sue responsabilità. “Ma se questo è vero -<br />

aggiunge Tremaglia - è anche vero che non si deve ignorare che occorre affrontare questa<br />

realtà spaventosa anche in termini diversi per fermare quella che, ormai va considerata una<br />

vera e propria ‘invasione’ dall’Africa verso l’Europa”. Il ministro di AN ricorda a questo<br />

proposito di aver presentato nel 1995 a Bucarest a nome dell’Italia una risoluzione, poi<br />

approvata da 127 Paesi e anche dal Parlamento italiano, “che chiedeva all’Europa un piano<br />

trentennale di investimenti a favore dell’Africa settentrionale per dare lavoro a 20 milioni di<br />

africani nella loro terra”. “Soltanto così - aggiunge ora Tremaglia - si può fermare l’invasione<br />

e si può compiere un atto di vera umanità e giustizia”. Il ministro conferma inoltre la sua<br />

richiesta di una “Conferenza Internazionale da tenersi a Malta tra tutti i paesi rivieraschi del<br />

Mediterraneo ed i Paesi dell’UE per concordare quella che ritengo – afferma – un’operazione<br />

indispensabile”.<br />

56


“Per affrontare l’emergenza immigrazione serve un intervento forte dell’Unione<br />

Europea che deve assumersi la responsabilità perché sette mila chilometri di coste sono la<br />

frontiera meridionale dell’UE”. Lo ha affermato l’<strong>eu</strong>roparlamentare di Forza Italia Antonio<br />

Tajani. “Quello dell’immigrazione - ha aggiunto - non è solo un problema di ordine pubblico,<br />

ma è questione molto più complessa”. Secondo l’<strong>eu</strong>roparlamentare azzurro, “va sostenuta<br />

l’azione del ministro dell’Interno Pisanu e continueremo a lavorare perché si senta partecipe<br />

di questo problema. Ci sono già una serie di interventi che vanno in questa direzione con<br />

programmi di investimento per la formazione nei Paesi da dove arrivano di immigrati”.<br />

“L’Unione Europea - ha proseguito - deve risolvere i problemi per dare risposte ai<br />

cittadini e l’immigrazione non è più un’emergenza nazionale. Tra l’altro, molti immigrati<br />

usano l’Italia come ‘territorio-ponte’ per raggiungere altri paesi <strong>eu</strong>ropei”.<br />

Per Tajani, “occorre, a questo punto, coinvolgere i Paesi ricchi per fare in modo che<br />

l’immigrazione si risolva da dove parte. Ma per raggiungere questo obiettivo - ha concluso -<br />

serve un intervento sovranazionale”.<br />

“Se per voi italiani l’immigrazione clandestina è un problema, per noi è molto di più: è<br />

un’invasione. E di fronte a questo abbiamo paura della reazione del popolo libico”. Il ministro<br />

degli Esteri della Libia, Abdulharam Shalgham, chiede al governo italiano di fare di più sul<br />

tema dell’immigrazione clandestina. Da circa un anno è in vigore l’accordo di cooperazione<br />

tra Italia e Libia. “Il bilancio è positivo, anche se la cooperazione va molto al rilento. L’Italia<br />

finanzia i voli charter di rimpatrio degli immigrati illegali, e questo è positivo. Ma non basta.<br />

Gli altri punti dell’intesa, come per esempio l’invio delle tende, l’allestimento di centri di<br />

raccolta, ancora devono essere soddisfatti. Dobbiamo agire in fretta anche perché temiamo<br />

che si apra un nuovo fronte di invasione dal Darfur. Per questo abbiamo deciso di chiudere la<br />

frontiera con il Sudan”. A proposito del Darfur, Shalgham ricorda che “ci sono tanti problemi<br />

urgenti: innanzitutto quello della sicurezza, di garantire l’incolumità delle persone, e poi<br />

quello di far arrivare cibo. Creando però un compromesso politico. Se in quella regione si<br />

insediassero soldati americani, inglesi o <strong>eu</strong>ropei, i fondamentalisti islamici arriverebbero<br />

come gli orsi attratti dal mieli. Avremmo un altro Afghanistan, un altro Iraq. Gli integralisti<br />

inciterebbero alla ‘guerra santa’. Bisogna evitare assolutamente che si arrivi a questo. Che gli<br />

aiuti quindi - conclude il ministro libico - si limitino a cibo e mezzi logistici”.<br />

Il Commissario UE alla Giustizia e gli Affari Interni, Antonio Vittorino, ha d’altra<br />

parte ricordato la proposta presentata dall’Italia durante la presidenza di turno UE, “per<br />

studiare un meccanismo di quote”, anche quale “incentivo al fine di accelerare i negoziati per<br />

la riammissione dei clandestini” con un gruppo di paesi. “La proposta italiana fu giudicata un<br />

57


meccanismo valido e utile da parte della Commissione UE”, ha precisato il portavoce, Pietro<br />

Petrucci, sottolineando che Bruxelles ha “sempre sostenuto che, per essere credibile, la<br />

politica della lotta all’immigrazione clandestina dovrebbe essere controbilanciata<br />

dall’armonizzazione delle scelte riguardanti invece l’immigrazione legale”. “Purtroppo la<br />

quasi totalità degli stati membri dell’UE non ha finora ritenuto di dover andare in questa<br />

direzione, e allo stato attuale esiste infatti - ha precisato Petrucci - una situazione di squilibrio<br />

fra le misure comunitarie adottate per combattere l’immigrazione clandestina e l’azione<br />

legislativa in materia invece di immigrazione legale”.<br />

Per gli immigrati che già risiedono legalmente sul territorio nazionale si discute se<br />

l’accesso al voto nelle amministrative possa rappresentare uno stimolo a sentirsi parte<br />

costitutiva della realtà politica del Paese ospitante. Secondo alcuni, il voto politico può<br />

costituire una valida modalità di integrazione. D’altronde, dobbiamo ricordare che i molti<br />

italiani immigrati all’estero hanno a loro volta sofferto di discriminazioni e non si sono sentiti<br />

accettati nel Paese ospitante. Saremmo antistorici, oltre che crudeli, se facessimo subire lo<br />

stesso destino a coloro sono giunti in Italia per lavorare e - perché no? - per amare il nostro<br />

Paese.<br />

Tuttavia, occorre valutare attentamente se il voto debba essere accompagnato o meno<br />

dalla cittadinanza italiana e appare ragionevole considerare se quest’ultima debba essere<br />

concessa solo in presenza di una “idoneità” simile a quella della patente di guida, in cui<br />

occorre dimostrare di essere in possesso di conoscenze fondamentali per orientasi sul<br />

territorio italiano: conoscenza della lingua italiana parlata e scritta, della storia d’Italia e<br />

d’Europa, delle istituzioni e leggi italiane, assieme ad un giuramene di fedeltà all’Italia e<br />

all’Europa, come avviene negli USA.<br />

L’11 novembre 2003 la CEI (Conferenza Episcopale Italiana) ha sollecitato l’impegno<br />

del governo per il diritto di asilo e di voto agli immigrati per le amministrative, purché<br />

rispettino le leggi. Ha chiesto anche più celerità per le naturalizzazioni.<br />

Per raggiungere l’obiettivo dell’integrazione lavorativa, sociale, umana e culturale,<br />

occorre una strategia adeguata. Ecco cosa suggerisce Pearson in proposito, per far sì che il<br />

Guerriero si evolva e offra il suo contributo positivo alla società:<br />

Ciò che distingue il Guerriero non è il persistere comunque nella battaglia, ma il raggiungere<br />

l’obiettivo. Il Guerriero abile può scegliere di ritirarsi per un certo periodo, di sviluppare una strategia,<br />

quindi di raccogliere e mobilitare le forze, e muovere all’attacco solo quando è pronto.<br />

In realtà, i Guerrieri più abili possono addirittura non essere affatto riconosciuti come<br />

58


Guerrieri, perché non ci sono scontri aperti ma solo una lotta d’intelligenza, condotta totalmente dietro<br />

le quinte. Ai livelli più alti, la vittoria si raggiunge non solo senza spargimento di sangue, ma anche<br />

senza l’umiliazione di nessuno; è solo quando tutti si sentono trattati equamente che la pace può esser<br />

mantenuta.<br />

Un vero Guerriero incute sempre rispetto per la sua forza e per la sua acuta valutazione di<br />

persone e situazioni, che lo porta a combattere quando occorre combattere e a cercare un<br />

compromesso creativo quando questo è possibile. Il vero Guerriero può preferire la pace, ma non ha<br />

paura della guerra. In realtà a un certo livello tende a provarci gusto, anche quando ha la meglio un<br />

giudizio più avveduto e il confronto diretto viene evitato.<br />

Se è uomo di pensiero, o uno studioso, il Guerriero cristallizza le sue idee in opposizione a<br />

quelle degli altri, che gli piace screditare come sbagliate (o anche pericolosamente sbagliate), fragili,<br />

ingenue e così via. Questo processo all’inizio predispone il Guerriero che è in ognuno di noi a<br />

dimostrare che lui ha “ragione” e gli altri “torto”, una posizione che implica la presunzione della<br />

propria superiorità.<br />

Il Guerriero si trova generalmente più a suo agio in un universo in cui le regole del bene e del<br />

male sono semplici e chiare, ed è facile sapere chi e che cosa è giusto. Sennonché il mondo in cui oggi<br />

viviamo non è fatto così. Essere Guerrieri oggi richiede integrità all’interno di un universo moralmente<br />

complesso e ambiguo.<br />

Il nostro mondo oggi richiede Guerrieri che sappiamo prendere, e impegnarsi in, decisioni e<br />

azioni quando niente è assolutamente giusto o sbagliato. La domanda, a questo punto, diventa, non<br />

semplicemente: “Qual è la cosa giusta da pensare o da fare?”, ma “Che cosa è giusto per me?” (che in<br />

seguito sarà armonizzato con cosa è giusto per noi) e infine “Qual è la soluzione migliore per tutti gli<br />

interessati?”.<br />

In questo contesto, la considerazione che ognuno di noi vede il mondo da una prospettiva<br />

diversa e che nessuno possiede la verità in assoluto aiuta il Guerriero a sentirsi a suo agio nel momento<br />

in cui passa da un modello di decisionalità e soluzione di conflitti basato su vittoria/sconfitta a un<br />

modello vittoria/vittoria. Se io ho “ragione” e tu differisci da me, ciò vuol dire che tu hai “torto”. Ma<br />

se io faccio o penso ciò che è giusto per me, e tu pensi o fai ciò che è giusto per te, non c’è<br />

necessariamente contrasto, anche se le cose che noi facciamo o pensiamo sono fortemente in contrasto<br />

fra loro.<br />

I Guerrieri hanno anche diversi modelli di combattimento, basati sul diverso livello di<br />

sviluppo. Il primo livello è quello di chi lotta nella giungla. Il combattimento è scorretto, e l’obiettivo<br />

è quello di annientare, e non soltanto battere, l’altra parte (interiore o esteriore). Il nemico viene visto<br />

come realmente maligno, e magari anche inumano. Via via che il Guerriero diventa più civilizzato e<br />

raffinato, il combattimento si assoggetta a principi e regole di gioco leale, e il fine diventa quello di<br />

battere l’avversario, ma possibilmente senza fargli del male. In campo religioso, ad esempio, si passa<br />

dall’uccisione alla conversione degli infedeli.<br />

59


Al terzo livello, l’unico interesse del Guerriero è quello di raggiungere un fine di più vasta<br />

portata sociale. Quando i traguardi del Guerriero sono definiti solo in base all’Io, la tendenza è di<br />

raggiungerli in competizione con gli altri, dato che, come vuole Jung, l’Io consiste nel dimostrarci in<br />

contrasto con gli altri. Vorremo quindi raggiungere i nostri scopi e trionfare su quanti hanno altre<br />

vedute.<br />

Infine, quando la volontà è informata dallo Spirito e il Guerriero agisce al servizio del<br />

richiamo dello Spirito sulla persona, non c’è generalmente alcun conflitto fra quello che la persona<br />

vuole e quello che contribuisce al bene generale. La lezione che i grandi Guerrieri alla fine imparano è<br />

che non c’è modo di vincere realmente se non si dà il contributo che siamo qui per dare.<br />

Quando facciamo questo, vincono tutti. I Guerrieri che hanno raggiunto il loro grado più alto,<br />

di conseguenza, cercano quel tipo di soluzione vittoria/vittoria, sapendo che è interesse di tutti che<br />

ciascuno ottenga ciò che lo realizza e gli porta gioia al livello più profondo. 21<br />

Questa eccellente pagina di Carol Pearson contiene idee-guida e idee-forza, quelle<br />

stesse idee che è opportuno usare per formare i nostri giovani Guerrieri fin dalla scuola<br />

materna ed elementare, commentando i libri di storia, di studi sociali, di antropologia,<br />

di letteratura ecc. ed educandoli al rispetto degli altri e allo spirito critico nei confronti delle<br />

informazioni e dei personaggi che si ispirano al Guerriero negativo.<br />

21 Ibidem pp. 120-121<br />

60


INSEGNARE LA STORIA IN UN’OTTICA EVOLUTIVA<br />

Senza demonizzare popoli o nazioni, ma usando un parametro valutativo improntato<br />

unicamente all’esame dei diversi livelli evolutivi del Guerriero che portano a comportamenti<br />

“caratteristici”, possiamo considerare alcuni fatti storici del XX secolo. A titolo<br />

esemplificativo, il 22 giugno 1941 iniziò l’aggressione all’Unione Sovietica. La Germania<br />

attaccò con 153 divisioni, l’Italia mandò un corpo di spedizione male armato e impreparato e<br />

la Romania inviò la maggioranza delle sue truppe. Hitler intendeva conseguire la vittoria nel<br />

giro di pochi mesi e inizialmente tutto si svolse più o meno secondo le previsioni.<br />

A partire dall’aggressione all’Unione Sovietica, si realizzò uno stravolgimento<br />

profondo della condotta bellica, in quanto si dispiegò la logica della guerra nazionalsocialista<br />

che allo scontro tra le potenze aggiunse lo scontro frontale di ideologie e razze. L’obiettivo a<br />

cui mirava l’ideologia nazista consisteva nella conquista di uno sterminato “spazio vitale” tale<br />

da garantire al Reich immense risorse e la creazione di un “nuovo ordine <strong>eu</strong>ropeo”, cioè di un<br />

sistema di stati satelliti soggetti alla Germania. Questo obiettivo comportò un’occupazione<br />

che si intendeva come definitiva in vista della futura dominazione nazista. Infatti, nelle aree<br />

destinate all’insediamento dei tedeschi si realizzò quel processo di germanizzazione<br />

indissociabile dall’obiettivo razzista: immissione di tedeschi, portatori di valori razziali<br />

superiori, ed espulsione di masse ingenti di popolazioni locali per lasciare lavoro e beni agli<br />

occupanti.<br />

Questo procedimento di immissione-espulsione nei territori occupati fu attuato<br />

innanzitutto in Polonia. I massicci trasferimenti di popolazione costituirono nell’economia<br />

della guerra nazista uno strumento di decimazione e di selezione di gruppi etnici e sociali, in<br />

un contesto in cui disgregazione di stati e del tessuto sociale, spostamenti di confini e<br />

gerarchizzazione di nazionalità furono parte di un unico progetto di trasformazione<br />

dell’Europa. Ciò significò soprattutto lo sfruttamento della forza lavoro nelle forme più<br />

diverse: dall’asservimento nei luoghi di produzione originari, all’utilizzazione nei servizi<br />

dell’amministrazione bellica tedesca, alla deportazione nei complessi produttivi,<br />

nell’agricoltura e nei campi di concentramento del Reich. Un’altra caratteristica di questo<br />

progetto di germanizzazione fu lo sfruttamento degli apparati produttivi e delle risorse<br />

naturali per realizzare un gigantesco processo di “integrazione continentale” a senso unico: un<br />

sistema di subordinazione totale delle esigenze della periferia al centro dell’impero,<br />

rappresentato dalla Germania. Questo sistema fortemente centralizzato era anche<br />

estremamente gerarchico, con la Germania dominante sui satelliti.<br />

61


Durante la seconda guerra mondiale furono deportati in Germania quasi 8 milioni di<br />

civili stranieri e di prigionieri di guerra per essere impiegati nell’industria tedesca soprattutto<br />

nei settori della produzione di armamenti e nell’agricoltura. Nel complesso i lavoratori<br />

stranieri fornirono circa un terzo della manodopera delle industrie belliche, raggiungendo<br />

talvolta anche il 50%, come nel caso delle fabbriche di carri armati Krupp a Essen. Essi<br />

giunsero nel Reich da tutti i paesi compresi nel progetto di “nuovo ordine <strong>eu</strong>ropeo”. Il<br />

reclutamento iniziò nel 1939 in Polonia e, poiché le campagne per le assunzioni non ebbero il<br />

successo auspicato, i nazisti procedettero alla precettazione coatta con razzie nel corso delle<br />

quali vennero rastrellati tutti gli abili al lavoro. Fino al 1944 furono deportati in Germania più<br />

di un milione e mezzo di polacchi. Dal 1942 cominciò un massiccio trasferimento di civili<br />

sovietici (circa due milioni e mezzo) poiché i prigionieri di guerra, a causa del brutale<br />

trattamento cui furono sottoposti, non furono quasi mai in condizioni di svolgere i lavori<br />

massacranti cui venivano costretti. Nel marzo 1942Hitler nominò Fritz Sauckel, Gauleiter<br />

della Turingia, per il reclutamento dei lavoratori; questi procedette a massicci rastrellamenti<br />

nell’Europa nazista e stabilì una rigida gerarchia razziale nel trattamento delle vittime al cui<br />

vertice vi erano i lavoratori di stirpe germanica, mentre i sovietici e i polacchi furono<br />

confinati nel punto più basso. Le condizioni di vita e i salari variarono a seconda della<br />

posizione occupata. Tali gerarchie furono mantenute e acuite dal regime anche allo scopo di<br />

accentuare le differenze fra gli stessi lavoratori stranieri, rendendo in tal modo ancor più<br />

difficile ogni alleanza e fraternizzazione.<br />

Per far fronte alle urgenti spese militari, i tedeschi organizzarono un sistema<br />

complesso e capillare che Göring comunicò ai commissari del Reich e ai comandanti militari<br />

il 10 agosto 1942: “Saccheggio allevamenti e organizzo vere e proprie battute di caccia”. In<br />

tutti i paesi in cui entrarono da vincitori, i reparti tedeschi saccheggiarono, espropriarono e<br />

requisirono. Le autorità occupanti si astennero poi, nei mesi successivi, da misure così brutali<br />

e scelsero vie molto più subdole ma assai efficaci. Un primo provvedimento consistette nel<br />

rivalutare arbitrariamente il marco - diventata una moneta <strong>eu</strong>ropea - rispetto alle monete dei<br />

Paesi conquistati. Ciò ridusse il potere d’acquisto dei prodotti tedeschi diventati più cari e<br />

aumentò viceversa la possibilità per i tedeschi di maggiori acquisti nei Paesi occupati. I primi<br />

a beneficiarne furono i soldati. Le spese di mantenimento delle truppe di occupazione erano a<br />

carico dei Paesi vinti e l’ammontare non fu stabilito in base al numero dei soldati, ma alla<br />

supposta ricchezza di ciascun Paese. Le ingenti somme eccedenti erano utilizzate dal Reich<br />

per pagare con le rispettive monete la manodopera straniera impiegata sul proprio territorio e<br />

per intervenire nei vari sistemi economici nazionali acquistando quote di partecipazione.<br />

62


Ebbero inizio rapporti economici caratterizzati da un’apparente regolarità. Transazioni<br />

commerciali convogliarono verso la Germania masse enormi di prodotti. Tutti gli scambi<br />

economici dell’Europa occupata furono diretti verso il Reich e verso i suoi satelliti.<br />

Nell’Europa centrale il dominio effettivo che la Germania aveva conquistato prima della<br />

guerra si trasformò in un monopolio. Il progetto del “nuovo ordine <strong>eu</strong>ropeo” prevedeva fra<br />

l’altro che dopo la guerra la Germania si sarebbe riservata una sorta di monopolio<br />

dell’industria <strong>eu</strong>ropea, in particolare nel settore della metallurgia e della chimica. Berlino<br />

sarebbe diventata al centro delle arti, delle lettere, della moda, dello spettacolo.<br />

La barbarizzazione del conflitto.<br />

La condotta bellica tedesca assunse in alcune parti d’Europa il carattere di vera e<br />

propria guerra di sterminio: ciò emerse nell’attacco alla Polonia e fu programmato fin<br />

dall’inizio dell’aggressione all’Unione Sovietica. Non si intendeva infatti soltanto sconfiggere<br />

il nemico, come a Ovest, ma annientarlo per avere un territorio da asservire alle esigenze del<br />

Reich. Basti pensare che su tre milioni di prigionieri sovietici 600.000 furono uccisi,<br />

contravvenendo alle norme che regolano la condotta bellica.<br />

La guerra di sterminio generò a sua volta fenomeni caratteristici di questo conflitto<br />

quali la Resistenza e i movimenti clandestini, che si svilupparono nei paesi occupati dalle<br />

potenze del patto tripartito, dove si contrapposero schieramenti e regimi collaborazionisti e<br />

movimenti di resistenza agli occupanti.<br />

La conduzione della guerra e l’amministrazione delle zone occupate seguirono i<br />

dettami dell’ideologia nazista ben più che non le regole dei diritti dei popoli. A Est i soldati<br />

tedeschi combatterono una guerra ideologica e di sterminio le cui regole, tranne poche<br />

eccezioni, furono condivise da tutta la Wehrmacht.<br />

Il 22 agosto 1939, pochi giorni prima dell’aggressione alla Polonia, rivolgendosi ai più<br />

alti capi militari, Hitler dichiarò: “In primo piano sta l’annientamento della Polonia. Obiettivo<br />

è l’eliminazione delle forze vitali, non il raggiungimento di una determinata linea. Anche se<br />

dovesse scoppiare la guerra a Occidente, l’annientamento della Polonia rimane al primo<br />

posto. Data la stagione, decisione rapida. Darò il pretesto propagandistico per lo scatenamento<br />

della guerra, non importa se credibile o meno. Al vincitore non si chiederà più tardi se ha<br />

detto o no la verità. Nel dare inizio e nel condurre la guerra ciò che importa non è il diritto,<br />

ma la vittoria. Chiudere i cuori alla compassione, procedere in modo brutale. Bisogna dare<br />

giustizia a ottanta milioni di uomini. Bisogna garantire la loro esistenza. Sarà il più forte ad<br />

avere ragione. La massima durezza”.<br />

63


Il 6 giugno 1941, poco prima dell’attacco all’URSS, venne diramato l’ordine del<br />

comando supremo della Wehrmacht sul trattamento da riservare ai commissari politici: “La<br />

truppa deve essere cosciente di quanto segue: 1. In questa lotta è errato un atteggiamento di<br />

indulgenza e di rispetto del diritto internazionale nei confronti di questi elementi. Essi sono<br />

pericolosi per la sua sicurezza e per una rapida pacificazione dei territori conquistati. 2. I<br />

commissari politici sono promotori di barbari e asiatici metodi di lotta. Bisogna quindi<br />

procedere contro di loro immediatamente, e senz’altro, con ogni asprezza. Di conseguenza,<br />

essi dovranno essere immediatamente passati per le armi quando fossero catturati in<br />

combattimento o in azioni di resistenza”.<br />

I fini di guerra delle grandi potenze furono determinati in primo luogo dalla necessità<br />

di contrastare l’espansione della Germania nazista. Questo fu l’elemento che accomunò in fasi<br />

e con tempi diversi Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica e altre potenze minori,<br />

anche se poi ciascun paese coltivava obiettivi particolari. La Gran Bretagna tentò i difendere<br />

la sua egemonia nel Mediterraneo e nel sub-continente indiano. Gli Stati Uniti da arsenale<br />

militare diventarono sempre più potenza mondiale. L’intreccio fra guerra difensiva e<br />

conquista di nuovi spazi fu particolarmente chiaro nel caso dell’Unione Sovietica. L’Italia,<br />

come alleata, fu in realtà un satellite della Germania e sperò di ritagliarsi uno spazio di<br />

autonomia; ma anziché rafforzare la sua posizione, fu soffocata da questa scelta strategica.<br />

Ciò emerse sempre più chiaramente nello svolgimento della guerra. E Mussolini, protagonista<br />

dell’Asse Roma-Berlino faticò parecchio per “farsi sentire” in Germania, anche se in Italia la<br />

sua politica era tutt’altro che “timida”.<br />

Una pedagogia per i Guerrieri.<br />

Mussolini, maestro elementare, utilizzò una pedagogia della popolazione ispirata al<br />

risveglio della dimensione archetipica del Guerriero di livello inferiore. Uno dei leitmotiv<br />

dell’Italia fascista fu quello della “patria in armi”. Irreggimentare gli italiani secondo il<br />

modello della disciplina militare significò controllo capillare della società, ma fu anche la<br />

facciata aggressiva e militaresca di un regime che si affidava all’apparenza e alla propaganda<br />

per compensare l’evidente impreparazione del suo apparato bellico. Secondo Mussolini, la<br />

scuola doveva educare i giovani ai principi del fascismo e dell’obbedienza. Gli insegnanti<br />

dovevano giurare fedeltà al Duce e impegnarsi a formare dei cittadini devoti al regime<br />

fascista. I libri di testo erano uguali in tutta Italia e contenevano molte letture e immagini che<br />

inneggiavano al Duce e al fascismo. Invece di educare alla capacità critica attraverso l’analisi<br />

di fenomeni del passato, si insegnava: “Obbedite perché dovete obbedire”. Durante il<br />

64


fascismo i bambini e i ragazzi erano iscritti all’Opera Nazionale Balilla e ricevevano un<br />

addestramento di tipo militare. In molte occasioni dovevano indossare la divisa e fare il saluto<br />

romano.<br />

Il fascismo esaltava la forza fisica e la violenza. Lo spirito di avventura dei ragazzi<br />

veniva indirizzato verso la guerra. Nel 1922 Mussolini organizzò una marcia su Roma per<br />

occupare la capitale. Il re Vittorio Emanuele III non volle fermare i fascisti; anzi, affidò a<br />

Mussolini l’incarico di governare il Paese. In pochi anni Mussolini, chiamato “duce,” instaurò<br />

una dittatura e abolì tutte le libertà sopprimendo i partiti politici e i sindacati, la libertà di<br />

stampa, di parola e di associazione. Chi si opponeva al fascismo era arrestato o esiliato. Nel<br />

1924 avvenne l’assassinio di Giacomo Matteotti, un deputato socialista che aveva denunciato<br />

apertamente le violenze dei fascisti.<br />

Dopo aver conquistato il potere politico con le armi e la violenza, i fascisti cercarono<br />

l’approvazione della gente con una martellante propaganda attraverso la radio, i manifesti, i<br />

giornali, gli spettacoli. Sui muri delle case si vedevano scritte gigantesche inneggianti al duce.<br />

Il suo volto era usato per la propaganda e appariva ovunque. Mussolini radunava i suoi<br />

seguaci nelle piazze e li incitava con discorsi esaltati, nei quali si presentava come un eroe<br />

forte e invincibile a cui bisognava obbedire ciecamente, secondo il principio del “credere,<br />

obbedire, combattere”. In questa descrizione si concretizza il significato della dittatura come<br />

imposizione anche violenta del potere di una sola persona e/o di un solo partito politico, a un<br />

popolo o a una nazione.<br />

La dittatura nel corso della storia, si instaura nei periodi di forte instabilità. In effetti,<br />

dopo la prima guerra mondiale in Italia c’erano povertà e disoccupazione e la gente protestava<br />

con manifestazioni e scioperi. Molti lavoratori si iscrissero al sindacato e, in alcune zone, i<br />

contadini occuparono le terre e gli operai occuparono le fabbriche. Alcuni ricchi industriali e<br />

proprietari terrieri temevano che scoppiasse una rivoluzione come era successo in Russia e<br />

finanziarono il partito fascista fondato da Benito Mussolini, che prometteva di riportare<br />

l’ordine nella società. Gli iscritti a questo partito, i fascisti, usavano le armi e la violenza per<br />

impedire scioperi e proteste. Erano organizzati in squadre e, senza rispettare le leggi,<br />

distruggevano le sedi dei sindacati, dei giornali e degli altri partiti politici.<br />

Tuttavia, la popolarità di Mussolini presso gli italiani di ogni ceto, ma non tra gli<br />

intellettuali, fu un dato incontestabile del regime. Nel culto del suo nome, della sua figura e<br />

del suo carisma si condensavano, sublimate, le frustrazioni di una nazione e le banalità del<br />

vivere quotidiano.<br />

Mio figlio, in 5ª elementare, a dieci anni appena compiuti in dicembre, ha già un’idea<br />

65


chiara di come sarà da grande. Alla domanda scritta, ha risposto sul quaderno di scuola: “Sarò<br />

alto, intelligente e preciso e farò il pilota di C130”. Quando gli ho chiesto perché ha messo<br />

questo tipo di aereo, mi ha risposto che la maestra gli avrebbe fatto rifare il testo se avesse<br />

scritto “Tornado”, o “Caccia”, “perché non vuole i militari”.<br />

Il fervore della maestra nel contrastare le predisposizioni militaristiche dei suoi allievi<br />

Guerrieri si traduce dunque nella “bocciatura” dei testi che evidenzino tendenze e fasi del<br />

Guerriero che usa le armi per combattere e uccidere. Se riflettiamo sul fatto che<br />

l’insegnamento della scuola materna ed elementare è affidato quasi esclusivamente alle<br />

donne, possiamo comprendere quale importanza rivesta la donna nel formare i futuri<br />

Guerrieri, orientandone le pulsioni verso ideali costruttivi e non distruttivi, sollecitandone la<br />

crescita verso stadi evolutivi più maturi rispetto all’etica barbara e amorale del “credere,<br />

obbedire e combattere”. Nel periodo del nazifascismo gli ordini non si potevano discutere,<br />

nemmeno quando cozzavano palesemente con i diritti umani internazionali. Non è mai stato<br />

fucilato nessuno perché si è rifiutato di uccidere un ebreo. In Ucraina, come in altri paesi<br />

occupati dai nazisti, il compito di uccidere tutti gli ebrei - uomini, donne e bambini -<br />

allineandoli davanti ad una fossa, in modo che vi cadessero dentro dopo lo sparo, era affidato<br />

a milizie locali. Intervistati in un filmato televisivo trasmesso il 20 gennaio 2004, questi<br />

militari ucraini hanno detto che lo facevano perché gli ordini non si potevano discutere: “Era<br />

come andare in un bosco a raccogliere la legna, perché sai che senza questa raccolta il fuoco<br />

si spegne”. Alla richiesta sul perché uccideva i bambini ebrei, Himmler rispose che, dopo aver<br />

riflettuto a lungo, ha capito che il “cattivo seme” si sarebbe vendicato sui figli e nipoti degli<br />

uccisori dei genitori e parenti.<br />

L’educazione della coscienza civile in tempo di pace ha una valenza educativa anche<br />

preventiva nei confronti di una sempre possibile guerra.<br />

In particolare, gli allievi che, nel rispetto della libertà di coscienza e della<br />

responsabilità educativa dei genitori, non si avvalgono dell’insegnamento della religione<br />

cattolica e, quindi, di quei principi del cattolicesimo che fanno parte del patrimonio storico del<br />

popolo italiano, nel quadro delle finalità della scuola, possono attingere al patrimonio dei<br />

valori formativi che distinguono il Guerriero negativo dal Guerriero evoluto. In effetti, agli<br />

allievi degli Istituti di istruzione secondaria di 1° grado che non si avvalgono<br />

dell’insegnamento della religione cattolica, la scuola assicura attività scolastiche integrative<br />

da realizzarsi nel quadro di quanto previsto dall’art. 7 della legge 4 agosto 1977, n. 517, il<br />

quale stabilisce che “al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la piena<br />

formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere<br />

66


attività scolastiche di integrazione anche a carattere interdisciplinare, organizzate per gruppi<br />

di alunni della stessa classe o classi diverse”.<br />

Lo svolgimento di tali attività è programmato dal collegio dei docenti entro il primo<br />

mese dall’inizio delle lezioni, sentiti, nell’esercizio della responsabilità educativa, i genitori o<br />

chi esercita la potestà. Fermo restando il carattere di libera programmazione, queste attività<br />

integrative devono concorrere al processo formativo della personalità degli allievi e saranno<br />

particolarmente rivolte all’approfondimento di quelle parti dei programmi di storia e di<br />

educazione civica più strettamente attinenti alle tematiche relative ai valori fondamentali della<br />

vita e della convivenza civile.<br />

In riferimento ai programmi di storia che presentino un valore formativo, può essere<br />

utile insegnare agli allievi ad individuare i personaggi che meglio rappresentano la Saggezza,<br />

rispetto a quelli che personificano il Guerriero negativo.<br />

descritta.<br />

Per presentare criticamente il fascismo italiano, pertanto, si può usare l’ottica appena<br />

La crescita dal Guerriero al Saggio<br />

Ho constatato che nella scuola elementare di mio figlio vengono prospettati alcuni<br />

progetti, tra cui quello alimentare per educare ad un’alimentazione corretta.<br />

I ragazzi delle classi quinte sono stati protagonisti di un divertentissimo e coinvolgente<br />

corso teorico e pratico di cucina quali ospiti della Ristorazione che rifornisce la mensa<br />

scolastica. La regia è stata affidata al cuoco della Ristorazione, in collaborazione con la<br />

dietista. L’attività faceva parte del progetto scolastico di educazione alimentare “Metti in<br />

tavola gusto e salute”, avviato nel 1999. Il progetto ha compreso anche uno spettacolo teatrale<br />

dal titolo “Metti a teatro frutta e verdura” nel 2002, la partecipazione con un carro mascherato<br />

al Carnevale di Marca nel 2003 e la realizzazione di due Giochi dell’Oca su prodotti tipici<br />

(Prosecco e Radicchio) che nel 2004 si sono classificati ai primi posti nel concorso regionale<br />

“Che gusto c’è”. Il traguardo raggiunto più soddisfacente è stato il cambiamento delle<br />

abitudini alimentari degli alunni per quello che riguarda la merenda a scuola con la scomparsa<br />

definitiva delle merendine confezionate ed un notevole incremento di consumo di frutta,<br />

verdura, yogurt, derivati del latte e prodotti freschi.<br />

Anche i pasti consumati in mensa hanno permesso di modificare non solo le abitudini<br />

dei ragazzi, ma anche quelle familiari. Scuola e famiglie si sono alleate a veicolare i contenuti<br />

dell’educazione alimentare fattibile grazie a un menu ricco e vario che la Ristorazione ha<br />

appositamente predisposto.<br />

67


Come questo “progetto alimentare” ha generato nuove abitudini, più salutari per il<br />

corpo, così è auspicabile che l’educazione orientata alla crescita dell’individuo attraverso il<br />

Viaggio evolutivo venga opportunamente avviata e assistita. Non mi risulta che attualmente<br />

esistano progetti del genere, anche se sono stati fatti dei tentativi di preparare al “ruolo<br />

sessuale”, come specificherò più avanti.<br />

Si può auspicare un progetto analogo per un’educazione orientata alla crescita<br />

dell’individuo dai livelli inferiori a quelli superiori, dal Guerriero al Saggio.<br />

Nell’animata polemica che ha fatto seguito alla richiesta di Adel Smith di togliere il<br />

Crocifisso dalle aule, è stato sollecitato a livello nazionale anche il bisogno di orientamento e<br />

di devozione, attraverso la minaccia di privare le aule di punti di riferimento simbolici con<br />

valenze identitarie. Sta scritto nel Vangelo: “Il Figlio dell’Uomo è venuto e ha dato la vita per<br />

il riscatto di tutti gli uomini”. Questo significato del Crocifisso, bistrattato con la designazione<br />

di “cadaverino” affibbiatagli da Mister Smith, costituisce una valenza di identificazione<br />

culturale non solo del mondo cristiano, ma anche di quello laico che rispetta il valore della<br />

solidarietà verso tutti gli esseri umani presente in chi offre la vita per loro.<br />

D’altro lato la protesta avviata in Francia e in tutto il mondo islamico il 17 gennaio<br />

2004 contro l’abolizione del velo nelle scuole pubbliche in nome della laicità dello stato<br />

sembra indicare che la radicalità nella concezione della laicità dello stato alimenta<br />

l’estremismo. Le donne islamiche affermano che non portano il velo per volere degli uomini,<br />

ma per la legge di Dio e alcune che hanno preso parte alla manifestazione di protesta<br />

annunciano di voler coprire tutto il volto con il chador per esprimere il loro dissenso.<br />

Il 10 febbraio 2004, in Francia, l’Assemblea Nazionale approva a stragrande<br />

maggioranza la legge contro il velo islamico e altri simboli religiosi. “La laicità dello stato<br />

non è negoziabile”, ha dichiarato Chirac nel 2003, annunciando il progetto di legge. Il<br />

laicismo della Francia e il relativismo della Gran Bretagna lasciano aperta un’altra strada, in<br />

cui i valori fondanti e condivisi di una nazione richiedono il riconoscimento da parte degli<br />

immigrati.<br />

Il cardinale di Bologna Giacomo Biffi si è congedato per pensionamento. Intervistato<br />

in televisione il 18 gennaio 2004, Biffi, notoriamente franco, ha focalizzato la sua attenzione<br />

sui rischi del fondamentalismo islamico. “Religione e politica sono la stessa cosa per l’Islam.<br />

Da una parte c’è una fede e dall’altra, in Europa, c’è il niente. L’Europa propone il niente: è<br />

vietato vietare”. L’Europa non ha dunque né identità, né storia, né radici.<br />

Premesso che l’identità non si acquista vietando, è utile riflettere sui modi non<br />

ideologici di affermare l’identità dell’Europa.<br />

68


Laicità e rispetto della sensibilità religiosa.<br />

Il richiamo dalla moschea alle tre del mattino, risveglia in me la trascendenza e un<br />

senso di elevazione che mi mette in contatto con il divino, anche se l’espressione usata<br />

appartiene ad un’altra lingua e ad un’altra religione. Sento che si tratta di un messaggio<br />

religioso in cui quel Dio che è Amore ed ovunque si serve delle parole di un musulmano per<br />

risvegliare anche in me il senso del Sublime. Un ateo che ascolta lo stesso richiamo può<br />

infastidirsi, ritenendo che non è giusto disturbare la quieta pubblica alle tre del mattino. Ma<br />

credo che il buon senso suggerisca ai miei connazionali di non andare a protestare presso<br />

l’autorità tunisina o egiziana o di altre nazioni, perché considera questo “richiamo” un<br />

“insulto” alla sua concezione del mondo e dell’ordine pubblico. Nello stesso modo, il<br />

Crocifisso ci ricorda una religione, in cui Gesù ha distinto ciò che va dato a Cesare e ciò che<br />

spetta a Dio. “Il mio regno non è di questo mondo”, ha predicato nel Vangelo. Egli attira con<br />

il potere della verità che convince e dell’amore che attrae. La lealtà critica verso lo stato ci<br />

suggerisce di distinguere laicità da laicismo. L’affissione del Crocifisso interpretata come<br />

abuso di una presenza religiosa in un locale pubblico è indicativa di intolleranza verso il<br />

simbolo di valori condivisi da molti cittadini, anche laici, che vedono nel Cristo colui che ha<br />

dato la vita per i suoi amici e quindi non ha potuto avere amore più grande per essi.<br />

All’inizio di dicembre 2003 ho constatato che nell’ingresso della scuola statale<br />

elementare di mio figlio, frequentata da vari bambini musulmani, installato su un tavolino, è<br />

comparso un bel presepio. La celebrazione della nascita di Gesù non sconvolge, quindi, le<br />

coscienze di quei musulmani che, in modo intelligente, hanno accettato le tradizioni cristiane<br />

connesse all’evento che ha cambiato il corso della storia. E, in modo altrettanto intelligente, i<br />

cristiani che lavorano in una scuola statale, non hanno ritenuto di essere lesivi nei confronti<br />

dei diritti dei musulmani, esibendo in un luogo pubblico un simbolo cristiano. Secondo un<br />

sondaggio svolto dalla Doxa - TG2 e comunicato il 21 dicembre 2003, l’80% degli italiani<br />

preferisce l’albero di Natale al presepe. Comunque, il presepe resta pur sempre il simbolo<br />

figurativo più pregnante della nascita di Gesù.<br />

Quando l’intelligenza si unisce al rispetto reciproco tipico delle civiltà più evolute,<br />

non c’è scontro offensivo né per le minoranze né per la maggioranza. Con la stessa strategia<br />

intelligente, d’altro lato, la direzione ha ritenuto superfluo introdurre o imporre carne di<br />

maiale nel pasticcio di carne della mensa scolastica, che prevede il menu fisso, per rispetto<br />

verso la minoranza musulmana. La carne di maiale si può anche togliere, ma fortunatamente il<br />

presepio si può aggiungere in occasione del Natale, in un saggio “compromesso storico”, che<br />

ho voluto immortalare in una foto che ritrae il presepio scolastico.<br />

69


Possiamo chiederci cosa possa fare la scuola per favorire non solo una corretta<br />

alimentazione, ma anche la crescita psicologia, affettiva e sessuale dei bambini e dei ragazzi e<br />

quella religiosa, dando informazioni corrette e comprensibili anche per le età inferiori.<br />

In base alle statistiche, il 70% degli adulti che frequenta i maghi è costituito da<br />

diplomati e laureati. C’è da chiedersi in quale misura il bisogno di contattare quelli che<br />

predicono il futuro e rassicurano sull’andamento del presente derivi da una frustrazione del<br />

bisogno di orientamento e di devozione, che non è stato soddisfatto da una adeguata<br />

formazione religiosa. Il catechismo appreso a scuola con le risposte imparate a memoria sulla<br />

base di domande prefissate - come veniva insegnato fino a poco tempo fa - sicuramente non<br />

orienta verso una devozione “corretta”.<br />

70


CAPITOLO II<br />

QUANDO GLI SCHEMI CULTURALI<br />

COSTITUISCONO UNA GABBIA<br />

LA PEDAGOGIA COME FORMAZIONE DELL’IDENTITA’<br />

Rispettare l’individualità e le differenze.<br />

È il Guerriero interiore che ci aiuta a trovare un senso di individualità all’interno<br />

dell’unità, che non è semplicemente programmato a livello sociale. Senza l’archetipo del<br />

Guerriero, è difficile sviluppare un senso di identità che sia il proprio e non di un altro. È il<br />

Guerriero che custodisce i confini e protegge il primo sbocciare del sé (Io) dall’abuso delle<br />

pretese e dei desideri altrui. Né l’Innocente né l’Orfano hanno alcun senso effettivo dei propri<br />

confini. L’Innocente prova un senso di unità con l’universo e con gli altri. L’Orfano intende la<br />

separatezza solo come una mancanza e una ferita. L’Orfano si sente separato, ma indebolito<br />

piuttosto che rafforzato da quella separatezza. Il Guerriero è l’archetipo che ci aiuta a trovare<br />

o creare i nostri confini e a difenderli contro gli attacchi.<br />

Quale esempio illustrativo di quanto esposto, posso descrivere un episodio accaduto il<br />

9 marzo 2004. Mentre mi trovavo in studio, ricevetti una telefonata dalla maestra del<br />

doposcuola, la quale mi spiegò che mio figlio si comportò in modo “irriverente” verso di lei,<br />

quando seppe che la maestra aveva concesso ad una bambina di copiare una cornicetta da un<br />

libro di mio figlio, mentre lui era andato al catechismo. Non riuscendo a comprendere come<br />

mai mio figlio andò su tutte le furie per una cosa che tutto sommato mi sembrava irrilevante,<br />

all’ora di chiusura andai a parlare con le maestre del doposcuola. Venni a conoscenza del fatto<br />

che la maestra elementare aveva lanciato una competizione tra i bambini, dicendo che avrebbe<br />

esposto le cornicette migliori. La reazione infuriata di mio figlio era stata scatenata dalla<br />

violazione dei suoi confini - una bambina era andata a “curiosare” nella sua cartella,<br />

autorizzata dalla maestra - in una sorta di “spionaggio industriale”. Era scattato il Guerriero<br />

primitivo, che si lancia sull’invasore. Mio figlio precisò che non era intenzionato ad agevolare<br />

quella bambina perché, quando lui le chiedeva qualcosa, lei gli rispondeva: “Arrangiati!”.<br />

Così, parlai a lungo con la maestra, laureata in Pedagogia, sulla competizione che<br />

71


veniva sollecitata a scuola, presumibilmente per stimolare lo sviluppo di un senso di identità<br />

nei bambini. Tuttavia, occorre notare che è importante orientare la spinta al miglioramento,<br />

non soltanto nel confronto competitivo con gli altri, per non rendere il bambino dipendente<br />

dal giudizio degli altri. Il miglioramento va cercato in funzione di una crescita personale.<br />

Altrimenti, subentra l’autosvalutazione e la sensazione di non valere nulla in quanto persone,<br />

se non si vince la gara. Il bambino non va portato ad identificarsi con la gara e con la vittoria,<br />

altrimenti rischia di entrare in una spirale pericolosa, affine alla “sindrome di Pantani”. Non si<br />

può dare un senso alla propria vita solo se si arriva primi in una gara.<br />

Gli educatori che sostengono la competizione come l’unico modo per ottenere che gli<br />

allievi studino, sollecitano il Guerriero negativo per il quale il mondo è fatto di eroi, cattivi e<br />

vittime da salvare. Questa mentalità unilaterale crea grossi problemi, in quanto l’affidarsi<br />

troppo all’intreccio eroe/cattivo/vittima finisce in pratica con un’autoconvalida, per cui ci<br />

sono sempre cattivi e vittime, vincenti e perdenti, forti e bisognosi, solo perché l’eroe ne ha<br />

bisogno per sentirsi eroe. Bisogna quindi provare sempre che si è meglio degli altri, perché si<br />

è convinti che non va bene essere semplicemente umani.<br />

La stessa maestra del doposcuola mi rivelò che durante gli anni del liceo classico era<br />

“angariata” da un’insegnante che la interrogava sempre assieme agli stessi allievi. Quando le<br />

chiese il motivo di questo modo di interrogare “in coppia”, rispose che sceglieva gli allievi<br />

che ottenevano gli stessi voti, in modo da metterli in competizione per aumentarne il<br />

rendimento. La stessa insegnante rivelò che, ai tempi del liceo, nelle materie in cui eccelleva<br />

dava suggerimenti sbagliati ai migliori ed esatti agli allievi dai risultati scarsi. In breve, il<br />

virus della competizione veniva tramandato come una nevrosi ossessiva. E la maestra<br />

commentò: “Non ho mai capito perché quando prendi sette ti dicono che puoi dare di più,<br />

quando prendo otto, nove o dieci ti rispondono sempre che puoi dare ancora di più”.<br />

Per comprendere questo diffusissimo fenomeno, basta ricordare lo schema<br />

eroe/cattivo/vittima che attanaglia la nostra cultura e spinge il Guerriero a voler essere il<br />

migliore, lasciando necessariamente gli altri in condizione di inferiorità. Questo desiderio di<br />

essere superiore agli altri, se non è controllato da alcun valore superiore né da alcun<br />

sentimento umano, porta a manifestazioni negative e gravi, sulla base di un egocentrismo<br />

sfrenato, che calpesta tutto e tutti pur di arrivare primo. Così, si perde totalmente l’aspetto<br />

eroico e positivo del Guerriero.<br />

Questo tema dell’affermazione dell’individualità e della sollecitazione delle<br />

potenzialità soggettive attraverso la competizione ci connette alle riforme scolastiche in corso<br />

di progettazione in Europa.<br />

72


In Gran Bretagna una riforma scolastica choc prevede di raggruppare i bambini per<br />

intelligenza e non per età. Questa disposizione potrebbe costituire un segnale del riaffiorare di<br />

un modello culturale di dominazione, che privilegia alcuni in modo selettivo e lascia andare<br />

alla deriva gli altri meno fortunati?<br />

“Non sono il tuo insegnante, stiamo nella stessa classe” spiega tra lo spazientito e il<br />

seccato un ragazzotto al bambino che lo guada interrogativamente mentre si siede accanto a<br />

lui, nello stesso banco di scuola.<br />

Con questa pungente vignetta, il 18 febbraio 2004 il quotidiano Times ha voluto<br />

commentare la notizia della riforma della scuola secondaria, in Gran Bretagna, che si<br />

annuncia come la più importante degli ultimi sessant’anni. I cambiamenti in effetti non sono<br />

da poco e la battuta dell’autorevole quotidiano inglese spiega tutto. Nei prossimi anni le classi<br />

delle scuole superiori saranno infatti composte non in base all’età, come sempre è stato anche<br />

nel resto del mondo, ma in base alle capacità degli allievi. Questo significa che un ragazzino<br />

di prima superiore potrebbe trovarsi fianco a fianco con uno di quinta semplicemente perché è<br />

più bravo. Gli storici esami finali per il conseguimento di quello che in Gran Bretagna è<br />

considerato l’equivalente del nostro diploma di maturità e che adesso è riservato a tutti i<br />

ragazzi di 16 anni, sono destinati a scomparire entro il 2011, per lasciare il posto ad un<br />

diploma nuovo di zecca che terrà conto delle specifiche capacità dello studente piuttosto che<br />

del suo curriculum anagrafico.<br />

Nella stessa classe, fianco a fianco, potranno ritrovarsi dunque allievi tra i 14 e i 19 ani<br />

e quelli più giovani di maggior talento saranno incoraggiati a lavorare insieme ai compagni<br />

più anziani. Al contrario, agli studenti che non saranno riusciti a raggiungere gli obiettivi<br />

fissati per la loro età, verrà concesso più tempo per ottenerli. Insomma, a prima vista, questa<br />

riforma, proposta da Mike Tomlinson, ex capo dell’Ispettorato Scolastico, sembra voler<br />

abolire le barriere anagrafiche e le bocciature, favorendo le capacità del singolo ed evitando di<br />

penalizzare i ragazzi meno brillanti. L’ipotesi di Tomlinson ha ricevuto il pieno appoggio di<br />

David Millband, ministro per gli standard scolastici, che l’ha definita in linea “con la nostra<br />

idea di creare un’istruzione personalizzata in base alle esigenze dei giovani studenti”.<br />

In realtà, sulla riforma di Tomlinson sono in molti a sollevare dubbi e timori. Gli stessi<br />

quotidiani si sono dichiarati molto critici riguardo al nuovo sistema scolastico. Il Daily Mail<br />

ritiene che si poteva fare molto meglio per migliorare quello attuale e il Times è ancora più<br />

tagliente nell’analisi che segue l’articolo principale sull’argomento. “Ciò che più colpisce in<br />

questa bozza di riforma - commenta l’editorialista specializzato Tony Halpin - è la sua<br />

vaghezza. In un periodo compreso tra i cinque e i dieci anni, la nostra scuola superiore<br />

73


dovrebbe passare dal vecchio al nuovo sistema che prevede l’insegnamento delle cosiddette<br />

materie ‘funzionali’ come matematica, comunicazione e informatica insieme ad una serie<br />

sempre più ampia di attività comuni quali il lavoro di gruppo, i servizi di volontariato<br />

nell’ambito della comunità civile, l’impegno artistico e sportivo esterno all’istituzione<br />

scolastica. Ci si aspetta - prosegue il commento - che un simile sistema stimoli lo sviluppo nei<br />

ragazzi di maggiore consapevolezza, capacità interpersonale e conoscenza della realtà<br />

internazionale”.<br />

Molti aspetti della riforma rimangono però poco chiari e lo stesso suo ideatore ha<br />

ammesso che non sarà facile ottenere il consenso delle famiglie e degli insegnanti. “Non si<br />

capisce ad esempio - spiega meglio il Times - qual è il livello di preparazione che ci si aspetta<br />

dai ragazzi nel nucleo di materie principali e quale debba essere il volume di studio necessario<br />

per ottenere il diploma in ognuno dei nuovi quattro livelli del sistema riformato. Quanto del<br />

vecchio sistema secondario verrà poi inserito nella nuova struttura d’insegnamento e quanto<br />

verrà creato ex novo? E soprattutto, quali saranno i costi reali di questa riforma?”.<br />

Non si tratta di interrogativi da poco, che hanno bisogno di risposte chiare alle quali va<br />

peraltro aggiunto il timore che la coesistenza tra età così diverse non sia poi così semplice<br />

come si può pensare. Le necessità, gli stili di vita, gli interessi e le aspirazioni di un<br />

adolescente di 14 anni e di un giovane di 19 possono creare vuoti d’incomprensione anziché<br />

integrarsi armoniosamente. Le medesime capacità in campo scolastico potrebbero non bastare<br />

a colmare l’abisso.<br />

Spezzare l’unità della classe per reinventare nuovi gruppi di interesse non è un’idea<br />

nuova ed è contemplata, anche se in forma diversa, dalla riforma messa a punto dal ministro<br />

dell’istruzione, Letizia Moratti.<br />

Flessibilità è la parola d’ordine della riforma. Ed in questa flessibilità rientra anche il<br />

concetto di superamento della rigidità delle classi. Va specificato però che nella legge Moratti<br />

non si parla mai di divisioni in base all’intelligenza degli studenti. Il principio seguito è quello<br />

di rispondere alle esigenze individuali dell’alunno dando risposte differenziate. E a questo<br />

principio corrispondono tutte le principali novità della riforma. A cominciare dall’ingresso<br />

anticipato in prima elementare a 5 anni e mezzo. In questo modo nella stessa classe si<br />

troveranno bambini con quasi un anno e mezzo di differenza. La riforma poi promuove i piani<br />

di studio personalizzati, mirati sul singolo studente.<br />

Rispetto a quella inglese, la proposta lascia alle singole scuole la possibilità di<br />

pianificare l’organizzazione dell’attività didattica.<br />

Come si spezza la rigidità della classe? Nella riforma si prevede all’interno<br />

74


dell’attività curriculare la diversificazione dell’impegno dei ragazzi che frequentano la stessa<br />

classe.<br />

Sarà possibile seguire attività di apprendimento, di laboratorio, di recupero e di<br />

sviluppo svincolate dall’organizzazione della classe. E in questo modo si corrisponde<br />

all’esigenza dei piani di studio personalizzati. Insomma siamo di fronte ad una<br />

liberalizzazione delle attività per ottenere unità di apprendimento personalizzate.<br />

Dunque, per esempio, un ragazzo più “debole” in italiano potrà approfondire quella<br />

materia insieme ad altri con la sua stessa esigenza.<br />

L’aspetto diversificante rispetto ad altre prospettive della riforma italiana sta nel fatto<br />

che non viene imposto un modello rigido uguale per tutti, in conformità con la presenza di<br />

intelligenze multiple e stili cognitivi diversi.<br />

Qui non si tratta di stabilire chi è più o meno intelligente. Si tratta di rispettare le linee<br />

individuali di apprendimento e di sviluppo di ciascun bambino. Del resto è negli intenti del<br />

Consiglio d’Europa rispettare le individualità, e quindi rispettare le differenze. Va bene<br />

dunque considerare l’handicappato, ma anche quello più dotato degli altri dev’essere<br />

valorizzato. Ora sono i più penalizzati.<br />

Per capire quando un bambino è più o meno intelligente, basta avere insegnanti attenti<br />

e un esperto che compaia regolarmente in classe. E poi questo controllo non significa<br />

mandare all’università un dodicenne. Permette invece di costituire gruppi di bambini in<br />

sintonia a seconda delle diverse aree di apprendimento. Sarebbe un modo per rendere<br />

piacevole e meno noioso il momento scolastico sia per i ragazzi meno dotati che per quelli più<br />

dotati.<br />

La scuola si è massificata e offre pochissimi stimoli. Secondo alcuni, costringe i<br />

superdotati a marcire dietro a un banco, a far passeggiare gli handicappati nel corridoio con<br />

insegnanti di sostegno che spesso non sono qualificati. Non parliamo poi dei bambini che non<br />

sanno l’italiano e costringono le maestre a ripetere le cose in modo più lento a scapito di<br />

quelli che hanno capito e vorrebbero passare ad altro.<br />

Secondo alcune obiezioni, quelli meno intelligenti, però, non sono più stimolati a<br />

raggiungere i migliori. In realtà, la competitività non si ottiene mostrando dei modelli<br />

irraggiungibili. Al contrario in questo modo si offre la possibilità al ragazzo di seguire la sua<br />

velocità di apprendimento. È un modo di rispettare un suo sacrosanto diritto.<br />

Secondo altri contrari a questa prospettiva, invece, se si mescola il patrimonio<br />

culturale di ognuno se ne crea uno comune. Si creano stimoli. È importante affiancare un<br />

ragazzo che ha un modo di apprendere più lento ad uno che ne ha uno più veloce. Le persone<br />

75


intelligenti devono poter entrare in contatto anche con la noia e con le persone con<br />

intelligenza più lenta. L’educazione non deve rendere come bene immediato. I ragazzini, per<br />

essere cittadini del mondo, devono poter seguire la mente del cuore, avere tempo di crescere,<br />

quando sono in formazione.<br />

Se si lascia indietro un ragazzo, gli si dice cha la sua crescita è anomala. Gli si dà il<br />

segnale sbagliato. I giovani che hanno difficoltà devono comunque misurarsi. Quello che<br />

serve invece è più competenza da parte degli insegnanti. Bisogna spostare il problema della<br />

formazione sui formatori e non sui ragazzi.<br />

In base a questa visione, i meno dotati, gli esclusi potrebbero rischiare anche un vero e<br />

proprio blocco del processo di crescita. È un tempo di sviluppo che non va forzato né facendo<br />

fare ai ragazzi un passo indietro né un passo avanti. Bisogna valorizzare le differenze e le<br />

diversità perché sono risorse collettive.<br />

NUOVI PROGETTI EDUCATIVI<br />

Il 10 novembre 2003 sono state presentate ai genitori della scuola di mio figlio le<br />

linee-guida del progetto “Alla scoperta di me” e il materiale usato dalle insegnanti negli<br />

interventi con i bambini. Il progetto è stato presentato nell’assemblea dei genitori ed è un<br />

intervento che affronta le tematiche della crescita e dello sviluppo affettivo, sentimentale e<br />

sessuale nei ragazzi e nelle ragazze.<br />

L’educazione sessuata.<br />

Il progetto educativo è stato avviato nello stesso plesso scolastico nel 2002, all’interno<br />

della 5ª elementare. Parallelamente, alle medie e superiori è iniziato un progetto di educazione<br />

emotiva e sentimentale sul problema del disagio giovanile, che è stato esteso alle elementari<br />

in base al concetto che un’azione preventiva è migliore di quella curativa e agire già al livello<br />

di scuola elementare può costituire un buon presidio contro la formazione di futuri disagi.<br />

Il piano di “conoscenza e gestione dell’emotività come azione preventiva”, nel 2003 è<br />

stato allargato alla sessualità. Partendo dall’idea che è condizionante parlare di “educazione<br />

sessuale” o di “educazione alla sessualità”, si è preferito usare l’espressione”educazione<br />

sessuata”, in quanto il bambino è già dotato di sessualità e di sesso e il programma è svolto<br />

dalle stesse insegnanti all’interno della disciplina svolta.<br />

In un libro incentrato sul pregiudizio, è essenziale fare alcune riflessioni sulla<br />

76


sessualità, che un tempo costituiva un tabù di cui non si poteva parlare né in classe né in<br />

famiglia. Oggi, finalmente, si parla di sessualità in 5ª elementare, prendendo in<br />

considerazione il corpo umano nella sua componente sessuale. Si è constatato che<br />

“costringere” la sessualità al programma di scienze è riduttivo, in quanto si tratta di una<br />

componente trasversale che riguarda vari aspetti della persona e dei valori a cui si ispira, in<br />

svariati momenti della vita. Ci sono istanze all’interno del percorso evolutivo che diventano<br />

presenti nella quotidianità a partire dalla 4ª elementare. Bisogna cogliere i segnali e dare<br />

risposte a domande “indirette”.<br />

In Italia non esiste una legislazione specifica che regoli questa tematica, anche se da<br />

decenni si discute dell’argomento. L’ultima proposta del 1995 è caduta assieme al governo ed<br />

è stata ripresentata nel 2001. Se ne parlava sull’onda dell’emotività, a seconda dell’emergenza<br />

AIDS o pedofilia, rischiando così di comunicare ai bambini un’idea della sessualità in chiave<br />

patologica.<br />

C’è da chiedersi: perché si può dare un’“educazione sessuata” già in 4ª e 5ª<br />

elementare? Perché il bambino è più attivo, consapevole, rispetto agli anni precedenti e si apre<br />

ad esperienze nuove. Si accorge del cambiamento fisico e sappiamo che in varie bambine in<br />

questo periodo compare la prima mestruazione.<br />

Il progetto non pretende di essere esaustivo, ma va ampliato e integrato nel corso degli<br />

anni successivi della scuola media. È strutturato intorno a obiettivi e alla scelta delle attività<br />

più opportune per adeguarsi alle esigenze della classe. Le insegnanti lavorano insieme e si<br />

confrontano sui problemi, su come intervenire.<br />

Riassumo a grandi linee il procedimento, che si articola in un “questionario di<br />

vicinanza sociale”, e nel “monitoraggio sul gradimento delle attività”, con gli obiettivi di: 1.<br />

conoscere il proprio corpo; 2. riconoscere la propria identità; 3. conoscere la riproduzione<br />

umana; 4. conoscere la propria identità di genere; 5. conoscere i sentimenti.<br />

Le attività, inserite all’interno della disciplina insegnata, sono caratterizzate da<br />

un’ottica integrata, che prevede il riconoscimento del ruolo e del genere.<br />

Ad esempio, l’attività di “gioco delle parti”, ha l’obiettivo di riconoscere la propria<br />

identità di genere e si articola in tre gruppi di bambini che compongono un testo che contenga<br />

10 parole-stimolo, che facciano riferimento ai ruoli, ad esempio motocicletta, cena,<br />

lavastoviglie, capoufficio, amici, figli, scuola ecc.<br />

Il primo gruppo racconta una vicenda che fa riferimento ai ruoli tradizionali. Il<br />

secondo gruppo fa riferimento a ruoli scambiati, per cui quello che di solito fa l’uomo lo fa la<br />

donna e viceversa e compone una vicenda con ruoli scambiati.<br />

77


Il terzo gruppo si occupa delle conclusioni: condizioni ambientali hanno imposto<br />

cambiamenti. È utile un ruolo interscambiato e non rigido, nel caso che entrambi i genitori<br />

lavorino. Ad esempio, occuparsi dei bambini rappresenta un compito anche dei maschi,<br />

mentre fino a qualche anno fa si pensava diversamente.<br />

Nel role-playing sarebbe opportuno inserire l’intercambiabilità anche per quanto<br />

concerne il ruolo di “capo”, affinché i bambini si abituino all’idea che la gerarchia non è<br />

prefissata sulla base del sesso, della nazionalità, dell’etnia o di un altro genere di<br />

classificazione pregiudiziale. In effetti, la mentalità che considera il ruolo di “capo” legato al<br />

sesso maschile e alla razza ariana è un retaggio della cultura del nazismo e del fascismo.<br />

Ricordo che alle scuole elementari e medie, ci veniva fornita una spiegazione “sessista”<br />

riguardante l’uso del genere maschile dell’aggettivo nel caso ci fosse una successione di nomi<br />

maschili e femminili. Ad esempio, se si presenta una frase del tipo “Le bottiglie e i vasi che si<br />

trovano sul tavolo sono belli”, l’aggettivo “bello” deve prendere il genere maschile nella<br />

lingua italiana, “perché il maschile è più importante del femminile” secondo la spiegazione<br />

che mi veniva fornita quando frequentavo le scuole elementari. Nella lingua inglese il<br />

problema non sussiste perché l’aggettivo è invariabile. È ragionevole supporre che una<br />

bambina italiana che sente fornire dalle insegnanti questo tipo di spiegazioni si senta<br />

quantomeno ferita nella sua identità e discriminata perché è nata di sesso femminile. Sarebbe<br />

utile che gli/le insegnanti prestassero attenzione a certe spiegazioni e le elaborassero in<br />

funzione dello smantellamento dei pregiudizi presenti nella nostra società, come il fatto che<br />

l’uomo vale più della donna.<br />

Il 30 novembre 2003 il TG2 serale ha trasmesso i risultati di un sondaggio sulle<br />

preferenze degli italiani per un capo uomo o donna. Ne è emerso che solo uno su sei<br />

preferisce un capo donna. Ma la notizia più rilevante riguarda il fatto che la maggior parte<br />

delle donne preferisce un capo uomo, apparentemente a conferma della constatazione che la<br />

rivalità tra donne è dura a morire. Ma, ad un’analisi più approfondita dei risultati sembra<br />

tuttavia emergere il maschilismo imperante nella nostra cultura che ha portato le stesse donne<br />

ad accettare passivamente un ruolo subordinato, per cui hanno difficoltà ad identificarsi con<br />

una donna “capo”. È la difficoltà di identificazione causata dalla scarsità di modelli da imitare<br />

che porta una buona parte delle donne a preferire un capo uomo. Ecco perché risulterebbe<br />

utile addestrare i bambini fin dalle elementari al role-playing in cui anche le bambine<br />

assumono un ruolo da capo.<br />

Ben diversamente si profila la realtà in Svezia, Norvegia e nei paesi nordici, dove le<br />

donne in carriera sono molto più numerose che in Italia e, pertanto, si è già instaurata<br />

78


l’abitudine a trattare con un capo-donna.<br />

Nel bel film “Soldato Jane”, la protagonista si è offerta di sostenere un programma di<br />

addestramento sperimentale nella marina militare statunitense, per verificare la concreta<br />

capacità di resistenza di una donna in condizioni di fatica e rischio considerate<br />

tradizionalmente sopportabili soltanto dagli uomini. Il trattamento discriminatorio a cui fu<br />

sottoposta in quanto unica donna in una squadra di uomini è assai significativo. Un nero che<br />

stava sostenendo il suo stesso programma, mentre stava raggiungendo la riva dopo essere<br />

stato catapultato in mare assieme ai colleghi, le raccontò quanto accadde al nonno: “Mio<br />

nonno voleva entrare in marina, sparare con i pezzi di artiglieria sopra quelle navi enormi. Gli<br />

è stato detto: ‘Tu sulle corazzate puoi fare solo il cuoco’. Sto parlando della marina USA a<br />

metà della seconda guerra mondiale. Gli hanno detto che il motivo era perché di notte i neri<br />

non ci vedono: cattiva visione notturna. Tu sei come un nero per loro. Forse sei solo arrivata<br />

un po’ troppo presto”. Jane era come un nero sul piano del pregiudizio sessista. Il suo “guaio”<br />

era di essere arrivata troppo presto nell’esercito. Il fatto di aver superato molti uomini nelle<br />

prove di addestramento contava poco per la politica del senatore-donna, membro anziano<br />

della Commissione armamenti del Senato, a cui interessava solo essere popolare e ottenere<br />

consensi. Ma Jane voleva arrivare fino alla fine delle prove e ci arrivò, perfino con l’onore di<br />

aver salvato la vita ad un soldato maschio. Jane resiste meglio di molti suoi colleghi maschi a<br />

questo programma dei corpi scelti della marina, uno dei più duri del mondo. La volontà di<br />

vincere e di raggiungere l’obiettivo non viene compresa dagli uomini, quando ad averla è una<br />

donna. Viene definita “incomprensibile ambizione”, non “vocazione”. Alla stessa stregua, se<br />

un uomo salva un altro viene definito “un eroe”. Se salva una donna, viene definito “un<br />

rammollito”. Questa è la discriminazione che colpisce le donne di ogni Paese, e in particolare<br />

l’Italia, dove una cultura patriarcale e arretrata persevera tenacemente nel precludere alle<br />

donne l’accesso alle carriere e ai vertici del potere.<br />

Con l’espressione “le donne devono stare al loro posto”, si intende in un ruolo<br />

subordinato, sottomesso, come succedeva al tempo del nazifascismo. I tempi sono<br />

apparentemente cambiati, ma non ci accorgiamo di essere ancora immersi in quella cultura<br />

tutte le volte che diamo per scontato che gli uomini devono essere uno o più gradini al di<br />

sopra nella scala gerarchica, rispetto alle donne, in qualsiasi ambito lavorativo.<br />

Nel film cui ho accennato, il fidanzato ricorda a Jane: “Quando si è soli, si diventa<br />

facilmente un bersaglio. Sono molti a sperare che tu fallisca”. Ma Jane ce la farà a superare<br />

tutte le prove, come Giovanna d’Arco che guida un esercito alla vittoria sul campo di<br />

battaglia. Per avere l’indole del condottiero - guida che indica con determinazione la via da<br />

79


seguire - non è necessario, né sufficiente, nascere uomini.<br />

Il vero leader non si limita a gestire, ma progetta e realizza le sue idee. Lo spazio<br />

ristretto, striminzito che gli uomini hanno concesso alle donne nella rappresentanza politica,<br />

in realtà, indica che gli uomini hanno da sempre considerato la cultura un appannaggio<br />

pressoché esclusivo degli uomini, salvo qualche piccolo spiraglio riservato alle donne, quel<br />

tanto che basta perché si possa dire che siamo in un regime democratico. A ben vedere,<br />

invece, gli uomini hanno esercitato una dittatura occulta in cui, pur essendo in minoranza - in<br />

Italia rappresentano il 47% dell’elettorato - hanno continuato imperterriti a decidere anche per<br />

le donne, sostituendosi a loro come se (esse) non avessero né l’intelligenza né il carattere per<br />

decidere da sole. Gli uomini hanno sempre preso le decisioni e poi hanno chiesto alle donne<br />

di votarle. Ma non le hanno coinvolte nel processo decisionale, se non in casi sporadici o<br />

“ambigui” in cui poteva sorgere il dubbio che il processo decisionale femminile fosse in realtà<br />

guidato da pressioni o “convinzioni” maschili, come nel caso di Gertrud Scholtz-Klink, le cui<br />

responsabilità all’interno delle strutture di partito furono effettivamente notevoli nel corso<br />

degli anni Trenta, ma fu sempre sottoposta alle élites maschili a conferma del ruolo subalterno<br />

della donna nel Terzo Reich. Come si ricorderà dall’esposizione del volume “Barriere<br />

ideologiche e democrazia”, proprio perché la Scholtz-Klink accettò questo stato di cose, le fu<br />

possibile fare una brillante carriera a scapito di altre colleghe meno disposte a rimanere in<br />

posizione di inferiorità. La Scholtz-Klink accettò di operare in una cultura dualistica e<br />

fortemente gerarchica, mentre l’emergente cultura delle donne propone l’abbattimento del<br />

pregiudizio sessista, che contrappone le donne agli uomini e le colloca in un gradino inferiore<br />

nella gerarchia sociale. Le donne di oggi vivono nella stessa cultura degli uomini e<br />

partecipano allo scambio dei ruoli, pur introducendo una modalità femminile di affrontare i<br />

problemi e risolverli, da cui forse gli uomini hanno ancora molto da imparare, perché in<br />

definitiva, molto spesso, si rivela più efficiente ed efficace. Le donne di oggi non vogliono<br />

solo gestire le situazioni problematiche, ma anche progettare soluzioni originali e realizzare i<br />

progetti. Se guardiamo la realtà politica contemporanea, invece, salvo qualche caso isolato<br />

come Margaret Thatcher, il ruolo delle donne in politica si è ridotto all’esecuzione dei<br />

“compitini” che venivano loro affidati dagli uomini. Un partito che esprima veramente la<br />

“migliore” cultura delle donne non è mai esistito, in quanto le donne sono sempre state<br />

pilotate da uomini che dettavano le “regole” del gioco e i contenuti. Anche la Scholtz-Klink<br />

accettò e sottolineò sempre con forza la necessità che la donna fosse sottomessa all’uomo nei<br />

rapporti familiari e interpersonali e al Führer in ogni momento della sua vita.<br />

La caratteristica gestionale e non progettuale della dirigenza della Scholtz-Klink, alla<br />

80


testa di una colossale organizzazione di massa che presiedeva a tutti gli aspetti della vita delle<br />

donne tedesche, ne fa un’interprete passiva del mondo femminile, in uno stato di sudditanza<br />

rispetto alla visione della realtà degli uomini. La Scholtz-Klink non è stata una protagonista<br />

consapevole del ruolo di protagonista delle donne nella società. La sua carente<br />

consapevolezza critica e autocritica, oltre che culturale, emerge anche dal fatto che dopo il<br />

crollo del Terzo Reich rimase una delle più fanatiche e ingenue sostenitrici del nazismo,<br />

secondo la testimonianza emersa nel suo libro pubblicato nel 1978 La donna nel Terzo Reich.<br />

La cultura autoritaria e fortemente gerarchica di cui si è imbevuta le ha procurato un “filtro<br />

deformante” inamovibile, che le ha impedito di cogliere tutti i risvolti negativi del nazismo e<br />

il ruolo strumentale di procreatrice di figli svolto dalla donna nel regime nazista.<br />

Il mito della sottomissione all’uomo, e non della collaborazione paritetica con lui, ha<br />

incrementato la passività mentale delle donne, che non si sono mai date veramente da fare per<br />

governare il mondo in un modo che non seguisse pedissequamente la modalità tipicamente<br />

maschile di trattare i problemi.<br />

Dove c’è un rapporto da subalterno a superiore non ci può essere dialogo, ma solo<br />

un’esecuzione di ordini, all’insegna del “signorsì”. Non c’è stimolazione della creatività e<br />

dell’autonomia di giudizio, ma solo svolgimento di compitini da allievi da irreggimentare in<br />

un ordine astratto tanto arido quanto improduttivo. In effetti, l’ordine deve essere finalizzato<br />

ad incrementare contemporaneamente la dimensione della creatività, della diversificazione,<br />

come un insieme di strumenti musicali che, pur offrendo suoni diversi, seguono uno spartito<br />

in modo armonico e coordinato dal direttore d’orchestra. Il livellamento tipico delle dittature,<br />

che abbattono le diversità, non può trovare posto nella democrazia di destra.<br />

L’antifascismo c’è, se c’è il fascismo. Se i valori della libertà e dell’opposizione alla<br />

dittatura fossero ormai così acquisiti, non ci sarebbe ancora tanta animosità nel definire<br />

“fascista” chiunque affermi con coraggio l’esigenza di ordine. Occorre tuttavia intendere a<br />

quale tipo di ordine ci si riferisce. C’è l’ordine “orchestrale”, rispettoso della diversità, e<br />

stimolatore della creatività e c’è l’ordine militaresco, da quadri militari, che ingabbia<br />

inesorabilmente lo spirito innovativo. Il nuovo ordine proposto dalle donne è quello creativo<br />

degli orchestrali e dei direttori d’orchestra che, pur rispettosi dell’originalità individuale,<br />

richiedono coordinamento e armonizzazione.<br />

Credo che sia giunto il momento di dare spazio alla cultura delle donne nell’affrontare<br />

il grande tema dell’integrazione dell’Europa Unita, abbattendo le barriere del pregiudizio in<br />

una dimensione di ordine rispettoso della diversità. Altre tematiche chiedono il contributo<br />

originale delle donne e nei prossimi volumi le esporrò più dettagliatamente.<br />

81


La crescita<br />

Nel progetto scolastico precedentemente descritto viene inserito un fascicolo che<br />

riguarda la crescita, in cui il bambino viene invitato a raccogliere ciò che lo riguarda.<br />

Periodicamente, le insegnanti invitano il bambino a portare a casa il fascicolo, in modo che i<br />

genitori possano intervenire, discutendo con lui e ascoltandolo, mettendosi in gioco. Il fatto<br />

che qualcuno dei familiari osservi quello che il bambino sta facendo e lo ascolti educa il<br />

bambini e la famiglia al dialogo, essenziale per una armonica evoluzione della personalità e<br />

per la formazione di un’identità evoluta e completa.<br />

Per quanto concerne il materiale utilizzato, le immagini sono rappresentate da disegni,<br />

in quanto si è constatato che le immagini reali hanno un impatto emotivo molto forte che può<br />

risultare disturbante. Le immagini realistiche e dettagliate non sono necessarie sul piano<br />

psicologico ed emotivo. Il bambino ha l’esigenza di conoscere le immagini del proprio corpo<br />

e del percorso evolutivo, non dei minuti dettagli riguardanti lo svolgimento di un rapporto<br />

sessuale. Se chiede insistentemente come si svolge, invece di dare una risposta immediata, è<br />

opportuno farlo parlare e ascoltarlo, in modo che sappia che c’è qualcuno che lo ascolta e non<br />

lo sgrida. Se domanda i particolari, significa che “sa” già perché ha visto qualcosa in un film,<br />

nella pubblicità o in altri contesti e la risposta va pilotata cercando di capire non quello che<br />

chiede, ma qual è il problema che lo ha portato a formulare la domanda.<br />

In breve, non è necessario far vedere tutto e dire tutto, anche in base alla constatazione<br />

che l’eccessiva esplicitazione alla fine produce un danno rispetto al desiderio. La patologia<br />

del desiderio è determinata dall’eccessiva esposizione agli stimoli sessuali, mentre un tempo<br />

la patologia dell’inibizione era determinata dal tabù, dalla proibizione. Sia il pregiudizio<br />

“inibitorio” sia quello “esibizionistico” sono dunque deleteri per un armonico sviluppo della<br />

sessualità.<br />

Per quanto concerne l’illustrazione dell’anatomia dell’apparato genitale, serve a<br />

mostrare l’evoluzione del loro organo genitale, da come è a come sarà al momento dello<br />

sviluppo completo. Per fornire ai bambini una immagine metaforica degli organi genitali, è<br />

stata disegnata una casetta con le porte per indicare le grandi labbra e due porticine, per le<br />

piccole labbra che si aprono davanti ad una tenda fine, per indicare l’imene. Sopra la porta<br />

d’entrata c’è un campanello, il clitoride, quale elemento che dà un segnale: stimolato, dà<br />

piacere. Il posto d’entrata della cameretta è la vagina. L’organo maschile è stato disegnato<br />

come un piccolo missile interplanetario, il pene, un grande elmo, un forellino per l’uretra, che<br />

è riparata dietro un velo di pelle, il prepuzio.<br />

82


IL SUPERAMENTO DEL PREGIUDIZIO NELL’EDUCAZIONE DEI BAMBINI<br />

Si parla finalmente di potenza generativa femminile e di potenza maschile diversa, che<br />

va verso l’esterno. Si tratta di due forme diverse di potenza, non di un soggetto che ha la<br />

potenza, mentre l’altro ne è privo.<br />

Il patriarcato sotto accusa.<br />

In una cultura patriarcale improntata al predominio del maschio, la connotazione<br />

attribuita alla potenza è orientata al “possesso di qualcosa” di cui l’altro è privo. Uno ha<br />

qualcosa e l’altro non ha niente, per cui è inferiore. Non c’è rapporto dialogico e paritetico in<br />

cui l’altro ha qualcosa di diverso e un “potere diverso”. In una cultura in cui imperava una<br />

relazione dominante/dominato, e le donne venivano educate alla sottomissione nelle relazioni<br />

sociali, non ci poteva essere che un “vincente” e un “perdente” già nei “presupposti<br />

anatomici”. Ricordiamo, infatti, che per Sigmund Fr<strong>eu</strong>d, vissuto nell’800, la donna è “un<br />

uomo castrato”, che ha “invidia del pene maschile”.<br />

Il 9 o 10 febbraio - non ricordo la data esatta - andando a fare visita ai miei genitori<br />

all’ora di pranzo, casualmente ascoltai un’intervista su Rai Tre ad Antonio De Angelis, che,<br />

“pur non avendo più l’età della ribellione” - secondo la sua dichiarazione - ha scritto il libro<br />

“Un prete sposato. Testimonianza di una sofferta ribellione”.<br />

L’intervista era inserita in un tema intitolato “La Chiesa e le donne”. Mi colpì la<br />

dichiarazione di De Angelis: “Non sono mai stato tentato da una donna in vita mia”. In effetti,<br />

nella Bibbia sta scritto: “Ognuno è attratto dalla propria concupiscenza”. Quando si sente<br />

parlare di “seduzione” femminile, negli ambienti ecclesiastici si tende ad identificare la donna<br />

con la tentazione del demonio. Il passaggio dalla similitudine “la donna è come il demonio<br />

che tenta la virtù” alla metafora “la donna è il demonio” è molto breve. La separazione<br />

dell’ambiente ecclesiastico dal mondo femminile, originata, secondo la percezione di molti,<br />

dalla sessuo-fobia, e la costituzione di una cultura esclusivamente maschile e gerarchica ha<br />

conferito alla Chiesa un’impronta patriarcale e autoritaria, dominata dalla diffidenza nei<br />

confronti della donna.<br />

Ciò non significa “diventare protestanti”, secondo una mentalità dualistica e<br />

assolutistica per cui “chi non è con me è contro di me”. Ben lungi dall’assumere questo<br />

atteggiamento e apprezzando il ruolo assunto dalla Chiesa nel far conoscere il Vangelo di<br />

Cristo, constatiamo che il pregiudizio imperante nella gerarchia ecclesiastica nei confronti<br />

delle donne e del mondo femminile presumibilmente è originato dal fatto che le donne sono<br />

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percepite come outgroup e non come ingroup. Padre Pio, un grande estimatore delle donne e<br />

delle loro risorse interiori, non a caso fu “perseguitato” dalle istituzioni ecclesiastiche che<br />

diffidavano del corteo di donne di cui si circondava. Il Papa Giovanni XXIII ebbe parole dure<br />

nei suoi confronti, alludendo anche a questo fatto. Queste due grandi figure di uomini e di<br />

santi si differenziavano nettamente nella loro visione del mondo e delle donne. Non è forse<br />

giunto il momento che la percezione delle donne da parte della Chiesa sia meno difensiva e<br />

più proiettata verso la loro inclusione nell’ingroup? Perché le donne non vengono percepite<br />

sullo steso piano e allo stesso livello degli uomini, senza barriere gerarchiche di dominazione<br />

in cui il maschio è dominante e la femmina è dominata e deve obbedire agli ordini? Questa è<br />

la struttura tipica del patriarcato e va rivista alla luce di un dialogo costruttivo tra cultura<br />

maschile e cultura femminile.<br />

Questo dialogo rappresenta un invito non solo nei confronti della Chiesa e all’interno<br />

della Chiesa stessa, ma anche negli ambienti della cultura cosiddetta laica, in cui la donna<br />

spesso è stata vista in modo più svilito e repressivo che negli ambienti religiosi cristiani.<br />

L’Italia è al penultimo posto in Europa per la presenza delle donne in politica, con il<br />

9,6%, contro il 45% della Svezia. Il problema è a monte, con un numero bassissimo di<br />

candidati? Oppure è frutto di una cultura maschile in cui le candidature sono fatte dai partiti,<br />

che in Italia sono notoriamente maschilisti?<br />

La ridotta percentuale di donne in politica non riflette forse la scarsa considerazione di<br />

cui godono le donne in Italia, per cui i problemi delle donne che lavorano, con l’utilizzo di<br />

servizi e di orari che consentano di accudire la famiglia, sono stati estromessi dalla sfera di<br />

interessi dei maschi? L’Ulivo, quando era al governo, non ha affrontato questa questione,<br />

preferendo le tematiche assistenziali a quelle per lo sviluppo, attinenti alla politica per la<br />

famiglia.<br />

Non dimentichiamo che colui che ha veramente riscattato la donna dalla sua<br />

condizione di “oggetto sessuale” e di servitù nei confronti dell’uomo è stato Gesù. Una lettura<br />

attenta del Vangelo può farci scoprire che l’Uomo giusto era anche uno privo di barriere<br />

pregiudiziali, che considerava le persone in quanto individui e non in quanto appartenenti a<br />

gruppi o a sessi diversi.<br />

Viceversa, un bell’esempio di visione pregiudiziale delle donne è costituito proprio da<br />

Sigmund Fr<strong>eu</strong>d. In tutti i miei libri ho messo sotto esame critico l’ottica di Fr<strong>eu</strong>d,<br />

estremamente pregiudiziale e frutto del “filtro deformante” con cui egli guardava la realtà.<br />

Non essendo entrato in contatto diretto con altre culture e civiltà, come ad esempio Carl<br />

Gustav Jung, è rimasto intrappolato negli schemi culturali della Vienna del suo tempo e ha<br />

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elaborato le sue teorie in conformità con tali schemi prefissati e pregiudiziali.<br />

Tutto ciò che è detto, è detto da un osservatore, ci spiegano Maturana e Varela (1985)<br />

e ogni storia, sia planetaria sia personale, o entrambe, è detta da un narratore. La conoscenza<br />

del sistema di osservazione appare in un dato tempo e in un dato spazio. Noi ci creiamo<br />

insieme al nostro ambiente dando vita a ciò che Morin (1994) chiama auto-eco-<br />

organizzazione, un riconoscimento dell’unitas multiplex (unità molteplice) dialogica dell’Io e<br />

dell’ambiente che interagiscono nel tempo. Noi stiamo creando un mondo che ci crea.<br />

Camminando, tracciamo un sentiero.<br />

Gli esseri umani diventano tali in relazione, piuttosto che restare essenze statiche, e<br />

quindi il nostro atteggiamento verso gli altri può assumere una sfumatura molto diversa. Gli<br />

studiosi hanno esplorato il fenomeno dello choc culturale e la destrutturazione dei normali<br />

schemi di riferimento che ne consegue. L’impatto con una nuova cultura equivale ad uno choc<br />

comunicazionale, utilizzato dagli ipnologi per accedere alle risorse dell’emisfero destro del<br />

cervello. Lo choc culturale, l’incontro con ciò che è diverso, è potenzialmente creativo, in<br />

quanto conduce ad una nuova comprensione di noi stessi, della nostra cultura e del modo in<br />

cui siamo modellati dalla nostra cultura. Comprendiamo noi stessi in relazione e diventiamo<br />

noi stessi in relazione. Il problema diventa allora il tipo di relazione.<br />

Possiamo mettere da parte i presupposti di superiorità o inferiorità e rivalutare le<br />

azioni e gli avvenimenti lungo la storia. Si delineano allora due sistemi fondamentalmente<br />

diversi: uno chiuso, dai confini netti, statico, semplice e , tuttavia, timorosamente determinato<br />

a controllare e dominare il proprio ambiente. Questo sistema non accetterebbe mai la<br />

possibilità di una crescita personale in seguito alla sperimentazione della scossa culturale.<br />

L’altro sistema è aperto, complesso, dai confini permeabili, flessibile e in mutamento, in una<br />

mutua relazione con il proprio ambiente. Questo sistema cercherebbe attivamente le<br />

opportunità di esplorare gli effetti destabilizzanti e stimolanti sulle nostre potenzialità creative<br />

che le altre culture hanno nell’impatto con il nostro senso dell’Io. Barron (1958, 1968, 1995)<br />

ha sviluppato l’importante concetto di “forza dell’Ego”. Paradossalmente, egli suggerisce che<br />

l’ego forte può essere così sicuro di sé da sfaldarsi, forte abbastanza da diventare vulnerabile,<br />

chiuso abbastanza da essere aperto, in continuo sviluppo e crescita attraverso un inarrestabile<br />

processo di dialogo con il mondo, interpretandolo in continuazione, corteggiando attivamente<br />

il disordine per destabilizzare l’ordine esistente in modo da stabilire attraverso<br />

quell’interazione una nuova forma di organizzazione. Il dialogo e il paradosso sembrano<br />

essere al centro di questo processo creativo, un intrecciarsi di dualità che è possibile non<br />

venga risolto concettualmente, ma solo messo in atto al momento della scelta. L’incontro con<br />

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altre culture può quindi essere visto come un incontro creativo, in cui noi creiamo la nostra<br />

esperienza, mentre le nostre mappe cognitive sono disorganizzate e ri-organizzate. Questa è<br />

un’opportunità per scartare gli stereotipi di quello che le possibilità umane sono o non sono.<br />

Per connetterci al nuovo modo di presentare la sessualità maschile, di cui si è parlato<br />

in precedenza, si può constatare il passaggio da un’idea di sopraffazione e aggressione ad<br />

un’idea di “potenza condivisa”, in cui entrambi i partner possiedono un genere diverso di<br />

espressione della potenza.<br />

Esiste un modo alternativo di relazionarsi, oltre il dominio. La possibilità di spostarsi<br />

oltre la dialettica di dominazione va proposta innanzitutto nell’ambito della scuola<br />

elementare. Una mamma presente alla riunione dei genitori ha posto l’obiezione: “Ma mio<br />

figlio davanti a queste metafore si mette a ridere!”. Magari ci sono bambini che hanno visto<br />

disegni dettagliati o fotografie realistiche, per cui potrebbero ridere di un materiale da<br />

“cartone animato”. La risposta dello psicologo-insegnante è stata adeguata: in tutti i casi in<br />

cui i bambini ridono dei disegni o di ciò che viene detto, il gruppo funge da contenitore di<br />

questo tipo di emotività, che va accolta e non “rimproverata”.<br />

La presentazione della riproduzione è orientata verso le fasi della gravidanza. La<br />

fecondazione va contestualizzata, magari partendo da ciò che succede nel mondo animale e<br />

vegetale, che i bambini hanno già osservato in natura, come l’accoppiamento tra insetti o<br />

mammiferi, o in documentari televisivi. Si può raccontare, senza profondersi nei particolari e<br />

senza equipaggiarsi di raffigurazioni “documentatissime”, che l’organo genitale femminile<br />

entra in quello maschile. In altri casi basta parlare dell’incontro dello spermatozoo con<br />

l’ovulo, tenendo presente che nella maggior parte dei casi la richiesta effettiva del bambino<br />

domanda su come avviene il rapporto sessuale.<br />

Quando il bambino pone delle domande in proposito, bisogna individuare i dubbi e<br />

rispondere basandosi sui suoi dubbi. Spesso il bambino vuole sapere come la pensa il genitore<br />

o l’insegnante al riguardo. Chiede “un orecchio che ascolta”, non una risposta immediata e<br />

tantomeno precisa e dettagliata. È utile chiedersi: come mai lo sta chiedendo ora? Vuole solo<br />

osservare l’impatto emotivo del genitore? Sta studiando il genitore o la materia su cui<br />

interroga? Molte volte i nostri figli ci pongono domande del tutto al di fuori del contesto in<br />

cui stanno vivendo. Ricordo che mio figlio, soprattutto nei primi anni delle elementari, mi<br />

poneva “domande ad effetto” nei momenti più impensabili, poco prima di uscire dalla porta di<br />

casa alla mattina, in corridoio, nella fretta di infilarmi il cappotto controllando l’orologio per<br />

accompagnarlo in tempo a scuola. Capivo che non potevo dirgli: “Te lo spiegherò un’altra<br />

volta”. Raccoglievo tutte le mie idee e magari mi veniva una risposta “creativa”, proprio<br />

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perché non avevo tempo di prepararla razionalmente.<br />

Purtroppo, il progetto, pur essendo partito con le migliori “intenzioni”, si è arenato<br />

nell’attuazione pratica, come mi ha spiegato una maestra durante la serata conclusiva della<br />

quinta elementare, perché avrebbe dovuto essere inserito in un programma più ampio di<br />

educazione relazionale che coinvolgesse i genitori nella gestione dell’iniziativa. Parlare ad<br />

un’intera scolaresca di argomenti ritenuti imbarazzanti, una o due generazioni fa, può<br />

incontrare difficoltà di ricezione da parte degli allievi, degli insegnanti o dei genitori.<br />

L’approccio più adeguato al problema, che è stato adottato in un’altra scuola fin dalla prima<br />

elementare, sembra essere quello dell’educazione relazionale, in cui si possa inserire anche il<br />

capitolo della sessualità, parlando dell’argomenti a piccoli gruppi selezionati in base alla<br />

sensibilità e al livello di maturazione.<br />

In definitiva, la pedagogia come formazione dell’identità sottolinea chi si è in<br />

relazione a ciò che si fa, con quelle capacità (mappe e strategie mentali) e convinzioni, in quel<br />

certo ambiente. L’identità rappresenta il senso di sé, del proprio ruolo in relazione ai sistemi<br />

più ampi dei quali siamo parte (coppia, famiglia, comunità, ecc.) e del proprio scopo o<br />

“missione”. I valori e convinzioni costituiscono giudizi e valutazioni su di sé, sugli altri e sul<br />

mondo che motivano ad agire incoraggiando o inibendo le capacità e i comportamenti.<br />

Dai livelli dell’apprendimento ai livelli dell’esperienza e della comunicazione.<br />

Dal modello dei livelli logici dell’apprendimento di Bateson, Dilts deriva il modello<br />

dei livelli logici dell’esperienza e della comunicazione a cui si è accennato nel corso<br />

dell’esposizione. Il modello non nasce al tavolino, ma dall’osservazione empirica di ciò che le<br />

persone sperimentano e dal modo in cui comunicano. Intuitivamente, comprendiamo che vi è<br />

una differenza tra le azioni fisiche e le rappresentazioni mentali: un conto è immaginare di<br />

dare uno schiaffo a qualcuno, un altro è darglielo per davvero. Altrettanto intuitivo è il fatto<br />

che le proprie convinzioni possono facilitare od inibire lo sviluppo o l’utilizzo delle proprie<br />

abilità: si dice infatti comunemente che “volere è potere”.<br />

La strada che percorro la mattina con la bicicletta fa parte dell’ambiente.<br />

Gli specifici movimenti che seguo mentre pedalo, osservo ecc., sono i miei<br />

comportamenti.<br />

Coordinare e integrare l’osservazione della strada con la posizione del corpo, i<br />

movimenti, l’equilibrio, l’udito ecc. (il “programma” che guida i comportamenti) costituisce<br />

la capacità di guidare la bicicletta.<br />

Andare in bicicletta perché è piacevole, salutare o ecologico è un aspetto delle mie<br />

87


convinzioni e dei miei valori.<br />

Considerarmi uno sportivo, un salutista o un ecologista è un aspetto della mia identità<br />

e implica una combinazione di tutti i precedenti livelli.<br />

La relazione gerarchica tra i livelli (il modello va letto capovolto, cioè con l’Ambiente<br />

in basso e l’Identità in alto) implica che il cambiamento ad un dato livello sia reso possibile<br />

dall’attivazione del livello sovraordinato. Ad esempio, agire diversamente, cioè cambiare<br />

comportamento, richiede l’intervento del livello delle capacità, poiché occorre selezionare o<br />

modificare il comportamento in funzione non solo del risultato che si vuole ottenere, ma<br />

anche del contesto in cui si agisce.<br />

La relazione tra i livelli è a due vie: se i livelli superiori “informano” e “controllano”<br />

l’attività dei livelli sottostanti, questi “supportano” e “concretizzano” i livelli sovrastanti.<br />

Un’immagine fornita da Dilts è quella di un albero i cui rami si estendono verso l’alto, ma<br />

sono sostenuti e “resi possibili” dalle radici che affondano nel terreno.<br />

Alcuni discutono se vi sia una o più identità. La parola identità è solo un’etichetta<br />

verbale per indicare un tipo di esperienza che consiste in una percezione globale di sé, del<br />

proprio ruolo e scopo, e che le persone spesso rappresentano in modo metaforico. È tipico che<br />

l’identità venga rappresentata con sfaccettature differenti, anche in relazione ai ruoli sociali<br />

che ognuno riveste (ad esempio: figlio, professionista, genitore ecc.), come pure che vi sia un<br />

senso di sé complessivo, quasi un “filo rosso” capace di integrare tutti questi aspetti in una<br />

mappa di tipo olistico.<br />

A proposito del livello “spirituale”, che trascende i livelli in precedenza elencati, si<br />

tratta del riconoscimento del fatto che le persone hanno, in certi momenti, l’esperienza di<br />

essere parte di qualcosa che va oltre loro stessi e che abbraccia il sistema più ampio. In questo<br />

senso, secondo il modello di Dilts, anche sentirsi parte integrante di una famiglia o di una<br />

collettività è un’esperienza di tipo “spirituale”.<br />

Un esempio può aiutare a chiarire questi concetti. In un’intervista, madre Teresa di<br />

Calcutta definisce se stessa “una piccola matita nella mano di Dio”. È facile intuire che una<br />

simile affermazione esprime il senso profondo di sé (chi sono?) che va oltre le semplici<br />

convinzioni (il livello logico sottostante) e che riassume lo scopo di tutta una vita. La frase di<br />

Madre Teresa comunica anche qualcosa della sua “visione” (il livello logico sovraordinato): è<br />

la “mano di Dio” che conferisce il mandato alla “matita”, che è dunque solo il mezzo per un<br />

fine più grande.<br />

In altri casi, il senso dell’identità può semplicemente coincidere con la percezione del<br />

proprio ruolo in relazione al sistema del quale si è parte. Ad esempio, un manager d’impresa<br />

88


potrebbe assimilare il proprio ruolo a quello di un “direttore d’orchestra”, un altro potrebbe<br />

invece vedersi come un “condottiero”. È evidente che i due saranno ispirati da una “visione”<br />

differente del sistema in cui operano, tenderanno ad agire in base a convinzioni e valori<br />

differenti e attribuiranno importanza a capacità differenti.<br />

Il modello dei livelli logici di Dilts rende conto del fatto che le persone,<br />

intuitivamente, distinguono - ma spesso anche confondono, il che può essere causa non solo<br />

di malintesi, ma anche di disturbi e patologie - aspetti diversi della propria esperienza. Un<br />

ulteriore contributo del modello sta nel descrivere le relazioni n<strong>eu</strong>ro-linguistiche tra questi<br />

diversi aspetti, permettendo di capire come meglio intervenire per facilitare interventi di<br />

cambiamento efficaci e durevoli.<br />

In ambito scolastico, l’apprendimento va sostenuto anche sul piano della cooperazione<br />

tra allievi, tra insegnanti e tra insegnanti e genitori, in vista della formazione di un’identità<br />

solida ed equilibrata.<br />

89


INDIVIDUALISMO O COOPERAZIONE?<br />

I terap<strong>eu</strong>ti scoprono che molti adulti non conoscono la propria anatomia genitale, in<br />

quanto non si sono costruiti un’immagine mentale dei propri organi. In assenza di una<br />

legislazione che sorregga questo tipo di intervento, la scuola ha ritenuto opportuno sopperire<br />

alle carenze legislative, con l’appoggio dei genitori. È auspicabile che questa iniziativa venga<br />

estesa su tutto il territorio nazionale , sempre richiedendo la cooperazione attiva dei genitori,<br />

che nel dialogo con gli insegnanti e con il bambino costituiscono preziosi stimolatori di una<br />

crescita sana e armonica. Il patrimonio di una nazione è rappresentato da individui con una<br />

solida identità e dotati di autonomia di giudizio, spirito critico e solidarietà verso gli altri.<br />

Occorre tuttavia precisare che, focalizzandoci quasi esclusivamente sulle singole<br />

realizzazioni dell’individuo, possiamo perdere la capacità di riconoscere e di ricompensare<br />

quelle di squadra, di associazioni e di gruppi creativi. Oggi non siamo forse più in grado di<br />

riconoscere il trionfo della collaborazione e nemmeno la possibilità di una collaborazione<br />

umana creativa in cui riuscire a trascendere la dicotomia di parte/tutto, individuale/collettivo,<br />

capo/seguace, ma anche di squilibrio/equilibrio, armonia/conflitto, ordine/disordine.<br />

Lo studio delle dimensioni sociali della creatività richiede un’attenzione verso il<br />

contesto e l’interazione, invece dell’isolamento delle singole variabili e suggerisce anche la<br />

necessità di una ricerca interdisciplinare di collaborazione indirizzata verso fattori sociali,<br />

politici, economici, ecc. Il problema non è solo quello di opporre l’individualismo al<br />

comunitarismo, ma di opporre la partnership alla dominazione o androcrazia. Le donne<br />

sembrano più predisposte a sostenere la collaborazione creativa in un progetto comune, anche<br />

se la creatività sociale non viene incoraggiata dal contesto sociale.<br />

Sia che si tratti di realizzazioni dell’individuo o di squadra, nella formazione<br />

dell’identità, i valori non hanno prezzo e l’attenzione esclusiva per il Prodotto Interno Lordo,<br />

il guadagno e l’economia sarà fonte di grande malessere individuale e sociale.<br />

Le iniziative di “scoperta di se stessi” che aiutano a crescere fin dalle scuole<br />

elementari e materne, utilizzando il patrimonio di conoscenze della moderna Psicologia e<br />

insegnando ai bambini a distinguere tra i vari livelli evolutivi del Guerriero, da quello<br />

negativo a quello più elevato, costituiscono la migliore azione preventiva contro il radicarsi<br />

del pregiudizio. È auspicabile che la legislazione italiana e quella <strong>eu</strong>ropea diventino sensibili<br />

a questo orientamento di prevenzione del malessere delle future generazioni.<br />

90


Viaggio evolutivo e pregiudizio.<br />

Nell’ambito del rispetto dell’individualità e delle differenze in ambito scolastico, fa<br />

riflettere anche il caso, già riferito in altra sede, di Fatima Mouayche, 40 anni, divorziata e<br />

mamma di due bambini, che dopo aver seguito un corso per educatrici di prima infanzia<br />

avrebbe dovuto fare il tirocinio nell’asilo nido di Samone (Ivrea). Tuttavia le è stato negato il<br />

permesso perché la donna, di origine marocchina, indossava il velo e secondo i genitori dei<br />

bambini avrebbe potuto spaventare i piccoli.<br />

riguardo.<br />

D’altro lato, in Francia è già in vigore una legge che detta precise normative al<br />

La legge sul velo islamico - approvata dal Parlamento francese nel marzo 2004 -<br />

proibisce l’esibizione ostentata di simboli religiosi - non solo il velo islamico, ma anche<br />

grandi croci, kippa ebree, turbanti - nelle scuole pubbliche del Paese, in nome del principio<br />

della laicità. L’approvazione definitiva è stata votata a larga maggioranza dal Senato di Parigi<br />

- che non ha modificato in nulla il testo già votato nella Camera dei deputati - contando<br />

sull’appoggio tanto dell’Unione per un Movimento Popolare (UMP, la formazione di<br />

centrodestra del presidente Jacques Chirac) come del Partito Socialista, principale forza<br />

dell’opposizione. Difendendo la legge - che è applicata a partire dall’inizio dell’anno<br />

scolastico 2004-2005 in Francia, in settembre - davanti al Senato, il ministro dell’istruzione<br />

nazionale, Luc Ferry, ha sottolineato che “la nostra visione della laicità non è contro le<br />

religioni: ognuno ha diritto all’espressione della propria fede, a condizione che all’interno<br />

delle scuole della Repubblica rispetti le leggi della Repubblica stessa”.<br />

Le reazioni alla vicenda di Fatima Mouayche, riportate dal Corriere della Sera del 25<br />

marzo 2004, richiamano l’attenzione sulle molteplici sfaccettature da cui può essere vista la<br />

questione dell’inserimento degli immigrati in una realtà diversa da quella in cui sono<br />

cresciuti.<br />

Il ministro dell’Istruzione Letizia Moratti osserva: “Non concedere a un’insegnante di<br />

prestare la sua opera per motivi formali non aiuta i bambini a crescere in una società sempre<br />

più multiculturale e multietnica”. Il vice-premier Gianfranco Fini rileva: “Chi ha preso la<br />

decisione di allontanate quella maestra perché portava il velo appartiene alla categoria dei<br />

fessi”. Il vescovo di Ivrea monsignor Arrivo Miglio puntualizza: “Il cammino di<br />

secolarizzazione compiuto dalla nostra società occidentale ha segnato indubbiamente una<br />

crescita umana e culturale a vantaggio della dignità della persona umana e sarebbe grave<br />

provocare involuzioni che non gioverebbero a nessuno”.<br />

Il giorno successivo all’episodio era intervenuto anche il ministro dell’Interno<br />

91


Giuseppe Pisanu dicendo che “il velo islamico, portato dignitosamente e senza alcuna<br />

ostentazione, è soltanto il simbolo innocuo di una identità culturale e religiosa che merita tutto<br />

il nostro rispetto”. Il ministro invitava i responsabili dell’asilo di Samone, che avevano negato<br />

il tirocinio alla donna, a rendersi conto dell’errore e a porvi rimedio. Le sue dichiarazioni<br />

hanno trovato dissenso solo nell’<strong>eu</strong>roparlamentare leghista Mario Borghezio, che ha parlato di<br />

presa di posizione “fortemente stonata. Si tratta di un’ingerenza centralista in merito a una<br />

decisione che arriva dal territorio. Stupisce che il ministro intervenga su valutazioni legittime<br />

delle istituzioni scolastiche e dei genitori dell’asilo: l’ultima parola spetta sempre ai genitori”.<br />

Fatima, comunque, riprenderà a lavorare. Non al nido di Samone, ma in quello Olivetti<br />

di Ivrea. Lo ha deciso il sindaco, che ha preferito concludere con queste parole la vicenda:<br />

“Credo che si sia trattato soprattutto di un’incomprensione”.<br />

Fatima Mouayche, musulmana praticante, indossa un velo chiaro, el higiab, in quanto<br />

il Corano vieta alle donne di stare a capo scoperto davanti a maschi adulti che non siano il<br />

marito o parenti. Nell’intervista riportata dallo stesso quotidiano la donna esclama: “Ma non<br />

lo portavano anche le vostre nonne?” Certo! Altri tempi! - osserverebbe qualcuno -. Le nostre<br />

nonne dicevano che la donna è nata per il piacere dell’uomo e per servirlo, perché così era<br />

stato insegnato loro. Oggi riteniamo che i rapporti di dominanza/sottomissione siano tipici di<br />

una cultura nazista ed è facile rinvenire molte analogie tra il fondamentalismo islamico che<br />

copre le donne e le asservisce all’uomo e la cultura del nazismo, che sottomette le donne e le<br />

relega in cucina e a fare figli, come abbiamo messo in luce nel capitolo sul nazismo presente<br />

nel volume: “Barriere ideologiche e democrazia”.<br />

La donna è stata annullata nella sua identità dal nazismo, cha la considerava in<br />

funzione dell’uomo. Il velo è simbolo dell’annullamento della sua identità in quanto donna,<br />

per essere considerata solo come moglie. Nel nazismo, sullo stesso piano, veniva chiesto alle<br />

donne di non usare cosmetici per il viso e di portare un abbigliamento semplice,<br />

regolamentando anche il loro modo di presentarsi, reprimendone la libera espressione e la<br />

libera scelta.<br />

Pertanto, il velo islamico non è tanto il simbolo di un’identità culturale e religiosa,<br />

quanto il simbolo dell’annullamento dell’identità femminile, per affermarne solo il suo essere<br />

in funzione dell’uomo.<br />

Possiamo dunque essere “tolleranti” nei confronti del velo, comprendendo quel<br />

significato che va al di là di un simbolo religioso, perché ci dà indicazioni sulla concezione<br />

della donna nell’islamismo.<br />

Ho conosciuto donne nate in Europa, figlie di madri islamiche, che non hanno mai<br />

92


portato il velo. Dovremo attendere che le future generazioni “<strong>eu</strong>ropee” comprendano il vero<br />

significato del velo che dicono di mettere per “libera scelta”. Come la donna nella nostra<br />

società si è affrancata almeno in parte dal “giogo nazifascista”, così è auspicabile che le nuove<br />

generazioni di musulmane che vivono in Europa si sintonizzino con una società che ha<br />

iniziato a considerare la donna per se stessa, e non solo in funzione del servizio e del piacere<br />

che può dare all’uomo.<br />

La signora marocchina pare anche favorevole alla poligamia in quanto “il Corano dice<br />

che se un uomo è in grado di mantenere più donne, dando a ognuna di loro lo stesso affetto, le<br />

può avere. Penso sia giusto: meglio quattro mogli piuttosto che una moglie e quattro amanti”.<br />

La libertà di opinione è sacrosanta anche in materia di poligamia. Tuttavia, l’adesione<br />

incondizionata ad un “credo” in base al “così vuole la mia religione”, “così dice il Corano”,<br />

“così vieta il Corano” è indicativa di un “io infantile” che si affida all’ipse dixit e all’autorità<br />

indiscussa di figure paterne. Ciascuno, naturalmente, è libero di restare nel livello evolutivo<br />

che reputa più consono alle sue esigenze. Il fatto di trasferire un modello culturale e religioso,<br />

senza alcun “filtro critico”, in una cultura diversa da quella di appartenenza, può dare<br />

sicurezza all’interessata, in quanto porta con sé il cosiddetto simbolo di una identità culturale<br />

e religiosa e delle proprie radici, ma può essere vissuto dalle persone circostanti come<br />

l’imposizione o irruzione di un mondo che per certi aspetti ci ricorda l’arretratezza culturale e<br />

la condizione femminile in cui vivevano le nostre nonne.<br />

Sentendo i vari commenti, la dicitura “fondamentalismo islamico” accosta<br />

implacabilmente il velo all’assunzione di una mentalità radicale. Il confronto è vitale ed<br />

essenziale e l’ansia collettiva non va liquidata sommariamente come xenofobia locale. Se è<br />

vero che la tolleranza è un antidoto al veleno della paura, dobbiamo anche chiederci se è<br />

possibile configurare un adattamento flessibile alla nostra realtà da parte di chi è vissuto in<br />

un’altra cultura, oltre ad un orientamento più duttile nell’accogliere l’immigrato.<br />

L’unilateralità delle posizioni non è mai produttiva ai fini di un dialogo costruttivo e ciò vale<br />

tanto per gli italiani quanto per gli immigrati.<br />

Ho conosciuto una giovane donna di 26 anni di origine algerina, nata e vissuta in<br />

Francia e trasferitasi in Italia da qualche anno. In relazione al fatto di Samone, ha<br />

commentato: “La signora marocchina non è stata discriminata. Si è sentita rifiutata, perché gli<br />

immigrati si sentono così. Avrebbe dovuto adattarsi a questa realtà, in cui si indossano<br />

grembiuli negli asili, e non si porta il velo. Le persone, da ambedue i lati, dovrebbero venirsi<br />

incontro reciprocamente e non esigere da un lato l’imposizione di un’usanza che qui è fuori<br />

dalla nostra realtà”.<br />

93


Laureata in lingue in Francia, la signora algerina ha esercitato il lavoro di segretaria in<br />

un’azienda, traendo soddisfazione e sicurezza dal lavoro, dopo essere stata indotta dalla<br />

madre divorziata a sposare un parente algerino del compagno con cui viveva. Sposatasi in<br />

Algeria con il rito tradizionale, si è trasferita in una grande città francese, dovendo mantenere<br />

il marito disoccupato, geloso, oppressivo e violento. Stanca di condurre questa vita infelice, si<br />

è separata da lui. In seguito si è innamorata di un francese di origine italiana, attraverso il<br />

quale ha conosciuto il Belpaese.<br />

Questa giovane donna ha intrapreso un percorso di affrancamento dalla tirannide<br />

culturale e familiare, diventando consapevole della sua dignità e delle sue risorse interiori, che<br />

ha espresso attraverso scelte autonome in campo lavorativo e sentimentale. Questa algerina ha<br />

frequentato l’ambiente di origine in Algeria quando andava a trovare i nonni e conosce le<br />

usanze e i significati. Nella città di sua madre, la seconda per grandezza in Algeria,<br />

generalmente non si usa il velo. E mi ha confessato che, dopo gli attentati di Madrid, in cui<br />

sono morti anche dei musulmani, non si ritiene più musulmana, pur credendo in Dio.<br />

Un esperimento, non un modello.<br />

Il progetto del liceo “Agnesi” di Milano per una classe di soli ragazzi islamici apre il<br />

dibattito a considerazioni sulla sua efficacia come reale strumento di integrazione.<br />

Secondo Giovanni Reale, pensatore di formazione cattolica, il rischio è la perdita della<br />

nostra identità. In un’intervista apparsa sul Corriere della Sera dell’11 luglio 2004, dichiara:<br />

“Innanzi tutto, una premessa: la mia opinione in merito alla proposta del liceo milanese è un<br />

po’ complessa. La riassumerei così: come esperimento potrebbe essere accettato, se il problema è che i<br />

genitori altrimenti non manderebbero a scuola i ragazzi. Ma c’è un pericolo molto forte: la perdita<br />

della nostra identità”. Non usa mezzi termini Giovanni Reale, docente di Storia della filosofia antica<br />

alla Cattolica di Milano.<br />

Da dove le deriva questa preoccupazione?<br />

“Il pericolo che intravedo è che si legga la questione sotto un profilo meramente politico, del<br />

politically correct, senza risalire alle radici culturale e spirituale. Una scuola chiusa per islamici, dove<br />

si insegna la cultura italiana, rischia di diventare un monstrum non costruttivo, il caos. T.S. Eliot lo ha<br />

spiegato molto bene: dobbiamo crescere accogliendo il diverso, ma possiamo farlo in modo positivo<br />

solo se torniamo alle nostre radici. Oggi mi preoccupa il nichilismo di fondo, non si crede a nulla e<br />

quindi tutto è uguale. Non è così”.<br />

Ma i ragazzi dell’Agnesi affronteranno i programmi ministeriali, come tutti. Dalle aule<br />

94


verrà solo tolto il crocifisso.<br />

“Appunto. Togliamo il crocifisso, ma poi che faremo con la Divina Commedia? Come faremo<br />

a spiegare loro Bach, Giotto? La nostra è una cultura con fortissime radici cristiane. Anche nelle sue<br />

manifestazioni anticristiane, essa è appunto anticristiana. Come potremo far capire questi aspetti se<br />

neghiamo il valore delle radici da cui sono nati?”.<br />

Quale può essere la soluzione?<br />

“Innanzitutto dovrebbero esserci professori molto preparati, che conoscono bene la nostra<br />

cultura ma anche quella d’origine dei ragazzi. Instaurare un colloquio costruttivo significa questo: io<br />

ho una mia identità, tu hai la tua, cerchiamo di comprenderci. Il diverso si capisce solo se c’è<br />

l’identico, il sé; che diverso è se come punto di partenza c’è il nulla? Solo così c’è il dialogo. Perché la<br />

cultura non si può imporre, ma va proposta; nel momento in cui si impone, perde la sua capacità di<br />

relazionare le identità. Ma in questo caso c’è una contraddizione di fondo”.<br />

Quale sarebbe?<br />

“La domanda è: come mai venite da noi e non volete accettare nulla che riguarda la nostra<br />

cultura? Se davvero questa è l’unica strada verso l’integrazione, si faccia l’esperimento, con la<br />

consapevolezza che in quanto tale è chiuso. Del resto, sarebbe assurdo trasformarlo in modello:<br />

quando questi ragazzi andranno all’università, che faremo? Creeremo facoltà distinte?”.<br />

Il dubbio, quindi, è forte.<br />

“Mi sembra fuori discussione che il progetto nasca in maniera ambigua. Altra questione è che,<br />

data la situazione, sia un esempio da provare (ad alcune condizioni, come l’obbligo di avere rapporti<br />

con i coetanei italiani, perché l’aula non diventi un ghetto). Ma vedo già a priori una serie di<br />

contraddizioni. Per questo lancerei un avvertimento a chi vuole cominciare: avete pensato a tutto<br />

questo? Chi insegnerà, cosa sa della cultura dell’altro? Quali sono i parametri del colloquio? Forse,<br />

prima di diffondere un esperimento così impegnativo, andrebbero trovate altre vie”.<br />

Riflettendo sull’opinione espressa dal docente intervistato, possiamo argomentare che<br />

“se il problema è che i genitori altrimenti non manderebbero a scuola i ragazzi” c’è da<br />

chiedersi se è “davvero colpa di quel povero crocifisso o siamo davanti a un altro esempio di<br />

razzismo al contrario”. Se la scuola deve essere un momento di aggregazione per tutti, a<br />

prescindere dalla razza e dalla religione, come mai questi ragazzi non possono frequentare le<br />

lezioni insieme con studenti italiani? Forse non possono accettare l’identità culturale italiana<br />

o milanese? E che cosa impedisce loro di accettarla? Cosa succederebbe se la accettassero? Si<br />

sentono minacciati nelle loro convinzioni, se si aprono a quelle degli altri? L’idea del preside<br />

di Milano forse intendeva creare un piccolo punto di partenza verso l’integrazione, visto che<br />

se non avesse creato una classe per soli musulmani, questi non avrebbero potuto o voluto<br />

95


studiare.<br />

D’altro lato, il Patriarca di Venezia Angelo Scola che si è presentato ai 5mila giovani<br />

riuniti al Meeting di Rimini Comunione e Liberazione, ha parlato per due ore dell’attuale<br />

nostra civiltà. In un’intervista rilasciata a Il Gazzettino del 28 agosto 2004 il cardinale ha<br />

parlato di Nordest ed esposto il suo punto di vista in materia di integrazione. Alla domanda:<br />

“Nel suo intervento parla della necessità di trovare un critico equilibrio nell’inevitabile<br />

processo del ‘meticciato di civiltà’, ovvero in una società sempre più multietnica. Nel<br />

Nordest questo equilibrio è stato raggiunto?”, egli risponde: “Il ‘meticciato culturale’ è un<br />

fatto, piaccia o non piaccia. E i fatti generano processi: nel solo Veneto sono 100mila i<br />

ragazzi stranieri nelle scuole. Vuol dire che lì avviene una fusione inevitabile; questa deve<br />

però avvenire in un equilibrio critico, anzitutto grazie al popolo che ha un forte senso critico,<br />

poi le autorità istituzionali a vario livello devono considerare passo per passo cosa rispetta<br />

un’identità e cosa la frantuma, cosa le fa fare un passo verso un’accoglienza autentica”.<br />

“Allora ci sono dei limiti, a questa accoglienza?”. “E’ chiaro: è un processo storico che<br />

quindi dipende anche dall’uomo e dalla comunità degli uomini, non è ineluttabile”.<br />

La classe composta esclusivamente da studenti musulmani, dove le ragazze<br />

indosseranno il velo e dove non ci sarà il crocifisso sulla parete, non piace a nessuno.<br />

L’esperimento della classe islamica curato dalle autorità scolastiche locali e che partirà a<br />

settembre 2004 a Milano nel liceo di scienze sociali “Agnesi” è stato concordemente bocciato<br />

da forze politiche che in tema di istruzione si trovano da sempre su posizioni antitetiche.<br />

È un vero e proprio coro di no ad accogliere la decisione, mentre la Lega annuncia per<br />

il 12 luglio un’iniziativa di protesta durante la seduta del consiglio comunale. “O si cambia -<br />

minaccia il capogruppo della Lega al Comune, Matteo Salvini, che ha scritto una lettera al<br />

sindaco Gabriele Albertini e al ministro dell’Istruzione Letizia Moratti - oppure preside e<br />

provveditore sarà meglio che si dimettano”.<br />

Mario Giacomo Dutto, direttore scolastico regionale, spiega che si tratta solo di un<br />

primo risultato: l’obiettivo è l’integrazione, e non la creazione di un’enclave dell’islam in<br />

ogni istituto. Ma per tutti si tratta comunque di una partenza sbagliata. “Questa decisione -<br />

tuona Borghezio - rappresenta un passo avanti pericolosissimo verso l’islamizzazione della<br />

nostra società e un pesante vulnus nei confronti della nostra identità culturale e religiosa<br />

collettiva di società dalle radici profondamente cristiane”.<br />

Contraria alla divisione per religione dei ragazzi Alba Sasso: “La separatezza è sempre<br />

sbagliata perché in quel modo finiamo per consolidare le diversità”. “Mi domando se questo<br />

era l’unico modo di affrontare il problema - aggiunge la parlamentare DS -. Capisco tutta la<br />

96


difficoltà dell’esperimento, ma che senso ha tenere in classe dei ragazzi diversi? Torniamo<br />

alle classi differenziali? La scuola italiana è molto più avanti”.<br />

Per il segretario lombardo di Rifondazione, Ezio Locatelli, la proposta della classe<br />

islamica è un modo sbagliato di intendere la multiculturalità: “Ci batteremo affinché questa<br />

sperimentazione di apartheid scolastico venga prontamente bloccata”.<br />

“L’educazione dei ragazzi deve puntare, in senso laico, all’integrazione e al dialogo tra<br />

culture e religioni diverse - spiega la senatrice Albertina Soliani, della Margherita -. Come<br />

farlo resta alla valutazione delle scuole. Personalmente sono perplessa di fronte a questa<br />

classe formatasi intorno alla religione islamica. Spetta tuttavia alla scuola andare avanti e dirci<br />

come portare i ragazzi a incontrarsi”.<br />

Anche gli psicologi sembrano divisi su questa iniziativa e il Corriere della Sera<br />

riporta alcuni autorevoli pareri.<br />

Il n<strong>eu</strong>ropsichiatra infantile Giovanni Bollea contesta la decisione, che ha accolto la<br />

richiesta di un gruppo di genitori radicali che frequentano il centro di via Quaranta: “E’ un<br />

attacco al principio della scuola pubblica, che è innanzitutto quello di creare integrazione. Le<br />

amicizie nate sui banchi servono proprio a superare le differenze sociali e religiose”. Silvia<br />

Vegetti Finzi, docente di Psicologia Dinamica all’Università di Pavia, è su tutt’altra linea: “La<br />

classe distinta è un compromesso, d’accordo. Però centra un obiettivo fondamentale: accoglie<br />

anche le famiglie islamiche nella scuola pubblica”. Ma una scuola con simili emendamenti<br />

sarà ancora in grado di amalgamare le diversità? “Credo di sì - continua Vegetti Finzi -. I<br />

ragazzi islamici e quelli italiani si ritroveranno insieme nei corridoi, durante l’intervallo, nei<br />

dintorni dell’istituto. E credo sapranno essere migliori dei loro genitori. Pian piano<br />

prenderanno a frequentarsi. Magari cominciando da una partita di pallone, da qualche disco<br />

prestato, da un invito nei rispettivi locali preferiti”.<br />

Lo psicoterap<strong>eu</strong>ta Fulvio Scaparro è molto meno fiducioso: “E’ una sconfitta per tutti -<br />

afferma -, anche per quei genitori islamici che hanno imposto le condizioni del progetto”. La<br />

vera questione, dice Scaparro, sta a monte: “Sebbene la scuola statale non dovrebbe avere<br />

nessun indirizzo confessionale, in Italia non è così. La presenza del crocifisso in aula è già<br />

un’implicita richiesta di accettazione o di rifiuto della confessione cattolica. Molti problemi<br />

nascono da qui”.<br />

La scrittrice e psicoterap<strong>eu</strong>ta Maria Rita Parsi non condivide l’idea di far sparire i<br />

crocifissi dai muri, anzi. “I simboli religiosi non vanno rimossi - spiega -, bisogna<br />

semplicemente aggiungere anche quelli degli altri”. A quanto pare, però, questo non interessa<br />

ai genitori islamici di Milano, che hanno chiesto sì di frequentare la scuola, ma senza<br />

97


compromettersi con i colleghi cristiani. “Le minoranze, quando si sentono minacciate,<br />

tendono a chiudersi a riccio - spiega Parsi -. Tali processi di autoghettizzazione - e in questo<br />

caso il rischio c’è, eccome - non vanno assecondati. Dobbiamo dimostrare ai genitori islamici<br />

che comprendiamo le loro paure: l’iniziativa di Milano può essere la via giusta”.<br />

Allora, si tratta di un atto di solidarietà nei confronti di una minoranza religiosa o di un<br />

passo indietro sulla via dell’integrazione? L’annuncio del liceo milanese Agnesi<br />

dell’istituzione dall’anno 2004 di una sezione riservata a soli studenti islamici, prima ancora<br />

di separare gli studenti già divide gli esperti.<br />

Sviluppo separato?<br />

Non meno perplesso appare il “fronte laico” dei filosofi della scienza, di cui il<br />

Corriere della Sera ci fornisce un “assaggio” attraverso un’intervista:<br />

“Il problema dell’integrazione degli studenti islamici, o comunque delle diversità culturali o<br />

religiose, va risolto in termini di common sense. Come quello applicato, mi pare, dai genitori dei<br />

ragazzi che frequenteranno il liceo milanese. È uno spiraglio di apertura che va valorizzato, anche se si<br />

staglia sullo sfondo di una radicale esigenza identitaria. In questo senso l’esperimento della ‘sezione<br />

riservata’ può essere il male minore”. Giulio Giorello, filosofo della scienza alla Statale di Milano, è<br />

possibilista verso il progetto del Liceo Agnesi.<br />

In che senso, professore, parla di “male minore”?<br />

“Premesso che le vie dell’integrazione sono infinite, sarei più portato a vedere una scuola laica<br />

frequentata da musulmani come da ebrei, cattolici, protestanti, atei, dove si è liberi di seguire a casa<br />

un’educazione religiosa, e incontrarsi tra i banchi con gente che la pensa diversamente. Cosa che, tra<br />

l’altro, non va affatto contro i dettami islamici: la sura 16 afferma che se Allah avesse voluto che<br />

facessimo parte tutti della stessa umma (comunità, ndr), questo avrebbe fatto, ma evidentemente non<br />

ha agito così. Poi si aggiunge: quando sarete davanti a Dio, Lui vi spiegherà il perché delle vostre<br />

differenze. Ma questo è un discorso di principio che può valere solo, appunto, in una scuola laica”.<br />

Il liceo milanese è una scuola pubblica, non confessionale.<br />

“Ma il problema è proprio quello di una scuola laica che in Italia, purtroppo, laica non è. Nei<br />

nostri istituti viene ancora oggi data preponderanza a una confessione, quella cattolica, che non<br />

rappresenta neppure tutti i cristiani. Allora il male minore è fare una classe di soli musulmani: una<br />

‘zona protetta’ da cui poi magari, come gli indiani nelle loro riserve, avranno voglia di uscire in<br />

esplorazione”.<br />

Francia?<br />

Non sarebbe meglio sviluppare un laicismo più profondo, come accade ad esempio in<br />

98


“Non confondiamo quel laicismo completo che manca nel nostro Paese con forme aggressive<br />

di laicismo che trovo disdicevoli. Non si deve trasformare il laicismo in un atteggiamento arrogante, di<br />

intromissione: quello esagerato, à la française, e conseguenza di un’idolatria dello Stato che con il<br />

laicismo genuino non ha nulla a che fare. Sono contro qualunque forma di imposizione, anche<br />

nell’emancipazione”.<br />

L’integrazione, dunque, non va imposta?<br />

“Non vedo perché si debba imporre un’emancipazione forzata a chi non si sente pronto e la<br />

vivrebbe come una violenza. Se il rispetto passa anche attraverso forme di ‘sviluppo protetto’, va bene.<br />

Poi chissà se i ragazzi si integreranno, bisognerà chiederlo a loro quando i genitori non ci sono... Ma<br />

mi piacerebbe che in questo Paese ci fosse un modo meno emotivo di affrontare il problema. Si<br />

sperimenta, e gli esperimenti sono costosi; cerchiamo di farli muovendoci con prudenza e umanità,<br />

senza isterismo. Detto questo, io non credo all’apartheid, agli sviluppi separati. E se pure questo è il<br />

male minore, attenti però a non farlo diventare la regola invece di una situazione contingente”.<br />

Il docente laico Giorello parla di “forme aggressive di laicismo” che trova disdicevoli.<br />

Il laicismo francese, “conseguenza di un’idolatria dello Stato” rappresenterebbe una forma di<br />

imposizione anche nell’emancipazione, secondo Giorello. L’“emancipazione forzata” rivolta<br />

a chi “non si sente pronto e la vivrebbe come una violenza” non sarebbe espressione di quel<br />

rispetto che passa anche attraverso forme di “sviluppo protetto”. Tuttavia, c’è da notare che,<br />

quando il personale dell’asilo privato in cui Fatima intendeva svolgere il tirocinio, hanno<br />

detto che i bambini si sarebbero spaventati all’idea di avere un’insegnante con il velo, c’è<br />

stata una “reazione politica” di condanna del “pregiudizio provinciale” di questa gente. Se il<br />

rispetto passa anche attraverso forme di “sviluppo protetto”, non è ben chiaro perché ciò<br />

debba valere per i musulmani, ma non per gli italiani.<br />

Perché noi siamo pronti a bollare come retriva la mentalità di chi non accetta che una<br />

donna marocchina si presenti in un asilo privato con il suo costume tradizionale chiedendo di<br />

poter avere una stanza personale per poter pregare quando lo decide lei, e ci facciamo in<br />

quattro per giustificare in mille modi come un passo verso l’integrazione la richiesta di avere<br />

una classe di soli musulmani in cui non compaia il crocifisso e che portano in aula tutte le loro<br />

tradizioni e i loro costumi? Cosa sta dietro questa incongruenza che non viene riconosciuta<br />

come tale?<br />

Integrazione vuol dire imparare a vivere insieme rispettando e accettando gli usi e le<br />

tradizioni degli altri. L’ipotesi di classi riservate agli alunni musulmani appare contro ogni<br />

possibilità di integrazione. Qualcuno ha osservato che questo deve essere capito anche dalle<br />

99


famiglie dei ragazzi e delle ragazze, affinché possano accettare di mandare i figli in una<br />

scuola “normale”. Ma come si può raggiungere questo obiettivo? È a questo punto che<br />

emerge la linea di incontro o di rifiuto della cultura in cui le famiglie hanno trovato lavoro e<br />

ospitalità. E qui salta fuori il livello archetipico in cui è immerso l’individuo e la collettività a<br />

cui appartiene. Se il livello evolutivo è quello del Guerriero Ombra allo stadio più basso, la<br />

diversità viene vissuta come una minaccia, per cui è improponibile qualsiasi prospettiva di<br />

accettazione della cultura dell’altro. Occorre allora imprimere una spinta evolutiva all’interno<br />

del percorso individuale e collettivo o, in un’altra ottica, ampliare le “mappe”, introducendo<br />

altri punti di vista della realtà, altre posizioni percettive, “educando” a calarsi nei panni degli<br />

altri, per estendere i propri orizzonti.<br />

Chi siamo?<br />

Il docente Giovanni Reale, di cui abbiamo riportato l’intervista, si chiede anche: come<br />

mai venite da noi e non volete accettare nulla che riguarda la nostra cultura? Non si parte<br />

forse dal presupposto che i musulmani abbiano un’identità che va tutelata e “alimentata”,<br />

mentre noi non abbiamo niente a monte e possiamo accettare tutto, perché siamo senza<br />

identità? Se loro hanno un’identità da proporre e noi non abbiamo nulla da prospettare come<br />

contrappeso, il loro atteggiamento di imposizione della loro identità come precondizione di<br />

accesso nella scuola pubblica, diventa comprensibile. Se come punto di partenza noi abbiamo<br />

il nulla, non si può proporre una diversità con cui confrontarsi. E se non c’è diversità con cui<br />

dialogare, non ci può essere dialogo. Il nodo da sciogliere è la nostra perdita di identità: non<br />

sappiamo chi siamo sulla base dei valori condivisi e delle radici storiche comuni,<br />

cristianesimo compreso.<br />

Ci sono criteri che ci danno il senso di chi siamo. Identifichiamo questi criteri<br />

rispondendo alle domande: “Perché qualcosa è importante per me? Cosa desidero da un<br />

lavoro, un movimento, una religione, una scuola, un hobby, un’associazione, un partito,<br />

ecc.?”. I criteri e i valori, che in Programmazione N<strong>eu</strong>rolinguistica si riferiscono allo stesso<br />

concetto, costituiscono una categoria speciale di convinzioni, molto potenti e individuali,<br />

relative al perché qualcosa sia ritenuto importante o degno. La risposta alla domanda: “Cosa<br />

desidero da un Lavoro?” rappresenta i criteri relativi al lavoro. La soddisfazione è presente<br />

quando vengono soddisfatti i criteri che sono vicini all’identità. Ciascuno di noi, comunque,<br />

vale per ciò che è, non per ciò che fa. Se si fa dipendere il proprio valore, il proprio essere da<br />

ciò che si fa, dai risultati conseguiti, una diminuzione del livello di efficienza provoca crisi di<br />

depressione e angoscia. Marco Pantani e altri come lui hanno vissuto il senso di valere, di<br />

100


essere, nella misura in cui mantenevano un alto standard di prestazione, e il crollo dell’Io,<br />

quando non potevano più esibire lo stesso livello precedente.<br />

L’identità va alimentata rafforzando il senso di chi siamo attraverso la connessione<br />

con i criteri e valori. Se stabiliamo degli obiettivi in linea con la cornice di criteri che ci<br />

contraddistinguono, siamo contenti. Ogni passo, per quanto faticoso, comporterà la<br />

soddisfazione di avvicinarsi all’obiettivo conforme ai nostri criteri.<br />

Il criterio determina quali obiettivi vogliamo raggiungere, ossia ciò che per noi è<br />

importante incide sulla scelta dell’obiettivo. C’è anche un obiettivo dell’obiettivo<br />

(metaobiettivo) che risponde alla domanda: a cosa mi serve raggiungere questo obiettivo? A<br />

quale scopo voglio ciò? Raggiungere questo obiettivo mi farà raggiungere questo scopo? Il<br />

metaobiettivo deve essere correlato all’obiettivo e occorre verificarne la congruenza<br />

reciproca, oltre che la soddisfazione dei criteri di buona formazione: definito in positivo,<br />

sensorialmente basato, iniziato e mantenuto sotto la responsabilità del soggetto, ecologico.<br />

Riguardo a quest’ultimo punto, ci si chiede quali sono i vantaggi nel non raggiungerlo. Cosa<br />

succederebbe se si ottenesse ciò che si vuole?<br />

Queste precisazioni sull’identità, sui criteri, sugli obiettivi e metaobiettivi, ci<br />

introducono alle riflessioni che seguono.<br />

La mancanza di consapevolezza della propria identità può apparire allarmante, quando<br />

viene confrontata con il fervore, per alcuni aspetti lodevole, con cui gli insegnanti italiani<br />

dell’“Agnesi” si preparano a fare lezione ai 20 studenti egiziani studiando innanzitutto la loro<br />

cultura.<br />

Hanno meno di due mesi per approfondire le loro conoscenze sulle tradizioni<br />

islamiche, per documentarsi su veli, costumi familiari, cultura egiziana. Ma i professori<br />

dell’Agnesi non hanno dubbi: “Siamo pronti ad accettare la sfida”. Perché “è un’occasione<br />

unica per contribuire a una reale integrazione”.<br />

Gli insegnanti del liceo che a settembre aprirà una classe riservata a venti ragazzi<br />

islamici sono convinti della validità del progetto. Soprattutto quelli che hanno deciso di<br />

mettere a disposizione la loro esperienza per insegnare nella nuova classe. Tra entusiasmi e<br />

qualche paura.<br />

Lo conferma Maurizia Franzini, docente di italiano e storia: “Il rapporto con l’islam è<br />

difficile, ma non potevamo non cogliere questa opportunità. Eppure sono un po’ preoccupata.<br />

Per il rapporto con le famiglie, soprattutto. Speriamo che non siano una presenza<br />

condizionante. Anche l’atteggiamento degli altri ragazzi mi preoccupa. Ai miei colleghi, agli<br />

studenti, ai genitori chiediamo aiuto: ne avremo bisogno”.<br />

101


E mentre qualcuno già immagina, non senza qualche timore, i primi innamoramenti<br />

tra ragazze con il velo e compagni italiani, Carmelita Cavallucci, insegnante di educazione<br />

fisica, commenta: “Sono adolescenti come tutti gli altri, hanno bisogno degli adulti che li<br />

accompagnino nella crescita. Ragazze impacciate durante l’ora di ginnastica? Ma anche le<br />

italiane lo sono. Qui si tratta di un gesto d’amore della nostra scuola. Un segnale di pace,<br />

soprattutto in questo momento”.<br />

Il professor Nanni Tessitore insegnerà “linguaggi non verbali”, una via di mezzo tra<br />

l’educazione artistica e l’informatica. Ai colleghi che gli chiedono se mostrerà agli studenti<br />

nudi greci o ritratti discinti risponde: “Non ci saranno censure, anche se io mi orienterò più<br />

verso l’architettura e l’arte non sacra. Ma non stravolgerò il programma”. Ermanno Nazzi,<br />

insegnante di scienze, è ottimista: “Sono molto interessato a quello che succederà. I problemi<br />

ci saranno, ma è inevitabile in una comunità di novecento studenti”.<br />

Il 12 luglio 2004 i docenti coinvolti nel progetto incontreranno gli esperti della<br />

Provincia che hanno seguito i ragazzi provenienti dalla scuola islamica di via Quaranta. “Una<br />

prima riunione per capire la loro preparazione”. Poi in vacanza. “Leggerò molti libri - spiega<br />

la professoressa Franzini - e metterò a frutto i miei trent’anni di insegnamento. Cercherò di<br />

capire la storia scolastica di questi ragazzi, il loro approccio didattico. Ma presenterò fino in<br />

fondo i valori della nostra cultura. Senza censure. Dando tante voci a chi, altrimenti, ne<br />

avrebbe sentita solo una”.<br />

Nei commenti degli insegnanti riportati dal Corriere della Sera si può cogliere una<br />

grande disponibilità definita come “gesto d’amore della nostra scuola” e un “segnale di pace”<br />

e la decisione di presentare “fino in fondo i valori della nostra cultura, senza censure, dando<br />

tante voci a chi, altrimenti, ne avrebbe sentita solo una”.<br />

Ma è proprio questo il punto cruciale della questione: come mai hanno deciso di venire<br />

da noi e non hanno voluto accettare la “voce” della nostra cultura? Sono partiti dal<br />

presupposto pregiudiziale che la loro cultura è superiore o migliore? In effetti, se nella loro<br />

“mappa del mondo” la nostra cultura fosse solo “diversa” e basta, potrebbe nascere la<br />

spontanea curiosità di conoscerla, come sembra trasparire dalle dichiarazioni dei docenti pieni<br />

di slancio e spirito esplorativo verso la cultura egiziana e musulmana.<br />

Non stiamo forse assistendo ad una sorta di “razzismo alla rovescia”, in cui sono i<br />

musulmani a dettare condizioni, premesse, regole e contenuti alla nostra società? È azzardato<br />

avanzare un’ipotesi di questo genere? Chi non ha studiato le “realtà ideologiche” può forse<br />

pensare che stiamo vaneggiando o abbiamo preso un “abbaglio”.<br />

D’altro lato, il livello evolutivo della cultura islamica è chiaramente indicato dal modo<br />

102


in cui viene trattata la donna. Nella moderna civiltà dei consumi, la Sharia colpisce tramite il<br />

cellulare.<br />

Vuoi divorziare? Manda un SMS. Già lo fanno in molti Paesi come Malaysia, Emirati<br />

Arabi, Kuwait. Ma anche in India sono già decine i casi di musulmani che “scaricano” la<br />

consorte via SMS, con un ripudio in pochi istanti. La legge musulmana (Sharia) consente il<br />

divorzio unilaterale: basta che il marito pronunci per tre volte la parola “talaq” (divorzio) alla<br />

moglie, ed è fatto. Il matrimonio è annullato e la consorte non può farci niente. Il verificarsi di<br />

casi di “divorzio istantaneo” per telefono o con “messaggini”, suscita in India veementi<br />

proteste soprattutto delle attiviste della comunità musulmana che chiedono con forza che sia<br />

messo un divieto.<br />

In India la comunità musulmana negli Stati del Nord è assai numerosa (è la seconda<br />

del Paese dopo quella induista); il ripudio è molto diffuso e difficile da eliminare. “E’ una<br />

barbarie - commenta Renana, musulmana di Delhi, di cui Il Gazzettino del 10 agosto 2004<br />

diffonde le dichiarazioni - vivo sempre nella paura di una telefonata di mio marito che mi dice<br />

quella parola terribile, ‘talaq’. Il peggio è che io non potrei fare niente. Neppure ribattere o<br />

tentare di convincerlo. Dovrei solo accettarlo. Quando lui telefona sul mio cellulare io<br />

riconosco il suo numero e non rispondo, ho paura”. La questione divide la comunità<br />

musulmana. Sono i più integralisti a sostenere che la pratica deve restare, perché prevista dal<br />

Corano anche se discrimina pesantemente fra uomo e donna.<br />

Il relativismo culturale<br />

Il relativismo culturale per cui le culture e le religioni sono tutte uguali non tiene conto<br />

del grado in cui rispondono alle richieste dei diritti umani, del rispetto della persona. Il rigetto<br />

del “libello del ripudio” da parte di Gesù nel Vangelo, rappresenta il grande salto culturale<br />

della nostra civiltà. È stato Gesù ad introdurre il rispetto della donna in quanto persona e il<br />

Vangelo è pieno di segnali in questa direzione.<br />

Il livello evolutivo delle religioni e delle culture che praticano le religioni non può<br />

dunque subire un processo di livellamento, omogeneizzazione e appiattimento, in nome della<br />

globalizzazione o del dialogo interreligioso. Il modo in cui la cultura islamica tratta le donne,<br />

liquidandole su due piedi senza dare loro nemmeno la possibilità di difendersi, si ripete tale e<br />

quale come un pattern comportamentale nei rapporti con altre culture: “loro” impongono<br />

regole, condizioni e decisioni e gli “altri” non possono fare altro che accettarle, se vogliono<br />

“convivere”. La rigidità di questa mentalità è tipica del Guerriero negativo che non riesce a<br />

vedere il mondo da altre prospettive che la propria e intende cambiare il proprio ambiente per<br />

103


adattarlo ai propri bisogni e adeguarlo ai propri valori. Continua a insistere sul mito<br />

dell’uccisione del drago, ma sarà un mito senza significato.<br />

Questi Guerrieri devono prima confrontarsi con la propria identità, rispondendo alla<br />

domanda “Chi sono io?”, intraprendendo il Viaggio da Cercatori. Altrimenti, o non sapranno<br />

per cosa combattono o combatteranno soprattutto per dimostrare la propria superiorità, un<br />

meccanismo che mira allo sviluppo dell’autofiducia e che non sostituisce mai realmente la<br />

conoscenza di se stessi. Chi non risponde alla domanda sulla propria identità, si impegna in<br />

una ps<strong>eu</strong>do-guerra in cui il mito viene vissuto come qualcosa di fine a se stesso, ma è<br />

costretto ad accorgersi che il rituale in sé non riesce a trasformare né l’Eroe né il regno.<br />

“Ironicamente - scrive Pearson - coloro che rappresentano i vecchi valori culturali sono meno<br />

combattuti di quelli impegnati più a fondo nella ricerca della propria identità sotto la spinta<br />

dei tempi che cambiano. I conservatori, ad esempio, sono ammazza-draghi con meno<br />

problemi dei progressisti, per i quali la battaglia è complicata da questioni di identità irrisolte<br />

e dal desiderio di conciliare i propri valori e interessi con i bisogni degli altri” 22 .<br />

In questa prospettiva, lo schema eroe-cattivo-vittima da salvare informa una visione<br />

ideologica che da secoli è alla base di molte culture. La cultura islamica rinforza così<br />

profondamente questo archetipo di fondo del Guerriero, che il modello dell’uccisione del<br />

drago sembra l’unica realtà: i Guerrieri devono cambiare il mondo uccidendo il drago.<br />

E gli esseri umani che non si sono ancora seriamente confrontati col problema della<br />

propria identità trovano il senso dell’autostima essenzialmente attraverso l’affermazione della<br />

propria superiorità. Di conseguenza, le loro attività di Guerrieri sono caratterizzate soprattutto<br />

dallo sforzo di vincere: nello studio, nel lavoro, nello svago, perfino nei rapporti con gli amici<br />

e gli intimi.<br />

La domanda del docente di filosofia Giovanni Reale è dunque legittima e<br />

lungimirante: “quando questi ragazzi andranno all’università, che faremo? Creeremo facoltà<br />

distinte?”.<br />

E come faremo a “spiegare” loro gli artefici della nostra cultura e civiltà impregnati di<br />

cristianesimo anche nelle loro manifestazioni anticristiane? Come potremo far capire questi<br />

aspetti, se li manterremo in una “bolla” culturale separata senza accedere ad un dialogo<br />

costante con la nostra identità radicata nel Vangelo e nel valore della persona trasmesso da<br />

esso da duemila anni?<br />

22 Pearson C. S., L’eroe dentro di noi, Astrolabio, Roma 1990, p. 95<br />

104


Il fatto che il proseguimento degli studi in una scuola pubblica sia stato preceduto da<br />

una specifica richiesta di apartheid con l’istituzione di una classe monoculturale può anche<br />

essere letto come volontà di conservare la propria identità, ritenendo che qualunque contatto<br />

con altre culture possa indebolirla. Una idea analoga circolava negli ambienti ebraici, ma non<br />

ha certo favorito l’integrazione degli ebrei nella società. Durante il mio viaggio in Germania<br />

nel 2002, tuttavia, appresi che nella scuola ebraica di Berlino erano stati accolti giovani non<br />

ebrei, quale segnale di apertura e integrazione nei confronti del “diverso”. Instaurare un<br />

dialogo costruttivo significa precisamente riconoscere la propria identità e quella dell’altro e<br />

porsi sullo stesso piano, per cercare di comprendersi. Il “diverso” si capisce solo se c’è<br />

l’identico, il sé, e ciò presuppone sia la consapevolezza della propria identità, sia la volontà di<br />

accettare e comprendere l’identità dell’altro. Il rapporto va gestito in modo bidirezionale,da<br />

me a te, e da te a me, non in modo unidirezionale, in cui io parto dal presupposto che la mia<br />

identità sia superiore o migliore della tua, per cui ti escludo dalla relazione con me e ti<br />

controllo “a distanza” per farti sentire il mio potere. Riuscendo a ritagliarsi uno “spazio<br />

separato”, infatti, questi musulmani hanno dimostrato di saper gestire una notevole fetta di<br />

potere e controllo sulle istituzioni, ponendo condizioni ben precise: “prendere o lasciare”.<br />

Andando avanti di questo passo, c’è da chiedersi come gestiranno gli altri spazi di potere.<br />

Non dimentichiamo che, mentre avanzano le loro richieste, studiano il “terreno di coltura”, e<br />

il grado di “inconsistenza” delle nostre istituzioni e della nostra Identità. Sondano la nostra<br />

“fragilità identitaria e dialettica”. Non meravigliamoci se, al prossimo round, ci torchieranno.<br />

L’“apartheid ribaltata”, poi, investirà noi, quando saremo messi da parte come “cultura<br />

inferiore”, sulla scia di un processo analogo che invase l’Europa nel XX secolo: la<br />

germanizzazione. Adesso è l’islamizzazione che comincia a fare da padrone, e i suoi<br />

“ministri”, come le SS di Hitler, ripetono noti schemi comportamentali simili ad un rito che si<br />

rinnova diverso nelle apparenze, ma identico nella sostanza. È il classico “mito” delle “realtà<br />

ideologiche”: creare un nuovo ordine imponendo le proprie credenze e i propri valori agli<br />

“inferiori”. Noi siamo gli “inferiori” da islamizzare. Loro sono i “superiori” che hanno il<br />

diritto-dovere di asservirci. Hitler era animato da analoghi propositi di germanizzazione: la<br />

superiore razza ariana doveva portare la propria “civiltà” in tutta Europa, estirpando la<br />

“barbarie” delle culture preesistenti. Nel volume che ho quasi completato, intitolato “Il<br />

pensiero adolescente di Hitler”, metterò a fuoco proprio questa dinamica intrisa di narcisismo<br />

e onnipotenza, che caratterizza le ideologie di vario genere, diverse nei contenuti, ma<br />

analoghe nella struttura e nelle terribili conseguenze.<br />

105


I Guerrieri vogliono cambiare gli altri<br />

Come ho già detto in precedenza, ci sono Guerrieri che semplicemente non riescono a<br />

vedere il mondo da altre prospettive che la propria. Per loro il mondo è fatto di eroi, cattivi e<br />

vittime da salvare. Dettano agli altri le premesse, le condizioni, le regole della relazione,<br />

senza chiedere all’altro che cosa ne pensa, perché ciò non gli interessa affatto. Questa<br />

mentalità unilaterale, se viene assecondata con l’accettazione passiva, crea un rapporto di<br />

dominazione/sudditanza. L’Eroe “primitivo” di questo tipo deve provare che è meglio degli<br />

altri. Vuole essere il migliore, e necessariamente questo lascia gli altri in condizione di<br />

inferiorità. L’intreccio eroe/cattivo/vittima da salvare, finisce per autoconvalidarsi solo perché<br />

l’Eroe ne ha bisogno per sentirsi eroe. La richiesta di una classe esclusiva monoculturale<br />

potrebbe essere vissuta come la richiesta dell’Eroe che intende salvare dai “cattivi” le<br />

“fanciulle in pericolo”, intendendo questo termine in senso lato: cultura di appartenenza,<br />

ragazze da conservare “velate”, ideali, convinzioni, valori, religione, ecc.<br />

L’aspetto negativo dell’archetipo è la convinzione che non va bene essere<br />

semplicemente umani, ossia porsi su un piano paritario, dialogico, fatto di scambio dialettico<br />

di punti di vista. Occorre dimostrare la propria superiorità. Ma se questo desiderio di essere<br />

superiori agli altri non è controllato da alcun valore superiore né da alcun sentimento umano,<br />

il proprio potere viene usato per acquistare potere e controllo sugli altri, magari con l’idea di<br />

migliorare il mondo imponendo i propri valori e le proprie credenze. In qualunque “realtà<br />

ideologica”, infatti, il punto di vista, le convinzioni e i valori degli altri non contano. Ciò che<br />

importa è la “mappa del mondo” degli associati, in nome della “grande causa”. È il caso di<br />

ogni tipo di imperialismo.<br />

I Guerrieri vogliono cambiare gli altri. Il senso di essere rinnovato e rigenerato dalla<br />

comunità religiosa di appartenenza spesso è seguito dalla predicazione e dal proselitismo. La<br />

tentazione di regredire al dogmatismo e di cercare di imporre agli altri le proprie vedute<br />

attraverso la legge o la pressione sociale, può diventare invasiva. Il punto è che quando la<br />

conversione non trasforma la propria vita, si sente l’esigenza di una vera disciplina e<br />

obbedienza militare. Il tipo di religione dominante nella nostra cultura proviene dall’ideologia<br />

e dalla prassi del Guerriero, a partire dalle Crociate fino alla guerra dei moderni<br />

fondamentalisti contro il peccato, il male e il demonio. L’approccio del Guerriero alla<br />

spiritualità consiste nell’individuare il male ed eliminarlo o dichiararlo illegale. A un gradino<br />

superiore c’è la conversione del peccatore. Costui non deve più essere eliminato, se può<br />

essere trasformato in modo che non sia più cattivo. Può essere salvato se adotta le stesse<br />

convinzioni religiose dell’Eroe. Ma lo stesso Gesù ha rispetto per il percorso di crescita degli<br />

106


esseri umani e non ne forza le scelte. Un tratto del Vangelo in cui si parla del regno di Dio<br />

rivela questo aspetto:<br />

Quando poi fu solo, quelli che erano intorno a lui insieme ai Dodici lo interrogavano sulle<br />

parabole. Ed egli disse loro: “A noi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a quelli di fuori<br />

invece tutto viene esposto in parabola; perché:<br />

guardino, ma non vedano,<br />

ascoltino, ma non intendano,<br />

perché non si convertano e venga loro perdonato. (Marco, 4, 10-12)<br />

Gesù non chiede la conversione di chi non è disposto ad ascoltare la parola di Dio. Il<br />

vero nemico da combattere è la tirannia della mente ottusa. Dobbiamo esplorare nuovi modi<br />

di formulare i problemi e di cercare soluzioni. Abbiamo bisogno di sufficiente immaginazione<br />

per affrontare la differenza senza etichettarla con le nozioni di bene e di male, di migliore e di<br />

peggiore. Né la violenza né la conversione, né l’imposizione dei nostri punti di vista valgono<br />

a risolvere i problemi.<br />

Ci occorre un livello più alto dell’archetipo del Guerriero, per poter parlare di<br />

possibilità di integrazione. A questo punto viene richiesto di “lottare” in un modo che sia di<br />

più vasto interesse sociale, e in questa generazione ciò può comportare una ridefinizione<br />

d’identità, per cui non si guarda soltanto alla propria compagnia o nazione come alla “nostra<br />

squadra”, ma a tutta la gente del mondo. In questo contesto, il “cattivo”, il nemico da<br />

combattere non è più una persona, un gruppo o un paese, ma l’ignoranza, la povertà, l’avidità,<br />

la grettezza mentale.<br />

Ma nessuno di noi può partire di là. Si inizia imparando i rudimenti dell’autodifesa o<br />

del soddisfacimento dei propri bisogni. Per la maggior parte delle persone, l’archetipo del<br />

Guerriero e dell’Angelo custode sono i primi archetipi adulti da vivere e integrare nella<br />

coscienza. Se non si sviluppano, si resta di regola a uno stadio di evoluzione psichica<br />

infantile. Per diventare Guerrieri evoluti, bisogna uscire fuori dagli schemi delle ideologie,<br />

imparando a vedere nell’altro non un nemico cattivo da sconfiggere o una vittima da salvare,<br />

ma semplicemente un altro essere umano in evoluzione, un Eroe in Viaggio.<br />

A questo punto, la persona che sostiene una verità in apparenza antitetica potrà essere<br />

vista non come un nemico, ma come un potenziale amico: “Questa è la mia verità, te la<br />

spiegherò come meglio posso, e tu puoi spiegarmi la tua”. Il compito a questo punto è<br />

107


conciliare, non uccidere o “convertire” al proprio punto di vista.<br />

Da due individui che si massacrano a vicenda, siamo passati a due persone che<br />

dibattono e chiedono un verdetto, e infine abbiamo due persone che hanno acquisito<br />

sufficiente sicurezza in se stesse da usare le proprie differenze per trovare verità più adeguate<br />

e complete. Si affrontano a livello dialettico e quindi condividono quello che hanno imparato<br />

dallo scambio.<br />

Il 13 luglio 2004, nello scorrimento delle notizie del TG2, appare l’informazione che a<br />

Milano il provveditorato boccia la classe per soli studenti islamici: è incostituzionale. La<br />

vicenda, qualunque possa essere il suo epilogo, è comunque destinata a suscitare perplessità,<br />

discussioni, polemiche e a risvegliare una consapevolezza critica e autocritica forse sopita,<br />

attraverso le scintille lanciate, che potranno generare nuovi spunti di riflessione sulle modalità<br />

di attuare l’integrazione e sul ruolo della nostra identità <strong>eu</strong>ropea, nazionale e locale,<br />

rapportata a quella di altri continenti e nazioni.<br />

La delocalizzazione da una parte e l’immigrazione dall’altra hanno comportato una<br />

paura di perdita di identità, che può essere arginata ripristinando la conservazione dell’identità<br />

originaria, tenendo comunque presente che l’identità evolve e si arricchisce attraverso le<br />

pluriappartenenze. Mantenendo salde le radici, tuttavia, non corriamo il rischio angosciante di<br />

sentirci sradicati e depauperati del nostro patrimonio identitario.<br />

Correlazione tra politica e cultura.<br />

Il 4 agosto 2004 il presidente della Camera Pierferdinando Casini ha rilevato al<br />

telegiornale la “fusione tra politica e cultura” e ha sottolineato che, malgrado le ideologie non<br />

esistano più, paradossalmente si è accentuato il “furore ideologico”. Perché? Una spiegazione<br />

plausibile può essere ricondotta proprio alla matrice culturale delle ideologie e allo stadio di<br />

evoluzione all’interno di ciascun archetipo in cui si trova la cultura in esame. Per portare un<br />

esempio, la cultura dell’orfano di cui il marxismo-leninismo ha portato avanti le motivazioni,<br />

le istanze e i valori e criteri - ossia ciò che è importante per tale cultura - si è costituita in<br />

ideologia del comunismo. Dopo aver constatato che la sua applicazione ha portato<br />

all’estremismo dello stalinismo, la politica ha cominciato a fare marcia indietro, a cominciare<br />

dalle critiche mosse da Kruscev nel celebre congresso del PCUS. Evidenziando le terribili<br />

conseguenze dei Gulag, delle fucilazioni dei dissidenti politici e di tutto ciò che fa parte<br />

dell’eredità del “pensiero unico”, la politica più critica e avveduta si è evoluta verso sponde<br />

più rispettose dei diritti umani, della libertà e del valore della persona. Ma il “furore<br />

ideologico” imperversa ancora. Perché? La matrice archetipica e culturale della politica<br />

108


alimenta l’“atteggiamento ideologico”, anche quando l’ideologia viene svuotata di senso e di<br />

efficacia operativa. La ragione di ciò va ricercata nell’assetto unilogico di una frangia di<br />

questa cultura, nelle posizioni estremistiche connesse al livello evolutivo inferiore. La “fonte<br />

archetipica” che alimenta il percorso evolutivo fornisce l’energia e l’impronta agli<br />

atteggiamenti connessi alla fase del Viaggio.<br />

L’incapacità di assumere punti di vista diversi dal proprio porta al “furore ideologico”<br />

tipico delle posizioni assolutistiche e/o improntate alla megalomania degli adolescenti. Anche<br />

il percorso spirituale risente del livello archetipico in cui è calato un individuo o una cultura.<br />

Lo “spirito crociato” è tipico della cultura del Guerriero. Ciò non significa che non si debba<br />

difendere i confini minacciati, ma semplicemente che il ricorso alla “guerra” va attentamente<br />

valutato, perché spesso non rappresenta una soluzione dei problemi, bensì una complicazione<br />

di quelli già esistenti. Le “soluzioni politiche” incisive e decisive costituiscono un’alternativa<br />

molto più efficace della guerra e vanno perseguite con coraggio e lungimiranza.<br />

Ma lo “spirito crociato” non compare solo in guerra. L’archetipo del Guerriero allo<br />

stadio inferiore può sopravvivere anche nei “militanti dello spirito”. Il soldato romano Paolo<br />

di Tarso stava andando a Damasco a perseguitare i cristiani, quando è stato scaraventato giù<br />

da cavallo e gli è apparso Gesù, dicendogli: “Paolo, perché mi perseguiti?”.<br />

Paolo convertito al cristianesimo, che si spostava da una parte all’altra dell’Impero<br />

Romano per convertire al cristianesimo diffondendo l’insegnamento di Gesù, ha conservato<br />

l’atteggiamento del Guerriero, sia pure nella trasformazione operata dalla fede in Cristo. La<br />

dimensione archetipica in cui era calato da Guerriero non è stata distrutta dalla fede e trapela<br />

nei suoi scritti anche quando parla delle donne e della gerarchia dei rapporti. La visione del<br />

mondo dualistica e gerarchica, che contrassegna la cultura del Guerriero e il patriarcato della<br />

nostra società, che si alimenta di questo archetipo, ha portato Paolo ad un’espressione radicale<br />

e repressiva verso le donne: “Le donne tacciano!”. Ma una cultura fatta di soli uomini, in cui<br />

la voce femminile non trova né spazio, né fiducia, è destinata a produrre mostruosità, come<br />

viene tragicamente documentato dalla storia. La cultura del Guerriero della Germania di<br />

Hitler e dell’Iraq del fondamentalismo islamico, per fornire qualche esempio, hanno in<br />

comune la repressione della voce femminile, sia pure in modi diversi.<br />

La cultura del Guerriero della destra ideologica, che è ben rappresentata dal Mein<br />

Kampf di Hitler, è degenerata nel degrado politico dei campi di sterminio nazisti. Oggi il<br />

“furore ideologico” di questa cultura si esprime nel fondamentalismo islamico, che si avvale<br />

del terrorismo quale strumento di destabilizzazione politica e di conquista militare e<br />

territoriale.<br />

109


Data la fusione tra politica e cultura, non possiamo abbassare la guardia di fronte al<br />

“furore ideologico”, ritenendolo meno pericoloso perché non si presenta più sotto le vesti<br />

dello stalinismo duro e puro o dell’Islam “vecchia maniera”. Il nazislamismo diffuso dai<br />

“falchi” dell’Islam, che operano come le SS miravano a radicare la germanizzazione,<br />

costituisce la minaccia del XXI secolo.<br />

Il nazionalsocialismo di Hitler è sorto per fronteggiare il dilagare della rivoluzione<br />

russa dell’ottobre 1917 e l’ideologia comunista. Oggi c’è il rischio che l’avanzata del<br />

nazislamismo faccia sorgere reazioni estremistiche, sulla scia del movimento di Haider.<br />

L’estremismo del nazislamismo va contenuto senza alcun bisogno di ricorrere alla politica del<br />

Mein Kampf, che verrà presentata nel libro “Il pensiero adolescente di Hitler” proprio per<br />

arginare gli “scivoloni radicali” di destra.<br />

L’Islam e le sue insidie<br />

Il livello primitivo e grezzo della cultura del Guerriero ha prodotto le aberrazioni<br />

connesse al considerare la diversità come una minaccia, al bisogno amorale e ossessivo di<br />

vincere, all’impulso imperialistico di conquistare militarmente il mondo. Le mire<br />

espansionistiche di Al Qaida sono strettamente collegate con questo livello archetipico e<br />

trovano la manovalanza militare e terroristica in gran parte là dove c’è miseria e scontento. La<br />

creazione di aree di sviluppo economico in Pakistan e in altre zone dove si annida<br />

maggiormente il pericolo costituisce quindi un antidoto naturale all’espansione del fenomeno.<br />

All’inizio di agosto 2004 il ministro per le Politiche Agricole Alemanno si è recato in<br />

Pakistan per promuovere una politica in questa direzione.<br />

Subito dopo aver steso queste riflessioni, il 5 agosto 2004, sulla scia delle<br />

dichiarazioni di Casini, in un caldo pomeriggio estivo afferrai Il Gazzettino, il quotidiano del<br />

nord-est che circolava per casa e vi trovai in prima pagina un articolo che collimava con<br />

quanto avevo appena scritto, in una sorta di sincronicità, un fenomeno già descritto da Carl<br />

Gustav Jung, il fondatore della Psicologia Analitica che ha esplorato l’inconscio collettivo e<br />

gli archetipi. L’articolo in questione, scritto da Carlo Sgorlon, si intitola: “Conoscere l’islam e<br />

le sue insidie”. Lo riporto integralmente, per evitare interruzioni arbitrarie:<br />

In Italia, e spesso anche in Europa, chi non spalanca le braccia ai maomettani, arabi o non,<br />

rischia subito di passare per un razzista. E invece per parecchie motivazioni è vero il contrario; ossia<br />

sono razzisti alla rovescia proprio coloro che per il mondo e la cultura musulmani hanno tutta la<br />

possibile tolleranza, mentre tengono gli strali pronti, come Giove Pluvio, da scagliare contro i<br />

110


connazionali che non condividono i loro giudizi e atteggiamenti sull’Islam. E razzismo e intolleranza<br />

si trovano in settori molto vasti della cultura maomettana.<br />

Io non sono di quelli che scendono in piazza a fare sceneggiate, ma sono un uomo di<br />

buonsenso. Con le modeste conoscenze che possiedo cerco di far chiarezza su una questione delicata e<br />

importante, che un giorno potrebbe diventare pericolosamente esplosiva sia per l’italia che per<br />

l’Europa. Né io né la stragrande maggioranza degli italiani e degli <strong>eu</strong>ropei vogliamo contese, attriti o<br />

guerre di religione. Ma per evitare tutto questo sarebbe molto meglio che i musulmani restassero nei<br />

loro Paesi, dove possono realizzare per intero il loro credo, i loro rituali e i loro costumi, in troppe cose<br />

radicalmente diversi dai nostri.<br />

Se gli serve il nostro aiuto, la nostra tecnologia, le conoscenze scientifiche e qualche risorsa<br />

economica per entrare nel mondo dello sviluppo, saremmo lieti di fornirgliele. Sempre che si degnino<br />

di accettarle, perché in Iraq, ad esempio, avviene esattamente il contrario. Del resto i paesi musulmani<br />

che dispongono di grandi riserve petrolifere, e da cui l’Occidente acquista l’oro nero per le sue<br />

industrie, possiedono cifre da capogiro di petroldollari.<br />

Non è affatto vero, come si sente dire, che li derubiamo delle loro risorse. Il prezzo del<br />

petrolio è fissato dall’OPEC, ossia dall’associazione dei ministri del petrolio dei Paesi produttori. Se il<br />

prezzo salisse troppo in alto, l’economia occidentale entrerebbe in crisi, e non sarebbe più in grado di<br />

acquistare il combustibile che le serve. In altre parole i Paesi petroliferi ucciderebbero la gallina dalle<br />

uova d’oro. La verità è piuttosto un’altra; ossia che i petroldollari per lo più non vengono utilizzati per<br />

lo sviluppo dei Paesi che possiedono giacimenti, pensando che un giorno l’oro nero finirà, ed essi<br />

potranno contare soltanto sulla propria tecnologia e la propria capacità di produrre. Invece accade che<br />

re, principi, sceicchi, emiri, vizir, capi politici si servano troppo spesso dei petroldollari per acquistare<br />

azioni di grandi industrie occidentali, o grandi magazzini, o alberghi famosi, o villaggi turistici, o<br />

negozi di lusso, o squadre di calcio, e via di questo passo.<br />

Le ragioni principali di questo fenomeno sono due, e si legano tra loro. La prima è che i<br />

potenti musulmani, gestori di regimi autoritari, non si fidano dei loro sudditi; così si formano imperi<br />

economici all’estero, nel timore di dovere un giorno utilizzare un jet per la fuga.<br />

La seconda è che agisce in loro il desiderio di mettere le mani sui beni dell’Occidente, per<br />

impadronirsene progressivamente. Da noi si pensa che solo l’Islam dei fondamentalisti, dei<br />

guerriglieri, dei terroristi e dei kamikaze sia pericoloso, e magari si possa eliminare la sua pericolosità<br />

cedendo alle sue richieste, per arroganti, ricattatorie, barbariche e crudeli che siano. Che esista poi<br />

l’Islam dei moderati, con i quali ci si può intendere, e che si possa integrare nei nostri Paesi. Questo è<br />

vero soltanto in parte. Gli uomini sono formati e determinati da fatti genetici e culturali. Dal punto di<br />

vista del DNA e dei cromosomi i maomettani sono, probabilmente, uomini come gli altri. Ma la loro<br />

cultura è fondamentalmente coranica.<br />

Il Corano è un libro poetico, pieno di immagini affascinanti. Ma contiene anche delle “sure”<br />

che dovrebbero farci meditare parecchio. Esso non prevede integrazioni con altre religioni, anche se<br />

111


iconosce i Profeti e i Patriarchi della Bibbia e lo stesso Gesù (rifiuta però l’idea che egli sia stato<br />

crocifisso perché innocente, profeta e uomo di Dio). Ma Bibbia e cristianesimo vengono visti con<br />

occhiali islamici, e in qualche modo islamizzati.<br />

Ci sono i “fedeli di Maometto” e gli “infedeli”, ossia tutti gli altri. La terra è divisa in due<br />

parti: quella che appartiene ai musulmani, e tutto il resto, che è da conquistare.<br />

La guerra contro gli infedeli è sempre “jihad”, ossia guerra santa. Non è previsto che sia una<br />

guerra eterna e ininterrotta. Ci vogliono anche delle pause di pace, decennali, ma soltanto per<br />

riprendere fiato e poi ricominciare le conquiste.<br />

Chi muore per la guerra santa va subito in paradiso, dove troverà un harem personale di<br />

settantadue vergini giovanissime, pronte al suo cenno. Sono le Urì. I maomettani che sdegnano la<br />

guerra santa, invece, in paradiso ci andranno soltanto dopo che ne saranno stati giudicati degni nel<br />

Giudizio Universale, che verrà chissà quando. I non maomettani, gli “infedeli”, sono tutti condannati<br />

all’inferno. Il fine ultimo del vero musulmano, credente e coranico, è dunque la conquista del mondo<br />

intero, che prima o poi si verificherà. Certo è probabile che molti musulmani moderati credano a tutto<br />

questo in modi piuttosto sbiaditi, o che non ci credano per niente.<br />

Ma è certo che l’inconscio di tutti coloro che appartengono alla cultura islamica è stato<br />

modellato almeno un poco da queste dottrine infantili, orgogliose e bellicose. Certe dottrine di Mein<br />

Kampf non erano molto diverse, e tutti sappiamo i guai che hanno sviluppato in Europa e nel mondo.<br />

Quando il terrorismo musulmano distrusse le Torri Gemelle, moltissimi islamici scesero in piazza a<br />

festeggiare. Era una grande vittoria dell’Islam sopra l’Occidente, odiato o poco amato.<br />

Essi vengono da noi a cercare lavoro, ma nel loro inconscio, o nel retropensiero, temo vi sia<br />

ancora traccia di sogni di conquista e di islamizzazione universale. All’integrazione e all’assimilazione<br />

della nostra cultura, dei nostri costumi e delle nostre leggi non ci pensano nemmeno. Perciò l’Italia,<br />

l’Europa e l’Occidente dovrebbero sì rispettare le leggi dell’ospitalità, nei confronti dei musulmani,<br />

ma tenendo gli occhi bene aperti, e usando l’attenzione più vigile per difendere la loro cultura, la loro<br />

identità e la stessa integrità dei loro Stati.<br />

L’avere diffuso da vari anni l’idea di connettere strettamente la cultura alla politica<br />

perseguita ha orientato l’interpretazione giornalistica utilizzando concetti psicologici.<br />

E credo che la comprensione psicologica “scientifica” apra la strada a politiche<br />

lungimiranti e condivise, che vadano oltre le miopi polemiche di partito. Il giornalista di cui<br />

ho riportato l’articolo ha tradotto in soldoni, in termini politico-economici quanto avevo<br />

esposto con linguaggio psicologico-culturale in alcuni scritti precedenti e particolarmente in<br />

questo libro.<br />

Il fino ultimo del vero musulmano è la conquista del mondo intero, che prima o poi si<br />

112


verificherà, secondo un progetto imperialistico che ha segnato la disfatta di molti imperi,<br />

compreso quello germanico. Vorrei comunque precisare che i musulmani moderati, che<br />

appartengono alla cultura islamica e sono stati forgiati da una dottrina bellicosa, possono<br />

avanzare sul piano evolutivo, passando da un livello primitivo ad uno più elevato all’interno<br />

dell’archetipo del Guerriero. Nella fase più matura compare il dialogo, il confronto,<br />

l’accettazione dell’altro e del suo punto di vista, nel riconoscimento della propria e dell’altrui<br />

identità.<br />

Giordano Bruno Guerri, storico, giornalista con idee non accomodanti, anzi spesso<br />

urticanti, ha definito il mestiere di giornalista “una forma di prostituzione della verità” in<br />

un’intervista comparsa su Il Gazzettino del 28 agosto 2004 e aggiunge: “A dire il vero c’è un<br />

modo per renderlo meno ignobile, il giornalismo in Italia come ovunque. È di avere idee<br />

originali, quali che siano, di dichiararle onestamente e limpidamente in pubblico, non<br />

usandole in modo strumentale e credendoci fino in fondo”.<br />

Con franchezza, egli constata la “ferinitudine” e la “ferocia che costituisce il DNA del<br />

fanatismo islamico, con cui non si può parlare. Sono bestie assetate di sangue, altro che<br />

politica e diplomazia”. Egli fa un ritratto pungente di Enzo Baldoni: “Ingegno pubblicitario,<br />

pallino del giornalismo col brivido, culto dei Paesi esotici, bernoccolo umanitario, attitudine<br />

al volontariato, miraggi guerriglieri, Fede in qualsiasi Causa fuorché quella della propria<br />

civiltà. Assoluta incapacità di farsi i fatti propri e attitudine a credere in tutte le balle della<br />

sinistra chic, tra cui quella che il terrorismo islamico sia una reazione all’arroganza<br />

dell’Occidente”. Del giornalista italiano dice: “Fa più schifo del solito. Dà il massimo di<br />

cinismo, di ipocrisia, di retorica melensa. È che ha la coscienza sporca. È che ormai si fa tutto<br />

con le veline, i comunicati, le soffiate interessate. Il giornalismo di ricerca, di investigazione è<br />

andato a farsi fottere, mi scusi il termine”.<br />

Che cosa si può dire, per non usare in modo strumentale le idee? Il terrorismo islamico<br />

può essere interpretato semplicemente come una reazione all’arroganza dell’Occidente? La<br />

ferocia del fanatismo islamico come può essere interpretata? Sono sufficienti le ragioni<br />

economiche o politiche per spiegare questo comportamento? O la barbarie affonda le radici in<br />

una cultura sostenuta dal livello archetipico in cui si trovano individui e collettività? Il<br />

relativismo culturale per cui tutte le culture sono uguali non può spiegare l’orrore che noi<br />

proviamo davanti allo sgozzamento e alla decapitazione filmati dai terroristi, per essere visti<br />

dai “nemici” occidentali e dagli “infedeli” islamici. O, meglio, la spiegazione fornita - che si<br />

tratta di semplice diversità di sensibilità della nostra cultura o quant’altro - non tiene conto dei<br />

differenti livelli evolutivi dell’archetipo o degli archetipi in cui è immersa una cultura. Al<br />

113


livello evolutivo più basso, che si tratti di nazifascismo, di stalinismo, o di nazislamismo, le<br />

“reazioni” o, meglio, le conseguenze sono tutte terribilmente uguali: intimidazione, ferocia,<br />

sterminio dei “diversi” o dei dissidenti. Baldoni è stato ammazzato perché italiano, punto e<br />

basta, come durante il nazismo uno veniva braccato e ucciso perché ebreo, o zingaro, o<br />

omosessuale ecc.<br />

La ferocia non può essere giustificata come “reazione” all’arroganza di chicchessia. Il<br />

mondo islamico rappresenta una cultura imperiale che ha dominato nel bacino del<br />

Mediterraneo e ora è animato da una strategia di potere e conquista, di fronte alle sfide della<br />

globalizzazione. Secondo alcuni, la frustrazione identitaria che vive in quanto si sente<br />

emarginato dal centro del mondo, porta una parte dell’Islam a strumentalizzare la religione<br />

per finalità di potere. Il terrorismo persegue e vuole lo scontro tra civiltà come modalità di<br />

affermazione di una presunta supremazia del mondo islamico su quello occidentale. Ma ciò<br />

non spiega ancora la brutalità cieca e sorda di fronte a qualunque richiamo umanitario.<br />

Altrimenti, sulla stessa linea, dovremmo giustificare l’operato del nazifascismo come reazione<br />

al caos bolscevico. La “sete di sangue”, la “ferinitudine” parte dall’interno, dal livello<br />

archetipico del Guerriero negativo o Guerriero Ombra, non da uno stimolo esterno, che<br />

secondo alcuni può essere ravvisato nella “scellerata politica delle alleanze” degli USA o<br />

nella loro volontà di esercitare il potere in Medio Oriente.<br />

Per i sedicenti movimenti della guerriglia irachena il nemico è chi cerca di creare<br />

un’isola di pace nel fragore della guerra. Non c’è dunque terrorismo cattivo e guerriglia<br />

buona. I sequestratori hanno scelto le ragazze italiane dell’OGN “Un ponte per...” Simona<br />

Torretta e Simona Pari con una lista di nomi in mano e facendosi indicate i soggetti. “Se<br />

hanno colpito le due Simona possono colpire chiunque” ha osservato qualcuno. Questi<br />

terroristi considerano l’Europa una nemica comunque.<br />

Se un individuo è calato in una dimensione diversa e di livello superiore, prova<br />

ribrezzo per un simile comportamento e non c’è angheria subita che lo conduca a simili<br />

nefandezze. Il giornalismo cinico e melenso di cui parla Guerri, viceversa, sfrutta questi<br />

episodi terrificanti per fare politica, presentando i “mostri” della situazione a seconda del<br />

colore delle “lenti” con cui guarda la realtà. In questo caso, chi gioca con la vita delle persone<br />

per tenere alta l’angoscia occidentale è il vero “mostro”, al di là del colore politico di chi<br />

interpreta i fatti.<br />

I tentacoli della piovra Al Qaida si allungano impietosi. Secondo i servizi segreti russi<br />

Al Qaida si nasconde dietro l’assalto alla scuola di Beslam in Ossezia, mentre i bambini, di<br />

età compre tra i 5 e i 12 anni, festeggiavano l’inizio dell’anno scolastico alla fine di agosto<br />

114


2004. Sono stati uccisi 26 terroristi, tra cui una decina erano arabi. Sono morti anche 10<br />

componenti delle forze speciali. Il blitz delle forze speciali, dopo tre giorni tragici, tuttavia ha<br />

provocato la morte di 394 persone, tra cui molti bambini. Queste persone hanno un nome,<br />

mentre restano 93 corpi non identificati e 112 dispersi; 646 persone sono state ricoverate in<br />

ospedale, tra cui circa 250 bambini. “Non avevano altra scelta - ha detto Putin - perché i<br />

terroristi avevano già cominciato ad ammazzare”. I terroristi chiedevano la scarcerazione dei<br />

guerriglieri ceceni in carcere e il ritiro delle truppe russe in cambio della liberazione degli<br />

ostaggi. Si sospettano presunti basisti locali, perché i terroristi hanno eluso i controlli. E la<br />

presenza di arabi e componenti di varie nazionalità nel gruppo di oltre 30 terroristi rinvia ad<br />

un’internazionale del terrore che organizza attentati su larga scala. Un camion pieno di<br />

esplosivo è entrato in città e si è avvicinato alla scuola senza trovare ostacoli nel giorno di<br />

massima affluenza scolastica.<br />

Nessuna causa politica può giustificare atti come questo.<br />

D’altro lato, il sequestro di due giornalisti francesi il 29 agosto 2004 e la minaccia di<br />

ucciderli se entro 48 ore non verrà abolita la legge sul velo islamico di imminente attuazione<br />

conferma che l’intero Occidente è bersaglio del terrorismo senza distinzione di nazionalità e<br />

appartenenza ad uno schieramento di destra o sinistra. Il totalitarismo del XXI secolo colpisce<br />

in massa, senza distinzione. La Francia, infatti, non ha inviato in Iraq alcun contingente<br />

militare e Baldoni era una “pacifista”. I terroristi combattono un mondo libero, democratico e<br />

civile. L’Europa è solidale con Chirac che ribadisce: “Con i terroristi non si tratta”. Una<br />

manifestazione organizzata da rappresentanti di più religioni, cristiana, ebraica e musulmana,<br />

ha espresso unità nel protestare contro il fondamentalismo e i ricatti. E l’opposizione politica<br />

francese si schiera unitariamente contro gli stessi terroristi che usano l’arma del ricatto per<br />

piegare alla loro volontà le istituzioni francesi. In quanto cittadini francesi, i musulmani che<br />

hanno partecipato alla manifestazione non accettano il sovvertimento della legge della<br />

Repubblica sotto la pressione di una minaccia.<br />

Il terrorismo è contro il tentativo dell’Islam di integrarsi in Europa. Secondo le<br />

dichiarazioni televisive di alcuni esponenti musulmani francesi, la legge sulla laicità non è<br />

contro i musulmani. E secondo il ministro dell’istruzione francese, con l’attuazione della<br />

legge a partire dal 2 settembre 2004, tutti i giovani sono accolti senza distinzioni etniche,<br />

religiose e di origine; sono trattati in maniera giusta, uguale sui banchi di scuola. Le<br />

studentesse musulmane si tolgono il velo prima di entrare a scuola. Quelle che non si sono<br />

adeguate alla legge hanno quindici giorni di tempo per entrare nell’ordine di idee che in<br />

Francia si fa così. ma non possono entrare a scuola, anche se non viene attuato il<br />

115


provvedimento di espulsione in questo lasso di tempo iniziale di “rodaggio”.<br />

Il presidente del Senato Marcello Pera, in visita a Berlino il 31 agosto 2004 per<br />

ricordare i padri fondatori dell’Europa, De Gasperi, Adenauer e Schumann sollecita “un patto<br />

comune solidale di tutto l’Occidente”. I padri fondatori volevano un’Europa unita<br />

militarmente, politicamente dalle radici cristiane e amica degli USA. In questa situazione di<br />

minaccia alla stabilità istituzionale delle singole nazioni e dell’Europa unita è particolarmente<br />

urgente impugnare l’“arma” dell’unità per difendersi dagli assalti dei fondamentalisti.<br />

Sul versante americano, il 31 agosto 2004 Bush parla di “coraggio della nazione” e di<br />

“determinazione” nella lotta al terrorismo alla convention per le elezioni presidenziali. La<br />

guerra al terrorismo non può tuttavia essere vinta con mezzi tradizionali. Baldoni, che amava<br />

le “vacanze da brivido”, in Iraq ha voluto sfidare la morte e, secondo qualcuno, non per<br />

coraggio ma per quella che Goethe definiva “presuntuosa incoscienza” ha perso la vita.<br />

Secondo altri è stato un eroe che ha pagato con la vita un idealismo che lo ha spinto anche ad<br />

indossare i panni del “guerrigliero”.<br />

Vera Slepoj, psicoterap<strong>eu</strong>ta, commenta l’assassinio di Baldoni su Il Gazzettino del 29<br />

agosto sottolineando “la nostra ottusità di occidentali un po’ infantili e privi di memoria sulle<br />

differenze di vedere, sentire e valutare i valori, i contenuti e i presupposti”.<br />

Non tenendo conto dei vari livelli evolutivi, in effetti, si finisce per fare una gran<br />

confusione o, meglio, per mettere tutte le culture sullo stesso piano. La Slepoj prosegue la sua<br />

analisi mettendo in relazione un idealista con la crudeltà della sua esecuzione: “Baghdad è<br />

ben altra cosa dai miti rivoluzionari del passato ed è triste che a farcene vedere la verità sia<br />

l’esecuzione crudele di un idealista che con la sua bandiera di pace confusa con quella<br />

altrettanto simbolica dell’umanitarismo credeva di placare, convertire, mutare, rendere<br />

possibile un percorso dialettico sugli estremismi che solo l’animo umano sa generare. Il<br />

sorriso non basta e le parole sono un’idea che solo noi e questa civiltà, sudario di idee, crede<br />

possano convertire e addirittura mutare il corso e il percorso della storia”.<br />

Baldoni, con il suo sacrificio, “dovrebbe aiutarci a capire che le illusioni, il buonismo<br />

usa e getta, la nostra cultura sono lontane oramai un millennio dal mondo che costruisce<br />

eroismi diversi, terroristici, crudeli, con regole diverse, ma intatte. Siamo noi, Occidente<br />

moralmente pagano, moralmente frantumato nel niente, a dover smettere di pensare e credere<br />

al valore della razionalità. Per altre civiltà, e dobbiamo capire che esistono, il valore è nella<br />

morte, è nel dare la morte senza preoccuparsi di riceverla. Si sgozza, si mostra, si uccide<br />

perché per altre civiltà l’individualismo, il valore di un singolo è nulla di fronte al grande<br />

delirio in atto di occupare il mondo e la sua storia”.<br />

116


I sogni di conquista e di islamizzazione universale, nell’ipotesi che la propria cultura<br />

sia superiore alle altre, vanno inseriti nell’ambito del nazislamismo,- che non ha nulla da<br />

invidiare al nazismo germanico responsabile della seconda guerra mondiale -, e come tali<br />

vanno trattati.<br />

117


LA PERCEZIONE COMUNE E CONDIVISA<br />

Una nuova cultura.<br />

Il 14 giugno 2004 una notizia apparsa al TG2 nello scorrimento in fondo allo schermo<br />

segnalava la decisione presa dal Tribunale di Londra di abolire il velo islamico nelle scuole.<br />

Questa decisione sembra inserirsi in un’ottica di derelativizzazione culturale a cui la nostra<br />

società va avviata, per evitare di essere fagocitata dalla dittatura delle minoranze in cui il<br />

fondamentalismo sembra radicarsi sempre più profondamente nella misura in cui trova un<br />

terreno fertile di diffusione dove manca una coscienza identitaria fondata su valori condivisi e<br />

radici storiche comuni. Il lasciar fare tipico di un certo permissivismo in cui mancano a<br />

monte punti di riferimento identitari finisce infatti per generare caos e confusione e per<br />

distruggere la propria cultura e civiltà. Il masochismo culturale è espressione di patologia,<br />

non di salute di una società, e va corretto non certo con il sadismo, ma con una visione<br />

equilibrata delle nostre risorse identitarie, che vanno salvaguardate dagli attacchi<br />

dell’imposizione di regole ad una società che va avanti da secoli con le proprie regole. Il velo<br />

islamico non è solo il simbolo di un certo modo di interpretare e vivere la religione islamica,<br />

ma anche uno strumento simbolico per condurre, più o meno consapevolmente, una battaglia<br />

culturale o religiosa. La richiesta di adeguarsi alla nostra tradizione culturale fa dunque parte<br />

della strategia di far rispettare la nostra identità e le nostre tradizioni, che affondano le radici<br />

nella storia di una civiltà.<br />

Se nella nostra cultura persistesse il “vuoto di identità”, ci sarebbe un richiamo<br />

irresistibile a riempire questo vuoto da parte dei più radicali e orgogliosi sostenitori della<br />

propria identità, diversa da quella del Vecchio Continente. Per poter dialogare con altre<br />

identità diverse dalla nostra, dobbiamo prima diventare consapevoli dei nostri valori condivisi<br />

e delle nostre radici storiche. Solo sulla scia di questa lucida consapevolezza, possiamo<br />

sederci ad un tavolo e dialogare alla pari. In effetti, con che cosa si potrà relazionare un<br />

musulmano, se dall’altra parte troverà il “vuoto identitario” che viene sbandierato con<br />

l’<strong>eu</strong>femismo di “relativismo culturale”? In alternativa, di cosa potremmo parlare, se non del<br />

PIL, della BCE, della competitività economica ecc.?<br />

Ma il PIL non dice nulla sulla nostra identità ed è proprio per questo “vuoto” che<br />

alcuni Paesi che non condividono la nostra identità, come ad esempio la Turchia, hanno<br />

avanzato richiesta di appartenenza a pieno titolo all’Europa. Come i Paesi musulmani sono<br />

orgogliosi della loro identità, così noi dobbiamo diventarlo della nostra. E le radici cristiane,<br />

lungi dal sancire un ipotetico legame con il clero, non fanno che confermare un retaggio<br />

118


culturale diverso da quello islamico. Cristo è parte integrante della nostra cultura e civiltà, che<br />

comprende credenti e non credenti, protestanti o “riformati”, ortodossi o laici, mangiapreti,<br />

baciapile, atei, agnostici, ecc. Tutti noi partecipiamo dell’eredità del Vangelo e attraverso il<br />

Vangelo cresciamo, anche quando ne prendiamo difensivamente le distanze.<br />

Jan Ardui, trainer Belga di PNL, che ho conosciuto in Italia in un corso di<br />

Programmazione n<strong>eu</strong>rolinguistica alla fine degli anni ’90, intervistato sulla rivista Strategie<br />

(N. 1, 2003) , ha esposto il tema dell’integrazione culturale nell’insegnamento di concetti<br />

partoriti nel mondo occidentale. Alla domanda “A proposito di Marocco, come si concilia la<br />

PNL con la religione islamica”, risponde:<br />

In Marocco alcuni modelli sono talmente nuovi e altri così incoerenti e persino paradossali<br />

rispetto alla loro religione e ai loro costumi che per me insegnare in quella terra significa portare<br />

qualcosa di veramente nuovo e importante.<br />

Prendiamo ad esempio gli obiettivi. Se tu dici loro “Che cosa vuoi?”, ti rispondono<br />

“Insciallah” (nelle mani di Allah). E tu gli indichi come raggiungere gli obiettivi, parli del TOTE e<br />

presenti un concetto che è profondamente diverso dal loro.<br />

È molto importante tenere un comportamento di rispetto per la loro religione e cultura e, al<br />

tempo stesso, insegnare con l’intento di aggiungere qualcosa. A proposito di obiettivo e di Insciallah<br />

qualcuno ha trovato questa frase nel Corano: “Dio aiuterà per le cose che tu desideri, solo se le hai già<br />

iniziate e ti sei dato da fare”. Così parti dal loro modello di offrire a Dio qualunque cosa (quindi anche<br />

un obiettivo) e piano piano, delicatamente, puoi aggiungere altri concetti.<br />

Fino ad oggi in Marocco abbiamo realizzato soltanto il percorso formativo di Pratictioner che<br />

ha funzionato grazie alla loro mente matematica e alla cultura di derivazione araba.<br />

Affronteremo grosse sfide con il percorso di Master, quando parleremo loro di credenze,<br />

valori e identità”.<br />

L’idea di integrare due modelli culturali partendo da punti condivisi dal Corano per<br />

aggiungere altri concetti appare affascinante e produttiva. Questo procedimento basato sul<br />

ricalco-guida può conseguire un ponte di dialogo anche con quei musulmani che risiedono sul<br />

territorio <strong>eu</strong>ropeo e sono intenzionati ad integrarsi nella nostra cultura, accettandone il livello<br />

identitario, che affonda le proprie radici nei valori condivisi e nella matrice storica e religiosa<br />

comune.<br />

Nelle leadership occorre prestare attenzione alla “creazione di cultura” quale livello<br />

119


attraverso il quale si può generare il terreno su cui seminare e produrre frutto. Raggiungere<br />

un’intesa sui valori condivisi e sulle radici storiche comuni, quale fondamento dell’identità<br />

comune, è quindi essenziale per dare vita ad un organismo funzionante.<br />

Nella Grande Famiglia Europea è importante creare una nuova cultura improntata al<br />

superamento del pregiudizio e, al tempo stesso, all’affermazione dell’Identità Europea.<br />

Questo progetto mi entusiasma e mi impegna da vario tempo, e spero che possa portare frutti<br />

maturi, buoni da distribuire a ciascun cittadino <strong>eu</strong>ropeo, che spero possa accedere ai miei<br />

scritti e alla realizzazione di una visione non solo “sognata”.<br />

Al summit di Bruxelles del 17-18 giugno 2004 sulla Costituzione Europea e la nomina<br />

del nuovo presidente della Commissione UE si delinea un accordo che la presidenza irlandese<br />

sembra poter cogliere nella giornata finale del vertice dei leader UE.<br />

L’ottimismo è a 360 gradi: anche se l’Irlanda non può ancora dire di avere l’accordo in<br />

tasca, l’atmosfera che si è respirata per tutta la giornata è stata improntata all’ottimismo.<br />

“pronti a chiudere” è la parola d’ordine che per tutto il giorno è corsa in bocca nelle sale del<br />

palazzo Justus Lispsius. Le necessità di giungere ad un accordo sono state ribadite da tutti, e a<br />

renderle più urgenti hanno contribuito le ultime elezioni <strong>eu</strong>ropee - le più disertate della storia<br />

dell’UE - sancendo l’enorme distacco tra la gente e l’Europa.<br />

“C’è un sostanziale accordo sul testo preparato dalla presidenza irlandese - ha detto il<br />

ministro degli Esteri Franco Frattini - accompagnato dalla volontà diffusa di concludere oggi<br />

il lavoro sulla Costituzione e di varare il nuovo trattato”. Il “compromesso finale ancora non<br />

c’è - ha concluso Frattini - ma il testo è una ottima base di lavoro” anche se fino “all’ultima<br />

ora”, l’Italia cercherà di “migliorare un progetto che è oggettivamente migliorabile”.<br />

Tra i nodi rimasti, l’Italia chiede radici cristiane: un gruppo di Paesi guidato dall’Italia<br />

- che comprende anche Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Malta e Lituania - ha ribadito<br />

la propria richiesta di introdurre un riferimento alle radici cristiane dell’Europa nel preambolo<br />

della Costituzione Europea. Si tratta di un “elemento essenziale”, ha spiegato il ministro degli<br />

Esteri Frattini e l’Italia ha in questo senso fatto una “domanda forte di modifica” del Trattato.<br />

I più decisi a bocciare la proposta di inserire le radici giudaico-cristiane nel preambolo sono<br />

Francia, Belgio, Finlandia e Svezia.<br />

Quando i membri di un gruppo hanno una percezione comune e condivisa della<br />

visione, della missione, dei valori e delle capacità, possono anche lavorare insieme con molta<br />

maggiore efficacia. La percezione comune e condivisa di questi aspetti costituisce<br />

indubbiamente il fondamento del cosiddetto “spirito” di gruppo. Se il gruppo è stato costituito<br />

in precedenza per raggiungere una missione o un obiettivo comune, lo sforzo dei membri si<br />

120


incentrerà sull’identificazione dei valori e della capacità del gruppo.<br />

L’identità consiste nel ruolo assolto da una persona, nella missione che la ispira e nel<br />

suo senso di sé. Concerne pertanto il chi della leadership. Il livello dell’identità riguarda il<br />

senso che un gruppo o i membri di un gruppo hanno di sé. “E’ un costrutto di difficile<br />

definizione - scrive Robert Dilts -. È qualcosa di più astratto della credenza e ha a che fare con<br />

i livelli più profondi del processo di incorporazione dell’informazione, quando la persona si<br />

senta responsabile di ciò che ha appreso e avverte l’impegno a tradurlo in azione. L’identità<br />

ha a che vedere principalmente con la missione” 23 .<br />

La definizione dell’identità di un dato sistema è quindi importante. E l’efficacia di un<br />

dato sistema dipende in larga misura dall’equilibrio tra i suoi elementi costitutivi. Per poter<br />

integrare e coordinare adeguatamente le differenze nei presupposti culturali, nei valori e nei<br />

contesti di azione dei membri dell’organizzazione, i dirigenti devono saper riconoscere e<br />

concettualizzare vari livelli: identità-missione, cultura-valori, strategie-obiettivi, azione-<br />

implementazione. Senza soffermarci su questi concetti, già presentati nel volume “Una paura<br />

per crescere”, mi limito a sottolineare che dopo aver identificato il percorso complessivo,<br />

occorre concentrarsi su quell’aspetto della leadership, che viene indicato come “costruzione<br />

della cultura” organizzativa. Sviluppando una cultura organizzativa solida e chiara, condivisa<br />

da tutti i suoi membri, l’organizzazione trova una delle strategie più efficaci per evitare le<br />

incongruenze e i conflitti che tanto facilmente sorgono nei contesti di lavoro.<br />

La “cultura” è il prodotto del contributo di tutti i membri di un’organizzazione o di un<br />

sistema sociale ed è da essi condivisa. Inoltre essa, per quanto dipenda certamente dalle<br />

interrelazioni fra i membri dell’organizzazione o del sistema sociale di cui è espressione,<br />

rappresenta anche in ultima analisi le relazioni che quell’organizzazione o quel sistema<br />

intrattengono con sistemi più ampi.<br />

Secondo Nicholls, la costruzione della cultura consiste nel “condurre le persone in<br />

organizzazioni dotate di senso, in grado cioè di attraversare il percorso individuato o di<br />

sfruttare appieno le opportunità presenti”. Nicholls arriva a sostenere che la “cultura” si<br />

costruisce rispondendo a domande come: “Cosa fa questa organizzazione? Qual è il mio posto<br />

in essa? Come verrà valutato e giudicato? Che cosa ci si attende da me? Per quali ragioni<br />

dovrei dare il mio impegno?” Per rispondere a queste domande, occorre definire: a) la visione<br />

dell’organizzazione; b) la sua missione; c) il suo percorso o strategia; d) la sua struttura.<br />

Per definire visione e missione occorre rispondere a due domande: cosa fa<br />

23 Dilts R. B., Leadership e visione creativa, op. cit. p. 31<br />

121


l’organizzazione e per quali ragioni dovrei dare il mio impegno individuale?<br />

Per definire percorso e struttura, occorre rispondere alle altre domande di Nicholls:<br />

quale è il mio posto nell’organizzazione? Che cosa l’organizzazione si attende da me? Come<br />

verrò valutato e giudicato?<br />

Queste domande coinvolgono anche ciascun esponente dell’<strong>eu</strong>roparlamento e della<br />

commissione <strong>eu</strong>ropea e possono sottendere conflitti o lasciar emergere ambiguità non risolte.<br />

Per fornire un esempio, il pregiudizio laicista anticattolico dell’<strong>eu</strong>roparlamento ha<br />

bocciato l’11 ottobre 2004 la nomina di Rocco Buttiglione a commissario <strong>eu</strong>ropeo per la<br />

giustizia e altre competenze per aver espresso un parere personale nei confronti degli<br />

omosessuali e delle donne, in difesa della famiglia intesa come unione di uomo e donna. “Si<br />

vuole criminalizzare un cattolico”, dichiara Buttiglione al telegiornale. Il ministro per le<br />

Riforme Calderoli ha commentato che si è trattato di “un voto ideologico contro la famiglia”.<br />

Si può parlare di “fondamentalismo laicista” che radicalizza la sua posizione contro i valori o<br />

criteri condivisi dalla maggioranza della popolazione. Ciò che sorprende è che nel centro-<br />

sinistra non si siano levate voci “cattoliche” in difesa di Buttiglione. Anzi, nella parte<br />

“moderata” si è espresso Castagnetti (Margherita) disapprovando Buttiglione. Ciò indica<br />

chiaramente che si è perso il senso della propria identità, travolti nel vortice del frullatore che<br />

omogeneizza tutto, appiattisce e livella tutto, anche il senso della propria identità, della<br />

consapevolezza dei valori o criteri che ispirano il proprio operato. Le ambiguità sulle quali si<br />

basa lo status quo insabbiano convinzioni e valori, opacizzando la vividezza della coerenza e<br />

dell’integrità.<br />

Rispondendo a tutte le precedenti domande di Nicholls, si può determinare la<br />

differenza tra “culto” e “cultura”. In un “culto”, valori e norme vengono imposti<br />

dogmaticamente dall’alto senz’altra spiegazione se non quella che le persone più in alto nella<br />

gerarchia sono anche quelle più vicine a Dio. I regimi teocratici e fondamentalisti, il<br />

nazifascismo e il nazislamismo e i regimi totalitari (comunismo) appartengono a questa<br />

categoria di “culto”.<br />

La “cultura” invece, come si è detto, è il prodotto del contributo di tutti i membri di<br />

un’organizzazione o di un sistema sociale ed è da essi condivisa. Essa, per quanto dipenda<br />

dalle interrelazioni tra i membri del sistema di cui è espressione, rappresenta anche le<br />

relazioni di quel sistema con sistemi più ampi.<br />

Uno degli errori più grandi che un’organizzazione può compiere, secondo Dilts,<br />

consiste nel non riuscire a cogliere e a integrare nella propria visione e nella propria missione<br />

il contributo che le viene dalla relazione con sistemi più ampi. Dire, ad esempio, che “la<br />

122


nostra missione è essere un’organizzazione di professionisti orientata a sostenere i suoi<br />

membri e a offrire loro ...”, non significa affatto formulare una missione o una visione.<br />

Significa al massimo formulare una “identità”. Formulazioni di visione e di missione non<br />

sono mai “autoreferenziate”, ma definiscono sempre il ruolo dell’individuo o<br />

dell’organizzazione in riferimento a soggetti esterni che li oltrepassano. È l’essere al servizio<br />

di qualcosa che va oltre l’individuo o l’organizzazione, ciò che dà lo “scopo” a<br />

“un’organizzazione dotata di senso”.<br />

Riassumendo, la costruzione della cultura consiste nel rispondere alle seguenti<br />

fondamentali questioni:<br />

a) Qual è la visione più ampia che l’organizzazione sta perseguendo?<br />

b) Qual è la missione che l’organizzazione si è data in rapporto alla visione e alla comunità di<br />

cui intende servire i bisogni?<br />

c) Quali sono il percorso e la strategia che l’organizzazione intende seguire per adempiere<br />

alla propria missione?<br />

d) Qual è struttura che l’organizzazione intende darsi in termini di compiti fondamentali e<br />

relazioni necessarie per implementare la propria strategia? 24<br />

E’ importante considerare attentamente le risposte a queste domande, ponendoci non<br />

soltanto dal nostro punto di vista ma anche da quello di ipotetici membri delle organizzazioni<br />

e delle comunità che abbiamo stabilito di servire. Solo dopo aver raggiunto un consenso<br />

comune su queste domande, abbiamo cominciato ad effettuare i passi concreti necessari per<br />

realizzare di fatto le organizzazioni. La nostra visione si traduce così nella creazione di una<br />

organizzazione internazionale di successo.<br />

Tutti sappiamo a quali aberrazioni ha portato la cultura o, meglio, il “culto” del<br />

Guerriero negativo.<br />

Una differenza cruciale è quella esistente tra la natura dei sistemi di partnership,<br />

basata fondamentalmente sulla fiducia, e quella dei sistemi dominatori, basata sulla paura. Il<br />

libro di Erickson Infanzia e Società (1963), insieme ad altre ricerche, ha mostrato che i<br />

bambini sono maggiormente disposti a correre rischi e ad esplorare il loro ambiente, se<br />

possiedono una fiducia di base e una confidenza in se stessi e in ciò che li circonda, ottenute<br />

di solito attraverso delle relazioni positive iniziali con la madre o con chi si occupa di loro. In<br />

altre parole, c’è una relazione dialogica tra fiducia e paura, sicurezza e rischio. Quando c’è<br />

fiducia di base, la sicurezza può anche essere minacciata, si possono pure correre rischi e si<br />

24 Cfr. Dilts R., op. cit. p. 83<br />

123


può anche provare un certo grado di paura. Ma se non c’è alcuna fiducia di base, allora il<br />

mondo esterno e l’Io sono percepiti come essenzialmente minacciosi e la paura diventa<br />

cronica. L’essere umano ha un profondo bisogno di appartenenza e di unità.<br />

La mente di gruppo.<br />

È importante sottolineare il concetto di unità: non si tratta infatti di semplice<br />

appartenenza ad un gruppo, magari in contrapposizione e in competizione con altri, fenomeno<br />

piuttosto comune. Si tratta di avvertire l’illusorietà dei nostri confini e quindi di percepire la<br />

possibilità di unione con tutti gli esseri (Wilber, 1977, 1995). Il gruppo è solo un’occasione<br />

per sperimentare questo stato di coscienza: il gruppo non si chiude in se stesso, ma diventa<br />

strumento di questa trasformazione interiore.<br />

Nell’esperienza convalidata da numerose fonti (vedi ad esempio Rogers, 1970; Senge,<br />

1990), la mente di gruppo, come stato di coscienza, è tra i più produttivi ai fini<br />

dell’’evoluzione personale e costituisce un eccellente modello da interiorizzare.<br />

Che cosa è la mente di gruppo? È una sorta di mente sovraindividuale, più competente,<br />

più flessibile, più intelligente e più saggia della mente individuale di ogni partecipante. La<br />

mente di gruppo costituisce un fondamentale strumento per snidare l’autoinganno. La<br />

partecipazione ad una mente di gruppo, ai fini dell’evoluzione personale, è molto potente,<br />

forse più potente di qualsiasi forma di terapia oggi conosciuta. Essa può promuovere o<br />

accelerare fortemente un processo trasformativo in atto (Scardovelli, 1998, 1999).<br />

Si tratta di un punto di arrivo: un gruppo in genere ha bisogno di molto lavoro per<br />

poter funzionare a tale livello. Diciamo di più: si tratta di un evento molto raro, che talvolta<br />

accade magicamente, ma sembra molto difficile da pilotare. C’è chi si è posto il problema di<br />

svelare tale magia in modo da renderla riproducibile. Attraverso varie operazioni di<br />

modellamento, modellamento di gruppi nei momenti magici di funzionamento e di conduttori<br />

in grado di facilitare questo processo, siamo oggi in grado di accelerare di molto il<br />

raggiungimento di questo obiettivo estremamente auspicabile.<br />

Il modello della mente di gruppo dà un chiaro esempio, concreto e possibile, di cultura<br />

della cooperazione, pacifica e produttiva, che arricchisce tutte le parti implicate.<br />

Portarsi dentro questo modello e farlo lavorare nel rapporto tra l’Io e le nostre parti<br />

interne innesca davvero una rivoluzione interiore. Pone fine al nostro dialogo interno, spesso<br />

vacuo o distruttivo, lasciando al suo posto il silenzio, l’ascolto di sé o una conversazione<br />

pacata e serena, dove nessuna parte cerca di far tacere l’altra, contrastarla o reprimerla.<br />

Quando ciò accade, la conoscenza di noi stessi diventa più profonda. Le nostre parti<br />

124


interne cominciano a svelarsi con più sincerità e trasparenza: non temono il giudizio, il<br />

rimprovero, la repressione. Possono pian piano uscire allo scoperto, allora possiamo<br />

riconoscere la nostra negatività, il sé inferiore, le parti violente, competitive, razziste, che<br />

abitano al nostro interno. Esse per noi non costituiscono più una minaccia. Così può iniziare<br />

un lavoro di trasformazione autentico. 25<br />

Quando un gruppo funziona a livello di mente sovraindividuale, ogni partecipante ha<br />

eccezionali occasioni di ricevere feed-back mirati e costruttivi. La mente di gruppo si<br />

alimenta e cresce attraverso la cultura del feed-back. Quando c’è un sospeso con una persona,<br />

non si va a parlarle dietro le spalle, alimentando la separatività: si può confrontarla in gruppo<br />

o a tu per tu, sicuri di essere accolti e riconosciuti come portatori di un dono prezioso.<br />

I leader, in un gruppo del genere, non sono esenti dal ricevere feed-back su loro stessi,<br />

come persone. Non sono esenti dallo svelare se stessi nel modo più diretto e trasparente<br />

possibile. Anzi, ad essi compete proprio fornire un esempio di recettività e flessibilità. In tal<br />

modo si garantiscono da un grave rischio che corrono tutti i leader: quello di innamorarsi del<br />

potere, alimentando il proprio narcisismo. Se questo accade, la loro leadership non può più<br />

essere evolutiva. La mente di gruppo, nella nostra concezione, da una parte costituisce la<br />

migliore salvaguardia contro questo tipo di inganno, dall’altra favorisce il clima di fratellanza<br />

necessario a superare i numerosi ostacoli che si frappongono sul cammino evolutivo.<br />

La sintonizzazione collettiva accresce in modo esponenziale l’intelligenza ecologica e<br />

creativa: ecologica in quanto frutto di interazione e valorizzazione di numerosi punti di vista;<br />

creativa in quanto sintesi in grado di armonizzarli. Si tratta di un tipo di intelligenza che<br />

coniuga pluralismo e unità: pluralismo delle visioni originali e unità nella visione finale.<br />

La mente di gruppo si forma come conseguenza della sintonizzazione collettiva:<br />

l’empatia corporea e l’ascolto empatico reciproco, in un clima di profonda fiducia, ne sono<br />

premessa indispensabile. Ogni lavoro che venga affrontato in questo contesto diventa più<br />

profondo ed efficace. Cadono le usuali barriere difensive: il gruppo si fa attento, coeso e<br />

recettivo, pronto a ricevere e pronto ad aiutare.<br />

In termini di psicosintesi, un gruppo funziona in tal modo quando tutti i partecipanti si<br />

disidentificano temporaneamente dal proprio ego e si identificano nell’Io o nel sé di gruppo.<br />

Si verifica cioè un cambiamento nello stato di coscienza: si sperimenta uno stato di coscienza<br />

collettivo, gruppale, e nello stesso tempo pienamente rispettoso delle differenze individuali.<br />

Si apprende a riconoscere, accettare e valorizzare le differenze, senza sentirsi<br />

25 Cfr. Pierrakos E., Il male e come trasformarlo, Crisalide, Roma, 1989<br />

125


minacciati o sminuiti: al contrario accorgendosi che da questa esperienza si esce<br />

profondamente arricchiti in ogni senso. Si diventa tutti più creativi, più intelligenti, più capaci<br />

di superare i propri limiti.<br />

Quest’esperienza si accompagna in genere ad un senso di gioia profonda, in quanto<br />

risponde ad un nostro bisogno mai pienamente soddisfatto: quello dell’appartenenza e<br />

dell’unità.<br />

La mente di gruppo e la ricerca.<br />

Dal momento che la mente di gruppo è più intelligente, creativa e più saggia della<br />

mente individuale, in PNL umanistica integrata viene ritenuta un eccellente strumento per fare<br />

ricerca. Anche e soprattutto perché il tipo di intelligenza emergente da una mente di gruppo<br />

tende ad essere ecologica, o, in altri termini, ad essere vera intelligenza.<br />

In che senso vera intelligenza?<br />

Contrapposta a quale falsa intelligenza?<br />

Se per intelligenza intendiamo la capacità di risolvere problemi, ne deriva che vera<br />

intelligenza è quella che porta a vere soluzioni. Ma le soluzioni vere sono per loro natura<br />

ecologiche. Infatti, ogni soluzione non ecologica è una falsa soluzione: essa si limita a<br />

spostare il problema da una zona all’altra o da un livello all’altro.<br />

Se, come imprenditore, mi arricchisco a scapito dell’ambiente, non posso considerare<br />

la mia un’impresa intelligente: io non produco vera ricchezza, perché altri, magari in futuro,<br />

dovranno pagare al mio posto. Per considerare intelligente la mia impresa devo<br />

necessariamente collocarmi in un’ottica miope ed egocentrica: io divento più ricco, questo è<br />

importante; gli altri si impoveriscono, questo non è importante. La logica egocentrica si fonda<br />

sulla separatività: io sono un’entità completamente staccata dagli altri, posso quindi<br />

manipolarli o eventualmente utilizzarli a mio solo vantaggio. Gli altri diventano semplici<br />

oggetti. La separatività cancella e nega l’azione di ritorno, nega la legge del causa-effetto: io<br />

posso fare del male e non riceverne: ciò dipende unicamente dalla mia astuzia e dalla mia<br />

furbizia.<br />

La furbizia: ecco il valore essenziale, il valore sotteso a questa logica egocentrica,<br />

separativa e competitiva. La furbizia consente di farla franca, di sfruttare gli altri e di non<br />

pagare i debiti contratti.<br />

L’astuzia diventa così sinonimo di intelligenza. Ma in realtà è una falsa intelligenza:<br />

anzi, è una vera e propria forma di stupidità spesso apprezzata e culturalmente diffusa.<br />

Persino la ricerca scientifica non è immune da questa forma di stupidità. La separatività nella<br />

126


scienza, apparentemente così produttiva, sta producendo un danno incalcolabile. 26 La<br />

separatività nella politica produce un incredibile spreco di risorse e perpetua l’oppressione dei<br />

più ricchi e potenti sui più poveri e indifesi. La separatività nell’economia ha generato dei veri<br />

mostri, imprese in grado di produrre immensa ricchezza per alcuni, disoccupazione e<br />

disperazione per moltissimi. I manager più pagati sono quelli che licenziano di più: mille,<br />

cinquemila, ventimila dipendenti.<br />

La stupidità ecologica è uno stato di coscienza perverso e tremendamente diffuso.<br />

Oggi urge più che mai sviluppare un tipo di ricerca, un tipo di scienza, un tipo di<br />

psicologia, un tipo di economia e di politica, che si fondino su un nuovo stato di coscienza. 27<br />

All’intelligenza-astuzia, alla falsa intelligenza, va sostituita un’intelligenza-saggezza. La<br />

mente di gruppo è uno strumento privilegiato per rendere attuabile questa trasformazione.<br />

La mente di gruppo, come stato di coscienza allargato, è la più adatta a trovare<br />

soluzioni vere a problemi insolubili in un ordinario stato di coscienza ristretto. Essa, per<br />

definizione, comprende in sé, simultaneamente, differenti punti di vista, diverse visioni e,<br />

nello stesso tempo, una visione allargata che li considera tutti.<br />

Leadership evolutiva.<br />

L’uomo contemporaneo è attraversato, al suo interno, da un conflitto lacerante tra<br />

almeno tre differenti modelli di etica: l’etica autoritaria, tradizionale, fondata sulla gerarchia,<br />

sullo sfruttamento e sul potere dominio; l’etica mercantile, alla base del cosiddetto pensiero<br />

unico, che considera esclusivamente il valore di scambio e si fonda sulla modalità<br />

dell’avere 28 ; l’etica umanistica, che pone al centro la persona, la sua autorealizzazione e i<br />

valori dell’essere (Scardovelli, 2002). Le prime due etiche sono responsabili dell’attuale<br />

degrado e difficoltà in cui versa l’ambiente e la società umana; la terza costituisce l’unico<br />

reale fondamento di un cambiamento di rotta.<br />

Attualmente uno degli impegni maggiori è formare trainer o leader capaci di facilitare<br />

la mente di gruppo nei più differenti contesti (scuola, formazione, lavoro, ecc.), allo scopo di<br />

26 Cfr. Wilson E. O., L’armonia meravigliosa, Mondadori, Milano, 1998<br />

27 Cfr. Walsh R., Ecologia della mente e sopravvivenza, Cittadella, Assisi, 1984<br />

28 Cfr. Fromm E., Avere o essere?, Mondadori, Milano, 1976<br />

127


diffondere i principi dell’etica umanistica e promuovere un’autentica cultura della pace. Per<br />

questo si richiede ad essi un forte impegno personale, al fine di sciogliere le zone d’ombra,<br />

trasformare il proprio carattere e sviluppare le necessarie qualità dell’essere, quali<br />

l’amorevole gentilezza, la compassione, l’empatia nella gioia, la trasparenza, la fratellanza. 29<br />

Per contro, la cultura del nazifascismo, che ha educato una generazione al culto del<br />

Guerriero, ha prodotto effetti nefasti, all’insegna della paura e dell’obbedienza agli ordini.<br />

Le domande da porsi restano ancora aperte: come possiamo evitare che l’umanità<br />

ricada nello stesso baratro devastante? La libertà e la democrazia non si esportano attraverso<br />

la guerra, bensì con l’informazione, la cultura, la propaganda, la collaborazione economica.<br />

L’Europa ha una strategia alternativa alla guerra preventiva? Tra Italia e USA è<br />

necessario un nuovo ponte, che connetta l’intera Europa al suo interlocutore privilegiato.<br />

L’Italia sembra la più attrezzata politicamente e culturalmente per costruire questo ponte, per<br />

le sue radici comuni e i valori condivisi con la civiltà statunitense.<br />

Questo libro intende fornire la risposta all’interrogativo concernente la necessità o<br />

meno di una guerra per dirimere le contese e opporsi al terrorismo: creando una cultura<br />

alternativa, educando i giovani fin da piccoli a distinguere tra il Guerriero negativo e quello di<br />

livello più elevato e ponendo i traguardi di crescita nei livelli più elevati, soprattutto nelle<br />

dimensioni<br />

archetipiche del Viaggio dell’Eroe, come il Cercatore, proiettato nella ricerca di significato<br />

della vita e del suo vero sé, che si pone come compito l’essere fedele ad una verità più<br />

profonda o più alta; il Distruttore, che si pone come traguardo la crescita, la metamorfosi, ma<br />

per fare questo deve essere iniziato ad un livello superiore dell’essere e “distruggere” almeno<br />

in parte ciò che lo tiene legato al passato, impedendogli un salto qualitativo; l’Amante, che ha<br />

come traguardo la felicità, il sentirsi uno in sé e con gli altri e come compito di impegnarsi nei<br />

confronti di ciò che ama; il Creatore, che si pone come traguardo la creazione di una vita, di<br />

un lavoro o di una nuova realtà quale che sia e come compito l’autocreazione e<br />

l’autoaccettazione.<br />

In questa linea di crescita o evoluzione personale spiccano i modelli che appartengono<br />

in gran parte alla cosiddetta psicologia umanistica.<br />

29 Cfr. Scardovelli M., PNL umanistica integrata e la mente di gruppo; in Strategie, n. 2, maggio-agosto 2003, pp. 18-20<br />

128


Il paradigma umanistico.<br />

La psicologia umanistica, detta anche terza forza, per distinguerla dal<br />

comportamentismo da una parte e dalla psicoanalisi dall’altra, ha origine negli Stati Uniti.<br />

L’elemento comune di questo movimento è la concezione dell’essere umano: non più<br />

determinato dall’ambiente (comportamentismo) o dai suoi istinti e impulsi (psicoanalisi),<br />

bensì soprattutto orientato verso uno scopo, lo scopo della sua attualizzazione. Il passato è<br />

importante, l’ambiente è importante, ma decisiva risulta la spinta evolutiva verso la<br />

realizzazione di sé e delle proprie potenzialità. Importante soprattutto diventa la presa di<br />

coscienza del proprio progetto di vita che fornisce senso all’esperienza della vita stessa.<br />

Autori come Maslow, Rogers, Assagioli, tutti concordano nell’attribuire grande risalto alla<br />

tendenza attualizzante insita nell’essere umano.<br />

Da questa concezione derivano grosse innovazioni nell’ambito della pratica<br />

terap<strong>eu</strong>tica: centrale diventa il tema dell’ascolto e dell’esplorazione di sé consentita dalla<br />

presenza di una relazione empatica. Non si tratta tanto di decondizionare e ricondizionare il<br />

paziente, né di fornirgli interpretazioni che attivino i suoi insight, bensì di offrirgli un contesto<br />

di opportunità, caldo, empatico e accogliente, che favorisca la sua autoesplorazione,<br />

l’autoascolto e il contatto con il sé profondo. La convinzione è che ogni persona abbia dentro<br />

di sé tutte le risorse per risolvere i propri problemi. Si tratta pertanto di facilitare nel cliente la<br />

riscoperta delle sue risorse, oltre che l’espressione e lo scioglimento della sua negatività, in un<br />

contesto di accettazione incondizionata.<br />

Temi ricorrenti nell’ambito della psicologia umanistica sono pertanto quelli del totale<br />

rispetto, della profonda accettazione, della stima, della valorizzazione dell’altro. Contatto con<br />

i propri veri sentimenti, spontaneità, congruenza, intimità diventano elementi chiave per<br />

valutare il percorso terap<strong>eu</strong>tico o il percorso di crescita personale. Crescita o evoluzione<br />

personale: ecco la comparsa di un concetto in parte nuovo. Dal momento che l’essere umano<br />

tende per sua natura ad evolvere e ad attualizzarsi, ne consegue che la terapia viene<br />

considerata solo uno dei contesti che possono facilitare questa trasformazione. Si preferisce<br />

pertanto evitare l’uso di termini come terap<strong>eu</strong>ta e paziente, sostituendoli con altri come<br />

facilitatore e facilitato o cliente. Inoltre si sperimentano vari modelli di terapia di gruppo, in<br />

cui le persone imparano a facilitarsi l’un l’altro.<br />

Nell’ambito della psicologia umanistica, sin dal suo esordio, cominciano a diffondersi<br />

corsi di formazione non diretti specificamente a terap<strong>eu</strong>ti, ma a persone comuni. Tutti<br />

possono beneficiare di questi seminari per la propria evoluzione personale e per imparare a<br />

facilitare gli altri nel proprio cammino. La psicologia tende a porsi al servizio dell’utente nel<br />

129


modo più diretto possibile, diventando psicologia di base. Lo specialismo si avvale di questo<br />

nuovo rapporto con gli utenti responsabili per confrontarsi e arricchirsi di nuove prospettive.<br />

L’apertura al transpersonale.<br />

All’interno di questo quadro di riferimento, ci sono autori come Maslow e Assagioli<br />

che considerano la spiritualità e la trascendenza aspetti connaturali dell’esperienza umana. In<br />

altri termini, l’evoluzione dell’uomo passa attraverso vari stadi: individuazione e<br />

autoaffermazione (caratterizzate da forte spinta competitiva), autorealizzazione (caratterizzata<br />

dall’attenzione al pieno sviluppo delle proprie potenzialità), e infine autotrascendenza<br />

(caratterizzata dal forte senso di appartenenza ad una comunità più vasta, per il cui bene si<br />

agisce). Questi autori, insieme ad altri, vengono oggi considerati fondatori della cosiddetta<br />

quarta forza, detta anche psicologia transpersonale. La psicologia umanistica e ancor più la<br />

psicologia transpersonale creano le premesse per un’etica su base scientifica: la profonda<br />

conoscenza dell’uomo mette in luce la sua tendenza evolutiva, spesso non realizzata, a vivere<br />

in conformità al bene comune. In altre parole, l’uomo ha in sé la scintilla divina o coscienza<br />

superiore che può renderlo creatore di un mondo armonioso e giusto. La sfida diventa allora<br />

quella di facilitare l’evoluzione di ognuno, in modo che la tendenza alla separazione, al<br />

conflitto e alla lotta lasci posto all’emergere del senso di unità, di appartenenza e fratellanza.<br />

Il contributo della PNL.<br />

La PNL, come modello per lo studio dell’esperienza soggettiva, ha tra i suoi compiti<br />

anche quello di favorire la crescita personale oltre al livello di identità, o livello<br />

transpersonale. Ci sono altri modelli psicologici già orientati in questa direzione: ad esempio<br />

la psicosintesi, l’enneagramma, la corenergetica, il movimento del sentiero ecc. In che modo<br />

la PNL può dare il suo contributo? Accelerando il processo di evoluzione personale, che passa<br />

attraverso la trasformazione della negatività. Tecniche come il cambio di storia, il<br />

reimprinting, la ristrutturazione, le recenti tecniche per far crescere le parti ecc., sono<br />

particolarmente efficaci e adatte al compito di rimuovere gli ostacoli al naturale processo di<br />

evoluzione personale.<br />

La PNL non è una tecnica spirituale, come la preghiera o la meditazione, ma raccoglie<br />

e sintetizza quanto di meglio le psicoterapie occidentali hanno prodotto nel campo della<br />

pulizia dell’inconscio inferiore e medio. Noi condividiamo con la psicosintesi e altre forme di<br />

130


psicoterapia l’idea che tale pulizia sia necessaria per accedere ad un autentico livello<br />

transpersonale. Lavorare solo sui livelli alti, trascurando i livelli più bassi, storicamente è stata<br />

una delle ragioni del fallimento concreto di molti movimenti che si ponevano obiettivi di<br />

crescita spirituale, comprese molte religioni. Analogo discorso rischia di essere<br />

profondamente vero anche per i movimenti pacifisti e ecologisti: porsi obiettivi di<br />

trasformazione del mondo esterno senza lavorare contemporaneamente per far evolvere ed<br />

allineare il proprio mondo interno, è probabilmente una delle utopie più dure a morire.<br />

Come hanno da sempre insegnato i grandi maestri dell’umanità, il vero cammino<br />

spirituale lo si misura non nel cielo, ma qui sulla terra, nel modo in cui ci rapportiamo con gli<br />

altri giorno per giorno, nel modo in cui abbandoniamo il nostro egocentrismo e diventiamo<br />

sensibili alla sofferenza che ci circonda (compassione), smettiamo di riprodurla (innocuità) e<br />

ci diamo da fare per alleviarla (cura). Illuminazione è la scoperta e l’esperienza che la<br />

sofferenza di qualsiasi persona è anche la nostra sofferenza, in quanto facciamo tutti parte di<br />

un organismo più grande.<br />

Occorre davvero aiutare il cammino spirituale, favorendo il riconoscimento e la<br />

trasformazione della nostra ombra e facilitando il contatto e la crescita di quelle parti interne<br />

che ostacolano l’integrazione e l’evoluzione personale. È opportuno sciogliere vecchi nodi<br />

emozionali, cui si sono ancorate saldamente antiche convinzioni e decisioni egocentriche e<br />

disfunzionali. La PNL può insegnarci a ricevere e dare feedback in modo costruttivo, cosicché<br />

impariamo ad interconnetterci in modo più sano e felice. Può farci sperimentare il<br />

collegamento tra i nostri singoli comportamenti e i livelli più alti, fino all’identità e alla<br />

missione, cosicché possiamo più facilmente procedere al nostro allineamento interno. Può<br />

darci l’opportunità di definire obiettivi e metaobiettivi ecologici e ben formati, scoprendo ed<br />

eliminando false aspirazioni e fasi desideri. Può fare tutto questo. Ma la capacità degli esseri<br />

umani di autoingannarsi, la capacità di sostenere un’idea e immediatamente dopo<br />

disconfermarla con i fatti, la capacità di costruire brillanti teorie a giustificazione delle azioni<br />

meno nobili, è talmente grande e sorprendente che, se vogliamo essere davvero onesti,<br />

dobbiamo riconoscerla e prevenirla. Non possiamo essere così ingenui da pensare che la PNL<br />

di per sé ce ne renda immuni. La storia della PNL, come infinite altre storie, è la storia dei<br />

dissidi interni, dei conflitti insanabili, delle scissioni inspiegabili, delle persone che parlano<br />

male le une delle altre in nome del bene comune.<br />

131


Nella nostra società della mente, come nella società esterna, il cammino evolutivo<br />

verso forme di rapporti ecologici, rispettosi e cooperativi è spesso molto difficile. La tendenza<br />

all’autoinganno è universalmente diffusa. 30<br />

Per smascherare e prevenire l’autoinganno è stata elaborata la metafora del Viaggio<br />

dell’Eroe o Eroina.<br />

30 Cfr. Sardovelli M., PNL umanistica integrata e la mente di gruppo; in: Strategie, op. cit. pp. 15-17<br />

132


CAPITOLO III<br />

LA POLITICA SOCIALE DELL’EUROPA<br />

IL VIAGGIO DELL’EROE O EROINA<br />

INCENTRATA SULL’IDENTITA’<br />

Il Viaggio dell’Eroe o Eroina viene spesso considerato una preparazione a quello che<br />

un tempo veniva designato come “comando”, ma che oggi indichiamo meglio come<br />

leadership, consistente “nel saper creare un mondo al quale le persone desiderino<br />

appartenere”, secondo la definizione di Gilles Pajou.<br />

Nei miti classici del Re Pescatore, il regno appare come una landa desolata in quanto il<br />

re è ferito o sofferente. Il giovane Eroe parte per un’impresa, uccide il drago e trova un tesoro<br />

che ridà vita a una cultura morente. In seguito al ritorno dell’Eroe, il regno si trasforma e<br />

torna a vivere una volta ancora, mentre il giovane Eroe diventa il nuovo Sovrano. Fuori<br />

metafora, nella misura in cui abbiamo dimenticato questo modello e vediamo la preparazione<br />

al “comando” come un semplice fatto di sviluppo di abilità, il governo del nostro regno<br />

soffrirà. Allora ci saranno i “partiti di plastica”, la tecnocrazia e l’Europa monetaria ed<br />

economica senza identità. La “morale” del mito è che nessuno può diventare un leader<br />

veramente grande senza prima aver intrapreso il Viaggio.<br />

Anche nel mondo scientifico bisogna distinguere i sovrani dai padroni. Le baronie<br />

presenti nelle università italiane, negli istituti di ricerca e negli ospedali costituiscono una<br />

chiara testimonianza del fenomeno “patronato”. Sette mila giovani italiani ogni anno vanno a<br />

lavorare all’estero nei laboratori di ricerca: fisici, matematici, biologi, medici. Gli scienziati<br />

italiani sono tra i più ricercati all’estero e ciò significa che la scuola funzione bene. Rita Levi<br />

Montalcini, che ha lavorato negli USA come medico ricercatore, il 14 gennaio 2004 ha<br />

dichiarato al telegiornale che negli USA c’è “senso del merito e non dell’appartenenza a<br />

gruppi di potere. In Italia sono i vecchi che comandano, non i giovani”. Un Paese vecchio,<br />

strutturato in caste di potere, non dà spazio alla creatività e resta arretrato anche sul piano<br />

dell’innovazione, della competitività.<br />

La classe dirigente che è al potere per fare le riforme e non per fare il mestiere della<br />

133


politica, dovrebbe occuparsi anche di questo scottante problema, che confina l’Italia alla<br />

marginalità scientifica.<br />

Sovrani o padroni?<br />

Nel nostro tempo, sottolinea Pearson, noi diventiamo Sovrani assumendoci la<br />

completa responsabilità della nostra vita, “non solo della nostra realtà esteriore, ma anche del<br />

modo in cui il mondo esterno riflette tale realtà. Questo comprende i modi in cui la nostra vita<br />

individuale si riflette sulla famiglia, sulla comunità e sulla società cui apparteniamo. Quando<br />

con tutta probabilità abbiamo finito con lo stare troppo comodi e abbiamo smesso di crescere,<br />

il nostro regno assume l’aspetto di un deserto; dobbiamo a quel punto permettere alla nuova<br />

vita - il nuovo Eroe - che si affaccia dentro di intraprendere un nuovo Viaggio”. 1<br />

Alla luce delle precedenti riflessioni sullo scambio dei ruoli, è importante chiedersi in<br />

che misura le nostre Eroine di oggi possano portare il loro contributo alla trasformazione di<br />

una cultura morente.<br />

Una politica sociale dell’Europa focalizzata sull’identità non può ignorare i problemi<br />

sollevati dalla tutela dei più deboli, in tutte le forme che essa può assumere.<br />

In un importante momento storico caratterizzato dalla modifica della Costituzione, in<br />

cui è stata riconosciuta la piena autonomia delle regioni nella programmazione del sociale, è<br />

importante riuscire a far condividere obiettivi omogenei da tutte le regioni, anche in vista di<br />

importanti stanziamenti in continuo aumento previsti dal Governo. È importante portare i<br />

servizi sociali vicino a chi ha bisogno. Nelle priorità, una politica che si adegui al<br />

cambiamento della società, prevede i servizi per i più deboli: giovani, anziani, disabili,<br />

tossicodipendenti, emarginati in genere. Tenendo presenti gli obiettivi di crescita e autonomia<br />

dell’individuo, si può operare in direzione “evolutiva”.<br />

Dove le circostanze lo consentono, si estrinsecherà come sollecitazione della crescita a<br />

livelli evolutivi superiori, perché non è detto che il debole vada protetto affinché resti debole,<br />

in modo da consentire a chi se ne occupa di assumere il ruolo di Eroe-protettore. Ci sono<br />

situazioni in cui lo stimolo a rischiare e a crescere può mettere il più debole in condizioni di<br />

rafforzarsi e di diventare autonomo, in modo da non dipendere dalle cure dei protettori.<br />

La tutela degli indifesi si esprime anche come difesa della vita in germe, che viene<br />

percepita dalla donna come “creatura vivente” e non come “ammasso informe di cellule”.<br />

1 Pearson C. S., Risvegliare l’eroe dentro di noi, op. cit. p. 200<br />

134


Posso portare una testimonianza - una delle tante - in cui una giovane di 32 anni, ricordando<br />

l’esperienza dell’aborto a cui è ricorsa a 22 anni, si esprime in questo modo: “Lo vivo<br />

(l’aborto) con senso di colpa. Prima di abortire era incoscienza, paura. Mi è arrivato addosso<br />

senza che mi rendessi conto. Pensavo che non mi sarebbe mai capitato di restare incinta e di<br />

dover abortire. All’inizio è stato un sollievo, poi ho cominciato a razionalizzarlo. È una<br />

macchia che ti porti dentro, che non si può cancellare, né giustificare. È meglio portarsi dietro<br />

il dolore, anziché addossarlo ai bambini. Secondo me, non avrò bambini ... Bisogna essere<br />

tranquilli, forti, liberi da pregiudizi e dispiaceri che hai. Devi prenderti la<br />

responsabilità, devi avere qualcosa da dargli. (Il figlio) deve avere il papà giusto, che voglia i<br />

bambini . Mauro (il ragazzo con cui vive attualmente) è egoista. È rimasto a sua volta scottato<br />

da quando a 22 anni ha messo incinta una ragazza di 17 anni con cui si era appena messo<br />

assieme e i genitori di lei hanno dovuto firmare per ottenere l’aborto. Si sono lasciati dopo<br />

otto anni, ma lei gli ha rinfacciato di averla messa incinta”.<br />

Come traspare dalle parole di questa giovane donna, l’aborto non viene cancellato<br />

dalla memoria e viene vissuto con senso di colpa, anche se questa scelta appare<br />

nell’immediato come un “sollievo”. Poi subentra il dolore per la perdita della vita che la<br />

donna porta dentro di sé, anche se viene razionalizzata come “male minore” rispetto al male<br />

che si può arrecare ad un bambino facendolo nascere senza essere preparati per crescerlo.<br />

Dopo aver abortito, questa giovane sognava spesso di avere il bambino in braccio senza viso,<br />

oppure “lo vedevo e sentivo la pancia grande come se fosse dentro”.<br />

È importante sottolineare che questa testimonianza non appartiene ad una cattolica<br />

praticante, ma semplicemente ad una ragazza per cui il valore della vita non è l’ultimo nella<br />

scala dei valori e credo che la maggior parte delle donne abbia una scala in cui certamente<br />

questo valore non sarebbe collocato all’ultimo gradino.<br />

Pertanto, la salvaguardia della vita non ha attinenza con il fatto di essere religiosa e/o<br />

praticante, ma semplicemente con la percezione di essere una donna che ha in sé la capacità di<br />

generare la vita. D’altronde, ho potuto constatare che l’aborto non lascia indifferenti neppure i<br />

“padri mancati”, che subiscono un contraccolpo a volte traumatico, con strascichi depressivi<br />

che durano a lungo e vengono alla luce in psicoterapia.<br />

Un ragazzo di 25 anni, la cui ragazza ha avuto un aborto a 19 anni, mi confidava<br />

commosso: “Il senso della vita ... ho scherzato con certe cose ... sono stato superficiale.<br />

Adesso mi sento ... è come se avessi perso ... messo 500 kg. sulla testa. La mia vita è<br />

cambiata. I mesi successivi ero tremendamente depresso ... Sento di avere sbagliato; mi sento<br />

in colpa”.<br />

135


Qualcun altro è rimasto “traumatizzato” dal fatto che la ragazza ha deciso di abortire<br />

senza avvertirlo.<br />

Ho aiutato varie donne nella difficile fase in cui dovevano decidere se tenere o no il<br />

bambino e quasi tutte, superato il momento delicato dello smarrimento, si sono orientate verso<br />

la maternità, se riuscivano a vedere una possibilità di provvedere al bambino. A distanza di<br />

tempo, sono rimaste contente della loro scelta.<br />

Essere Eroine può quindi significare adoperarsi per tutelare la vita e i più deboli e<br />

diffondere una cultura di adesione ai valori fondamentali della vita e di protezione e crescita<br />

dei più deboli, affinché si evolvano fino ai gradini più alti di crescita nel Viaggio dell’Eroe.<br />

L’archetipo del Sovrano nella nostra vita.<br />

Come sottolinea Pearson, “il Sovrano è il simbolo della completezza e del<br />

raggiungimento del Sé, non solo nei suoi stadi sperimentali e formativi, ma come espressione<br />

della nostra identità nel mondo, un’espressione abbastanza potente da trasformare la nostra<br />

vita, dentro e fuori. Il Sovrano è intero e completo, in quanto l’archetipo unifica il sapere della<br />

giovinezza a quello dell’età matura, tenendoli in tensione dinamica. Quando questa tensione si<br />

rompe e ne consegue uno squilibrio, occorre intraprendere un nuovo viaggio, conquistare un<br />

nuovo tesoro che possa trasformare ancora una volta il regno”. 2<br />

Quando dentro di noi è in funzione il Sovrano, siamo integrati, completi e pronti ad<br />

assumerci la responsabilità della nostra vita. Il nostro regno ci riflette e guardandoci attorno<br />

possiamo vedere noi stessi. Ad esempio, se il nostro regno è arido e sterile, è perché riflette<br />

l’aridità e la sterilità che è dentro di noi. Se viene continuamente attaccato e invaso, vuol dire<br />

che il nostro Guerriero non ne protegge i confini e occorre che il Sovrano mobiliti le truppe.<br />

Se il nostro regno è inospitale e aggressivo, è perché il nostro Angelo custode non è<br />

abbastanza sollecito e operante. Il Sovrano deve occuparsi di tutte le carenze connesse ai<br />

problemi del suo regno. Viceversa, quando il regno fiorisce, è indice di integrazione, armonia,<br />

equilibrio tra le parti. Il Sovrano è l’archetipo della prosperità materiale. Suo compito è<br />

promuovere l’ordine, la pace, la prosperità e l’abbondanza. “Ciò significa un’economia sana,<br />

leggi sane che vengono rispettare e corroborate, un ambiente che promuove lo sviluppo di<br />

ciascun individuo, un saggio uso delle risorse, tanto umane che materiali”. 3<br />

2 Ibidem p. 200<br />

3 Ibidem p. 201<br />

136


Quando nella nostra vita è all’opera l’archetipo del Sovrano, apprezziamo il processo<br />

dell’esprimere la nostra identità nell’ambito del lavoro, della casa, del denaro e dei beni<br />

materiali. E abbiamo una certa fiducia nella nostra capacità di cavarcela. Il Sovrano è un<br />

realista che non può permettersi di avere illusioni. In effetti, deve comprendere la politica del<br />

potere e interpretarla correttamente. Non può farsi illusioni circa la minaccia rappresentata dai<br />

nemici. Poiché il bravo Sovrano comprende anche la connessione tra interno ed esterno, fra<br />

Re/Regina e il regno, non può farsi illusioni neppure sul proprio conto. Deve conoscere il<br />

proprio Sé Ombra ed essere pronto ad assumersene la responsabilità.<br />

A questo proposito, è utile richiamare le parole del Vangelo, che ci illuminano sul<br />

significato del potere: (Matteo, 20, 25-28).<br />

Pertanto, chi vuole intendere il potere in senso evoluto, quale compimento della<br />

propria umanità, dovrà rendersi disponibile agli altri con umiltà e semplicità, assumendo in sé<br />

le caratteristiche del maschile e del femminile, in una armonica integrazione.<br />

“L’archetipo del Sovrano abbraccia non soltanto gli estremi della giovinezza e della<br />

maturità, ma anche quelli del maschile e del femminile. Il Sovrano androgino è simbolo del<br />

completamento del processo della trasformazione alchemica. [...] I vari procedimenti chimici<br />

che separano l’essenza dell’oro (o spirito) dagli elementi inferiori (o materia) corrispondono<br />

agli stadi del Viaggio spirituale dell’Eroe dalla realtà accettata, dominata dall’Io, al dinamico<br />

regno dello Spirito. Lo stadio finale - simboleggiato dalla regalità, dall’oro, dal sole - significa<br />

la felice capacità di esprimere la realtà dello Spirito manifestandola nella realtà della<br />

materia”. 4<br />

L’archetipo del Sovrano è androgino e include sia il maschile che il femminile. Per<br />

comprendere meglio questo punto, è opportuno precisare che secondo una ricerca svolta nella<br />

California del Nord dalla psicologa e psicoterap<strong>eu</strong>ta Helen Wambach 5 si rinasce mediamente<br />

in corpi maschili e femminili nella stessa proporzione. Potremmo concludere con una frase<br />

di Manuela Pompas: ...”non è l’anima ad avere una polarità sessuale - anzi essa le<br />

4 Ibidem p. 200<br />

5 Wambach H., Vita prima della vita, Ed. Mediterranee, Rome, 1991.<br />

137


possiede entrambe, è androgina - ma solo il corpo, che tra l’altro fino ai primi mesi di vita<br />

prenatale contiene in sé la possibilità di assumere entrambe le caratteristiche sessuali,<br />

determinate poi dai cromosomi” 6 .<br />

In tale prospettiva, quindi, anche l’omosessualità, se non vissuta con forti sensi di<br />

colpa e disagi psichici e fisici, diventa parte integrante di un lungo percorso di crescita<br />

spirituale che riguarda ogni essere umano. Ciò non giustifica la diffusione del fenomeno<br />

attraverso l’assunzione di una presunta “normalità” che incoraggerebbe gli “esitanti” a<br />

sperimentarlo, ma nemmeno la sua stigmatizzazione o condanna moralistica e<br />

colpevolizzante. Il fenomeno, ovviamente, va distinto dalla pedofilia, autentica “perversione”<br />

che semina sofferenza e gravi disturbi psichici nelle “vittime”.<br />

Il Sovrano come archetipo ha a che fare con l’affermazione del nostro potere di bene e<br />

di male. Molti hanno paura degli archetipi più potenti, in particolare di quello del Sovrano,<br />

perché la loro capacità di male è altrettanto grande di quella di bene. Un tempo si riteneva che<br />

solo poche persone fossero in grado di intraprendere il Viaggio e di diventare Sovrani della<br />

propria vita.<br />

Nel periodo medioevale la gente credeva nel diritto divino dei Re e delle Regine<br />

ritenendoli in grado di ascoltare e parlare per conto di Dio. Gli altri dovevano semplicemente<br />

essere obbedienti ai loro ordini. Tuttavia, “i Sovrani che non erano in tale relazione con la<br />

sapienza divina o il cui egotismo e la cui arroganza erano più forti dell’insegnamento si sono<br />

resi responsabili di grandi abusi di potere, ma se noi governiamo come gli antichi Sovrani che<br />

erano anche iniziati alle grandi scuole dei misteri, non prenderemo decisioni sull’esclusiva<br />

base delle esigenze dei capricci del nostro Io. Ci consulteremo in permanenza col nostro<br />

Spirito. Via via che impareremo a vivere in una maniera che riflette la nostra conoscenza più<br />

intima e profonda, vivremo diversamente, e nel momento in cui vivremo diversamente, la<br />

nostra vita creerà un effetto onda che influenzerà tutti gli altri regni attorno a noi” 7 .<br />

“Poca scienza allontana da Dio, molta scienza riconduce a Lui”, ha detto una volta<br />

Louis Past<strong>eu</strong>r. In effetti, chi sa molto, sa anche quanto non sa e quindi è aperto al mistero. Chi<br />

sa poco, ma è convinto di sapere tutto, non ammette misteri. Poca scienza allontana da Dio in<br />

quanto è accompagnata da molta presunzione.<br />

“Stato laico” non significa sbarazzarsi dell’idea di Dio o assumere la dea Ragione<br />

della Rivoluzione Francese.<br />

6 Pompas M., La terapia R.., Mondadori, Milano, 1997, p. 86<br />

7 Ibidem p. 203<br />

138


Significa non sovrapporre il potere politico a quello religioso, usando la religione per<br />

essere più efficaci politicamente. Lo “stato laico” è uno stato democratico che si basa sul<br />

rispetto dei diritti umani tra cui - vista l’attualità dell’argomento della procreazione assistita -<br />

il diritto alla vita e il riconoscimento dell’identità biologica dell’embrione che contiene in sé<br />

fin dal concepimento il programma in base al quale si svilupperà l’individuo concreto. Tutti<br />

noi siamo stati quell’embrione, che viene ora congelato o buttato via quando non serve più.<br />

Il Sovrano crea un regno di pace e di armonia diventando pacifico e armonioso al suo<br />

interno. La filosofia per cui il mondo interiore e quello esteriore si riflettono a vicenda è anche<br />

alla base dei grandi miti, in particolare per quanto riguarda il rapporto del Re o Regina col suo<br />

regno. Quando nella nostra vita è alla guida il Sovrano, abbiamo la possibilità di vederci come<br />

sovrani dei nostri regni e di agire in maniera tale da far diventare la nostra vita esattamente<br />

come vogliamo che sia.<br />

Il narcisista è per definizione autocentrato, non ascolta, non empatizza con gli altri. È<br />

quindi certamente inadeguato a promuovere la loro evoluzione ed è naturalmente<br />

incompetente a generare quel clima di sinergia necessario a formare un gruppo produttivo e<br />

una mente di gruppo. In termini buddhisti, i leader narcisisti sono preda del demone del<br />

potere 8 .<br />

Nella Bibbia sta scritto “ama il prossimo tuo come te stesso”. Traducendo in termini<br />

psicologici, solo quando riusciamo a diventare un buon genitore per noi stessi, generalmente<br />

guarisce anche il bambino interiore e siamo in grado di essere dei buoni genitori e “terap<strong>eu</strong>ti”<br />

per gli altri. Ma se non arriviamo ad amarci dando a noi stessi quello che diamo agli altri,<br />

finiamo per inacidirci ed essere dei “frustrati”, ambiziosi e arroganti o aspri, maligni,<br />

denigratori, velenosi e corrosivi.<br />

“Tutti i buoni monarchi e leader politici - prosegue Pearson - si identificano nel bene<br />

della collettività, e armonizzano i desideri e le aspirazioni personali con i bisogni degli altri.<br />

Nel decidere ciò che vogliono per sé, pensano anche al più vasto bene sociale. Se non<br />

vogliamo essere meschini tiranni, demagoghi, galoppini della politica o opportunisti,<br />

dobbiamo allargare la mente e il cuore ad abbracciare un senso più vasto della nostra sfera di<br />

influenza” 9 .<br />

8 Cfr. Ikeda D., La vita: mistero prezioso, Sonzogno, Milano, 1982<br />

9 Ibidem p. 203<br />

139


Qualcuno ha osservato che l’unico vero realista è il visionario. Il vero realismo del<br />

Sovrano corrisponde all’attuazione pratica di strategie di altissimo livello e ad una visione<br />

illuminata di sé, degli altri e del mondo. Ma un Io ipertrofico può slittare verso la perdita del<br />

senso della realtà, sotto la spinta di una megalomania che porta a credere di essere i padroni<br />

del mondo. Hitler perse il senso della realtà, pungolato da un’illimitata sete di potere, quando<br />

decise di assumere il comando della Wehrmacht e si mise in conflitto con i suoi generali<br />

dando disposizioni che contrastavano con la realtà dei fatti, che i suoi generali coglievano<br />

molto meglio di lui, essendo sul campo di battaglia, mentre Hitler non si mosse quasi mai dal<br />

suo quartier generale, dall’inizio della seconda guerra mondiale.<br />

I Sovrani che perdono il senso della realtà diventano pericolosi, perché portano il<br />

popolo alla rovina.<br />

Se il Sovrano crea un regno di pace e di armonia, come abbiamo constatato nel corso<br />

dell’esposizione, la dimensione archetipica dell’Orfano e del Guerriero, quando radicalizza la<br />

sua posizione, porta alle ideologia e alle terribili conseguenze che abbiamo descritto.<br />

Intervistato da Bruno Vespa alla trasmissione “Porta a porta” del primo dicembre<br />

2003, il vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini ha ribadito che bisogna “farsi carico<br />

della storia”. L’articolo sulle leggi razziali che dice “gli ebrei sono stranieri e appartengono ad<br />

una razza nemica” fa parte di una pagina assolutamente infame della storia italiana. Gli<br />

italiani non reagirono alle infami leggi razziali.<br />

Non reagire oggi equivarrebbe a “strizzare l’occhio” all’antisemitismo. Alleanza<br />

Nazionale come custode dei valori nazionali deve fare i conti con questo interrogativo: il<br />

passato storico è un peso o un elemento di identità? Se è un peso, dobbiamo liberarcene. In<br />

Italia il dopoguerra è durato sessant’anni.<br />

Lo stesso discorso vale per il nazismo. Mio figlio, in terza elementare, osservò: “I<br />

tedeschi sono nazisti”. Gli ho fatto visitare la Germania e conoscere la sua storia attraverso i<br />

racconti delle guide, per fargli comprendere che la Germania non equivale a quel nazismo<br />

durato dodici anni che gli è stato presentato nei documentari storici. La Germania va oltre il<br />

nazismo, con una storia che affonda le radici nella cultura dei popoli che in parte entrarono a<br />

far parte dell’Impero Romano.<br />

Per scrollarsi da dosso il retaggio del passato, bisogna incontrare quello stesso passato<br />

e dichiarare a se stessi e agli altri che non ci identifichiamo con esso, anche se in quel periodo<br />

c’è stato del “buono”. In ogni periodo storico ci sono pagine nere, grigie e bianche.<br />

Riconoscere storicamente questo colore, tuttavia, non significa necessariamente identificarsi<br />

con un certo periodo. La politica va distinta dalla storia.<br />

140


Ancora oggi sussiste il pregiudizio che essere di destra significhi essere fascisti, ossia<br />

sostenitori della politica adottata da Mussolini, e/o custodi della memoria di quel periodo e<br />

prigionieri della nostalgia del passato. Per quanto concerne la sinistra, oggi il suo<br />

antisemitismo non si può definire ideologico, ma “di riflesso”, come demonizzazione di<br />

Israele. È tuttavia “pregiudiziale”, in quanto dalla critica fanno derivare un pregiudizio verso<br />

il popolo ebraico. Per non cadere in questo pregiudizio, bisogna distinguere tra stato di Israele<br />

ed ebraismo, tra antisemitismo e critica a quanto Sharon stava facendo per risolvere i<br />

problemi del Paese. I no-global, nelle manifestazioni che inneggiano ai palestinesi, finiscono<br />

per radicalizzare l’avversione verso il popolo ebraico preso nel suo complesso e, quindi per<br />

seminare il pregiudizio razziale.<br />

Un altro pregiudizio radicato nella cultura politica italiana riguarda il cosiddetto<br />

“antifascismo”, che dovrebbe significare “libertà e opposizione alla dittatura”. Ma non tutti gli<br />

antifascisti sono contro la dittatura. Basti pensare che alcuni italiani si riconoscevano nello<br />

stalinismo.<br />

Inoltre, come possiamo constatare esaminando quanto è accaduto durante il<br />

comunismo e il nazifascismo, il regime comunista e quello nazifascista hanno in comune<br />

l’identificazione dello stato con il partito unico e il livellamento, l’omogeneizzazione, per cui<br />

non viene dato spazio alle voci che non si conformano alla linea del partito. Apparentemente<br />

incompatibili, quindi, i due regimi totalitari hanno in comune la negazione della libertà e della<br />

diversità.<br />

Clemente Mastella (UDEUR), a fine novembre 2003, ha proposto di togliere la parola<br />

“comunismo” dalla designazione di partito. Mentre Bertinotti, leader di Rifondazione<br />

comunista, si è mostrato favorevole alla proposta, Diliberto, leader dei Comunisti italiani, ha<br />

preferito “far vivere un ideale”, dimostrando quanto è radicata l’identificazione con la cultura<br />

comunista.<br />

La giustificazione che viene di solito avanzata riguarda l’osservazione che il<br />

comunismo italico è sempre stato diverso da quello sovietico. Tuttavia, qualcuno può far<br />

notare che il totalitarismo insito nel comunismo e tutte le conseguenze di esso si rendono<br />

evidenti solo al momento della presa del potere. È a questo punto che il comunismo mostra la<br />

sua “vera faccia”. Ciò non è stato possibile in Italia, in quanto il comunismo non ha mai<br />

governato il Paese. È, invece, stato possibile osservare i suoi effetti in tutti quei Paesi in cui è<br />

andato al potere. Ed è ancora possibile cogliere la sua portata repressiva della libertà nei Paesi<br />

in cui è ancora al governo, come Cuba, Corea del Nord, Laos, ecc.<br />

Qualcuno può anche osservare che in Italia abbiamo potuto avere un assaggio dello<br />

141


“stile” di epurazione del comunismo nel periodo di Tangentopoli, quando una frangia<br />

politicizzata della magistratura ha liquidato un’intera classe politica, comprendente in larga<br />

parte democristiani e socialisti, cioè i moderati.<br />

Oggi in Italia si ama discutere sulla “qualità della democrazia” controllando l’entità<br />

del “conflitto di interesse” di qualcuno o valutando la possibilità di affermazione della satira<br />

politica che dovrebbe servire a mettere alla berlina chi è al potere, senza schierarsi. La satira<br />

dovrebbe mettere in ridicolo, anche se gli insulti e le accuse infamanti e infondate, più che<br />

suscitare ilarità, risvegliano aggressività e violenza. Gli ascoltatori non si pongono il<br />

problema delle prove: basta lanciare il sospetto, per creare una “realtà virtuale”, che ha lo<br />

stesso potere di quella “vera” nell’influenzare il comportamento, come dimostrano gli studi<br />

sull’ipnosi clinica e come suggerisce quel famoso illuminista che decretò: “Calunniate,<br />

calunniate; qualche cosa resterà”. Tuttavia, a questo punto qualcosa segna il confine tra ciò<br />

che è satira e ciò che non lo è: il codice civile e penale. Non a caso D’Alema sporse querela a<br />

Forattini quando pubblicò una vignetta in cui D’Alema sbianchettava il suo nome inserito<br />

nella lista delle spie italiane al servizio dell’URSS.<br />

Ma dovrà passare ancora del tempo perché gli italiani comprendano quanta parte ha<br />

avuto la cultura del comunismo nell’epurazione giudiziaria che ha eliminato la classe politica<br />

al potere sostituendola con quella di sinistra.<br />

Gli archetipi calati nella cultura.<br />

La cultura dell’Orfano, molto egualitaria, solidale con gli individui che si uniscono<br />

contro l’oppressione o per aiutarsi nella difficoltà e nel dolore, crede nell’aiuto scambievole,<br />

ma può sconfinare infierendo sugli altri. Per quanto concerne l’ideologia comunista, può<br />

emergere persistentemente il lato occulto di questa cultura, che mantiene i metodi di lotta<br />

politica attraverso l’utilizzo della giustizia politica. Il lato Ombra dell’Orfano è costituito dal<br />

cinismo, insensibilità, masochismo o sadismo e dall’usare il ruolo di vittima per sfruttare<br />

l’ambiente.<br />

D’altro lato, la cultura del Guerriero, esigente, disciplinata, del lavoro duro e<br />

dell’atteggiamento stoico, in cui la competitività è al primo posto, esalta la conquista e il<br />

dominio. L’ideologia nazifascista, che si rivela impregnata del mito del Guerriero, degenera<br />

nelle forme più rozze, bieche, crudeli e spietate del livello evolutivo del Guerriero. Il lato<br />

occulto del nazismo, peraltro, emerge in tutte le forme di razzismo e discriminazione su base<br />

etnica, religiosa e sessuale. E bisogna considerare che i conquistatori sono come le palle di<br />

cannone. Quando rallentano, cadono, per cui non si fermano mai.<br />

142


La cultura del Guerriero insegna anche il coraggio, la disciplina e il rispetto di alti<br />

standard di comportamento, nell’interesse del bene comune, ma può sconfinare<br />

nell’insensibilità, nello sfruttamento, nell’imperialismo, nella distruzione della terra. Il lato<br />

Ombra del Guerriero, pertanto, è rappresentato dal bisogno di vincere amorale e ossessivo,<br />

dalla crudeltà, dall’uso del potere a fini di conquista e dalla concezione delle differenze come<br />

di una minaccia.<br />

Entrambe queste culture sono accomunate da scarsa attenzione per i bisogni<br />

dell’individuo, considerato da Hitler “un granello di polvere”, per usare una sua espressione, e<br />

da Marx qualcosa di analogo, comunque “sacrificato” per il bene della “rivoluzione” e del<br />

sistema comunista.<br />

Ignorare o sottovalutare i bisogni dei cittadini, tuttavia, significa creare le premesse<br />

per l’enantiodromia, in cui ciò che viene negato riaffiora prepotentemente e “guida” la scelta<br />

del governo successivo.<br />

In ultima analisi, questa cultura improntata alla difesa dei confini identitari può<br />

diventare dominio e volere impositivo, nella misura in cui resta negli stadi inferiori del<br />

percorso evolutivo e si chiude in una visione dualistica e gerarchica della realtà, in cui il<br />

mondo è visto come conflitto tra punti, idee o forze opposte, così che ciò che più conta è<br />

sempre chi o che cosa è superiore o più degno. Il compito dell’Eroe è sconfiggere o<br />

assoggettare tutto ciò che è inferiore, internamente o esternamente, alla sua volontà. Così,<br />

sotto la dittatura spietata di Saddam, le donne erano “cose” uccise in casa senza processo.<br />

L’approccio del Guerriero alla spiritualità consiste nell’individuare il male ed<br />

eliminarlo o dichiararlo illegale. È l’impeto che portò alle Crociate e alla guerra dei moderni<br />

fondamentalisti contro il peccato, il male e il demonio. A un gradino lievemente superiore il<br />

“peccatore” o l’“infedele” può essere salvato se adotta le stesse convinzioni religiose<br />

dell’Eroe.<br />

Scrive Pearson al riguardo:<br />

Di recente ho incontrato un cristiano carismatico, che mi ha parlato di quello che è il processo<br />

tipico del movimento a cui appartiene. La gioia della conversione, il senso di essere rinnovato e<br />

rigenerato dalla comunità ecclesiale, spesso è seguita dall’evangelismo. La fede iniziale è che basterà<br />

parlare agli altri di Gesù perché si salvino. Ma ecco che non solo molte persone non mostrano alcun<br />

interesse alla “buona novella”, ma è la propria stessa vita che può non andare come si era sperato.<br />

L’<strong>eu</strong>foria iniziale della salvazione è passata, e la vita ha ancora le stesse lotte, gli stessi alti e bassi. La<br />

tentazione a questo punto è di regredire al dogmatismo e di cercare di imporre - attraverso la legge o la<br />

143


pressione sociale - le proprie vedute sugli altri. L’impulso nasce dalla convinzione che la comunità<br />

cristiana ideale non possa realizzarsi in condizioni di così flagrante peccato. Quando la conversione<br />

non trasforma la propria vita, si sente l’esigenza di una vera disciplina e obbedienza militare.<br />

Io sospetto che questo sia anche ciò che è accaduto col marxismo in Russia e in Cina. Una<br />

volta che una verità liberante è stata messa in pratica e la comunità perfetta ha continuato a sembrare<br />

molto lontana, l’antidoto al cinismo e alla perdita di fede sono stati il dogmatismo e la repressione. La<br />

stessa frustrazione che ha prodotto il maccartismo nel nostro Paese [USA]. 10<br />

Queste riflessioni sulla tentazione di imporre il proprio punto di vista agli altri,<br />

attraverso la legge o la pressione sociale, e di regredire al dogmatismo, quando la conversione<br />

non trasforma la propria vita, sono attribuibili anche al fondamentalismo islamico. L’esigenza<br />

di una vera disciplina e obbedienza militare appare come il risvolto esteriore dell’incapacità di<br />

operare una trasformazione interiore: si agisce all’esterno in modo drastico e intransigente<br />

perché frustrati dal fatto che la “verità liberante” messa in pratica non dà i frutti della<br />

“comunità perfetta”, dell’“utopia realizzata”, dello “stato ideale definitivo”. Così, il<br />

dogmatismo e la repressione costituiscono l’antidoto al cinismo e alla perdita di fede. In<br />

breve, si perde la fede o si diventa cinici o rigidi e dogmatici, di fronte alla frustrazione di<br />

veder infranto il proprio “ideale”.<br />

Il fondamentalista che insiste nel prendere la Bibbia o il Corano alla lettera come<br />

regola e modello per l’azione, è essenzialmente unilogico, ossia considera falsa ogni altra<br />

visione del mondo che non sia uguale alla sua. Lui è nel “vero assoluto” e gli altri sono nel<br />

falso.<br />

Il Guerriero negativo.<br />

Un Guerriero di questo tipo è deciso a cambiare il mondo uccidendo il “drago”, il<br />

“male”. Non ci sono terroristi buoni e cattivi. Occorre usare un unico parametro di<br />

valutazione, in quanto la cultura della morte è nefasta per tutti e la sacralità della vita vale per<br />

tutti o per nessuno.<br />

Tra le 150 varietà di terrorismo, quello islamico esprime le conseguenze disastrose di<br />

un’ideologia totalitaria ispirata al potere e al controllo politico-economico del mondo. Il<br />

terrorismo degli emissari di Al Qaida usa l’Islam per conseguire un obiettivo di potere. I<br />

burattinai usano i burattini abbindolandoli, sacrificandone le loro vite per servire interessi<br />

10 Pearson S. P., L’eroe dentro di noi, Astrolabio, Roma, 1990, p. 101<br />

144


connessi al potere. Bin Laden ha investito 300 milioni di dollari per finanziare il suo progetto<br />

di potere che prevede l’accaparramento del petrolio dell’Arabia Saudita, sua patria di origine<br />

e il controllo delle città sacre all’Islam: Medina e La Mecca. Bin Laden creò il Fronte<br />

Internazionale Islamico contro gli ebrei, con l’obiettivo di massacrare in modo indiscriminato<br />

cristiani, ebrei e musulmani che non condividono le sue idee e per ciò stesso vengono<br />

considerati corresponsabili di un progetto ostile alle sua ambizioni di potere. Il motto “chi non<br />

è con me, è contro di me” si addice dunque perfettamente alla natura di questa ideologia<br />

molto simile al nazismo per la sua portata aggressiva, intimidatoria e orientata al dominio.<br />

Ci si può chiedere se queste considerazioni valgano anche per la Cecenia, visto che il<br />

terrorismo ceceno intende rivendicare l’indipendenza.<br />

Perché il terrorismo si è accanito contro i bambini dell’Ossezia? Si tratta in questo<br />

caso di terrorismo attivo o reattivo? Quando accadono barbarie di questo genere, non si può<br />

certo sostenere che i terroristi facciano gli interessi del popolo ceceno. Siamo di fronte ad un<br />

terrorismo globalizzato che, sia pure di fronte ad una specificità nazionale, si coagula intorno<br />

ad un’ideologia in cui prevale l’ostilità verso un ordine costituito in Israele, negli USA, in<br />

Occidente e verso la pace negoziata.<br />

Non a caso i primi attentati suicidi in Palestina si sono verificati nell’ottobre ’93, dopo<br />

che Rabin strinse la mano al leader palestinese e prefigurò un processo di pace. I terroristi<br />

disconoscevano il diritto di Israele all’esistenza e ne volevano la distruzione. Essi non<br />

vogliono né pace né stato palestinese. Ciò spiega perché, ogni volta che si fissa un incontro<br />

improntato al dialogo, fanno un attentato. Vogliono rinviare l’incontro perché non vogliono la<br />

pace. Così, il terrorismo nuoce a tutti, alla maggioranza che vuole la vita e la pace.<br />

I proclami registrati che periodicamente Bin Laden fa trasmettere dalle televisioni<br />

arabe sono carichi di invettive contro gli “infedeli” e il demonio che li possiede. Chi non<br />

pensa come Bin Laden fa parte della categoria del Male e la sua organizzazione terroristica,<br />

Al Qaida, opera su vasta scala contando su un gigantesco giro d’affari.<br />

Il suo fatturato annuo è di 1.500 miliardi di dollari. Che vuol dire il doppio del<br />

prodotto interno lordo della Gran Bretagna, giusto per dare un termine di paragone. Oppure il<br />

5% del prodotto interno lordo dell’intera economia mondiale. Al Qaida non è solo la più<br />

temuta e temibile organizzazione terroristica planetaria, ma è anche e soprattutto l’esempio<br />

più significativo della globalizzazione dell’economia del terrorismo. E sono proprio i suoi<br />

meccanismi di alimentazione finanziaria a preoccupare i vertici dell’Unione Europea a tutti i<br />

livelli.<br />

Il fatto è che l’Occidente, e l’Europa in particolare, sono un terreno strategico per i<br />

145


movimenti dei capitali che finiscono nelle casse del terrorismo, Bin Laden in testa. Lo segnala<br />

Loretta Napoleoni, economista, autrice tra l’altro di un libro-inchiesta sull’economia del<br />

terrorismo dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, in un’ampia intervista a “Polizia<br />

moderna”, la rivista della nostra Polizia. La notizia è apparsa su “Il Gazzettino” del 27 giugno<br />

2004. La sua denuncia è chiarissima e circostanziata: “Dei 1.500 miliardi di dollari del<br />

fatturato di Al Qaida, la maggior parte viene riciclata proprio in Occidente. Si tratta di<br />

un’enorme iniezione di contanti, che infiltra e supporta l’economia dei Paesi che sono, sul<br />

piano politico, i principali nemici del radicalismo islamico armato”.<br />

La UE è consapevole di questo fenomeno pervasivo; anche perché sui tavoli che<br />

contano, a Bruxelles, c’è un denso quanto allarmante rapporto delle Nazioni Unite, diffuso<br />

alla fine del 2003, nel quale si segnala tra l’altro che pochissimo è stato fatto sul piano<br />

finanziario delle indagini. Spiega Napoleoni : “Dall’attacco a Manhattan dell’11 settembre a<br />

oggi, sono stati congelati solo 150 milioni di dollari in tutto il mondo, il 70 % dei quali<br />

depositato in Occidente, in banche americane ed <strong>eu</strong>ropee. È chiaro che servono ulteriori<br />

misure per fermare il gigantesco flusso di denaro che affluisce ogni anno nelle casse dei<br />

gruppi di estremisti armati”.<br />

Insomma, si assiste al paradosso che l’Occidente, impegnato a combattere il<br />

terrorismo, in realtà alimenterebbe la propria economia con proventi di holding finanziarie<br />

che stanno dietro a gruppi eversivi. C’è di più: un terzo della mole di denaro che va a<br />

finanziarli proviene da attività lecite, almeno all’apparenza; il resto deriva da attività illegali<br />

redditizie, come il traffico di droga o di armi, con legami accertati tra gruppi eversivi e<br />

organizzazioni criminali. La minaccia numero uno proviene da Al Qaida, spiega Napoleoni:<br />

“Attualmente, la rete che fa capo a Osama Bin Laden ha enormi capacità finanziarie, superiori<br />

a quelle di ogni altra formazione. La gran parte dei fondi di Al Qaida proviene dal traffico di<br />

stupefacenti e dal contrabbando di prodotti elettronici. Ma un 30 % del suo fatturato deriva da<br />

investimenti in vari settori dell’economia sia occidentale che asiatica”.<br />

Bin Laden può contare su svariati banchieri: la maggior parte vive in Arabia Saudita;<br />

ma ce ne sono anche in occidente, banche <strong>eu</strong>ropee comprese, incaricati di spostare i capitali di<br />

Al Qaida da una parte all’altra del mondo e farli fruttare. Con rilevanti novità dopo l’11<br />

settembre: si è disinvestito in Occidente e si è investito tantissimo sul mercato delle materie<br />

prime, soprattutto in oro e diamanti.<br />

La battaglia per colpire questa gigantesca “piovra” è dunque tutta da combattere e va<br />

affrontata su molti fronti e a vari livelli.<br />

Per fronteggiare il terrorismo sul piano politico, militare ed economico, per estirpare le<br />

146


cause e colpire i burattinai del terrore, non serve la strategia di fare i buoni, pensando che se<br />

noi facciamo i buoni, “loro” smetteranno di fare i cattivi.<br />

Il buonismo, in questo caso, fa solo perdere del tempo prezioso per approntare<br />

strumenti di intervento adeguati e intralcia il lavoro di chi studia seriamente una strategia<br />

efficace.<br />

Un minaccioso messaggio indirizzato al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in<br />

cui lo si accusa di aver sostenuto l’inferiorità dell’Islam rispetto alla civiltà occidentale, è<br />

stato pubblicato il 3 agosto 2004 sul sito web arabo “qal3ah.info”, dalle “Brigate di Abu Hafs<br />

Al Masri - Formazione Al Qaida - settore Europa - Dipartimento dell’Informazione:<br />

comunicati e operazioni”, firmato da Abu Khaled El Tikriti.<br />

“I giorni passano e la civiltà occidentale segue nelle sue politiche la posizione<br />

americana - si dice nel testo del messaggio - dopo che il presidente americano ha definito la<br />

sua invasione dell’Afghanistan ‘guerra crociata’. Berlusconi si permette di parlare della civiltà<br />

islamica, che è una civiltà profonda nella storia e che ogni persona saggia riconosce come<br />

tale. In questo caso a parlare è una persona la cui storia si rivela con il volto della civiltà di<br />

Mussolini”.<br />

“Berlusconi - continua il testo - ha dimenticato che il suo primo antenato era fascista e<br />

che il 20° secolo è testimone dei crimini che ha commesso. E chi sei tu Berlusconi per parlare<br />

di civiltà mentre i tuoi soldati uccidono l’uomo in Iraq? Chi sei tu Berlusconi per parlare di<br />

civiltà, tu che domini il tuo popolo grazie ai tuoi soldi? E che cos’è questa civiltà di cui<br />

parli?”.<br />

“L’Islam, - conclude il messaggio - non si interessa a queste parole che tu dici e non<br />

aspetta nessuno per parlare della sua profondità, della sua bontà, alle nostre anime di<br />

musulmani. Dio è testimone ed i giorni sono vicini... gli ingiusti sapranno qual è la loro<br />

sorte”.<br />

Nello stesso sito le “Brigate di Abu Hafs Al Masri” affermano di non aver diffuso altri<br />

comunicati dopo quello del 28 luglio contenente altre minacce all’Europa e a Berlusconi<br />

(“Faremo tremare le città d’Europa e cominceremo con te, Berlusconi. Lo faremo in modo<br />

sanguinoso finché non tornerai sulla retta via”).<br />

Naturalmente, la “retta via” è quella del ritiro dall’Iraq dei militari italiani in missione<br />

umanitaria. Al Qaida impone le sue condizioni con toni intimidatori di stampo nazista. La<br />

“civiltà islamica” che Al Qaida intende diffondere è sul piano evolutivo allo stesso livello del<br />

nazismo. Nel Mein Kampf Hitler usa toni analoghi per esaltare la bontà e la profondità della<br />

sua ideologia.<br />

147


Il 5 agosto 2004 c’è un livello di massima all’erta, anche guardando al cielo. Di qui,<br />

infatti, secondo il ministro della Difesa, Antonio Martino, potrebbe venire l’attacco “come<br />

l’11 settembre insegna”. Contro questo rischio, “le difese aeree vanno rafforzate” è la logica<br />

del ministro, con uno “scudo” formato da sistemi anti-missile. Un allarme, avvalorato dalle<br />

indagini giudiziarie che proverebbero l’esistenza in Italia di cellule legate ai gruppi terroristici<br />

islamici.<br />

Il nostro dispositivo, ha sottolineato il ministro, era già stato messo a punto dopo<br />

l’attentato dell’11 settembre 2001 a Manhattan contro le Torri Gemelle: proprio il generale<br />

Tricarico ne è stato uno degli artefici, mentre il generale Ferracuti ha garantito che il<br />

meccanismo fosse operativo. Certo, ha aggiunto Martino, non ci si può fermare a quanto fin<br />

qui fatto: “Naturalmente, se guardiamo al lungo periodo, dovremmo dotarci di risorse e<br />

capacità che attualmente non abbiamo per avere una protezione più efficace. Ma quello che<br />

facciamo ora è soddisfacente”.<br />

Su quali fronti potrebbe verificarsi il potenziamento delle nostre difese aeree? Il<br />

ministro ha risposto: “Sto pensando per esempio ai missili anti-missile, uno dei settori che va<br />

rafforzato. Ci sono tante capacità che il Capo di Stato Maggiore della Difesa, che segue queste<br />

cose professionalmente, esaminerà”.<br />

Il ministro ha affrontato il caso terrorismo più in generale considerando l’aumentato<br />

stato di allarme in tutto il mondo occidentale dopo le ulteriori minacce di Al Qaida e di<br />

Osama Bin Laden: “Il controllo completo dello spazio aereo resta prioritario per le<br />

democrazie occidentali che in questo nuovo millennio - ha detto Martino - devono affrontare<br />

la sfida del terrorismo ed i diversi impegni legati alla conduzione delle missioni di pace”. In<br />

questo contesto, l’Italia deve quindi poter disporre “di un’Aeronautica con standard elevati,<br />

con personale eccellente in ogni livello di responsabilità, perfettamente integrabile in<br />

schieramenti multinazionali ed interforze che costituiscono la realtà dell’oggi e del domani”.<br />

Anche il generale Leonardo Tricarico ha sottolineato l’esigenza di poter contare su<br />

“un’Aeronautica sempre pronta a scendere in campo in qualunque momento e senza<br />

preavviso, flessibile nel necessario grado per confrontarsi con il nuovo avversario, il<br />

terrorismo, proiettata verso una a lungo attesa e meritata modernizzazione, schierata a difesa<br />

della collettività e dei suoi valori universalmente condivisi e minacciati dal nuovo nemico. E<br />

tutto sempre evitando le luci della ribalta, guidati solo da un radicato senso del dovere e da<br />

uno spirito di servizio senza riserve”.<br />

Se per il ministro Martino, quindi è necessario “stare sempre all’erta”, i compiti di<br />

prevenzione del terrorismo sono ormai diventati per il generale Tricarico la parte più<br />

148


qualificante del nuovo ruolo dell’Aeronautica Militare: “Tutti ricorderanno - ha citato ad<br />

esempio Tricarico - il consistente e prolungato dispiegamento del dispositivo aereo a cavallo<br />

delle ultime festività natalizie, quando un presunto pericolo di matrice terroristica pareva<br />

gravare a carico dello Stato Vaticano e della persona del Papa”.<br />

“In quell’occasione - ha ricordato Tricarico - l’Aeronautica Militare, dopo brevissimo<br />

preavviso, mandò in volo già nella notte di Natale e nei giorni successivi numerosi aerei, fece<br />

il debutto sullo scenario operativo il nuovo caccia F16, e mantenne un dispositivo di sicurezza<br />

che impegnò molti reparti. Tutto questo senza riflettori né clamore, nella nostra tradizione di<br />

fare il nostro dovere in silenzio”.<br />

Il ministro Martino ha preso anche posizione nel dibattito in corso in tema di riforma<br />

dei servizi, manifestando il proprio favore per il mantenimento di una doppia struttura con<br />

compiti differenti, anziché puntare sulla soluzione dell’Agenzia unica: “Gli Stati Uniti hanno<br />

messo mano ai servizi segreti perché è un problema che si trascinava da tempo. Hanno un<br />

numero di enti di intelligence molto elevato e questo ha dato dei problemi in passato.<br />

Rumsfeld, in uno dei primi incontri con me, tre anni fa, mi disse che c’erano troppe agenzie di<br />

intelligence. Il nostro problema è diverso: noi abbiamo due servizi segreti con specifiche<br />

competenze. Si farà probabilmente una riforma perché le riforme non mancano mai, però io<br />

credo che la differenziazione di compiti sia comunque un bene da preservare”.<br />

Anche in altri Paesi d’Europa lo stato di allarme è altissimo.<br />

Era arrivato alla fase finale della pianificazione di un attentato all’aeroporto londinese<br />

di Heathrow, Abu Masa Al-Hindi, nome in codice “Bilal”, considerato il leader di Al Qaida in<br />

Gran Bretagna. Arrestato insieme ad altri 11 sospetti terroristi dagli agenti di Scotland Yard,<br />

“Bilal” è stato individuato grazie a una soffiata fornita ai colleghi britannici dall’intelligence<br />

pakistana che ha anche rivelato che l’uomo riceveva istruzioni direttamente da Osama Bin<br />

Laden. Dall’aeroporto alle navi: il 5 agosto 2004 il capo della Royal Navy, l’ammiraglio Sir<br />

Alan West, ha rivelato che i governi occidentali hanno informazioni di intelligence secondo le<br />

quali i terroristi vedono le navi come un obiettivo interessante ed hanno piani per attaccarle.<br />

In America l’FBI ha arrestato l’imam e il fondatore di una moschea di Albany. I due<br />

sarebbero legati ad Ansar Al Islam, il gruppo terroristico attivo nel nord dell’Iraq collegato ad<br />

Al Qaida. Il piano, secondo indiscrezioni non confermate, era quello di acquistare un missile a<br />

spalla per uccidere l’ambasciatore pakistano alle Nazioni Unite.<br />

Il livello poliziesco, militare e di intelligence, pur essendo importante, non può<br />

soppiantare la considerazione del livello politico, culturale e sociale. Un’Europa forte,<br />

autorevole e unita potrà affrontare la nuova sfida del terrorismo senza quelle esitazioni,<br />

149


incertezze che lasciano aperta una breccia alle velleità di conquista dei terroristi.<br />

La sinistra italiana oltranzista e radicale e l’Ulivo diviso, che in prossimità delle<br />

elezioni <strong>eu</strong>ropee hanno chiesto il ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq sperando in<br />

un “effetto Zapatero”, per vincere le elezioni, hanno dato un’immagine di sé di<br />

irresponsabilità, ben sapendo che il ritiro avrebbe comportato il caos in un Paese in fase di<br />

recupero. Questo modo di “fare politica” non giova alla costruzione di un’Europa forte e<br />

coesa, capace di fronteggiare le sfide lanciate da Guerrieri negativi.<br />

L’immagine che i terroristi si fanno degli <strong>eu</strong>ropei e degli americani non è meno<br />

importante delle valutazioni dei punti di attacco per poter colpire ancora. Stiamo dando<br />

l’impressione di essere un continente compatto o diviso? Siamo politicamente forti o deboli?<br />

Siamo militarmente equipaggiati? La risposta a queste domande è determinante nell’orientare<br />

le attività dei terroristi. Se USA ed Europa daranno l’impressione di costituire un “fronte<br />

unico” di Resistenza al terrorismo, certamente ciò determinerà il corso successivo degli<br />

eventi. Occorre pertanto soffermarsi a riflettere su alcune questioni aperte.<br />

Magdi Allam, egiziano nato a Il Cairo nel 1952, vive da molti anni in Italia dove si è<br />

laureato in Sociologia all’Università La Sapienza di Roma. Si occupa di argomenti quali<br />

terrorismo, Islam, immigrazione, rapporti nord-sud. Nel suo libro “Kamikaze made in Europe.<br />

Riuscirà l’Occidente a sconfiggere i terroristi islamici?” (Mondadori, 2004), presentato il 7<br />

settembre 2004 nella città in cui vivo, parla del fenomeno terroristico che si è enormemente<br />

accentuato e nasce da una contrapposizione radicale ai valori occidentali su cui si innesta la<br />

nostra civiltà.<br />

L’Occidente si è trasformato in una roccaforte islamica e necessita di una strategia<br />

capace di arginare il fenomeno. L’Europa è una fabbrica di terroristi suicidi, in quanto in essa<br />

avviene il processo di formazione e addestramento e l’esportazione dei “prodotti finiti”, i<br />

kamikaze pronti a farsi esplodere. Da Brescia a Cremona sono partite decine di combattenti<br />

islamici e almeno cinque si sono fatti esplodere in Iraq.<br />

L’integralismo islamico ha iniziato il suo processo di espansione nel 1970, dopo la<br />

sconfitta panaraba ed era presente a livello di predicazione nelle moschee. Con l’assassinio di<br />

Sadat nel 1981 ha raggiunto il punto culminante.<br />

Secondo Allam, dopo il crollo del Muro di Berlino, il mondo arabo e islamico<br />

aderiscono al mondo della globalizzazione, al sistema di valori occidentale.<br />

La crisi del mondo arabo e musulmano si è affermata non perché fosse estraneo alla<br />

globalizzazione, ma per la difficoltà di gestire la modernizzazione, l’occidentalizzazione. Il<br />

conflitto di base si delinea tra la necessità di far parte di questo mondo e salvaguardare la<br />

150


propria identità. L’11 settembre 2001 e l’11 marzo 2004 rappresentano l’apice dell’impatto<br />

emotivo rispettivamente negli USA e in Europa suscitato da questa crisi, con un’aperta<br />

dichiarazione di guerra verso i valori occidentali su cui si fonda la nostra civiltà.<br />

Questo comportamento si può paragonare sul piano psicologico a quello<br />

dell’adolescente che, per affermare la sua identità, distrugge tutto ciò che rappresenta<br />

l’identità degli altri. Spiegherò diffusamente questo punto nel volume “Il pensiero adolescente<br />

di Hitler”.<br />

151


DIALOGO O GUERRA?<br />

Processo di islamizzazione e terrorismo.<br />

A chi obietta che l’Iraq era un Paese in pace prima che gli USA scatenassero la guerra,<br />

si può rispondere che, affinché ci sia la pace, bisogna essere in due a volerla. Saddam era uno<br />

sponsor del terrorismo: assegnava 25mila dollari ad ogni famiglia con un kamikaze. Ha<br />

ospitato per decenni due grandi terroristi. L’Iraq era un Paese in guerra: il regime iracheno ha<br />

attuato una pulizia etnica a danno delle popolazioni curde, costrette ad abbandonare la loro<br />

terra e sterminate nel 1989 con armi chimiche. Un milione di iracheni sono stati massacrati o<br />

sono morti in guerre volute da Saddam contro l’Iran e il Kuwait.<br />

Ora gli iracheni si sono liberati di un regime oppressivo e si attendono strategie di<br />

riequilibrio socio-economico.<br />

La guerra contro il regime di Saddam è finalizzata a prosciugare il bacino di coltura<br />

del terrorismo e ad instaurare la democrazia.<br />

Qualcuno può obiettare che la “guerra preventiva” non può diventare una regole nelle<br />

relazioni internazionali e gli USA hanno sbagliato nel non coinvolgere la comunità<br />

internazionale nella decisione di attaccare il regime di Saddam. Si può osservare in proposito<br />

che la guerra contro il regime di Milosevic per salvare gli albanesi del Kosovo dalla pulizia<br />

etnica fu giustificata come “ingerenza umanitaria”, senza consenso dell’ONU. Sulla base della<br />

necessità etica di salvare dallo sterminio dei musulmani in pericolo, gli <strong>eu</strong>ropei chiamarono<br />

gli americani ad intervenire per sbrogliare la matassa. E la NATO intervenne dove non<br />

c’erano pozzi di petrolio da controllare. Il Parlamento italiano e parte dell’opinione pubblica<br />

sostennero l’intervento armato.<br />

L’“asse del male” sostenuto da Bush comprende un certo numero di Paesi; come mai è<br />

stato scelto l’Iraq come bersaglio primario? Ci sono altri Paesi arabi autoritari e collusi con il<br />

terrorismo, come la Siria e l’Iran. Come mai la scelta è caduta sull’Iraq? Si può rilevare che<br />

l’Iraq era “un caso particolare”, non uno dei tanti, perché in esso si stava consumando una<br />

“pulizia etnica” di tutti coloro che non pensavano come Saddam, con la persecuzione dei<br />

curdi e degli sciiti, che costituiscono la maggioranza religiosa del Paese. La guerra con l’Iran<br />

e l’invasione del Kuwait ribattezzato 19ª provincia irachena ci riporta alla memoria<br />

l’invasione di Hitler della Polonia. I sogni di Saddam di costituire un impero panarabo sono<br />

collegabili al progetto di Hitler di germanizzare l’Europa sotto il suo dominio. Queste<br />

considerazioni non sono applicabili alla Siria e all’Iran, per cui la differenza che fa la<br />

differenza è proprio la struttura totalitaria e di conquista del regime di Saddam equiparabile al<br />

152


egime di Hitler, malgrado Saddam fosse un idolatra di Stalin e della sua dittatura. Le<br />

ideologie hanno in effetti molti punti in comune, tra cui la natura totalitaria e totalizzante e<br />

l’insofferenza verso la “diversità”, che odora di “eresia” sul piano teorico e di “opposizione<br />

ostile” sul piano pratico.<br />

La cultura del terrore è una piovra i cui tentacoli si stanno allungando senza<br />

distinzione di età, sesso, nazione, colore politico. Tant’è vero che ha sequestrato due<br />

giornalisti francesi e sappiamo che la Francia si è opposta alla guerra in Iraq e non ha inviato<br />

contingenti sul posto. Il giornalista Baldoni era un pacifista che operava nel volontariato, ma<br />

ciò non ha impedito la sua barbara uccisione.<br />

D’altro lato, perché un commando di terroristi il 7 settembre 2004 ha sequestrato due<br />

donne italiane? Simona Torretta e Simona Parri lavoravano per l’associazione umanitaria “Un<br />

ponte per Baghdad”. Attraverso di esse, è stato colpito il simbolo del volontariato, ritenendo<br />

implicitamente che chiunque collabori alla normalizzazione dell’Iraq sia un complice del<br />

governo di Allawi.<br />

emissari.<br />

Il terrorismo sta conquistando l’Europa attraverso un piano di diffusione dei suoi<br />

Il 5 giugno 2004 il quotidiano Il Giornale ha reso noto che “l’Italia si sta comportando<br />

in modo esemplare nella lotta al terrorismo, tant’è vero che molti governi hanno seguito<br />

quello che ha fatto il ministro Giuseppe Pisanu”. Lo ha detto il 4 giugno 2004 il segretario<br />

generale dell’Interpol, Ronald Noble, a un convegno internazionale organizzato nella sede<br />

fiorentina dell’università di New York. “Siete il Paese leader nello scambio di notizie”, ha<br />

detto Noble aggiungendo che il governo italiano “è stato il primo al mondo a diffondere i dati<br />

sui passaporti, i documenti d’identità e le carte di credito rubati che sono strumenti usati dai<br />

terroristi per trasferirsi in maniera sicura da un posto all’altro; così come l’Italia ha diffuso<br />

l’allarme, fornendo dettagliate descrizioni, quando pacchi bomba raggiunsero il presidente<br />

della Commissione <strong>eu</strong>ropea Romano Prodi e altri esponenti internazionali”. L’Italia - ha<br />

concluso il capo dell’Interpol -, ha aperto la strada “segnalando un milione e mezzo di<br />

documenti rubati”.<br />

E il 10 giugno 2004 un comunicato diffuso al telegiornale serale annunciava che le<br />

Brigate Verdi di Maometto, responsabili del sequestro di quattro italiani il 13 aprile 2004,<br />

avevano già emesso la sentenza di morte, quando un blitz li ha liberati. Si precisa che<br />

l’esecuzione sarebbe stata decretata “per fornire una risposta all’arrogante presidente<br />

Berlusconi” e sarebbe stata filmata.<br />

Le Brigate Verdi hanno usato gli ostaggi per ricattare il governo italiano, chiedendo il<br />

153


itiro del contingente in Iraq, le scuse ufficiali per le “offese” del premier all’Islam e infine<br />

una manifestazione contro Bush e Berlusconi. Naturalmente, le richieste sono state ignorate e<br />

non c’è stata alcuna trattativa con i terroristi, mentre è stata intensificata l’azione diplomatica<br />

con il governo locale. Il blitz è stato portato a termine “quando eravamo sicuri”, ha precisato<br />

il premier Berlusconi.<br />

Un farneticante messaggio delle Brigate “Abu Hafs Al Masri”, lancia un “ultimo<br />

avvertimento al popolo italiano: mandate via l’incapace Berlusconi o bruciamo veramente<br />

l’Italia”. Il messaggio è stato diffuso l’11 agosto 2004 sul sito “Hostinganine”.<br />

Le Brigate “Abu hafs Al Masri” hanno ereditato il nome di battaglia di uno dei<br />

massimi dirigenti di Al Qaida, l’egiziano Mohammed Atef, ucciso nella campagna USA in<br />

Afghanistan nell’autunno 2001. E’ l’organizzazione che ha rivendicato le stragi di Madrid<br />

dell’11 marzo (191 morti) con una e-mail al giornale londinese in lingua araba “Al Quds Al<br />

Arabi” inviata lo stesso giorno. Apparve per la prima volta il 25 agosto 2003, quando<br />

rivendicò con un comunicato su Internet l’attentato del 19 agosto alla sede ONU di Baghdad,<br />

che causò la morte di oltre 20 persone, compreso l’inviato speciale in Iraq delle Nazioni<br />

Unite, Sergio Vieira de Mello. Il 3 marzo 2004 le Brigate avevano invece respinto ogni<br />

responsabilità negli attentati antisciiti che il giorno precedente avevano fatto almeno 271<br />

morti in Iraq. Il 15 luglio un comunicato annunciava un “bagno di sangue come quello dell’11<br />

settembre 2001 negli USA” se gli italiani non avessero cambiato l’attuale governo. Il 10<br />

agosto le Brigate si sono poi fatte vive rivendicando gli attentati della notte precedente contro<br />

due alberghi e un deposito di gas a Istanbul, che avevano causato due morti.<br />

Il messaggio delle Brigate “Abu Hafs Al Masri” continua in questi termini: “Questa è<br />

una semplice equazione che noi mettiamo nelle vostre mani, per non essere responsabili.<br />

Questo è un avvertimento. Il prossimo messaggio lo vedrete sulla vostra terra, non su Internet.<br />

Berlusconi vi conduce verso altro sangue e verso la schiavitù completa all’America.<br />

Ricordatevi del vostro giornalista Antonio Russo, ucciso dall’intelligence di Putin per la<br />

semplice ragione che condivideva le sofferenze con i nostri fratelli in Cecenia. Lui era un loro<br />

ospite dignitoso, in quel momento Berlusconi non fece nulla per indagare sulla verità e sulle<br />

cause dell’uccisione. Non dovete farvi ingannare dai mass media che lui controlla o<br />

possiede”.<br />

Come si può constatare, le cellule di Al Qaida si propongono di indirizzare le scelte<br />

politiche di una nazione e danno giudizi di merito su chi appartiene al “regno del bene” e chi<br />

va confinato nel “regno del male”, secondo una visione dualistica del mondo che compare<br />

nelle “realtà ideologiche”.<br />

154


Il messaggio prosegue attaccando i media italiani: “Fanno interviste con Fuad Allam e<br />

con mercenari suoi simili, che dicono di essere i rappresentanti dell’Islam civile pacifico. Non<br />

dovete farvi ingannare dalle loro parole. Noi siamo capaci di colpire obiettivi con armi non<br />

convenzionali, che causano un enorme disastro. Siamo in Italia. Nessuno di voi è sicuro al suo<br />

posto, dovrete aspettarvi un bagno di sangue simile a quello dell’11 settembre”.<br />

Il testo - scritto in un elegante arabo classico - segue di poche ore un altro messaggio<br />

apparso sul portale Islamic Minbar che prende particolarmente di mira Berlusconi, inserito al<br />

terzo posto degli obiettivi mondiali da colpire. Il messaggio è firmato dalle Brigate Abu Bakr<br />

Al-Siddiq - sezione informativa di Al Qaida in Europa: “Berlusconi, sei nelle nostre mani e ti<br />

sgozzeremo come sgozziamo gli agnelli. Il tuo destino sarà simile a quello di Paul Johnson e<br />

degli altri agnelli. La nostra vendetta giungerà attraverso le nostre brigate. La punizione sarà<br />

dura e non saremo indifferenti nei confronti di chi tenta di colpire l’Islam ed i musulmani”.<br />

Nel sito, subito dopo le minacce contro il premier italiano, viene riportata la lista<br />

stilata dai terroristi con i nomi dei leader da colpire. Al primo posto troviamo il presidente<br />

americano George W. Bush, seguito da Tony Blair e da Silvio Berlusconi. Quarto è il<br />

Segretario di stato americano Colin Powell e quinto il premier israeliano Ariel Sharon. Poi in<br />

ordine vengono il premier australiano John Howard, il re saudita Fahd, il premier iracheno<br />

Iyad Allawi, il re giordano Abdullah II, il presidente egiziano Hosni Mubarak e quello libico<br />

Muammar Gheddafi.<br />

I militanti delle “ideologie” detestano i fautori del dialogo e trattano come mercenari e<br />

traditori coloro che dicono di essere i rappresentanti dell’Islam civile pacifico e i leaders dei<br />

Paesi arabi moderati, che sono nel mirino degli attentati alla stessa stregua degli USA, Gran<br />

Bretagna e Italia.<br />

Il 5 giugno 2004 Il Giornale ha pubblicato anche un articolo che può offrire lo spunto<br />

per alcune riflessioni. Il giornalista Ruggero Guarini lo ha intitolato “La Chiesa separi martiri<br />

e kamikaze”. Lo riporto integralmente per evitare tagli arbitrari:<br />

Può un miscredente non privo di un vago sentimento religioso permettersi di sovrapporre un<br />

rispettoso quesito alle importanti parole che monsignor Cesare Mazzolari, il vescovo di Rumbek, nel<br />

sud del Sudan, durante la commovente intervista concessa per Il Giornale a Stefano Lorenzetto, ha<br />

pronunciato sul singolare ritardo con cui a suo avviso la Chiesa sta incominciando a capire la gravità<br />

della minaccia islamica?<br />

Mi riferisco alla risposta che egli ha dato quando Lorenzetto gli ha chiesto se ritiene esagerato<br />

definire “scontro di civiltà” il conflitto fra Occidente e Islam. “No. Siamo solo agli inizi - egli ha detto<br />

155


-. La Chiesa ha abbattuto il comunismo, ma sta appena percependo la sfida dell’islamismo, che è ben<br />

peggiore. Il Santo Padre non ha potuto raccogliere questa sfida per motivi di età. Ma il prossimo papa<br />

si troverà ad affrontarla in pieno”.<br />

Dopodiché, forse temendo di essere frainteso, ha creduto opportuno chiarire che la sfida non<br />

potrà essere affrontata a partire dalla convinzione “che noi abbiamo ragione e loro torto”. Dovremo<br />

anzi tener conto del fatto che mentre “noi ci vantiamo di una tradizione cristiana che non viviamo nei<br />

fatti, il musulmano ha una costanza di pratica e di proselitismo superiore alla nostra”. E per chiarire il<br />

suo pensiero con un esempio, ha osservato che quando un maomettano dice “grazie” (“sukran”),<br />

questo per lui è già un atto religioso, giacché “l’arabo è la lingua del Corano”.<br />

D’accordo. Facciamoci dunque spiegare da loro il significato della parola “grazie”, ossia che<br />

“grazie” deriva da “grazia!”, cosa che monsignor Mazzolari sospetta non a torto che molti cristiani<br />

abbiano dimenticato. Ma intanto lui spieghi ai maestri dei loro “martiri” il vero significato della parola<br />

“martirio”. Ci sono forse oggi compiti più urgenti, per la Chiesa, della lotta contro quell’abietta<br />

concezione del “martirio” che glorifica e fomenta lo stragismo suicida del terrorismo islamista?<br />

Certo la Chiesa, su questo argomento, ha già detto tutto fin dai tempi in cui l’autore<br />

dell’Apocalisse, definendo Cristo “il testimone fedele”, decretò implicitamente che “martirio” vuol<br />

dire affrontare la propria morte (non quella altrui) per “testimoniare la fede”.<br />

Ora però che va molto di moda, fra i nostri cuginetti maomettani, quell’orribile idea di<br />

“martirio” che consiste nel votarsi simultaneamente al suicidio e al massacro, non sarà forse il caso di<br />

proclamare alto e forte (non in una comune omelia ma in uno di quei documenti del “magistero<br />

ordinario” che sono le encicliche) che non si tratta di martiri bensì di indemoniati?<br />

Ed ecco il quesito: per fare chiarezza su una parola così turpemente sfregiata da quella che<br />

forse è la più diabolica novità del nostro tempo non sarebbe opportuno che la Chiesa si decidesse ad<br />

affrontare il problema del vero e del falso martirio in un’apposita enciclica? So che si dice che esita a<br />

farlo per evitare che la collera di Allah si abbatta sui suoi figli, specialmente su quelli sparsi nel<br />

mondo islamico. Ma esitare a condannare apertamente come diabolica una così aberrante concezione<br />

del “martirio” non comporta la tacita rinuncia a testimoniare la propria?<br />

Leggendo l’articolo, possiamo avanzare alcuni dubbi sull’adeguatezza dell’attributo<br />

“indemoniati”, che rischia di acquisire connotazioni ideologiche da “caccia alle streghe e agli<br />

untori”. Sarebbe forse più opportuno considerare gli effetti dell’indottrinamento ideologico<br />

portato alle estreme conseguenze dall’immolare se stessi per uccidere il “nemico”. È lo stesso<br />

indottrinamento che nel Sudan sta consumando un “genocidio”.<br />

156


L’ultimo capitolo di una vicenda iniziata nell’Ottocento.<br />

Quello che sta accadendo nella regione occidentale del Sudan è solo l’ultimo capitolo<br />

di una vicenda che comincia con la conquista egiziana nell’Ottocento.<br />

Ex condominio anglo-egiziano, il Sudan è diventato indipendente nel ’56. Due<br />

dittature fino al 1985 e poi un colpo di Stato nell’89, che ha riportato al potere un regime<br />

militare. A maggio 2004, dopo vent’anni di scontri e due milioni di morti, è stata raggiunta<br />

un’intesa tra i ribelli del Sud e il governo centrale di Khartum. Il conflitto è ancora in corso<br />

nel 2004 nella regione occidentale del Darfur.<br />

I rifugiati nei campi sarebbero un milione e le vittime dei massacri non meno di<br />

10.000. Queste cifre bastano da sole a giustificare i viaggi in Sudan di Kofi Annan e di Colin<br />

Powell, le pressioni sul governo sudanese, il dibattito al Consiglio di sicurezza e l’attenzione<br />

della stampa internazionale per quello che viene sempre più spesso definito il “genocidio di<br />

Darfur”. Eppure vi è in questa improvvisa agitazione di alcuni governi e della maggiore<br />

organizzazione internazionale qualcosa di sorprendente.<br />

Quello che sta accadendo dal 2003 in una provincia occidentale del Sudan ai confini<br />

con il Ciad è solo l’ultimo capitolo di vicende iniziate al momento dell’indipendenza (1956) e<br />

per molti aspetti di una storia più antica che risale alla conquista egiziana della regione nei<br />

primi decenni dell’Ottocento.<br />

Cerchiamo di capire perché il Sud e il Nord del Sudan siano impegnati da quasi<br />

cinquant’anni, con qualche felice intervallo, in una delle più lunghe e sanguinose guerre civili<br />

della storia africana.<br />

La regione chiamata Sudan (in arabo “la terra dei neri”) entra nella storia moderna<br />

quando un riformatore egiziano, Muhammad Ali, si affranca dalla signoria dell’Impero<br />

Ottomano e decide di estendere i suoi domini verso il deserto nubiano, le coste meridionali<br />

del Mar Rosso e le terre dove il Nilo azzurro si congiunge al Nilo bianco. Conquistato da<br />

Ismael, figlio di Muhammad, il Paese diventa da quel momento un vespaio di contrasti politici<br />

e religiosi. La Chiesa cattolica vede nella discesa egiziana verso il cuore dell’Africa una<br />

grande occasione apostolica e lancia i suoi missionari alla conquista spirituale delle<br />

popolazioni animiste del Sudan meridionale. L’Islam marcia con l’intendenza degli eserciti e<br />

diffonde il proprio monoteismo lungo le sponde del Nilo. Gli esploratori scavalcano le truppe<br />

e perseguono un fine più terreno e scientifico: la scoperta delle fonti del Nilo. I mercanti arabi<br />

scendono lungo il Mar Rosso e creano piccole stazioni portuali per lo scambio delle merci.<br />

Ma alcuni fra essi commerciano in carne umana e fanno incetta di schiavi nei villaggi<br />

dell’interno, soprattutto al Sud.<br />

157


Dopo la metà del secolo la scena sudanese è occupata da almeno quattro personaggi di<br />

cui due sono italiani. Il primo è un missionario veronese, Daniele Comboni, di cui è apparsa<br />

presso l’editore Corbaccio, in occasione della sua canonizzazione, la bella biografia di<br />

Gianpaolo Romanato (L’Africa nera fra cristianesimo e Islam. L’esperienza di Daniele<br />

Comboni 1831-1881). Il secondo è un mistico combattente del Rinascimento musulmano. Si<br />

chiama Muhammad Ahmad (1844-85) e diventa rapidamente, agli occhi dei suoi fedeli, al-<br />

Mahdi, vale a dire l’uomo ispirato e mandato da Allah “per ripristinare nel mondo il regno<br />

della giustizia”. Il terzo è un generale inglese, Gordon Pascià (1833-85), devotamente<br />

anglicano, soldato al servizio di Dio, del Khedivé d’Egitto e della regina Vittoria. Il quarto è<br />

un esploratore, Romolo Gessi, vecchio garibaldino, legato da grande amicizia a Gordon per il<br />

quale accetta di compiere una operazione militare nel Bar-el-Ghazal, una provincia a Sud-Est<br />

del Darfur. I quattro protagonisti escono di scena negli stessi anni. Comboni muore nel 1881<br />

dopo essere divenuto vescovo e vicario apostolico, dalla sede di Khartum, per tutta l’Africa<br />

nera. Muhammad Ahmad muore a Omdurman nel 1885 dopo avere sconfitto più volte le forze<br />

anglo-egiziane e creato nel Sud “liberato” uno Stato teocratico.<br />

Gordon muore nel 1882 a Khartum, trafitto da una lancia dopo avere inutilmente<br />

difeso la città contro le truppe del Mahdi. Gessi muore a Suez nel 1881 durante il viaggio di<br />

ritorno da una lunga e difficile spedizione militare.<br />

Sulla scena abbandonata dai protagonisti irrompe qualche anno dopo un altro generale<br />

inglese. È Lord Kitchener, vendicatore di Gordon nella battaglia di Omdurman. Il cronista di<br />

quella giornata è un giovane e brillante scrittore-soldato: si chiama Winston Churchill.<br />

Da allora il Sudan fu un condominio anglo-egiziano e, di fatto, una colonia britannica.<br />

Ma quando divenne indipendente nel 1956 (l’anno in cui la Gran Bretagna dovette rinunciare<br />

al possesso del Canale di Suez), riapparvero alla superficie tutti gli ingredienti che ne avevano<br />

fatto, nel secolo precedente, uno dei paesi più turbolenti e ingovernabili dell’Africa.<br />

Fu subito evidente che le popolazioni africane del sud, prevalentemente cristiane e<br />

animiste, non avrebbero accettato il governo delle popolazioni arabe e musulmane del Nord.<br />

Agli inizi il motivo degli scontri fu soprattutto sociale ed economico. Il Sud vive soprattutto<br />

di agricoltura mentre gli arabi sono pastori; e i conflitti scoppiano, come ovunque in queste<br />

circostanze, per l’uso dell’acqua e della terra. Ma vennero inaspriti dalle differenze religiose<br />

allorché un governo ispirato dai Fratelli musulmani (la casa madre del fondamentalismo<br />

islamico) promulgò all’inizio degli anni Ottanta un codice penale ispirato ai principi della<br />

legge coranica (la sharia). Le truppe africane dell’esercito sudanese si ribellarono e trovarono<br />

rifugio in Etiopia da dove, costituite in Esercito di liberazione, scatenarono una nuova guerra<br />

158


civile. Da allora la storia del Sudan è una tragica sequenza di scontri sanguinosi, operazioni di<br />

guerriglia, brutali repressioni poliziesche, villaggi incendiati, massacri, stupri, popolazioni in<br />

fuga, epidemie, carestie. Dopo una nuova e più rigorosa proclamazione della sharia agli inizi<br />

degli anni Novanta la guerra divenne ancora più aspra. Secondo Yves Ternon, autore di un<br />

libro sui genocidi (Lo Stato criminale, Corbaccio 1997), le vittime, dopo dieci anni di<br />

combattimento, erano ormai non meno di mezzo milione. Quando il suo libro apparve in<br />

Francia nel 1995 il Sudan era diventato una roccaforte del fondamentalismo islamico. Aveva<br />

ospitato Osama Bin Laden prima della sua partenza per l’Afghanistan e sarebbe stato, di lì a<br />

poco, bersaglio di un attacco missilistico americano lanciato dal presidente Clinton contro un<br />

laboratorio per la fabbricazione di armi chimiche. Si trattava in realtà di un’azienda<br />

farmac<strong>eu</strong>tica, ma le responsabilità del Sudan erano state nel frattempo riconosciute e<br />

condannate dall’Assemblea generale dell’ONU, dal Parlamento <strong>eu</strong>ropeo, dall’Ufficio<br />

internazionale del lavoro (che aveva denunciato la pratica della schiavitù) e da Amnesty<br />

International.<br />

L’ultimo conflitto, quello di Darfur, è scoppiato nel 2003, quando le formazioni di due<br />

movimenti ribelli (l’Esercito per la liberazione del Sudan, laico, e il Movimento per la<br />

giustizia e l’eguaglianza, islamico) hanno attaccato postazioni militari del governo centrale.<br />

Il Darfur ha una superficie di circa 500mila chilometri quadrati e una popolazione di<br />

4-5 milioni di abitanti. Per quanto concerne le etnie, ci sono gli arabi delle tribù Rizeigat,<br />

Habbaniya e Beni Halba; africani delle tribù Fours, Zaghawas, Massalits. Per la gran parte gli<br />

abitanti del Darfur sono musulmani non arabi e per questo perseguitati da sempre dal regime<br />

sudanese.<br />

Contro la guerriglia il governo di Khartum ha messo in campo una milizia araba,<br />

montata su cavalli e cammelli. Si chiamano Janyaweed (i “diavoli a cavallo”) e vengono usati<br />

principalmente per bruciare i villaggi e cacciarne la popolazione. Soggetto a una crescente<br />

pressione internazionale, il presidente sudanese Omar Al Bashir ha dovuto riconoscere ai<br />

primi di luglio del 2004 che sono “gangsters”. Né le pubbliche ammissioni né le sanzioni, se<br />

verranno adottate, basteranno tuttavia a spegnere le fiamme alla guerra civile. Secondo molti<br />

osservatori occorrerebbe una forza internazionale forte almeno di 20.000 uomini e composta<br />

prevalentemente da truppe africane. Ma nessuno stato, per il momento, sembra voler<br />

concorrere alla sua formazione.<br />

Nel suo libro, Yves Ternon ricorda che la parola “genocidio” appare per la prima volta<br />

in un libro di Raphael Lemkin, professore dell’Università di Yale, pubblicato in America nel<br />

1944. Secondo Lemkin vi è genocidio quando uno Stato adotta “un piano coordinato di<br />

159


differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali<br />

per annientare questi gruppi stessi”. La parola ha perduto da allora questo significato e si è<br />

allargata sino a comprendere politiche che non si propongono l’annientamento di un popolo,<br />

ma mirano a cacciarlo con la forza dai luoghi in cui abita. Se vogliamo evitare che la parola,<br />

inflazionata, diventi trita e banale cerchiamo di evitarne un uso eccessivo. Nel caso del Sudan<br />

l’espressione giusta è “catastrofe umanitaria”. E dovrebbe bastare a suscitare orrore e<br />

riprovazione.<br />

La lotta al terrorismo è dunque una lotta contro una delle conseguenze del<br />

fondamentalismo islamico. Le altre conseguenze sono la catastrofe umanitaria, la reclusione<br />

delle donne, la barbarie.<br />

Monsignor Cesare Mazzolari, vescovo che vive in Sudan, sostiene che “siamo solo<br />

agli inizi”. Intervistato ad Excalibur Luneditalia, la trasmissione condotta da Antonio Socci, il<br />

7 giugno 2004 ha dichiarato che in Sudan i cristiani vivono l’“11 settembre” tutti i giorni, con<br />

stragi e angherie di tutti i generi. Ma i massacri di cristiani non fanno notizia. Il Sudan è un<br />

Paese fondamentalista, che conta già due milioni di vittime, che vengono sepolte in fosse<br />

comuni, come succede nei massacri di massa. Il governo fondamentalista di Kartun ignora<br />

questi fatti.<br />

Il genocidio dei cristiani armeni<br />

Anche il genocidio armeno, avvenuto nel 1915-1916, è tuttora un argomento tabù in<br />

Turchia: più di un milione di armeni su due milioni sono stati annientati. Dimenticare questo<br />

genocidio vuol dire non solo promettere l’impunità ai responsabili sopravvissuti, o ai governi<br />

o semplicemente alla “storia”, ma bensì creare le condizioni, i precedenti, i presupposti,<br />

affinché avvengano altri omicidi organizzati di massa, perché ci sarà comunque chi li coprirà,<br />

avvolgendoli rapidamente nell’oblio più totale.<br />

Adolf Hitler, alla vigilia dell’invasione della Polonia, nell’agosto 1939, aveva<br />

sottoposto al suo staff la “questione ebraica” e il problema dell’eliminazione di un milione di<br />

ebrei che vivevano in Polonia, pacificamente integrati con la popolazione. Quando gli fu<br />

posta l’obiezione: “Ma cosa dirà il mondo intero, se metteremo in atto lo sterminio degli<br />

ebrei?”, egli rispose: “Dopo tutto, chi è che parla oggi dell’annientamento degli Armeni?”.<br />

Erano passati solo 24 anni da quella strage, ma nessuno ne parlava più e ciò ha incoraggiato<br />

l’attuazione della “soluzione finale” nei confronti del popolo ebraico, con un esito di sei<br />

milioni di morti.<br />

Gli armeni costituivano un popolo di ricchi cristiani che venivano considerati una<br />

160


minoranza pericolosa dai turchi. Furono trasferiti in massa da paesini a sud verso paesini<br />

deserti, venendo assaliti dai banditi, dalla stessa polizia e dalle truppe turche. 450.000 furono<br />

presi come pecore e portati sulle montagne per farli morire di fame e di sete.<br />

Le persone sopravvissute intervistate in televisione ricordano le deportazioni in carri-<br />

bestiame, nello squallore più totale, verso la disperazione. Una anziana signora, intervistata in<br />

televisione, che è riuscita a sfuggire alla cattura, scappando nei boschi assieme ad altri<br />

bambini, e ora vive negli USA, ricorda quando i familiari e i compaesani furono circondati<br />

dai curdi e dai turchi: “Hanno preso tutto, animali. Hanno incendiato la chiesa dove si erano<br />

rifugiate le persone, che così sono morte bruciate vive”. Non hanno risparmiato né donne né<br />

bambini, trasformando il paese in un enorme mattatoio. Quelli che sono sopravvissuti e sono<br />

rimasti, sono stati costretti a passare all’Islam e a cambiare identità e nome.<br />

I dirigenti e storici turchi intervistati in televisione hanno negato ufficialmente la<br />

politica di sterminio e il genocidio perpetrato dalla Turchia. Questa negazione ufficiale è forse<br />

ancora più allarmante del genocidio compiuto, in quanto indica una mancanza di<br />

consapevolezza critica e autocritica, che costituisce la base della democrazia, perché denota<br />

la capacità di autocorrezione di un sistema.<br />

Le giustificazioni addotte dai politici e dagli uomini di cultura turchi sono risultate<br />

impressionanti nel “glissare” con un’abile dialettica l’operazione di genocidio. Basti pensare<br />

che a questa operazione è stata negata l’attuazione da un uomo politico turco, semplicemente<br />

perché “non esistono documenti ufficiali” che testimonino l’“intenzione” del governo turco di<br />

arrivare ad esiti di sterminio. Il “gioco dialettico” di questo politico ruotava intorno al<br />

concetto di “intenzione”. Non è bastato il trasferimento in massa in carri-bestiame, come al<br />

tempo di Hitler, per dare corpo a questa “intenzione”. Si possono dunque evacuare interi<br />

villaggi, trasferendo un popolo nel “deserto”, a morire di fame e sete, senza alcuna<br />

“intenzione”.<br />

E questa sarebbe la “dialettica democratica” di coloro che aspirano a far parte a pieno<br />

titolo delle istituzioni <strong>eu</strong>ropee. Tra i sopravvissuti al genocidio armeno circola un detto<br />

significativo: “Vedere negato il genocidio equivale a morire due volte”. Allora facciamo in<br />

modo - noi che abbiamo fatto della libertà e della democrazia il nostro pane quotidiano - che<br />

nessun genocidio diventi argomento tabù nella nostra Europa, a cominciare da quello del<br />

cristiano popolo armeno. Parliamone in televisione e sui giornali. Intervistiamo i sopravvissuti<br />

e i testimoni e conserviamo gelosamente le testimonianze negli archivi per i nostri figli e<br />

nipoti, in modo che in futuro trovino abbondante materiale per le loro ricerche scolastiche,<br />

come ha fatto ora mio figlio, quando ha svolto la ricerca per l’esame di quinta elementare,<br />

161


l’ultimo dopo l’introduzione della riforma Moratti. Mio figlio è rimasto molto colpito, quando<br />

nel giugno 2003, durante il viaggio in Polonia, ha visitato il campo di sterminio di Auschwitz-<br />

Birkenau e mi ha chiesto di portarlo nuovamente: “Perché devo raccogliere documenti per una<br />

ricerca”. Per educare una “coscienza democratica”, è importante seminare su un “terreno<br />

giovane”, non ancora indurito dal cinismo di una certa parte della società. Perché non si<br />

potrebbe creare un “archivio”, che raccolga le testimonianze dell’eccidio dei cristiani armeni,<br />

come si è fatto con gli ebrei? Perché non possiamo costituire anche in Italia e in Armenia un<br />

“Museo dell’Olocausto” armeno? Chiediamo esplicitamente che venga istituito a Roma<br />

questo Museo in memoria permanente del tragico genocidio, che rischia di cadere nell’oblio.<br />

Questo memoriale può costituire il modo migliore per onorare le vittime ed educare i<br />

giovani ad una dialettica democratica.<br />

Il dialogo e la mediazione tra cultura e civiltà<br />

Il 7 giugno 2004 Al Qaida minaccia nuovi attacchi spettacolari contro compagnie<br />

aeree americane e occidentali. L’obiettivo consiste nella cacciata degli stranieri che lavorano<br />

in Arabia Saudita e sostengono l’economia per poter rovesciare la monarchia e instaurare un<br />

governo fondamentalista sotto la direzione di Bin Laden. Il riformismo del governo, che ha<br />

cominciato a concedere le licenze commerciali alle donne il 7 giugno 2004, viene dunque<br />

visto da Bin Laden come una provocazione che merita di essere punita con nuovi attacchi<br />

terroristici.<br />

Il terrorismo vuole eliminare il dialogo e la democrazia e imporre con la forza e la<br />

violenza direttive unilogiche. Ma la democrazia stenta ad affermarsi anche in paesi non<br />

fondamentalisti.<br />

L’iniziativa sul Grande Medioriente che il presidente americano George Bush intende<br />

lanciare al G8 di Sea Island, in Georgia, nel giugno 2004, vive già momenti difficili.<br />

L’iniziativa non piace alla maggior parte dei governi dei Paesi arabi ed islamici che Bush ha<br />

invitato a Sea Island. Secondo il New York Times, molti tra i loro leader, divisi sull’iniziativa<br />

che ha l’obiettivo di rendere più democratico il mondo islamico, hanno già deciso di non<br />

andare al G8 in Georgia.<br />

È comunque opportuno operare alcune distinzioni, per non cadere in generalizzazioni<br />

fuorvianti e dannose per la diffusione della stessa democrazia.<br />

Combattere la violenza è giusto, però attenzione: “E’ preoccupante - insiste Ciampi il<br />

4 giugno 2004 durante l’incontro al Quirinale con Bush - che si stia attenuando la distinzione<br />

tra l’opinione pubblica araba e il fondamentalismo islamico. Bisogna riuscire a isolare i<br />

162


fanatici e aiutare i Paesi moderati”.<br />

“E’ proprio questo il nostro sforzo”, risponde Bush, che ringrazia ufficialmente il<br />

nostro Paese “per il contributo che dà, con i suoi contingenti militari in Iraq e in altre aree di<br />

crisi, alla lotta contro il terrorismo”, e che tranquillizza il presidente italiano pure sulla svolta<br />

filo-ONU. Le novità, dice, sono mature. L’Iraq ha già un nuovo governo provvisorio e, nel<br />

giro di pochi giorni, il Consiglio di sicurezza dovrebbe approvare la nuova risoluzione, “il<br />

sole tornerà a splendere molto presto sopra Baghdad”. Altro tema del colloquio, il conflitto<br />

israelo-palestinese. Ciampi si dice “molto preoccupato” per la mancanza di progressi e teme<br />

che la crisi del Medio Oriente si ripercuota su tutta la regione. Bush concorda, ma sostiene<br />

che anche in quell’area ci saranno presto degli sviluppi positivi: l’impegno americano per<br />

l’applicazione della road-map è costante, tanto che, assicura, “presto vedremo la nascita di<br />

uno Stato palestinese”.<br />

Alla fine bilancio “molto positivo”. L’amicizia tra Roma e Washington è più salda che<br />

mai. “Solo attraverso un rinnovato impegno comune - dice Ciampi - sarà possibile rimuovere<br />

le cause del terrorismo. Ci riusciremo continuando a lavorare sulla base dei metodi che ci<br />

hanno guidato per 50 anni: confronto, rispetto, solidarietà”. E visto che l’Italia è in Iraq per<br />

ricostruire e non per occupare e colonizzare, il Quirinale ha “molto apprezzato” sia il<br />

riavvicinamento di Washington all’ONU e al multilateralismo, sia l’ultima intervista del<br />

presidente USA, che ha definito “non tutti terroristi” quelli che oggi imbracciano le armi<br />

contro le forze della coalizione.<br />

Il ruolo centrale dell’ONU su tre capitoli chiave viene richiesto in questa ricorrenza: la<br />

creazione di nuove istituzioni in Iraq, l’organizzazione delle elezioni e la difesa dei diritti<br />

umani, unico vago cenno alla vicenda delle torture. “Non possiamo dare l’idea che si sta<br />

consumando uno scontro di civiltà” spiega Ciampi, che ricorda come la costituzione ci<br />

consenta di usare i nostri militari solo in operazioni di pace.<br />

Il dialogo e la mediazione tra culture e civiltà sono assolutamente indispensabili per<br />

evitare lo scontro frontale.<br />

C’è infatti il rischio di “creare” il nemico attribuendo a tutti i musulmani le nostre<br />

categorie concettuali e religiose, immaginando l’islam come un blocco monolitico con un<br />

clero. In realtà gli imam non hanno una qualifica religiosa, non sono sacerdoti e vescovi. E le<br />

moschee in Italia sono frequentate dal 5% dei musulmani, di cui non tutti sono integralisti e<br />

terroristi.<br />

Creando indiscriminatamente il “nemico”, finiamo per fare il loro gioco e per<br />

potenziare l’integralismo islamico. La democrazia è un processo che deve essere assimilato<br />

163


con il convincimento e l’esperienza e non può essere imposto. Non è un insieme di regole<br />

astratte da imparare e mettere in pratica con forzature, compromessi o, peggio, ricatti politici.<br />

Ecco perché il nazismo, andato al potere con libere elezioni, si è programmato come dittatura,<br />

non trovando sul terreno una cultura profondamente democratica che correggesse le sue<br />

impennate lesive della libertà, della sacralità della vita, del rispetto dei diritti fondamentali<br />

della persona, della pacifica alternanza di governo. Il nazislamismo è la negazione di tutti<br />

questi principi democratici.<br />

Occorre dunque porre le basi affinché lo scontro tra culture e civiltà venga evitato<br />

ponendo la massima attenzione agli abbinamenti. Se le divergenze nelle mentalità sono<br />

eccessive, non è possibile aggregare forzatamente le varie comunità, per non fomentare<br />

continue tensioni che possono esplodere da un momento all’altro. Questo discorso non vale<br />

tanto per Paesi accomunati da un’unica religione, anche se divisa in sciiti e sunniti, quanto per<br />

l’Europa che deve affrontare il gravoso problema di ricevere richieste di partecipazione a<br />

pieno titolo alle istituzioni <strong>eu</strong>ropee. Mi riferisco in particolare alla Turchia, un Paese di<br />

consolidata tradizione islamica che potrebbe istaurare con l’Europa un partenariato, senza per<br />

questo accedere alle istituzioni <strong>eu</strong>ropee. Il livello identitario dell’Europa, in effetti, non<br />

consentirebbe alla Turchia di ritenersi partecipe dell’identità comune, in quanto affonda le sue<br />

radici in una tradizione storico-culturale assai diversa rispetto al resto dell’Europa. Nello<br />

stesso quotidiano Il Giornale del 5 giugno 2004, accanto all’articolo precedentemente citato,<br />

si trovava un altro articolo di Alberto Indelicato, intitolato “L’ultima tentazione dei ‘moderati’<br />

al potere in Turchia”, che riporto integralmente:<br />

Gli italiani sono ormai abituati ad uno spettacolo stucchevole ed oltretutto superfluo. Ogni<br />

qualvolta il governo o la maggioranza approvano una qualsiasi norma, l’opposizione chiede<br />

l’intervento del presidente della Repubblica implorandolo di opporsi. Più spesso gli ordina quasi di<br />

rifiutare la sua firma e di rispedire il provvedimento alle Camere denunciando una violazione della<br />

Costituzione. Naturalmente le incessanti e quasi sempre infondate richieste dell’intervento<br />

presidenziale hanno svilito l’importanza dell’invocazione e dello stesso strumento invocato, per cui i<br />

cittadini hanno finito per non dare alcuna importanza a questa sorta di giaculatoria. Sbaglierebbero<br />

però se pensassero che il rifiuto presidenziale sia sempre e dovunque ingiustificato.<br />

Non lo è stato ad esempio quello del presidente della Repubblica turca che ha rinviato al<br />

mittente una legge approvata in Parlamento dal “partito della Giustizia e dello Sviluppo” attualmente<br />

al governo. Con la legge si intendeva riconoscere ai titoli rilasciati dalle scuole religiose, quelle cioè<br />

dove si studia il Corano, valore legale per l’ammissione alle università statali. Com’è noto, il partito al<br />

164


potere ad Ankara, considerato “islamista moderato”, è in realtà l’erede di un’altra formazione: il<br />

“partito del benessere”, che si proponeva apertamente di potenziare il ruolo dell’Islam nei costumi e<br />

nella legislazione del Paese. La norma sulle scuole religiose ora proposta si ricollegava proprio a<br />

quella tendenza. È stata opportuna quindi l’eccezione di incostituzionalità eccepita dal presidente<br />

Necdet Sezer sulla base dei principi aconfessionali fissati da Kemal Atatürk. Al di là dell’utilità dello<br />

strumento di rinvio quando, come in questo caso, esso è usato per impedire reali violazioni e non come<br />

strumento di lotta politica, l’episodio deve indurre ad alcune riflessioni. Esso ha dimostrato anzitutto<br />

che i cosiddetti partiti islamici moderati, come quello al potere ad Ankara, tanto moderati non sono,<br />

perché sotto la vernice “laica” in essi riemerge sempre la tentazione di tornare alle tradizioni religiose<br />

più retrive. Coloro che in Europa si sono a suo tempo sbracciati, insistendo nel sostenere che la<br />

Turchia è ormai un Paese che si ispira ai principi laici, dovrebbero riflettere sul pericolo che le sue<br />

forze politiche facciano ricadere il Paese nel passato islamico, in contrasto con i principi voluti dal<br />

fondatore della Repubblica. Nel caso concreto la Corte costituzionale di Ankara, se sarà investita del<br />

problema, forse rigetterà la legge, ma fino a quando la composizione di quell’organo sarà tale da far sì<br />

che essa sia sottratta alle pressioni dell’opinione pubblica? Appena anch’essa sarà l’espressione della<br />

maggioranza islamista, saranno i militari ad intervenire per salvare come è già avvenuto in passato<br />

l’eredità di Kemal, e gli <strong>eu</strong>ropei si troveranno di fronte alla scelta di approvarne l’azione<br />

necessariamente antidemocratica o di accettare che i Parlamenti eletti dalla maggioranza impongano la<br />

legge religiosa.<br />

La prospettiva è abbastanza allarmante già ora, ma come dovrà essere affrontata quando -<br />

come da alcuni si continua a chiedere - la Turchia entrerà a far parte dell’Unione Europea? Si sostiene<br />

che il suo ingresso costituirà un ponte attraverso il quale il pensiero moderno penetrerà nel mondo<br />

musulmano. Si dimentica che da un ponte può passare tutto nelle due direzioni, prodotti utili e prodotti<br />

nocivi, e fuor di metafora: abitudini accettabili e costumi inconciliabili con quelli occidentali.<br />

Continuare a far credere ai dirigenti turchi che perché il loro Paese sia accolto nella famiglia <strong>eu</strong>ropea è<br />

sufficiente che esso si adegui ai parametri economici di Maastricht significa ingannarli. A meno che<br />

ciò non significhi voler ingannare noi stessi.<br />

Le divergenze messe in evidenza dall’articolo e i vicoli ciechi che l’Europa<br />

imboccherebbe accollandosi una responsabilità così gravosa come l’inclusione di un Paese<br />

con una forte tradizione islamica ci portano a vagliare attentamente l’insufficienza dei<br />

parametri economici di Maastricht per accogliere nella Famiglia Europea un componente che<br />

possiede un’identità forte, combattiva e molto diversa da quella degli altri componenti<br />

<strong>eu</strong>ropei.<br />

165


Una politica pragmatica.<br />

Il 25 novembre 2003 intervistato a Ballarò, Michael Laeden, politologo, analista<br />

dell’istituto di Washington, ha definito “paese serio” quello che agisce quando è il momento<br />

di agire. E ha aggiunto: “Dire che l’ONU sia fondamentale per agire nel mondo moderno è un<br />

mito e un’idea astratta”. In base a questa definizione, Francia e Germania non sarebbero seri.<br />

Il 26 gennaio 2004 il vicepresidente USA Cheney giunge a Roma e, definendo l’Italia<br />

“uno degli alleati più forti e fidati”, precisa che occorre “scongiurare” l’Europa contrapposta<br />

agli USA” e “rafforzare la NATO per la lotta al terrorismo”, e assicura: “Entro giugno pieni<br />

poteri agli iracheni”.<br />

Il terrorismo ha diviso il mondo in paesi “seri” e paesi “non seri”. Ma, al momento di<br />

vincere la pace e costruire la democrazia quale criterio useranno gli USA per qualificare i vari<br />

paesi?<br />

La guerra contro il terrorismo coinvolge solo i paesi che sono alleati degli USA e<br />

perché si sono schierati dalla sua parte, come se fosse la guerra con la sua alleanza ad<br />

alimentare il terrorismo? Occorre precisare che la guerra di cui stiamo parlando è una guerra<br />

per il potere, che sfrutta la manovalanza e la cultura di solidarietà tra islamici per coalizzarsi<br />

contro il potere dell’Occidente e dell’Islam moderato. Si tratta di una guerra per il controllo<br />

del mondo tipica delle menti in preda alla sete di potere e all’onnipotenza narcisistica.<br />

Michael Laeden ha dichiarato, nell’ambito della trasmissione citata, che “non è una<br />

guerra religiosa, perché i terroristi ammazzano anche i musulmani. Non agiscono in nome dei<br />

poveri. I 19 terroristi delle Torri Gemelle erano figli di avvocati e medici. Hanno scelto come<br />

carriera il terrorismo. Ci sono legami tra Saddam e Al Qaida”.<br />

Occorre innanzitutto osservare che, se non agiscono in nome dei poveri, arruolano la<br />

manovalanza tra i poveri e utilizzano il potere istigatorio della Guerra Santa proclamata da<br />

Bin Laden, per seminare odio verso gli “infedeli” del mondo occidentale e dell’Islam<br />

moderato considerato un “tradimento” della vera fede. Sotto l’influenza dei proclami di Bin<br />

Laden e di altri “capi”, le cellule sparse che operano in maniera clandestina, in Italia come in<br />

altri Paese, si organizzano e possono colpire da un momento all’altro. Non c’è alcun bisogno<br />

che Bin Laden impartisca l’ordine di sferrare l’attacco. Il “mandante occulto” è sempre<br />

presente nella figura-simbolo che ricompare ogni tanto con i messaggi registrati e trasmessi<br />

sulla televisione araba Al-Jazeera o in altro modo. Gli stessi attacchi costituiscono un invito<br />

esplicito a ripetere il gesto per imitazione. Non a caso, subito dopo l’attacco di Nassirya ai<br />

carabinieri italiani, l’imam di Carmagnola ha cominciato a predicare l’odio contro l’Italia e ad<br />

annunciare altri attentati a Roma e a Milano. La sua espulsione, seguita il giorno seguente da<br />

166


quella di altri sette islamici, è pienamente coerente con una politica di tutela della sicurezza<br />

dei cittadini italiani e islamici residenti sul territorio italiano. In effetti, il terrorismo islamico<br />

e la diffusione dell’odio preoccupano non solo l’opinione pubblica italiana, che fa fatica a<br />

distinguere tra integralismo, terrorismo e diversità culturale degli islamici, ma anche gli stessi<br />

islamici moderati, che sono venuti in Italia soltanto per lavorare onestamente e mantenere la<br />

loro famiglia.<br />

Il potere del pregiudizio consiste infatti nel porre in un’unica categoria tutti coloro che<br />

appartengono ad un gruppo etnico e religioso, per cui gli islamici moderati e onesti sono<br />

sicuramente danneggiati dall’immagine che gli altri cittadini si fanno di loro. Il terrorismo si<br />

pone, infatti, come scontro di civiltà, per cui tutti i musulmani sarebbero contro gli “infedeli”,<br />

cristiani e islamici moderati. Si instaurano la “caccia al musulmano”, la xenofobia, il<br />

desiderio della guerra all’Occidente. Viene colpita la “categoria”, senza distinguere un<br />

individuo da un altro, secondo la logica tipica del “pregiudizio” che investe un intero gruppo.<br />

Qui occorre operare una distinzione fondamentale fra questi terroristi che, come ha<br />

detto Magdi Allan del Corriere della Sera a Porta a Porta del primo dicembre 2003,<br />

presentano una “crisi di identità” che li porta a rifiutare i valori occidentali, e quei musulmani<br />

che desiderano integrarsi nel territorio nazionale. In tale linea, il provvedimento di espulsione<br />

dei soggetti pericolosi salvaguarda implicitamente coloro che desiderano integrarsi nel<br />

territorio italiano rispettando le leggi dell’Italia.<br />

L’istigazione a delinquere di cui l’imam di Carmagnola si è reso colpevole ha ricevuto<br />

un’implicita legittimazione da un atto, l’attacco a Nassirya, già compiuto da attivisti della<br />

Guerra Santa.<br />

Michael Laeden sostiene che non si tratta di una guerra religiosa. Ma questa guerra<br />

utilizza il potere religioso, che nell’Islam non si differenzia da quello politico, per influire sul<br />

popolo musulmano e avviarlo alla conquista del potere politico. L’imam è una figura di<br />

riferimento religiosa e politica nello stesso tempo, anche se in periodo di pace la politica<br />

lascia il posto alla religione. Ma in tempo di guerra - e oggi siamo in guerra - la politica<br />

prevale sulla religione. Le cellule dormienti che si trovano in Italia potrebbero svegliarsi da<br />

un momento all’altro e mettere a repentaglio la sicurezza nazionale con un’azione di massa.<br />

Il 22 novembre 2003 il ministro dell’Interno Pisanu, in visita a Ischia, sostiene che<br />

“l’Italia è uno dei bersagli principali dell’integralismo islamico. Singoli individui e cellule<br />

dormienti di Al Qaida potrebbero colpire in Italia”. Pisanu invita all’unità nella battaglia<br />

contro il terrorismo. Le cellule presenti in Italia non sono solo sedi logistiche, ma anche<br />

operative, con addestramento quotidiano all’attività terroristica di soggetti che peraltro si<br />

167


mimetizzano dietro lavori apparentemente “normali”. Alcune moschee sono luoghi operativi,<br />

e non solo di preghiera e incontro. Un islamico che si è fatto esplodere in Iraq si è addestrato a<br />

Milano.<br />

Gli islamici ora puntano sull’Europa. La lotta contro il terrorismo ha bisogno di unità,<br />

fermezza e tenacia. Nel 2003, 71 terroristi sono stati arrestati contro i 16 del 2000. Usano il<br />

traffico di droga per finanziarsi. Una cellula islamica è stata sgominata il 28 novembre 2003.<br />

Sempre nel 2003 sono stati arrestati 5 magrebini e uno è ricercato in Germania, dove è facile<br />

mimetizzarsi per l’elevato numero di immigrati islamici, tra cui circa tre milioni di turchi.<br />

Alcuni attentatori delle Torri Gemelle vivevano e si erano addestrati nella Germania del nord.<br />

Di fronte alla minaccia oscura e non identificabile del terrorismo, la domanda che si<br />

pone è: qual è lo strumento più efficace per isolarlo e sconfiggerlo?<br />

La teoria della “guerra preventiva” propone un intervento repressivo, armato e<br />

poliziesco. Le informazioni fornite dai servizi segreti al governo inglese “non escludevano” la<br />

presenza di armi di distruzioni di massa, ma non fornivano “dati certi”. Il giornalista Andrew<br />

Gilligan ha gonfiato le informazioni, mentre David Kelly, lo scienziato inglese ex ispettore<br />

ONU in Iraq morto suicida, ha detto di non aver mai parlato di “dati manipolati”.<br />

Anche se probabilmente c’è stato un uso enfatizzato ed ingigantito delle informazioni<br />

dell’Intelligence, per persuadere l’opinione pubblica inglese circa la necessità di intervenire<br />

con le armi, la guerra preventiva in Iraq è stata decisa a prescindere dalla presenza di armi di<br />

distruzione di massa, che comunque Saddam in passato ha usato contro il suo stesso popolo.<br />

Gli abitanti di interi villaggi curdi sono stati sterminati con il gas letale.<br />

Anche se dal ’91 Saddam non sembra aver fabbricato armi di distruzione di massa,<br />

secondo gli USA la sua pericolosità era tale da costituire comunque una minaccia per la<br />

stabilità della pace. I suoi contatti con Al Qaida e la possibilità che potesse procurarsi armi<br />

atomiche rappresentavano, infatti, una spada di Damocle per l’Occidente.<br />

La “teoria” alternativa alla guerra preventiva, che suggerisco nei miei libri, prospetta<br />

l’isolamento degli estremisti attraverso il consenso che può essere ottenuto solo con il dialogo<br />

rivolto all’Islam moderato.<br />

Le due “teorie” possono anche non contrapporsi, bensì integrarsi a vicenda. In Italia<br />

abbiamo sconfitto il terrorismo politicamente, isolandolo. I terroristi si consideravano in<br />

guerra, mentre noi siamo in pace e quindi siamo indifesi.<br />

Dobbiamo munirci anche di armi culturali, ma non “ideologiche”, per fronteggiare la<br />

minaccia terroristica.<br />

Ora anche la Libia sembra intenzionata ad entrare a far parte dei Paesi islamici<br />

168


moderati, forse più sotto la spinta del dialogo che della guerra in Iraq. Il 20 dicembre 2003<br />

Gheddafi, che in passato stava per costruire la bomba atomica, sottrae la Libia alla condizione<br />

di stato canaglia e smantella gli arsenali con le armi di distruzione di masse. La Libia esce<br />

così dallo stato di isolamento in cui si è trovata dopo l’embargo. Nella “lista nera” restano<br />

ancora l’Iran e la Corea del Nord.<br />

Il terrorismo si combatte con la politica, con il dialogo con l’Islam moderato e con la<br />

legittima difesa. Per agire sulle cause del terrorismo e non sui sintomi, dobbiamo considerare<br />

che i terroristi vogliono difendere l’indipendenza nazionale, il diritto ad una patria e<br />

rappresentano la rivolta dei poveri. In Cecenia c’è una sistematica violazione dei diritti umani,<br />

con uccisione di civili e stupri. Relativamente a questo martoriato Paese, dobbiamo<br />

testimoniare con i nostri valori, altrimenti legittimiamo il terrorismo e forniamo l’alibi per<br />

difendere i diritti legittimi.<br />

La pace dunque ha bisogno anche di forza e presenza sul campo. Ma c’è da chiedersi:<br />

chi sono i moderati? Coloro che sono disposti a comprendere il punto di vista<br />

dell’interlocutore, mettendosi a guardare la realtà con i suoi occhi e calandosi nei suoi panni;<br />

coloro che sono disposti a mettere in dubbio le loro credenze su di sé, sugli altri e sul mondo,<br />

e che si siedono davanti ad un tavolo perché sono aperti al cambiamento delle idee.<br />

I moderati sono coloro che possono e vogliono convivere pacificamente nel rispetto e<br />

nella tolleranza dei modi di vivere e di pensare degli altri. Occorre predisporre strategie di<br />

dialogo con gli islamici moderati, affinché siano proprio loro ad isolare gli estremisti e i<br />

terroristi appartenenti alla stessa religione. Non c’è nulla di più potente ed influente del<br />

pensiero moderato su quello intransigente ed estremistico.<br />

Pertanto, la prospettiva di integrazione degli immigrati attraverso il voto alle elezioni<br />

amministrative non può essere etichettata come “di sinistra” e, quindi “snaturante” nei<br />

confronti di chi ha dato il suo voto a destra. Ciascuna proposta politica, infatti, va valutata a<br />

prescindere dalle etichette classificatorie che separano le persone, come si fa con i piselli o i<br />

fagioli da sbucciare, che vengono staccati dall’involucro e messi in una cesta a parte. Una<br />

politica semplicemente realista e pragmatica, che considera i problemi reali di una nazione<br />

non può essere trattata alla stregua dei piselli o dei fagioli.<br />

In Francia, ad esempio, chi è pro immigrati viene considerato di sinistra e chi è contro<br />

gli immigrati viene ritenuto di destra. L’Italia, Paese che ha conosciuto un forte flusso di<br />

emigrazione e tutti i problemi dell’integrazione in terra straniera, non può che essere solidale<br />

con coloro che desiderano fare di questo Paese la loro residenza per lavorare e integrarsi. Ciò<br />

significa anche predisporre il terreno per il dialogo con le forze moderate dell’Islamismo e,<br />

169


pertanto, togliere l’acqua al pesce-terrorismo, che viene così isolato nelle moschee e nei<br />

luoghi di raduno dei musulmani. La Francia non ha conosciuto il problema dell’emigrazione,<br />

bensì quello dell’immigrazione di cittadini dalle ex colonie francesi, che sono stati assimilati<br />

in Francia. Oggi milioni di cittadini francesi sono musulmani. La politica della cittadinanza<br />

della Francia fa sì che ogni anno centomila persone acquisiscano la cittadinanza francese. In<br />

Italia la cittadinanza italiana viene data ogni anno a dieci mila “stranieri” per aver contratto il<br />

matrimonio con cittadini italiani. In Francia la proposta del ministro dell’Interno di fare un<br />

prefetto musulmano non suscita scalpore, mentre in Italia ciò sarebbe difficilmente<br />

comprensibile e compatibile con la realtà italiana per la diversità del contesto storico e<br />

ambientale in cui si è creato il flusso immigratorio.<br />

Tuttavia, la politica di integrazione nel territorio italiano di quanti desiderano sentirsi<br />

parte integrante di essa va perseguita con forza e determinazione perché è pragmatica e<br />

risponde alle esigenze della società attuale e del bisogno di sicurezza dei cittadini. La<br />

“psicosi” determinata dal sospetto che l’immigrato della porta accanto possa essere un<br />

terrorista può essere arginata dalla legittimazione degli integrati e dell’espulsione dei<br />

“disadattati”. Chi resta in Italia non può essere un terrorista o un soggetto pericoloso. Questa<br />

selezione, che può essere considerata una “schedatura” da qualche simpatizzante del<br />

terrorismo, viene confermata dalla “banca dati genetica” quale strumento identificatorio, atto<br />

sia a fornire prove nell’attività antiterroristica sia ad integrare i soggetti che non hanno nulla<br />

da spartire con il terrorismo.<br />

Dietro il terrorismo c’è una strategia politica che vuole colpire l’Islam moderato e i<br />

costruttori di pace appartenenti a tutte le culture. In Iraq Al Qaida colpisce la convivenza<br />

pacifica e il tentativo di ricostruzione. In Italia si sono annidati 85 professionisti del<br />

terrorismo, di cui non si è riusciti a bloccare tutti i beni. È stata sottovalutata la presa della<br />

predicazione islamica nel sobillare le masse e predisporre favorevolmente gli islamici alla<br />

conquista del potere attraverso il terrorismo.<br />

L’Europa deve prendere coscienza che è in atto una guerra santa attraverso lo<br />

strumento del terrorismo: ci stanno conquistando con le armi degli attacchi ripetuti, a<br />

sorpresa. La nostra risposta di <strong>eu</strong>ropei non può essere dettata dalla negazione del problema o<br />

dalla viltà, secondo le accuse rivolte da alcuni di inettitudine e passività. Bisogna agire con<br />

consapevolezza critica e autocritica, con decisione e determinazione. Ma ciò significa<br />

soprattutto pianificare una strategia da Guerriero evoluto che realizza un dialogo efficace ed<br />

efficiente con tutti coloro che, pur appartenendo ad una religione o etnia o nazione diversa<br />

dalla nostra, sono disposti ad ascoltare, a parlare, a recepire il nostro messaggio di pace, di<br />

170


ispetto, di civiltà, di amore.<br />

L’Europa è una unione istituzionale di stati e popoli basata sulla condivisione di valori<br />

e obiettivi. Il progetto diretto a rafforzare la voce unitaria dell’Europa va coltivato con<br />

costanza e fermezza, anche per quanto riguarda il dialogo con i moderati che aspirano ad<br />

un’autentica integrazione nel tessuto sociale <strong>eu</strong>ropeo.<br />

Le informazioni che orientano o disorientano.<br />

Un inglese ha osservato che gli americani sanno tutto, ma non lo capiscono: non<br />

estraggono una sintesi dalla massa di informazioni e non compongono gli scenari possibili.<br />

Troppe informazioni non possono essere messe insieme. Forse la tragedia delle Torri Gemelle<br />

si è verificata perché è stato impossibile mettere insieme le tessere del mosaico.<br />

Echelon, la spia satellitare, fornisce tre milioni di informazioni al minuto che arrivano<br />

al Pentagono. Ma molte di queste informazioni sono in arabo e dialetto arabo. Sono<br />

decodificabili in tempo reale? O restano inutilizzabili? Come ha potuto la CIA non prevedere<br />

che stava succedendo una cosa così spaventosa? Gli operatori della CIA non hanno visto<br />

perché non hanno saputo o non hanno voluto vedere?<br />

L’Intelligence ha trascurato molti elementi nel ’96 e dopo. Ha trascurato anche<br />

l’informazione pervenuta che alcuni arabi si stavano esercitando a pilotare aerei, tralasciando<br />

l’apprendimento della fase di decollo dell’aereo. L’Intelligence degli USA, dunque, ha fallito<br />

perché il compito era dell’FBI e non della CIA, come ha precisato Paolo Guzzanti,<br />

intervistato ad Enigma il 19 febbraio 2004?<br />

Nel 1995 il direttore delle operazioni di spionaggio della CIA non era mai stato<br />

all’estero, secondo informazioni ricevute. È vero che milioni di americani sono americani<br />

arabi che possono infiltrarsi. Ma sono stati arruolati dalla CIA per svolgere un’attività di<br />

moderno spionaggio? Solo la human intelligence, le fonti umane possono svolgere attività<br />

preventiva, sventando molti attentati. L’80% delle informazioni importanti sono accessibili a<br />

tutti - non sono segreti di stato - ma non vengono utilizzate e messe insieme in modo da<br />

assumere un significato.<br />

171


CAPITOLO IV<br />

INVITO A SVILUPPARE UN PROGETTO<br />

LA FUNZIONE DELLE RADICI NELL’ESPANSIONE DEL PROGRESSO<br />

In prossimità del Natale 2003 sono state intensificate speciali misure antiterrorismo<br />

concernenti 150 obiettivi a rischio, tra cui il Vaticano e Piazza S. Marco a Venezia. Ma noi<br />

<strong>eu</strong>ropei non reagiremo come Hitler all’ipotesi di un complotto. Non ci lasceremo coinvolgere<br />

in un delirio paranoide e affronteremo il problema dell’“assedio” architettato dal terrorismo<br />

islamico e dal fondamentalismo con le armi di una cultura evoluta e di una politica strategica<br />

lungimirante. Reagiremo in modo “sano”, puntando sul dialogo con gli islamici moderati, i<br />

quali a loro volta isoleranno i loro connazionali “fanatici”. Il dialogo con i moderati e tra<br />

moderati innalzerà la vera “barriera difensiva” contro gli attacchi terroristici e non il “muro”<br />

di Israele, anche se viene denominato <strong>eu</strong>femisticamente “barriera difensiva”.<br />

Noi <strong>eu</strong>ropei siamo chiamati a presentare al mondo un modello di civiltà impostato sul<br />

dialogo costruttivo e su una forte identità, basata sui valori condivisi e su radici storiche<br />

comuni.<br />

La nostra coscienza identitaria<br />

La minaccia del terrorismo ha risvegliato la nostra coscienza <strong>eu</strong>ropea e il nostro senso<br />

di responsabilità verso i fratelli <strong>eu</strong>ropei che per la loro storia sono cresciuti sotto regimi<br />

totalitari e non hanno potuto sviluppare autonomamente una coscienza <strong>eu</strong>ropeista e<br />

un’identità <strong>eu</strong>ropea. Ma a loro rivolgiamo la nostra attenzione affinché, crescendo nella<br />

Famiglia Europea, maturino nella certezza che c’è un posto per loro come in una Grande<br />

Famiglia, di cui ci si sente parte e per cui talvolta si rinuncia al proprio interesse, ricevendone<br />

in cambio solidarietà e aiuto al momento del bisogno.<br />

Questo augurio va inteso in senso affettuoso e non lesivo dell’“orgoglio nazionale”.<br />

D’altro lato, la Famiglia Europea, che accoglierà la Romania e la Bulgaria nel 2007,<br />

dovrà preparare psicologicamente queste due nazioni al “salto qualitativo” dell’appartenenza<br />

all’Europa, fornendo loro l’armamentario psicologico contenuto in questo libro per evolvere<br />

172


dallo stato di ex satelliti dell’URSS a quello di sorelle delle altre nazioni <strong>eu</strong>ropee nella Grande<br />

Famiglia Unita. La Famiglia Europea non potrà incrementare all’infinito il numero di figli,<br />

ma potrà sempre intrattenere rapporti di amicizia e solidarietà con le nazioni vicine. I Figli<br />

della Famiglia Europea potranno contribuire a fare dell’Europa non tanto una super-potenza,<br />

quanto una Super-Famiglia con un’Identità ben definita, protagonista degli equilibri<br />

internazionali per portare la pace nel mondo.<br />

Il terrorismo ci ha risvegliato una coscienza identitaria in quanto Nazioni e in quanto<br />

Vecchio Continente, con tradizioni antichissime e radici storiche comuni lontanissime nel<br />

tempo. Si dice che non sempre il male viene per nuocere. Dobbiamo fare tesoro di questo<br />

detto per acquisire una Nuova Coscienza di Europei, che si sono evoluti anche sotto la spinta<br />

del fenomeno terroristico. Le avanguardie animate da autentico ideale e coscienza <strong>eu</strong>ropeista<br />

potranno svolgere un lavoro prezioso come mediatrici culturali in una società ancora<br />

improntata al pregiudizio razzista, sessista e classista.<br />

Le donne, portatrici di valori mai tramontati come la famiglia, potranno acquisire<br />

coscienza del loro ruolo nella società unendo la richiesta di pari opportunità ad un contributo<br />

essenziale nel costruire un modello di civiltà a cui tutti desiderino “appartenere”. Saranno le<br />

donne, con la loro predisposizione alla cura degli altri, ad unire in una sintesi poli<br />

apparentemente opposti, come una forte identità e il dialogo interculturale, interreligioso,<br />

interetnico, internazionale.<br />

È la nascente cultura delle donne che si propone come pioniera di una civiltà fino ad<br />

oggi dominata dal mito del Guerriero, che ha continuamente bisogno di fanciulle in pericolo<br />

da salvare dal drago, per sentirsi Eroe. In tal modo, il Guerriero ha perpetuato le guerre, la<br />

povertà, l’inquinamento del pianeta, i disastri ecologici, per poter accorrere in aiuto delle<br />

vittime e sentirsi Eroe. La cultura delle donne, perciò, propone strategie preventive, in modo<br />

da non aver bisogno che gli uomini facciano gli Eroi salvatori, quando ormai è troppo tardi<br />

per intervenire e proporre soluzioni alternative al conflitto e alla guerra. La cultura delle<br />

donne si propone come cultura del dialogo, dello scambio dialettico di punti di vista, del<br />

radicamento identitario nella tradizione culturale e nella fedeltà alla storia, ai valori<br />

condivisi.<br />

La tradizione non è rigida e arida conservazione, bensì fedeltà alle radici, all’identità<br />

storico-culturale, ai valori condivisi da un popolo, da una nazione, da un Continente.<br />

D’altro lato, la prima formulazione della moderna idea di Europa risale a Niccolò<br />

Machiavelli. Nell’Arte della guerra egli scriveva: “Voi sapete come degli uomini eccellenti in<br />

guerra ne sono nominati assai in Europa, pochi in Africa e meno in Asia. Questo nasce perché<br />

173


queste due ultime parti del mondo hanno avuto uno principato o due e poche repubbliche; ma<br />

l’Europa solamente ha avuto qualche regno e infinite repubbliche”. Mentre in Asia,<br />

storicamente, i sovrani hanno un potere illimitato e regnano su masse passive di sudditi, in<br />

Europa proliferano le repubbliche, cioè gli Stati cittadini, dove la competizione tra i gruppi<br />

politici fa emergere le virtù individuali. Lo stesso potere monarchico, in Europa, è vincolato<br />

da consuetudini e leggi, e da una stratificazione di poteri che preclude la strada al dispotismo.<br />

L’Asia è la terra dove gli uomini sono sudditi, l’Europa è la terra dove emergono le virtù<br />

dell’individuo. Nella storia moderna, l’Europa appare per la prima volta con una sua<br />

caratteristica “morale”, non fisica.<br />

In passato, anche dal punto di vista politico, si poteva parlare di Cristianità perché i<br />

due grandi sistemi medioevali, l’Impero e il Papato, esercitavano un dominio che tendeva<br />

all’unificazione del mondo cristiano. L’era moderna, invece, si profila come l’epoca degli<br />

Stati nazionali, che conferiscono all’Europa quel quadro politico diversificato su cui<br />

Machiavelli tanto insisteva.<br />

L’ideologia nazista e quella comunista non considerano l’individuo in quanto persona,<br />

ma come ingranaggio nel sistema sociale. L’individuo è strumento e il fine è lo stato,<br />

onnipotente tutore dei cittadini che predispone, organizza e decide su ogni sfera della vita,<br />

anche privata, controllando che tutto proceda secondo l’ideologia di stato. Pertanto,<br />

l’individuo deve servire ed essere utile al sistema. Altrimenti, viene “scartato”, perché non ha<br />

alcun valore per se stesso. Questa è la logica sottostante ai campi di sterminio nazisti e ai<br />

Gulag sovietici.<br />

L’individuo non viene accettato per se stesso, ma viene valutato in funzione di quanto<br />

è utile al sistema. Gli handicappati, pertanto, in quanto “inutili”, sono stati eliminati da Hitler.<br />

Per contro, dove l’accento viene posto sulla persona e i suoi valori, non c’è spazio per le<br />

ideologie totalitarie.<br />

Tradizione e crescita<br />

La tradizione è complementare alla trasformazione: occorre una rampa di lancio per<br />

far partire un missile. La tradizione è la struttura portante. Senza di essa è difficile attuare un<br />

cambiamento sostanziale. Occorre una struttura di base per poter operare una ristrutturazione.<br />

Una psiche destrutturata oscilla nel vuoto: la psicosi.<br />

La tradizione è mettere radici: un terreno culturale in cui costruire il cambiamento e la<br />

civiltà. Tradizione e innovazione non sono reciprocamente escludentisi, ma si integrano a<br />

vicenda, in una sintesi.<br />

174


Ci sono posizioni molto lontane e diverse che possono convivere benissimo proprio<br />

perché costituiscono due “lati integranti” della stessa medaglia. Il carattere composito della<br />

realtà che presenta molte sfaccettature giustifica l’assunzione di vari punti di vista<br />

contemporanei nell’osservare lo stesso oggetto. In tale ottica, ad esempio, non c’è conflitto o<br />

incompatibilità tra modello di produzione neoliberista, modello di innovazione con un ruolo<br />

dello stato nell’economia, anziché affidamento pieno al mercato e modello di civiltà, come<br />

precisa scelta di sviluppo anche politico e sociale.<br />

Sostenere la capacità individuale e la competizione economica, ma anche il settore no-<br />

profit come agente che opera nell’assistenza e solidarietà, e il principio di sussidiarietà che è<br />

alla base dell’autonomia, non appare contraddittorio. Si tratta di modi diversi di guardare la<br />

stessa realtà economica e sociale, tenendo conto del bisogno dei cittadini di crescere a<br />

molteplici livelli.<br />

Le dicotomie del tipo o/o, che escludono a priori un aspetto della medaglia, in fin dei<br />

conti, bloccano la crescita di un lato della società, rendendola atrofica o asfittica in una parte<br />

delle sue funzioni. Il paradigma e/e può correggere l’unilogica delle posizioni politiche<br />

improntate all’economia di mercato liberista “pura e semplice”.<br />

Secondo questa linea la lotta al declino deve favorire il superamento dei deficit<br />

competitivi dell’industria e dei servizi, per produrre nuovo reddito intervenendo sulla scarsa<br />

presenza di management, internazionalizzazione limitata, produzioni a basso contenuto<br />

tecnologico, poca capacità di innovazione e di utilizzo delle risorse umane. Gli incentivi e<br />

disincentivi mirati possono contribuire ad una politica della Competitività e Sviluppo.<br />

Il progetto per la realizzazione in Veneto di Centri di Eccellenza, luoghi di master,<br />

tavoli di ricerca e di applicazione di soluzioni innovative rivolte alle realtà produttive<br />

affronterà anche le tematiche che vanno dai cambiamenti climatici all’inquinamento, dalla<br />

sicurezza alimentare al miglioramento del vivere nella società industriale.<br />

Dare più spazio alla partecipazione sociale ed economica della società civile e<br />

organizzata significa cooperare alla crescita sociale e non certo interferire su di essa,<br />

bloccandola. Bisogna ricomporre le distanze tra sviluppo e cultura, tra economia e civiltà, tra<br />

beni materiali e immateriali.<br />

È la terza fase del capitalismo, spiegano gli economisti veneti e fra questi il professor<br />

Ferruccio Bresolin, uno dei cinque saggi che la Regione ha interpellato per individuare<br />

priorità, direttive e ispirazioni fondamentali di buon governo in vista della definizione di un<br />

nuovo Piano territoriale che disegnerà il Veneto del futuro.<br />

175


Il “capitalismo della conoscenza” trasferisce le competenze acquisite sul campo (che<br />

hanno fatto la fortuna del Nord-est), in un sistema per produrre ricerca e innovazione e,<br />

quindi, competitività.<br />

Se la questione si affronta sul piano dei rapporti tra economia e società, allora si<br />

chiama “capitalismo della responsabilità” e mira a ripristinare una nuova alleanza tra etica ed<br />

economia, per far sì che il progresso economico si possa realmente trasformare in benessere.<br />

“Proprio il Nord-est - ha commentato Luca Cordero di Montezemolo nelle<br />

affollatissime assemblee annuali di fine giugno 2004 degli industriali del Veneto, fra le<br />

numerose tappe a Nord-est - rappresenta in questo senso un interessante laboratorio”.<br />

Una presenza, quella di Montezemolo a Padova, così come a Verona prima e a<br />

Venezia poi, che vuole essere un invito esplicito rivolto a tutti (imprenditori, politici,<br />

sindacati, banche, università) a partecipare attivamente, a lavorare insieme per fare squadra e<br />

sviluppare quel progetto che si chiama “ripresa economia”.<br />

Agli imprenditori, innanzitutto, Montezemolo chiede di fare la propria parte e di<br />

assumersi le proprie responsabilità. Ma le istituzioni, i sindacati, il sistema bancario, le<br />

università sono tutti attori coinvolti dal leader di Confindustria per creare un sistema<br />

funzionale alle imprese e agli imprenditori, che non devono essere lasciati soli ad affrontare<br />

una sfida davvero decisiva per il futuro del Paese.<br />

Gli imprenditori chiedono, a questo punto, di essere messi in condizione di svolgere la<br />

propria attività. Sono pronti, con coraggio e risolutezza, a rimboccarsi le maniche e cogliere le<br />

nuove opportunità di sviluppo. L’esemplificazione del concetto attingendo dalla Formula Uno<br />

è per Montezemolo quasi obbligata: “Anche Schumacher, - dice - che è un grande campione,<br />

se dovesse guidare la Ferrari con una mano sola non otterrebbe gli stessi risultati. Gli<br />

imprenditori chiedono di poter tornare a guidare a due mani le proprie imprese e ricominciare<br />

ad essere protagonisti consapevoli nel circuito dell’economia”.<br />

Il punto di partenza è la necessità di una classe dirigente autorevole, credibile e<br />

competente, fatta di leader - in tutti i settori chiamati in causa - capaci di decidere, di indicare<br />

la strada e di assumersi le proprie responsabilità. Ma soprattutto una classe dirigente che<br />

sappia fare quadra, convergere su pochi ma indispensabili obiettivi. “Un tasso di litigiosità<br />

eccessivo e generalizzato invece - bacchetta il numero uno di viale dell’Astronomia - disturba<br />

la sempre più diffusa necessità di unità e dialogo”.<br />

Il punto d’arrivo è allora il raggiungimento di questi obiettivi prioritari, a risposta di<br />

improrogabili esigenze dell’industria. E riguardano il ridimensionamento del costo<br />

dell’energia, la funzionalità della pubblica amministrazione, le infrastrutture e i servizi, ma<br />

176


soprattutto la ricerca e l’innovazione.<br />

Una temporanea soluzione all’eccessivo costo dell’energia va trovata nel breve<br />

periodo chiamando a confronto produttori e consumatori, anche se la questione va poi<br />

affrontata radicalmente sul medio e lungo termine con un’adeguata politica industriale. Sulla<br />

pubblica amministrazione: così com’è - ha affermato Montezemolo - rappresenta soltanto una<br />

palla al piede del sistema italiano. “Non è accettabile - ha detto - che la PMI debba destinare<br />

tanto tempo e denaro per risolvere le pratiche burocratiche, piuttosto che concentrarsi sulla<br />

conquista di nuovi mercati”. Quanto alle infrastrutture, il confronto anche solo con un Paese<br />

ad economica emergente, la Cina, è impietoso: “Ogni cinque-sei anni a Shangai - ha fatto<br />

osservare - completano strade nuove, sopraelevate e autostrade. Qui da noi stiamo discutendo<br />

da trent’anni sul passante di Mestre!”.<br />

Ma la priorità in assoluto rimane la ricerca e l’innovazione. “Un Paese che non investe<br />

in ricerca - ha sottolineato con amarezza uno di Confindustria - non pensa al proprio futuro.<br />

Se è vero tuttavia che la ricerca, in un Paese moderno, ha bisogno di essere sostenuta ed<br />

incentivata dallo Stato, l’innovazione, però, è altra cosa: è un’innata propensione che ciascun<br />

imprenditore deve avere scritta nel proprio DNA, insieme allo spirito imprenditoriale”.<br />

La strada da percorrere è quella del dialogo e della concertazione. Un confronto sulle<br />

priorità che il mondo dell’impresa, a partire dal suo leader propone a sindacati - “che devono<br />

essere richiamati ad un comportamento responsabile e considerati interlocutori credibili e<br />

indispensabili” - banche - “con cui è necessario ricostruire un rapporto di reciproca fiducia e<br />

trasparenza per crescere insieme” - istituzioni e Governo, sollecitato nel ruolo strategico di<br />

creare il consenso per operazioni necessarie alla crescita del Paese. Ciò che il mondo<br />

dell’impresa deve giudicare sono i fatti e i risultati. Ciò che chi è al Governo da parte sua<br />

deve assicurare, indipendentemente dall’alternanza politica, è la continuità di progetti e<br />

pianificazioni essenziali allo sviluppo.<br />

Ma istituzioni, rappresentanze sindacali, banche e università all’altezza delle attuali<br />

sfide possono fare ben poco se il mondo imprenditoriale non si adegua a nuovi scenari<br />

internazionali e non torna con prodotti innovativi ad “aggredire” i mercati. A loro si chiede di<br />

compiere un indispensabile salto culturale.<br />

Il presidente di Confindustria, con toni pacati ma autorevoli, scuote i suoi, chiede una<br />

crescita dimensionale delle imprese - “apriamo ai soci che ci portano idee nuove, know how e<br />

sviluppo” -, innovazione continua e tecnologie - “può essere che negli ultimi anni qualcuno di<br />

noi si sia lasciato prendere la mano ed abbia acquistato un’auto in più al figlio piuttosto che<br />

investire in macchinari e formazione, fosse stata poi una Maserati...” -, capitale umano<br />

177


qualificato e conoscenze per mettere a punto modelli organizzativi e strategie di<br />

internazionalizzazione sempre più efficaci.<br />

E il senatore Tiziano Tr<strong>eu</strong> prospetta i dibattiti sul rilancio del modello veneto, che<br />

hanno individuato con larga convergenza i persistenti del sistema (la vitalità delle sue piccole<br />

imprese in particolare) e i suoi punti critici (la scarsa innovazione, l’eccessivo posizionamento<br />

su settori a basso valore aggiunto, la frammentarietà produttiva, la congestione del territorio,<br />

la inadeguatezza delle infrastrutture). Entrambi sono simili a quelli propri di gran parte del<br />

sistema economico italiano; ma in Veneto sono più evidenti, proprio per la posizione di<br />

“punta” che ha raggiunto la nostra economia.<br />

“Sottolineo due punti critici - precisa Tr<strong>eu</strong> in un articolo apparso su La piazza, un<br />

giornale locale del 24 luglio 2004 -: un primo aspetto essenziale riguarda le modalità con cui<br />

l’innovazione, che tutti ritengono cruciale, si può diffondere e far fare il salto di complessità<br />

necessaria al nostro sistema. Le piccole imprese sono ancora capaci di innovare; ma lo hanno<br />

fatto finora in modo incrementale, a piccoli passi, e quasi sempre individualmente. Ora si<br />

chiede una innovazione profonda e spesso a ‘salti’. Per far questo hanno bisogno di sostegni,<br />

di un ponte fra la ricerca avanzata e le sue applicazioni diffuse. Questo ruolo lo possono<br />

svolgere le grandi imprese, e dovremmo sostenerle e garantirne la crescita. Ma intanto ne<br />

abbiamo poche.<br />

Lo stesso ruolo può essere svolto in forme alternative, che vanno attivate subito: con un<br />

grande sforzo collettivo di sistema, come si dice, non ognuno per sé come si è fatto finora. Ma<br />

mettendosi insieme, con forme efficaci per organizzare davvero la diffusione delle<br />

innovazioni, la fornitura di servizi di qualità - finanziari, commerciali - che sono essenziali<br />

per competere sullo scenario globale”.<br />

Il tema dell’innovazione sollecita altri punti di riflessione: “Le associazioni di<br />

categoria devono porsi questo nuovo obiettivo. E le istituzioni pubbliche locali devono<br />

collaborare. Oltre le reti associative e tecnologiche sono necessarie reti istituzionali che<br />

sostengano i legami fra università, centri di ricerca, e imprese, che aiutino le piccole-medie<br />

imprese a fare veramente sistema.<br />

La ricerca pubblica e privata deve essere organizzata a sistema e finalizzata meglio<br />

all’innovazione produttiva. Venti centri di ricerca in Veneto sono una ricchezza se si<br />

concentrano e coordinano davvero in una missione comune: altrimenti sono uno spreco.<br />

Un secondo punto riguarda la qualità e l’innovazione. Per competere è prioritario che<br />

le imprese e il pubblico aumentino gli investimenti in tecnologie finalizzandoli ai settori<br />

praticabili dal nostro sistema. Non a pioggia, non su tutti i settori, alcuni ci sono preclusi; ma<br />

178


molte opportunità si aprono continuamente in settori impensati fino a ieri (pensiamo alle<br />

nanotecnologie e biotecnologie entrambe praticabili anche su piccola scala). Gli incentivi alle<br />

imprese non vanno aboliti, come qualcuno pretende. Vanno rigorosamente orientati a chi<br />

investe effettivamente in tecnologie e settori innovativi. Ma le tecnologie non bastano a<br />

innovare, se l’organizzazione di impresa resta vecchia e se le risorse umane non sono<br />

adeguatamente formate. Il Veneto deve investire di più in cultura d’impresa e in formazione, a<br />

tutti i livelli.<br />

La prima generazione di imprenditori si era ‘autoformata’ sul campo. Ora non basta<br />

più. La successione generazionale nelle imprese è un problema enorme e tocca l’intero vissuto<br />

dei giovani. Ma è anche un problema di cultura imprenditoriale, da modernizzare e<br />

diffondere. Il Nord-est ha recuperato in scolarità ma non abbastanza; c’è ancora troppo poca<br />

istruzione tecnico-scientifica e poca cultura manageriale. Gli investimenti in formazione<br />

vanno aumentati, come quelli in tecnologia. E non solo per gli operai, ma anche per manager<br />

e imprenditori. Nella società della conoscenza non bastano le doti spontanee di creatività dei<br />

nostri padri. Servono più tecnologia, organizzazioni più sofisticate, maggiore cultura<br />

imprenditoriale e più capacità di sistema”.<br />

E Raffaele Zanon, assessore regionale alle Politiche della sicurezza e dei flussi<br />

migratori sostiene nello stesso giornale La Piazza che “nel Veneto è palpabile il bisogno di<br />

iniziative che sviluppino il rapporto con le categorie economiche e sociali, ma è altrettanto<br />

concreta la necessità di una crescita culturale e identitaria. Una vera comunità è tale, soltanto<br />

se dotata di un progetto e di una classe dirigente che sappia essere all’altezza delle aspettative<br />

del Veneto.<br />

In forza della richiesta di politica proveniente dalle mutate condizioni storiche, si<br />

deduce che il momento è propizio per stipulare un patto per lo sviluppo tra i partiti che<br />

governano la regione e l’imprenditoria veneta. Patto che Alleanza Nazionale, per la sua<br />

estraneità alle vicende del passato e per la sua posizione politica caratterizzata dalla volontà di<br />

coniugare le esigenze del mercato con quelle della comunità, è ampiamente in grado di<br />

stipulare. L’esperienza di governo maturata in questi anni, la serietà della classe dirigente, il<br />

sostrato di valori che ne supporta l’azione politica, sono una garanzia di affidabilità. La Destra<br />

politica deve diventare protagonista in occasione dell’apertura del dibattito sul ‘piano di<br />

sviluppo regionale’.<br />

Oggi, dopo alterne vicende e superati i campanilismi, esiste una squadra veneta<br />

costituita da presidenti provinciali, amministratori, professionisti, consiglieri ed assessori<br />

regionali e parlamentari che si è aggregata sul lavoro quotidiano. L’obiettivo è di interpretare<br />

179


correttamente quello che la gente chiede alla politica, facendo giungere ad essa il messaggio<br />

della Destra politica e di quei valori che sono gli stessi che ritroviamo nella cultura del popolo<br />

veneto. Una cultura che riesce a coniugare la modernità con la tradizione, il profitto con la<br />

socialità, la globalizzazione con la riscoperta delle radici”.<br />

Tradizione e innovazione, coscienza identitaria, radicamento e crescita, valori<br />

condivisi e dialogo, fedeltà alle radici e ricerca possono integrarsi in un connubio che diventa<br />

parte del tessuto sociale.<br />

In questo quadro, le donne possono tessere la tela della società proponendosi come<br />

elemento unificante, che porta alla sintesi, anziché allo sbriciolamento. Il pensiero disgiuntivo<br />

degli uomini può essere controbilanciato da quello “congiuntivo” delle donne, preservando la<br />

società dal disgregamento. Le donne possono adoperarsi per preservare le tradizioni culturali<br />

dallo scardinamento operato dalla superficialità, dagli attacchi arroganti e dall’indifferenza.<br />

Una domanda sorge spontaneamente riflettendo sull’evoluzione della nostra cultura e<br />

della nostra società sempre più multietnica. Cosa ci ha portato a dimenticare la nostra identità<br />

storico-culturale e le nostre radici in nome del livellamento e della società multietnica, in cui è<br />

“meglio” far sparire le tracce identitarie, per non apparire “provinciali” nell’era della<br />

globalizzazione? Le donne islamiche col loro velo tradizionale che si fa notare vistosamente<br />

mentre camminano per le strade delle nostre città, viceversa, possono “imporre” le loro<br />

usanze senza per questo essere considerate “provinciali” dalla nostra sinistra. “Loro” vengono<br />

giustificate come “fedeli alla loro cultura”, mentre “noi” siamo considerati “provinciali” se ci<br />

vestiamo con abiti tradizionali della regione o della provincia.<br />

Come mai ci sono “due pesi e due misure”? Come mai nessuno ha opposto obiezioni a<br />

chi voleva sradicare l’usanza di costruire il presepe nelle scuole, in prossimità del Natale, per<br />

“rispetto” verso la comunità islamica presente nella scuola? Ci vergognamo forse della nostra<br />

cultura, delle nostre tradizioni, della nostra identità storica? Qual è la cultura che strappa le<br />

radici storico-culturali, fonte di identificazione e di “salute” mentale?<br />

Non è forse la cultura della sinistra che non ama connetterci con il nostro passato, con<br />

la nostra identità <strong>eu</strong>ropea, nazionale, regionale, locale?<br />

In effetti, la cultura del livellamento anonimo, dell’omogeneizzazione, dell’uniformità<br />

non tollera le differenze derivanti da una consapevolezza identitaria, dal contatto con le<br />

proprie radici storiche, dall’attingere la linfa vitale all’interno dell’individuo.<br />

La cultura del livellamento anonimo si preoccupa unicamente di non “dissolvere la<br />

dignità personale nel valore di scambio”, per prelevare le parole di Marx dal Manifesto del<br />

partito comunista, e denuncia “l’unica libertà, quella di commerciare, una libertà senza<br />

180


scrupoli”, secondo Marx concessa dalla borghesia nella società capitalistica.<br />

La cultura del livellamento anonimo non considera che c’è anche una libertà di<br />

attingere alla propria identità storica, culturale, familiare, personale, ma anche locale,<br />

regionale, nazionale, <strong>eu</strong>ropea, mondiale.<br />

Tutto ciò che riguarda l’identità e il processo di acquisizione di una consapevolezza<br />

identitaria viene spesso negato o scotomizzato dalla cultura della sinistra.<br />

La nostra civiltà occidentale, come del resto gran parte delle civiltà oggi dominanti sul<br />

pianeta, si trova impigliata in un paradosso. Da un lato, la diversità o la varietà delle attitudini<br />

e delle esperienze degli individui e delle collettività umane appare una precondizione<br />

indispensabile e necessaria perché le creazioni e le innovazioni possano avere luogo, perché le<br />

conoscenze possano essere formate e consolidate. D’altro lato, però, si è ben lontani,<br />

dall’accordare il giusto valore o quanto meno il dovuto rispetto alle diversità e alle varietà<br />

individuali e collettive. Al contrario, la tendenza prevalente è di ignorarle, di sottovalutarle e<br />

soprattutto, se possibile, di ridurle o addirittura di annullarle attraverso processi di<br />

omogeneizzazione forzata.<br />

Dove non si riesce a ridurre o ad annullare, prevale la tendenza a gerarchizzare e a<br />

subordinare, a definire un superiore e un inferiore, ciò che deve prevalere e ciò che deve<br />

essere sottoposto. Le relazioni tra maschile e femminile e fra mente e corpo, nella nostra come<br />

in altre civiltà, sono forse i casi più evidenti in cui l’ossessione della gerarchizzazione e della<br />

subordinazione ha annientato molte possibilità creative presenti nella tensione coevolutiva fra<br />

polarità distinte, e non opposte.<br />

Oggi non basta il rispetto reciproco fra le identità. È necessario che unità e diversità<br />

non siano più intese come separate e conflittuali, ma come i due poli tramite cui si definisce<br />

una medesima entità.<br />

È auspicabile che questa difficoltà di conciliazione sia superata da un pensiero delle<br />

diversità che sappia riconoscere che ogni universo è un pluriverso, che sappia cioè concepire<br />

insieme uno e molteplice - la molteplicità nell’unità e l’unità nella molteplicità - tutto e parti,<br />

interdipendenza planetaria e senso delle radici, apertura e chiusura, integrazione e<br />

appartenenza.<br />

La situazione del mondo attuale rende impraticabili i modi consolidati di concepire<br />

gruppi, identità, nonché confini fra gruppi e fra identità. Si tratta di istituire nuove regole del<br />

gioco che non sommergano più le diverse identità, ma che nemmeno le tengano isolate le une<br />

dalle altre. Si tratta di innescare non più meccanismi di conservazione, ma di coevoluzione.<br />

181


Identità negata o identità inesistente?<br />

Di fronte alla moltiplicazione delle interazioni e delle ibridazioni, molti gruppi, popoli,<br />

civiltà, forme di vita e di conoscenza temono di perdere la propria identità, di venire<br />

risucchiati in un magma indifferente e informe. Non a caso il Veneto si dimostra, ancora una<br />

volta, terra di esperimenti politici che anticipano le lentezze dei partiti a livello nazionale: in<br />

Veneto DS-Margherita-SDI-Repubblicani hanno annunciato all’inizio di agosto 2004 la<br />

nascita, prima in Italia, della Federazione dell’Ulivo, in vista delle elezioni regionali del 2005,<br />

in cui verrebbe tutelata l’identità dei partiti. È paradossale che proprio coloro che si<br />

oppongono al federalismo programmato dalla Casa delle Libertà diventino fautori del<br />

federalismo di partito.<br />

Ci sono individui e gruppi che reagiscono con un esasperato senso di appartenenza<br />

nazionale che degenera nella “malattia” nazionalista e gruppi che reagiscono con un richiamo<br />

alle loro radici. Fra l’omologazione indifferenziata e le identità monolitiche esclusive e<br />

vicendevolmente conflittuali, il divario è immenso e lo spazio è molto ampio. Riuscirà questo<br />

spazio ad essere colmato da un pensiero delle diversità che sappia riconoscere l’identità<br />

locale, regionale, nazionale, <strong>eu</strong>ropea, planetaria, che sappia concepire insieme uno e<br />

molteplice, ossia la molteplicità nell’unità e l’unità nella molteplicità? Riuscirà a concepire<br />

insieme, contemporaneamente, tutto e parti, interdipendenza planetaria e senso delle radici,<br />

apertura e chiusura, integrazione e appartenenza?<br />

Contraddizioni e distanze culturali.<br />

Gli schemi culturali possono costituire una gabbia che rivela alcune contraddizioni con<br />

la spinta alla crescita e all’innovazione. Ad esempio, gli abitanti della Cina, pur fermamente<br />

motivati ad una crescita economica, rimangono ancorati alle proprie radici, alle proprie regole<br />

e, depositari di un’antica civiltà, alla propria cultura. E’ una distanza culturale difficile da<br />

colmare per chi intende sviluppare rapporti anche di tipo commerciale e industriale.<br />

Elementi di modernità, anche “spinta”, convivono con la tradizione e con una realtà<br />

per lo più agricola: lo si coglie nella caratterizzazione del paesaggio - isole di modernità con<br />

grattacieli supertecnologici e lussuosi si trovano a poche centinaia di metri di distanza da<br />

estesi villaggi “f<strong>eu</strong>dali” - ma anche nella composizione della popolazione: del miliardo e 300<br />

milioni di abitanti, 50 milioni sono benestanti. I prodotti della Cina spesso sono copie a basso<br />

prezzo di prodotti originali, una concorrenza a volte sleale contro cui è difficile difendersi.<br />

Ignorare la “questione cinese” è controproducente, così come chiudersi in difesa a<br />

sostegno di una strategia di tipo protezionistico. Meglio aggredire il fenomeno, sfruttando a<br />

182


pieno le enormi opportunità commerciali ma anche produttive. Per internazionalizzare le<br />

produzioni gli imprenditori chiedono, però, politiche economiche e commerciali adeguate;<br />

chiedono inoltre un sostegno sicuro, anche e soprattutto, da parte delle associazioni di<br />

categoria, che in questa fase di studio e di conoscenza del fenomeno, hanno un ruolo<br />

fondamentale e di riferimento per i propri associati.<br />

Escludere la Cina dal proprio orizzonte non è possibile per non rinunciare ad una<br />

quota rilevante del mercato mondiale, ma anche per assumere come imprese strategie di<br />

internazionalizzazione e sollecitare dai Governi controlli e misure valutarie per una<br />

competizione meno impari. Chi vuol rimanere competitivo non può ignorare quel Paese, anzi<br />

deve conoscerlo per capirne punti di forza e debolezza e non subirne passivamente<br />

l’invasione. In effetti una partita competitiva di questa portata richiede misure a più livelli,<br />

fondate sul rispetto degli accordi internazionali.<br />

E qui l’iniziativa spetta all’Unione Europea che deve far applicare le clausole previste<br />

dai Protocolli di accesso della Cina alla World Trade Organization, per arginare la<br />

concorrenza sleale, il dumping. Quanto all’Italia, servono politiche per favorire il<br />

riposizionamento strategico del sistema industriale, costituito in larghissima parte da piccole e<br />

medie imprese. Politiche per sostenere l’internazionalizzazione delle imprese in Cina;<br />

politiche per riqualificare le produzioni industriali, aiutandole a spostarsi verso i segmenti alti<br />

di mercato. La concorrenza di costo non gioca più a nostro favore. Ma dove contano<br />

originalità delle innovazioni, capacità intellettuali, qualità, servizio, brand, lì la partita è aperta<br />

e i nostri produttori possono giocarla con una ragionevole attesa di vincerla. Sono obiettivi di<br />

lungo periodo, che richiedono nuove attitudini e nuovi modi di pensare: non solo agli<br />

imprenditori, ma anche alla società italiana e al decisore pubblico.<br />

Per quanto riguarda la regione Veneto, alcuni osservatori hanno paventato lo scenario<br />

di un Veneto che affronta “in ordine sparso” un continente complesso come la Cina.<br />

I rischi da assumere e le soglie minime da superare per avere chance di successo in<br />

Cina, suggeriscono di fare sistema, suggeriscono pertanto il coordinamento progettuale e<br />

funzionale di queste azioni a livello regionale. Unindustria Padova si muoverà in questa<br />

direzione, mettendo a disposizione di un progetto di sistema il know how e le conoscenze<br />

acquisite sul mercato cinese.<br />

Constatando l’importanza e la strategicità di quel Paese e di quel mercato si è “mossa”<br />

la Fondazione Italia Cina, presieduta da Cesare Romiti. Ad oggi è l’unica associazione<br />

provinciale presente nella task force sulla Cina, attivata da Confindustria. Quanto alle attività<br />

specifiche dell’Associazione, è stata realizzata nel 2004 un’indagine tra 500 imprenditori<br />

183


associati dei principali settori produttivi vicentini (meccanica, sistema moda, orafo, concia...)<br />

per verificare quali sono gli atteggiamenti e le aspettative dell’industria locale. È stata poi<br />

completata la mappatura di 25 distretti industriali situati in altrettante provincie o municipalità<br />

cinesi per verificare le potenzialità della politica avviata dal governo cinese. Per ognuno dei<br />

25 distretti sono stati mappati i costi (dei terreni, degli immobili, del lavoro, di costruzione...),<br />

le infrastrutture (viarie, telecomunicazione, reti distributive, formazione...), le agevolazioni e<br />

gli incentivi, le politiche industriali e altri. Insieme con Confindustria, si sta mettendo a punto<br />

un progetto che prevede di integrare la mappatura dei distretti con una serie di studi sulla<br />

normativa cinese in materia di proprietà industriale, sul sistema fiscale cinese, sul regime<br />

societario e gli investimenti esteri in Cina, con analisi di mercato dei problemi incontrati dagli<br />

imprenditori italiani in Cina. L’idea è poi di organizzare, sempre con Confindustria, un<br />

workshop a Pechino o a Shanghai nella primavera del 2005.<br />

L’unità nella molteplicità e la molteplicità nell’unità.<br />

La nostra crescente consapevolezza dell’eterogeneità del nostro mondo e della sua<br />

complessità è unita a una crescente consapevolezza della sua unità.<br />

Oggi la maggior parte dell’enfasi popolare sul multiplex, sulla eterogeneità, relatività,<br />

molteplicità ha gettato via il bambino dell’unità, dell’unitas, insieme all’acqua della vasca,<br />

insieme all’acqua dell’omogeneità.<br />

Come il tragico collasso dell’ex Jugoslavia ci ha mostrato, la frammentazione di una<br />

compagine di stati ed etnie predispone il terreno al sorgere di un pensiero riduttivo e<br />

disgiuntivo per scopi di dominio. Le teorie biologiche sulla purezza etnica sono esplose in una<br />

pulizia etnica di unità forzata, unitas simplex (unità semplice). In altri termini, l’unità<br />

semplice, espressione di pensiero riduttivo e disgiuntivo, fissa artificialmente i criteri di<br />

appartenenza ed esclusione da una determinata comunità e seleziona i membri di questo<br />

gruppo “artificiale” espellendo e perseguitando gli altri.<br />

L’unitas simplex, l’unità forzata, è stata attuata durante il nazifascismo e si ripresenta<br />

puntualmente nel corso della storia in alcune fasi di transizione e di crisi.<br />

L’unitas simplex perseguita per scopi di dominio in una cultura patriarcale o<br />

androcratica va sostituita dall’unitas multiplex, scoprendo un modo alternativo di relazionarsi,<br />

oltre il dominio.<br />

La nozione di purezza etnica sottolinea una identità selezionata artificialmente in un<br />

gruppo eterogeneo, privilegiando i puri e scartando gli impuri, come si fa quando si sgusciano<br />

i baccelli, selezionando il fagiolo o pisello e scartando la buccia.<br />

184


Ponendo l’accento sull’identità individuale, locale, regionale, nazionale, <strong>eu</strong>ropea,<br />

planetaria, viceversa, non si opera alcuna selezione artificiale con un fantasmatico richiamo<br />

alle radici immaginate e costruite ad uso e consumo del momento presente. Rintracciando le<br />

nostre radici, le nostre storie personali, locali, regionali, nazionali, <strong>eu</strong>ropee, planetarie,<br />

rafforziamo il nostro senso di identità, ma senza sacrificare nessuno in nome di una presunta<br />

superiorità, di una dialettica di dominazione.<br />

Il valore accordato alla molteplicità e all’eterogeneità impedisce l’assunzione<br />

pregiudiziale di parametri di superiorità. D’altro lato, l’importanza attribuita all’identità del<br />

cerchio concentrico soprastante sposta l’accento sull’unità nelle dicotomie parte/tutto,<br />

individuale/collettivo, molteplice/uno. In altri termini, immaginando analogicamente le varie<br />

identità come cerchi concentrici formatisi lanciando un sasso in un lago, il secondo cerchio<br />

comprende il primo, il terzo comprende il secondo, il quarto comprende il terzo, ecc.<br />

Nel riconoscimento dell’unitas multiplex (unità molteplice) dialogica dell’Io e<br />

dell’ambiente che interagiscono nel tempo, la nostra identità sociale in quanto membri di una<br />

comunità cittadina, di una regione, di una nazione, di un super-stato, del pianeta, fa sì che ci<br />

sentiamo contemporaneamente parte di un tutto, di una comunità più ampia e in ciò<br />

costituisce l’unità. Pertanto, l’unità non è un’idea astratta, imposta artificialmente dall’alto<br />

sulla base di criteri artificiali che rispecchiano un pensiero riduttivo e disgiuntivo.<br />

Nell’antica Roma, la selezione di criteri artificiali ha portato alla persecuzione dei<br />

cristiani. E quando la Chiesa cristiana è diventata istituzione, ha istituito il Tribunale<br />

dell’Inquisizione, il Santo Uffizio e l’Indice dei libri proibiti, per selezionare con la violenza<br />

delle buone intenzioni i criteri utili a preservare la “purezza della dottrina”. Purezza della<br />

razza, purezza della religione e purezza della dottrina si equivalgono sul piano della<br />

dialettica di dominazione.<br />

Un modo alternativo di relazionarsi, oltre il dominio e l’unità forzata, unitas simplex, è<br />

l’unitas multiplex, che pone l’accento sulla molteplicità e l’eterogeneità rimandando tuttavia a<br />

quell’unità del tutto che comprende la parte, e a quel collettivo che comprende l’individuale,<br />

senza negarlo, reprimerlo o ignorarlo.<br />

La teoria dei sistemi insegna che la realtà non si divide in categorie nettamente<br />

ordinate e che la frammentazione conduce a una mutilazione concettuale. In base a questa<br />

teoria, non si può creare una conoscenza utile riguardo ad una nazione, ad un continente, ad<br />

una città, ad una regione ecc., senza prendere in considerazione fattori culturali, storici,<br />

psicologici ed economici, per completare la dimensione politica. Gli psicologi del gestaltismo<br />

olistico hanno mostrato che le note in una melodia hanno un senso per via della loro<br />

185


organizzazione, come un insieme. Il suono di un accordo può essere visto come una proprietà<br />

emergente e, in un brano musicale, una figura melodica suona in modo molto differente, in<br />

base all’armonia che viene creata dietro di essa (il “contesto”). Suonando in un gruppo,<br />

l’importanza dell’interazione è sovrana, essendo la musica una proprietà fondamentale delle<br />

interazioni organizzate dei musicisti. E tuttavia in molte scuole di musica tutti questi elementi<br />

cruciali sono esattamente ciò che viene detto di eliminare dall’indagine, in quanto “rumore”<br />

(noise).<br />

La frammentarietà della conoscenza contemporanea si riflette in un sistema educativo<br />

a sua volta frammentario e sconnesso. Nonostante una forma di ossessione verso la<br />

metodologia, apparentemente con il fine di ottenere una conoscenza “giusta”, le premesse<br />

fondamentali e il metodo delle scienze sociali restano ampiamente incontestualizzati, fuori dal<br />

contesto. Il contesto culturale, le relazioni, i legami, la totalità sono smarriti. Le variabili<br />

isolate, gli agenti quantificati, insieme con gli schemi di valutazione e di voto, rappresentano<br />

uno sforzo finalizzato alla replica del metodo delle scienze naturali, mentre,<br />

contemporaneamente, la relazione tra le scienze umane, sociali/naturali rimane<br />

incontestualizzata. Nello sforzo di trovare un ordine semplice, viene distrutta la complessità<br />

della vita e la conoscenza che ne deriva è spesso di scarso valore per la “vita reale”.<br />

Lo sforzo di trovare un ordine semplice dilania spesso la vita, anziché esaltarla. Ciò è<br />

successo nel corso della storia tutte le volte che una razza, una cultura, una religione hanno<br />

cercato di spazzare via le altre razze, culture o religioni, per imporre una sola voce: la propria.<br />

Questa unilogica, basata talvolta sulla violenza delle buone intenzioni o su una palese volontà<br />

di dominio, come nel processo di germanizzazione attuato in Europa da Hitler, può esprimersi<br />

in varie forme, anche attraverso la costruzione di un muro, che può apparire “il male minore”,<br />

ma essere contemporaneamente caricato di significati politici e relazionali.<br />

Il muro della sicurezza o della separazione?<br />

Il 9 luglio 2004 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja ha reso noto il parere<br />

consultivo richiesto dall’Assemblea Generale dell’ONU: la costruzione del muro che divide<br />

israeliani e palestinesi dev’essere interrotta perché incompatibile con la legislazione<br />

internazionale e con i diritti del popolo palestinese.<br />

Di 700 chilometri è la lunghezza del muro: pareti di cemento armato - 20 km secondo<br />

il progetto - alte fino a 8 metri, alternate a reticolati. È sorvegliato da telecamere. Un milione<br />

di dollari per chilometro è il costo stimato per la costruzione del muro dichiarato “illegale”<br />

dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. Dell’80% è il calo degli attentati suicidi nei<br />

186


primi sei mesi del 2004 rispetto allo stesso periodo nel 2003. Per il governo israeliano è<br />

merito della barriera.<br />

Il ministro degli Esteri olandese Bernard Bot, presidente di turno dell’Unione Europea,<br />

il 12 luglio 2004 a Bruxelles aprirà la discussione con gli altri 24 ministri degli Esteri<br />

(Consiglio Affari Generali), partendo proprio da queste quattro righe: “L’Unione Europea,<br />

pur riconoscendo il diritto di Israele a proteggere i propri cittadini dagli attacchi terroristici,<br />

ha chiesto alla stessa Israele di fermare la costruzione della barriera all’interno dei territori<br />

palestinesi”. Ma oltre al “documentino” olandese, i ministri UE troveranno sul tavolo la<br />

richiesta ufficiale del premier palestinese Abu Ala: adesso l’Europa si schieri contro il muro<br />

israeliano nella discussione che si profila all’ONU. Abu Ala non poteva essere più esplicito<br />

con l’inviato dell’UE in Medio Oriente, il belga Marc Otte. Il diplomatico <strong>eu</strong>ropeo,<br />

naturalmente, ha preso tempo, sintonizzandosi automaticamente con la cautela espressa dagli<br />

olandesi: “Dobbiamo valutare con attenzione quello che la Corte ha detto e quali saranno le<br />

conseguenze”.<br />

La sentenza dell’Aja riapre dunque uno dei dibattiti più difficili, e politicamente più<br />

delicati, all’interno della UE. “Se ci avvitiamo solamente sul muro ho l’impressione che il<br />

problema si inasprisca”, ha detto il 10 luglio, parlando a Siena, il ministro Franco Frattini,<br />

forse presentendo quanto poteva accadere a Bruxelles. Fin dall’inizio della vicenda i Paesi<br />

della UE hanno mantenuto un problematico atteggiamento n<strong>eu</strong>trale. L’8 dicembre 2003<br />

l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò a larga maggioranza la risoluzione<br />

presentata dai palestinesi, con la quale si chiedeva un “parere” alla Corte di Giustizia dell’Aja.<br />

Gli Stati Uniti votarono contro, le astensioni furono 74, comprese quelle degli <strong>eu</strong>ropei. Poi,<br />

nel febbraio del 2004, quando cominciò il “processo al muro”, la UE evitò di prendere una<br />

posizione “nel merito” della causa, rilanciando la strada della mediazione, mentre attivisti<br />

israeliani portavano fuori dal tribunale la carcassa di un autobus colpito da un attentato e i<br />

palestinesi organizzavano sit-in permanenti. Frattini prova a portare la “questione del muro”<br />

sul campo politico: “Quella parte di barriera che invade il territorio palestinese sicuramente<br />

non aiuta il dialogo. Lo abbiamo detto con chiarezza agli israeliani che quello è un tracciato<br />

da rivedere. Lo ha detto del resto anche la Suprema Corte Israeliana, non soltanto noi. Altra<br />

cosa è il principio di una sicurezza di Israele che, all’interno del proprio territorio, credo possa<br />

effettivamente organizzarsi come meglio crede. Il problema è che il muro assume un<br />

simbolismo politico che sicuramente non aiuta né da un lato né dall’altro. Quindi noi<br />

temevano che, dopo la sentenza dell’Aja, la reazione sarebbe stata esattamente quella di questi<br />

giorni, inasprendo l’una e l’altra parte. Ecco perché non solo l’Italia, ma anche l’Europa,<br />

187


avevano detto che non è con decisioni giuridiche che si risolvono i nodi politici”.<br />

La linea “minimalista” di Frattini (“L’Europa e l’Italia non possono fare niente”) è<br />

sostanzialmente condivisa dalla Gran Bretagna e, sia pure con parole diverse, dai Paesi<br />

dell’Europa centrale, cioè Germania, Polonia, Austria e Repubblica Ceca. Su un altro versante<br />

ci sono Francia, Belgio e Spagna, Paesi convinti che la UE dovrebbe fare qualcosa di più per<br />

convincere Israele a smantellare il muro, ma non solo.<br />

Ora che la sentenza sul muro è scritta, che la barriera eretta da Gerusalemme contro il<br />

terrore è stata definita “illegale” dalla Corte Internazionale dell’Aja, è ai Paesi amici che<br />

guardano sia gli israeliani che i palestinesi, per n<strong>eu</strong>tralizzare gli effetti di quel verdetto di<br />

condanna, o capitalizzarli.<br />

La contesa giuridica ha un secondo round, che stavolta si giocherà all’ONU. È lì che i<br />

palestinesi hanno deciso di spostarla - ed è lì che Israele vuole intervenire, chiamando in aiuto<br />

innanzitutto il suo primo alleato, gli Stati Uniti -, per fermare una risoluzione del Consiglio di<br />

Sicurezza che suonerebbe come una seconda, pesante, sconfitta.<br />

L’osservatore palestinese alle Nazioni Unite ha annunciato il 10 luglio la strategia<br />

dell’ANP. “Chiederemo all’Assemblea generale, tramite la Lega Araba, di sostenere questa<br />

sentenza - ha detto Nasser Al Kidwa -. Poi porteremo la risoluzione sul muro al Consiglio di<br />

Sicurezza”. Chiedendo così all’ONU di far propria questa condanna. Per poter - questa<br />

l’ambizione dei palestinesi - magari chiedere sanzioni contro Israele.<br />

Il governo Sharon, da parte sua, non ha perso tempo e ha iniziato una controffensiva<br />

diplomatica a tutto campo. “Abbiamo chiesto l’aiuto agli USA - ha annunciato il ministro<br />

degli Esteri Silvan Shalom - perché blocchino la risoluzione al Consiglio di Sicurezza”.<br />

Chiaramente, con il veto. Da Gerusalemme sono state chiamate le capitali <strong>eu</strong>ropee che hanno<br />

un seggio nel ristretto club (15 membri) che governa l’ONU. Che la questione arrivi ai suoi<br />

tavoli, ormai non v’è dubbio. Alla metà di luglio si pronuncerà l’Assemblea generale, e come<br />

ha detto proprio Shalom, i “palestinesi lì otterranno una maggioranza automatica”, grazie allo<br />

scontato appoggio degli Stati Arabi e dei Paesi del Terzo Mondo.<br />

Ma altrettanto certo sarà il sostegno degli Stati Uniti alle posizioni israeliane nel<br />

Consiglio di Sicurezza. Nessuno l’ha promesso, ma Colin Powell ha implicitamente sposato le<br />

critiche di Gerusalemme alla sentenza “unilaterale” dell’Aja: “I numeri mostrano che questa<br />

barriera - ha detto il segretario di Stato USA - ha diminuito il terrorismo”. La diplomazia<br />

USA ha fatto propria un’altra delle tesi chiave del governo Sharon (e non solo): “Restiamo<br />

dell’idea che questo foro non era appropriato - ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato,<br />

Richard Boucher -, e che la sentenza possa pregiudicare gli sforzi per arrivare a un accordo di<br />

188


pace tra gli israeliani e i palestinesi”. Poi una frase che è quasi un impegno di veto: “Gli Stati<br />

Uniti non credono che ci debba essere un’ulteriore azione dell’ONU”.<br />

C’è un altro attore, che tutti chiamano in scena: l’Europa. La cercano da<br />

Gerusalemme, la corteggiano da Ramallah. Il premier palestinese Abu Ala ha ricevuto il 10<br />

luglio 2004 l’inviato dell’UE in Medio Oriente Marc Otte, implorando il suo aiuto: “E’ una<br />

responsabilità della comunità internazionale, è una responsabilità delle Nazioni Unite creare<br />

un meccanismo che costringa Israele a rispettare la sentenza e abbattere il muro”. Speriamo,<br />

ha aggiunto, che gli USA “non sabotino questo sforzo”.<br />

L’Europa prenderà posizione il 21 luglio schierandosi a favore dello smantellamento<br />

del muro, con il voto unanime dei 25 Paesi membri. Ma per quanto l’Unione abbia criticato il<br />

tracciato del muro, e i danni prodotti alla popolazione palestinese - “L’UE continua a chiedere<br />

a Israele di rimuovere la barriera dai Territori occupati, compresa Gerusalemme”, ha ricordato<br />

anche il 10 luglio 2004 il portavoce della Commissione Jean-Christophe Filori - è altrettanto<br />

vero che importanti Paesi <strong>eu</strong>ropei si sono opposti al processo dell’Aja. Non è il foro il luogo<br />

giusto, hanno sostenuto, per dirimere la questione più calda del conflitto israelo-palestinese.<br />

Una presa di distanza, capeggiata da Gran Bretagna e Germania, guarda caso, due dei Paesi in<br />

Consiglio di sicurezza.<br />

Nessuno si dà per vinto, ma sembra chiaro che la battaglia all’ONU, che ha espresso<br />

parere contrario al muro, non cambierà il tracciato del muro. Quello andrà rivisto perché è la<br />

Corte Suprema israeliana che lo ha ordinato. Il tracciato intorno a Gerusalemme sembra infatti<br />

destinato a procurare notevoli sofferenze alla popolazione palestinese. A Gaza, intanto, si<br />

ripete all’infinito la guerra vera: il 10 luglio quattro palestinesi sono morti, dopo che la loro<br />

Mercedes nera è esplosa, centrata da un tank israeliano (sostengono i palestinesi) o perché<br />

trasportava esplosivo (dicono gli israeliani).<br />

Per costruire il futuro, lo sviluppo, la speranza, si richiede la collaborazione anche<br />

dell’Europa nell’intricato conflitto israelo-palestinese. Sharon ha ribadito anche quando è<br />

venuto a Roma nel 2003 che “il muro non è un atto politico” e serve a presidiare la sicurezza<br />

di Israele. Quale “atto temporaneo” di difesa da attacchi terroristici, tuttavia, dovrà tener<br />

conto delle conseguenze di separare gli agricoltori dalla terra lavorata, i bambini dalla scuola<br />

frequentata, i pazienti dal luogo in cui si trovano gli ospedali. La tutela della sicurezza di<br />

Israele non va disgiunta da un intervento umanitario di solidarietà verso la popolazione<br />

palestinese, in vista del momento in cui il muro non sarà più necessario, come è successo a<br />

Berlino nel 1989. E’ ragionevole supporre che questo momento non tarderà a venire, e non<br />

per una ingiunzione esterna, da qualunque parte essa provenga, ma per una convinzione<br />

189


maturata da entrambe le parti, israeliana e palestinese, sull’utilità di stringere rapporti di<br />

alleanza e collaborazione, anziché di escalation di guerra.<br />

NUOVE STRADE DA PERCORRERE<br />

L’attuazione della road map.<br />

L’incarico che hanno affidato a Yonatan Bassi non è solo delicato, ma è anche<br />

fondamentale: trasferire i coloni ebrei che da trent’anni vivono nella Striscia di Gaza<br />

all’interno dei confini dello Stato di Israele. Un compito arduo e che gli ha già attirato le<br />

critiche dell’ala più oltranzista. Proprio in queste settimane, alcuni esponenti di spicco del<br />

movimento dei coloni lo hanno attaccato giudicandolo un “traditore”. Anzi. Di più, lo hanno<br />

battezzato “Kapò-Cino”, un pesante gioco di parole a metà strada tra il collaboratore nazista e<br />

la parola “cappuccino” mettendo a nudo la sua origina italiana. Ma Yonatan Bassi, 56 anni,<br />

tanti quanti lo Stato d’Israele, sangue veneziano nelle vene, fa spallucce. Bassi è figlio di un<br />

“pioniere”, di un ebreo veneziano, Paolo, che all’emanazione delle leggi razziali nel 1938 fu<br />

costretto ad emigrare prima in Francia e poi decise di andare in Palestina, realizzando così il<br />

sogno sionista. Paolo Bassi, morto nel 1967, partecipò alla costruzione del kibbutz di Sdè<br />

Elyahu sfuggendo così alle persecuzioni naziste che decimarono la sua famiglia rimasta in<br />

Europa.<br />

Yonatan Bassi per sei ani ha avuto la responsabilità del settore Piscicoltura del<br />

kibbutz, poi ha intrapreso gli studi di Economia all’università e a poco a poco ha assunto<br />

incarichi di gestione e di amministrazione raggiungendo nel 1992 la carica di Direttore<br />

generale del ministero dell’Agricoltura nel governo Rabin. Con quell’incarico, Bassi ha<br />

partecipato ai negoziati di pace a Parigi tra israeliani e palestinesi.<br />

In un’intervista apparsa su Il Gazzettino del 5 agosto 2004, Bassi rivela le sue<br />

convinzioni e i suoi dubbi:<br />

ebrei da Gaza.<br />

Proprio in queste settimane, lei è stato designato a gestire l’“evacuazione” dei coloni<br />

“Direi che la parola ‘evacuazione’ non è giusta. Il mio compito è quello di offrire ai coloni<br />

ogni sorta di finanziamento, di aiuto sociale, psicologico, e amministrativo per consentire loro di<br />

ricollocarsi all’interno delle frontiere internazionalmente riconosciute dello Stato d’Israele. In questo<br />

senso ho carta bianca dal governo Sharon”.<br />

190


Non sarà facile convincere i coloni a “tornare a casa”. Anche perché dal punto di vista<br />

messianico loro sono convinti di vivere sul territorio della Grande Israele.<br />

“Certo, sarà un lavoro difficile, arduo e pesante. Ma va detto con chiarezza che i coloni<br />

pagano decisioni che non sono state prese da loro. Sono ‘vittime’ di una politica errata che ha<br />

consentito loro di stabilirsi in quelle aree. Il governo di Israele si è preso l’impegno di offrire un’altra<br />

chance, una nuova possibilità di sistemazione. Sarà complicato, ma capisco anche i sentimenti di<br />

questa gente che ha costruito nuove città, realizzato nuove colture e infrastrutture con tanti, tanti<br />

sacrifici”.<br />

vista morale?<br />

Lei è un ebreo osservante e non laico. Sente il peso di questo incarico anche dal punto di<br />

“Questo è il mio lavoro. Aiuterò in tutti i modi queste persone. Ma da Gaza dobbiamo<br />

andarcene. E senza choc. Il mio incarico prenderà il via la settimana prossima e l’obiettivo è uno solo:<br />

far sì che nel 2005 non ci sia più un israeliano a Gaza”.<br />

Difficile risolvere in un anno problemi più che trentennali...<br />

“E’ la nostra scommessa. Le pressioni, soprattutto da parte dei coloni, sono molto forti. Non<br />

sarà facile, ma dobbiamo farlo. E sono onorato di fare questo lavoro, nonostante le critiche, perché<br />

anche se sono religioso e posso avere più di qualche sintonia con i coloni, sono convinto che sto<br />

operando per il bene del mio Paese. Paradossalmente ho ricevuto apprezzamenti e giudizi positivi<br />

dalla parte laica d’Israele e molte condanne dalla parte religiosa. E questo mi ferisce non poco perché -<br />

come dire - è il mio mili<strong>eu</strong>, il mio ambiente”.<br />

Qual è la situazione in Israele?<br />

“Prima di tutto il popolo israeliano vuole la pace. Ma si rende conto che l’Occidente<br />

sottovaluta i rischi al quale va incontro il mio Paese. In Europa, soprattutto, non si vuole capire che<br />

Israele è il confine ‘reale’ del Vecchio Continente e dell’Occidente. La decisione del Tribunale<br />

dell’Aja sulla ‘bariera’ è assurda. In tutto il testo non vi è una parola di condanna degli attentati<br />

suicidi, dei mille morti causati dalle bombe sugli autobus, nelle discoteche e nei centri commerciali”.<br />

Servirà il ritiro d’Israele da Gaza?<br />

“Siamo in battaglia da cento anni. Non credo, onestamente, che il ritiro di Israele da questa<br />

città risolverà il problema. I missili continueranno a cadere nel Sud del mio Paese. Sarà sempre<br />

pericoloso, ma dobbiamo garantire un futuro ‘ebraico’ allo Stato d’Israele. Il grande dibattito da noi è<br />

legato alla questione demografica. Siamo contro ogni forma di deportazione, ma l’unico obiettivo è<br />

garantire che Israele rimanga a maggioranza ebraica e che sia soprattutto uno stato democratico.<br />

Uscire da Gaza vuol dire anche tutto questo”.<br />

La decisione di Sharon di “evacuare” Gaza dopo trenta anni di insediamenti israeliani<br />

è coraggiosa e lungimirante e va appoggiata. Il muro costruito dagli israeliani costituisce una<br />

191


arriera contro il terrorismo. Il popolo israeliano ha espresso la sua volontà di pace accettando<br />

il ritiro da Gaza. I rischi a cui va incontro Israele saranno attentamente valutati con un piano<br />

di sicurezza alternativo all’occupazione dei territori per istituire una cintura protettiva.<br />

L’Europa valuta positivamente il contributo di Israele agli equilibri di pace nel mondo,<br />

partendo dalla “piaga infetta” del Medio oriente, da cui si propaga l’infezione del terrorismo<br />

in tutto il mondo.<br />

D’altro lato, la vistosa pubblicazione dei piani di estensione di una colonia israeliana<br />

alle porte di Gerusalemme il 5 agosto 2004 è stata accolta con aperto malumore da parte degli<br />

Stati Uniti.<br />

Un dirigente del Dipartimento di stato, Elliott Abrams, si è recato a Gerusalemme dal<br />

premier Ariel Sharon - in precedenza aveva visto anche il premier palestinese Abu Ala e il<br />

ministro degli esteri Silvan Shalom - per ricordare ancora una volta che gli Stati Uniti sono<br />

per il congelamento delle colonie e attendono da molto tempo ormai lo smantellamento in<br />

Cisgiordania di decine di avamposti “illegali” anche agli occhi del governo Sharon.<br />

Secondo il quotidiano Maariv, i progetti del ministero dell’Edilizia israeliano<br />

riguardano una zona (chiamata “E-1”) che dovrebbe collegare il tessuto urbano di<br />

Gerusalemme alla colonia di Maale Adumim, dieci chilometri ad est, in Cisgiordania.<br />

Si tratta di piani elaborati a suo tempo dal premier laburista Yitzhak Rabin che adesso<br />

- secondo Maariv - sono stati rielaborati dal ministero dell’edilizia “in modo discreto”.<br />

La notizia è stata confermata da un dirigente del Likud (Yuval Steinitz, presidente<br />

della Commissione parlamentare per gli affari esteri e la difesa), secondo cui la costruzione<br />

della zona “E-1” ha notevole importanza nazionale e va realizzata comunque, “anche se gli<br />

Stati Uniti dovessero obiettare”.<br />

Sul tavolo di Sharon e di Abrams c’era inoltre il ritiro di Israele da Gaza che, secondo<br />

i collaboratori del premier, dovrebbe entrare nella sua fase acuta nel 2005: quando - prima<br />

dell’inizio dell’anno scolastico - a ottomila coloni ebrei sarà ordinato di abbandonare le loro<br />

abitazioni nella striscia di Gaza.<br />

L’esercito israeliano ha compiuto un ridispiegamento nel nord della striscia di Gaza,<br />

ritirandosi così dalla cittadina di Beit Hanun. Le forze israeliane restano tuttavia nella zona,<br />

nel tentativo di impedire ulteriori lanci di razzi Qassam verso la vicina città di Sderot.<br />

Malgrado la presenza militare, sette razzi sono stati sparati anche il 5 agosto 2004 verso<br />

Sderot, ma non hanno provocato danni né vittime.<br />

Per non distruggere la complessità della vita - e gli equilibri che garantiscono la pace -,<br />

dunque, è opportuno liberarsi dell’ordine semplice nelle scienze sociali e politiche, oltre che<br />

192


in quelle naturali.<br />

L’incontestualizzata immagine delle scienze naturali che le scienze sociali cercano di<br />

riprodurre è antica, risale all’epoca in cui esse avevano interrotto il loro rapporto con la<br />

filosofia, la grande madre abbandonata di tutte loro.<br />

Tradizione nell’innovazione.<br />

La tradizione che rimanda alle radici identitarie ci riporta al Femminile, alla Madre<br />

che ci nutre nel suo grembo come la Madre Terra nutre le radici delle piante. La relazione di<br />

separazione tra creatività e conservazione, innovazione e tradizione deve essere ripensata in<br />

termini di una relazione dialogica. Una cultura planetaria richiederà molto da noi e<br />

determinerà sicuramente una radicale riconcettualizzazione delle basi stesse del pensiero, da<br />

un pensiero semplice a uno complesso, dal dominio all’associazione, alla partnership.<br />

Un intervistato di spicco intervenuto alla trasmissione Enigma del 16 gennaio 2004, ha<br />

affermato che la Destra è caratterizzata dal radicamento nel passato, mentre la Sinistra è<br />

orientata verso il futuro. In breve, la Destra sarebbe conservatrice o orientata verso la<br />

conservazione del passato, mentre la Sinistra sarebbe progressista o orientata verso il futuro.<br />

Ma questo signore, che ha dichiarato di essere stato fascista, suppone implicitamente che<br />

tenere conto del passato, delle radici significhi necessariamente essere ancorati al passato sia<br />

intellettualmente che affettivamente. Questa pericolosa sovrapposizione tra Destra e<br />

Conservazione trae in inganno e porta ed equiparare automaticamente due poli opposti: Destra<br />

e Conservazione e Sinistra e Progressismo. Così, la dicotomia categoriale è netta e non<br />

ammette sintesi. Viceversa, si può tenere conto delle radici storiche ed essere progressisti,<br />

come si può non tenere conto delle radici storiche ed essere conservatori, anziché rivolti<br />

all’innovazione riformista e al futuro.<br />

In effetti, questa posizione intermedia contraddistingue attualmente la Destra e la<br />

Sinistra italiane. La Destra taglia i ponti con un passato fascista che grava negativamente sulla<br />

sua identità moderna, mentre la Sinistra, soprattutto dei no-global e di frange estreme, difende<br />

i governi oppressivi come quello di Fidel Castro, proteggendosi dietro lo scudo della difesa<br />

dei diritti umani del popolo cubano che si è “riscattato” dal precedente regime oppressivo di<br />

Batista mettendosi sotto l’ala soccorritrice di Castro.<br />

Il compito degli storici e dei politici “non politicanti” consiste pertanto nel distinguere,<br />

evitando pericolosi scivolamenti all’interno di categorie comode, ma semplicistiche, aride e<br />

fuorvianti, in quanto finiscono per costruire identità che non ci appartengono e in cui non ci<br />

riconosciamo. Si può essere sommamente progressisti e riformisti e, al tempo stesso,<br />

193


iconoscere le proprie radici storiche o rifiutare l’appartenenza a determinate radici, per<br />

convogliare in altre appartenenze, enucleando la propria identità in una nuova dimensione,<br />

come avviene in tutte le cosiddette “conversioni”.<br />

Lo scrittore politico inglese Edmund Burke (1728-1797), nelle sue Riflessioni sulla<br />

Rivoluzione in Francia, esprimeva la preoccupazione di perdere le “antiche opinioni e regole<br />

di vita”, ritenute “una bussola che ci guidi”. Tuttavia, possiamo osservare che, nel corso del<br />

progresso scientifico, la bussola dei tempi di Burke è stata sostituita da strumenti di<br />

orientamento ben più efficaci e precisi, mentre gli antichi navigatori, prima della scoperta<br />

della bussola, si orientavano sulla base della posizione delle stelle e del sole. Si possono<br />

dunque solcare i mari con vari strumenti di orientamento, dai più primitivi ai più evoluti: la<br />

perdita di uno strumento è stata sostituita dall’uso di uno strumento più efficiente. Restare<br />

ancorati al passato può talvolta costituire “una perdita incalcolabile” di opportunità di<br />

crescere, attraverso il Viaggio. “L’avventura serve per conoscersi meglio”, scriveva André<br />

Gide. Dal momento in cui ci conosciamo meglio, siamo più capaci di stabilire nuovi punti di<br />

riferimento che ci aiutino ad orientarci nel mondo e a fare le scelte più adeguate alle nuove<br />

realtà che esploriamo.<br />

La pacifica rivoluzione inglese del 1688-89 era vista da Burke come il risultato della<br />

continuità storica, anziché di una frattura con il passato. In effetti, le fratture possono<br />

comportare problemi di calcificazione successiva o altri problemi, che talvolta non si<br />

risolvono, se non con una protesi o con l’uso delle stampelle. La continuità storica, qualora sia<br />

possibile, evita sradicamenti improvvisi, che rischiano di lasciare un pericoloso vuoto di<br />

potere. L’abbinamento tra tradizione e innovazione può ottenere i migliori risultati, perché la<br />

tradizione senza innovazione conduce a lungo andare ad una situazione di aridità, di<br />

stanchezza e rigidità, mentre l’innovazione senza tradizione genera una pericolosa sensazione<br />

di vuoto, di perdita di punti di riferimento, di confusione.<br />

Come spesso succede, dunque, non sono le scelte dicotomiche del tipo o/o, a risolvere<br />

adeguatamente i problemi, ma quelle che abbinano gli opposti in una sintesi armonica. Queste<br />

riflessioni sono particolarmente attuali per quanto riguarda l’Afghanistan e l’Iraq, in cui si<br />

cerca di innestare la democrazia occidentale in una società tribale. Una felice combinazione di<br />

democrazia e tradizione non è affatto impossibile, purché si tenga conto delle radici storiche<br />

di questa società e non si voglia strafare sacrificando troppo e rapidamente il passato per il<br />

futuro. I passaggi graduali e successivi, in cui la democrazia si integra con le tradizioni<br />

culturali senza forzature eccessive, può costituite la formula vincente per far evolvere questi<br />

Paesi senza fare violenza a quella parte di tradizione che è radicata nell’educazione degli<br />

194


afghani e degli iracheni.<br />

Per conservare integra la nostra personalità, per non destrutturarla, dobbiamo poggiare<br />

su forti radici identitarie, così come una nazione, per non disgregarsi e andare in rovina, deve<br />

poggiare su altrettanto solide radici identitarie, fornite da una storia comune e da valori<br />

condivisi. Hitler comprese questo problema, ma ricorse a strategie da Guerriero negativo, per<br />

risolverlo. Il suo livello evolutivo da Guerriero negativo con forti turbe della personalità gli<br />

impedì di escogitare le strategie più evolute per affrontare le “minacce” del comunismo che<br />

stava avanzando. Oggi l’Europa, gli USA e molti altri Stati devono affrontare la minaccia del<br />

terrorismo. La strategia più evoluta per n<strong>eu</strong>tralizzarlo viene indicata nei miei libri.<br />

Hitler propagandò il mito della “razza pura” per consolidare l’identità nazionale della<br />

Germania. Noi Europei, anziché questo mito decadente e rozzo, prospettiamo il<br />

consolidamento dell’identità <strong>eu</strong>ropea, nazionale, regionale e locale, attraverso la presa di<br />

coscienza delle radici storiche e dei valori condivisi, in quanto cittadini di un paese, di una<br />

città, di una regione, di una nazione, di un continente, del mondo.<br />

Nella scala dei livelli identitari, il livello superiore comprende quello inferiore e non lo<br />

esclude, come invece succede nelle politiche di omogeneizzazione e appiattimento culturale.<br />

Così, ad esempio, il livello dell’identità regionale comprende il livello dell’identità locale e il<br />

livello dell’identità nazionale comprende quello dell’identità regionale.<br />

Il livello dell’identità <strong>eu</strong>ropea comprende quello dell’identità nazionale. C’è<br />

continuità dall’uno all’altro. Ma non necessariamente a livello individuale chi si sente<br />

“locale” deve anche sentirsi “nazionale”. In altre parole, se ha bisogno di parlare in dialetto<br />

per sentirsi a suo agio, nulla gli vieta di fare una scelta di radicamento e appartenenza ad una<br />

realtà ristretta.<br />

D’altro lato, non devono esserci preclusioni nel senso di negare valore all’identità<br />

locale semplicemente perché l’identità nazionale è più “evoluta”. Come un sasso gettato nel<br />

laghetto forma dei cerchi concentrici, così noi siamo al centro di questi “cerchi identitari”, che<br />

rafforzano il nostro senso di appartenenza e ci mantengono attaccati alle nostre radici, al<br />

nostro territorio, nutrendoci di una linfa identitaria che è alla base della salute mentale. Allora<br />

potremo girare il mondo intero senza provare angosciose sensazioni di vuoto e di perdita,<br />

perché porteremo dentro di noi le nostre radici coltivate sui banchi di scuola.<br />

Forte identità e tolleranza.<br />

Spesso si confonde una forte identità con l’intolleranza per altre identità. Ma<br />

nell’accezione “sana” del termine è vero esattamente il contrario: una forte identità è anche<br />

195


sensibile alle comunicazioni e ai bisogni dell’altro e sa sintonizzarsi con le altre identità, per<br />

cui non può che essere tollerante.<br />

Le forti “identità” malate sono descritte nei manuali di Psichiatria come Disturbo<br />

Narcisistico di Personalità, Disturbo Istrionico di Personalità, ecc.<br />

Per intenderci, il Disturbo Narcisistico di Personalità, secondo il DSM-IV è<br />

caratterizzato da un quadro pervasivo di grandiosità nella fantasia o nel comportamento,<br />

necessità di ammirazione e mancanza di empatia, ossia incapacità di riconoscere o di<br />

identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri. Oltre all’esagerazione di risultati e<br />

talenti, in cui si aspetta di essere notato come superiore senza una adeguata motivazione, il<br />

soggetto con questo disturbo è assorbito da fantasie di illimitato successo, potere, fascino,<br />

bellezza e di amore ideale. Crede di essere “speciale” e unico, e di dover frequentare e poter<br />

essere capito solo da altre persone o istituzioni speciali o di classe elevata. L’eccessivo<br />

orgoglio per i successi, una relativa mancanza di manifestazioni emotive e il disprezzo per la<br />

sensibilità degli altri accentuano il quadro egocentrico. E’ spesso invidioso degli altri, o crede<br />

che gli altri lo invidino. Ha la sensazione che tutto gli sia dovuto, cioè la irragionevole<br />

aspettativa di trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative. Si<br />

approfitta degli altri per i propri scopi e mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti e<br />

presuntuosi. Ha una relativa stabilità dell’immagine di sé e così anche una relativa mancanza<br />

di autodistruttività, impulsività e preoccupazione di abbandono.<br />

Chi presenta un Disturbo Istrionico di Personalità è a disagio in situazioni nelle quali<br />

non è al centro dell’attenzione. Manifesta un’espressione delle emozioni rapidamente<br />

mutevole e superficiale. Utilizza l’aspetto fisico per attirare l’attenzione su di sé, mostra<br />

autodrammatizzazione, teatralità ed espressione esagerata delle emozioni. Lo stile<br />

dell’eloquio è eccessivamente impressionistico e privo di dettagli. Ha spesso un<br />

comportamento sessualmente seducente o provocante. Questo tipo di personalità si riscontra<br />

sia tra gli uomini che tra le donne. La presenza di queste persone nella società e nelle<br />

posizioni di potere ha portato ragionevolmente a difendersi dai loro soprusi ed eccessi. Ma<br />

presumibilmente ha spinto anche molti a difendersi dalle “forti personalità”, ritenendo che si<br />

identificassero con il “prototipo” dei soggetti appena descritti.<br />

Nella cultura maschile, la forza è connessa con l’aggressività e la sopraffazione, per<br />

cui si ricorre ad una politica di “inibizione” dell’espressione individuale, per timore che<br />

l’assertività e l’affermazione di sé scivolino nel predominio.<br />

Una ragazza di 23 anni appena laureata in Scienze della comunicazione, che ha<br />

soggiornato a lungo a Berlino, negli USA e in Messico con i progetti che consentono di<br />

196


studiare e sostenere esami in università straniere, si è fidanzata con un ragazzo originario di<br />

Dresda conosciuto a Berlino. Durante un viaggio a Parigi ha conosciuto altri giovani originari<br />

della Germania dell’Est e commentava: “Hanno tutti la stessa mentalità. Non decidono mai,<br />

per timore di sovrastare sugli altri. Così, quando si tratta di andare da qualche parte, si crea un<br />

tira e molla interminabile e una confusione...”. La paura di essere assertivi lascia tutto in<br />

sospeso, provocando stress. Per non finire nell’estremo della rigida gerarchizzazione dei<br />

rapporti, si finisce per far sparire qualunque “identità”. La paura di lasciar emergere il<br />

Guerriero di livello inferiore fa restare all’interno della dimensione dell’Orfano insicuro ed<br />

esitante, che piange sulle sue sventure. Lo “spettro” del “peggio” porta a rifugiarsi in un<br />

“meglio apparente”, che tuttavia crea altri problemi.<br />

La storia è carica di esempi estremi che hanno lasciato il segno.<br />

Nella misura in cui gli uomini hanno preso piacere alla lotta, alla corrida e ai<br />

combattimenti di gladiatori, le punizioni sono state l’impiccagione, il rogo e la tortura. Il<br />

rischio di incorrere in squilibri da una parte o dall’altra è dunque sempre presente.<br />

Penso che dovremmo amichevolmente confrontarci, senza cercare di attribuire colpe o<br />

meriti, con il fatto che nel mondo di oggi questa differenza di vedute sull’importanza e sulla<br />

priorità da attribuire all’identità individuale e collettiva - rispetto all’omogeneizzazione o<br />

livellamento che ha contraddistinto il pensiero e la politica precedente - si erge tra di noi come<br />

una barriera apparentemente insormontabile.<br />

La società e la scuola tentano di appiattire e cancellare quella singola scintilla di<br />

individualità, che ci rende diversi da tutti gli altri, e di metterci tutti nello stesso stampino. Ma<br />

noi siamo tenuti a sviluppare quanto più è possibile questa scintilla che è l’unico reale<br />

attributo importante.<br />

La prospettiva interculturale abbracciata dall’Europa privilegia il rispetto delle identità<br />

culturali, di fronte all’omogeneizzazione praticata da alcuni Paesi, con la creazione di un<br />

melting-pot, di un crogiolo in cui le varie culture vengono mescolate fino a produrre una<br />

nuova realtà culturale.<br />

Malgrado questa scelta <strong>eu</strong>ropea, assistiamo a processi di livellamento o<br />

impoverimento culturale, per un malinteso rispetto verso le altre culture o per la “vergogna”<br />

di lasciar trasparire la propria identità culturale, come se odorasse di provincialismo. Allora, è<br />

come se tutti dovessero correre al buio, per paura che i fanali della propria auto si differenzino<br />

per intensità luminosa, colore delle luci e direzione del fascio luminoso. Analogamente,<br />

l’omogeneizzazione può essere paragonata all’indossare una divisa, come succede al<br />

personale che lavora nelle pasticcerie, nei panifici, negli istituti di bellezza, in alcune palestre<br />

197


ecc.<br />

Il voler dare un’immagine omologata e omogenea mi fa pensare anche alla Cina<br />

comunista, in cui fino a non molto tempo fa tutti giravano in divisa.<br />

In questa mentalità collettiva, ciascuno finisce per non avere mai ciò che realmente<br />

vuole, per paura di apparire egoista, chiedendo quello che desidera.<br />

In effetti, se un’immagine omologata può produrre alcuni vantaggi per un esercizio<br />

pubblico o per un’istituzione come l’esercito, non sembra né produttivo né educativo<br />

utilizzare lo stesso parametro di valutazione nella realtà scolastica protesa a formare individui<br />

e non “schemi di individui”.<br />

In tale prospettiva, l’emergere del legame con il territorio, la sua cultura e tradizione,<br />

non è provincialismo, bensì un sano appagamento del bisogno di radicamento e di<br />

appartenenza, oltre che del senso di identità collettiva.<br />

Combattere il pregiudizio<br />

Su un altro versante, si profila l’esigenza di veder tutelata l’identità culturale di chi è<br />

immigrato per motivi di lavoro ed è intenzionato ad integrarsi nel territorio nazionale.<br />

Rosa Parks, una giovane donna di colore di grande fierezza personale, un giorno del<br />

1955, salì su un autobus a Montgomery, in Alabama, e si rifiutò di cedere il posto a un bianco<br />

come sarebbe stato suo dovere per legge. Il suo semplice atto di disobbedienza civile fu la<br />

scintilla che scatenò un’infuocata tempesta di polemiche e divenne un simbolo da seguire per<br />

generazioni. Fu quello l’inizio del movimento per i diritti civili, un momento culminante,<br />

capace di risvegliare le coscienze, cui ancora oggi gli americani fanno riferimento quando<br />

riaffermano il senso di uguaglianza, pari opportunità e giustizia per tutti gli uomini, a<br />

prescindere dalla razza, dal credo religioso e dal sesso. Rosa Parks non pensava forse al futuro<br />

quando quel giorno rifiutò di cedere il suo posto a sedere. Forse non aveva un progetto per<br />

cambiare la struttura della società. Tuttavia, la semplice decisione di questa donna ebbe un<br />

enorme effetto sociale. La sua decisione a mantenersi ad un livello più alto l’ha spinta ad agire<br />

e ha innescato un cambiamento radicale nella società.<br />

Un discorso analogo vale per i portatori di handicap. Qualche coraggioso ha<br />

combattuto contro una serie di pregiudizi sulle capacità delle persone fisicamente menomate.<br />

Ed Roberts era un uomo comune, costretto su una sedia a rotelle, diventato straordinario<br />

grazie alla sua decisione di agire al di là delle sue palesi limitazioni. A quattordici anni è<br />

rimasto paralizzato dal collo in giù. Durante il giorno, usava un respiratore per condurre,<br />

nonostante le avversità, una vita normale e passava la notte in un polmone d’acciaio. Avendo<br />

198


dovuto combattere una terribile battaglia contro la poliomielite, rischiando più volte di<br />

perdere la vita, Ed Roberts avrebbe potuto decidere di concentrarsi sulle sue sofferenze,<br />

invece di scegliere di fare qualcosa per gli altri.<br />

Negli ultimi quindici anni, la sua decisione di lottare contro un mondo che spesso<br />

trovava indifferente ha provocato molti miglioramenti nella qualità di vita dei cosiddetti<br />

“disabili” che oggi sono chiamati in modo più appropriato “diversamente abili”. Ed ha<br />

educato la gente e ha cominciato da zero, partendo dalle rampe d’accesso per le sedie a rotelle<br />

e dagli spazi riservati nei parcheggi fino ad arrivare alle sbarre per aggrapparsi. È diventato il<br />

primo tetraplegico laureato della University of California a Berkeley e, alla fine, ha ottenuto il<br />

posto di capo del Dipartimento di Stato per la Riabilitazione in California, aprendo anche in<br />

questo campo la strada ai disabili.<br />

Ed Roberts è la dimostrazione vivente che non importa da dove si parte: quello che<br />

conta sono le decisioni che si prendono su dove si vuole andare a parare. Tutte le sue azioni si<br />

sono basate su un unico, forte e impegnato momento di decisione. La sua forte identità è<br />

emersa anche decidendo di aiutare coloro che si trovavano nelle sue stesse condizioni.<br />

Egli scelse di concentrarsi su qualcosa di molto diverso da quello su cui si sarebbe<br />

concentrata la maggior parte delle persone nella sua stessa situazione. Lui si è focalizzato<br />

sull’idea di come poter fare qualcosa di buono al mondo. Le sue difficoltà fisiche erano una<br />

sfida per lui. Quello che lui ha deciso di fare era chiaramente qualcosa che potesse rendere<br />

migliore la qualità della vita per altri nelle sue stesse condizioni. Si è impegnato in modo<br />

assoluto a plasmare l’ambiente, in modo da migliorare la qualità della vita di tutti i disabili.<br />

In questa prospettiva evolutiva di attenzione per il rafforzamento dell’identità - in<br />

controtendenza rispetto all’attuale livellamento operato dal conformismo e da un malinteso<br />

senso di “altruismo” - possiamo coltivare le nostre radici identitarie collettive, che ci<br />

accomunano in un’Europa Unita.<br />

Allora non ci sarà alcun bisogno di prospettare una “razza pura” per avere una solida<br />

identità nazionale, in quanto è la “purezza delle nostre radici” ben coltivate, a creare un fronte<br />

comune contro la minaccia di perdere la nostra identità sotto i “colpi di frusta” della dittatura<br />

delle minoranze che avanzano per conquistarci imponendo la loro “razza pura”, come fece a<br />

suo tempo Hitler con la teoria del pangermanesimo.<br />

Sapere perché e come Gesù è stato assassinato può aiutare anche gli islamici come<br />

Adel Smith ad avere più rispetto per il nostro simbolo identitario, il Crocifisso. Riporto le<br />

parole del Vangelo:<br />

199


Il processo civile.<br />

Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore lo interrogò dicendo: “Sei tu il<br />

re dei Giudei?”. Gesù rispose: “Tu lo dici”. E mentre lo accusavano i sommi sacerdoti e gli anziani,<br />

non rispondeva nulla. Allora Pilato gli disse: “Non senti quante cose attestano contro di te?”. Ma Gesù<br />

non gli rispose neanche una parola, con grande meraviglia del governatore.<br />

Gesù o Barabba.<br />

Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a<br />

loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. Quindi, mentre si trovavano<br />

riuniti, Pilato disse loro: “Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?”. Sapeva bene<br />

infatti che glielo avevano consegnato per invidia.<br />

Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: “Non avere a che fare con quel<br />

giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua”. Ma i sommi sacerdoti e gli anziani<br />

persuasero la folla a richiamare Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò: “Chi dei<br />

due volete che vi rilasci?”. Quelli risposero: “Barabba!”. Disse loro Pilato: “Che farò dunque di Gesù<br />

chiamato il Cristo?”. Tutti gli risposero: “Sia crocifisso!”. Ed egli aggiunse: “Ma che male ha fatto?”.<br />

Essi allora urlarono: “Sia crocifisso!”.<br />

Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell’acqua,<br />

si lavò le mani davanti alla folla: “Non sono responsabile - disse - di questo sangue; vedetevela voi!”.<br />

E tutto il popolo rispose: “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”. Allora rilasciò loro<br />

Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso”.<br />

Il dileggio dei soldati.<br />

Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la<br />

corte. Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto e intrecciata una corona di spine, gliela<br />

posero sul capo, con una canna nella destra; poi mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano:<br />

“Salve, re dei Giudei”. E spuntandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul<br />

capo.<br />

La “via crucis”.<br />

Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del mantello, gli fecero indossare i suoi vestiti e lo<br />

portarono via per crocifiggerlo.<br />

Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a<br />

prendere su la croce di lui.<br />

Sul Golgota.<br />

Giunti a un luogo detto Golgota, che significa luogo del cranio, gli diedero da bere vino<br />

mescolato con fiele; ma egli, assaggiatolo, non ne volle bere. Dopo averlo quindi crocifisso, si<br />

spartirono le sue vesti tirandole a sorte. E, sedutisi, gli facevano la guardia. Al di sopra del suo capo,<br />

gli posero la motivazione scritta della sua condanna: “Questi è Gesù, re dei Giudei”.<br />

Insieme con lui furono crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra (Matteo, 27, 11-38).<br />

200


Il Messia è stato “consegnato per invidia”. L’“uomo giusto” è stato dileggiato dai<br />

soldati, crocifisso e poi schernito dai Giudei che lo insultavano scuotendo il capo e dicendo:<br />

“Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei il Figlio di<br />

Dio, scendi dalla croce!”. Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano:<br />

“Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli<br />

crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono<br />

Figlio di Dio!”.<br />

Se a questo oltraggio aggiungiamo anche quello di Adel Smith, il quadro è completo<br />

nel far comprendere che la forza insita nei messaggi di Cristo, mista alla dolcezza e all’amore<br />

verso l’umanità, suscita decisioni forti: una cultura impregnata dei messaggi di Cristo non può<br />

esporsi a scherni plateali da show televisivo o da sceneggiata nelle scuole e negli ospedali.<br />

Se vogliamo essere “seri”, non possiamo tollerare lo scempio o l’eclissamento del<br />

nostro simbolo culturale in nome dell’anonimato di una laicità che, tutto sommato, si<br />

prefigura come “terra di nessuno” e assenza di identità storico-culturale.<br />

L’ideologia del predominio<br />

Per consolidare l’identità della Germania di fronte alla minaccia bolscevica, Hitler si<br />

concentrò sul nazionalismo, inteso come affermazione della Germania in contrapposizione ad<br />

altri Paesi e in posizione dominante rispetto ad essi. L’ideologia del predominio si profilava<br />

come pangermanesimo, in cui la “razza ariana”, eletta e dominante, imponeva agli altri popoli<br />

la sua cultura e la sua presunta “civiltà”. Viceversa, oggi, una forte identità <strong>eu</strong>ropea non<br />

implica il predominio di una nazione sulle altre, bensì l’affermazione di un’identità che<br />

appartiene a tutti gli <strong>eu</strong>ropei, basata sulle comuni radici storiche e sui valori condivisi. Il salto<br />

qualitativo sta nel passaggio dalla sopraffazione all’integrazione armonica e voluta dai<br />

componenti della Casa Europea.<br />

Oggi il nazismo si chiama terrorismo islamico e Al Qaida, con le sue cellule sparse<br />

anche sul territorio italiano. Dobbiamo comprendere la cultura del nazismo, perché ha vari<br />

elementi in comune con il fondamentalismo islamico. D’altro lato, come ho indicato nel corso<br />

dell’esposizione, tutte le ideologie si somigliano nelle loro terribili conseguenze.<br />

È il fondamentalismo islamico che sta imponendo i suoi valori e i suoi parametri di<br />

valutazione al mondo occidentale. Il terrorismo islamico è il frutto culturale del pensiero<br />

antagonista dell’Occidente, che costituisce l’acqua in cui nuota il pesce - terrorista . Bin<br />

Laden rappresenta la rivolta di Galatea. Nella mitologia classica, Pigmalione, re di Cipro, era<br />

insoddisfatto delle donne che non trovava mai all’altezza dei suoi desideri. Scolpì una statua<br />

201


d’avorio di cui si innamorò e pregò Afrodite di darle vita. La dea, mossa a pietà dal suo caso,<br />

ascoltò la sua preghiera. Pigmalione sposò questa creatura che chiamò Galatea e in lei generò<br />

una figlia, Pafo, che fu madre e moglie di Cinira.<br />

Il mito non parla di una ribellione di questa creatura costruita in modo strumentale per<br />

soddisfare le esigenze di Pigmalione, ma la storia dei rapporti coniugali in cui lui sposa una<br />

ragazza con venti o trent’anni di meno per forgiarla secondo le sue esigenze ci indica che<br />

spesso c’è una presa di coscienza, da parte della donna, del ruolo strumentale in cui è stata<br />

relegata, e una conseguente ribellione a questo “destino”. Bin Laden, creatura del governo<br />

americano al pari di Galatea, rappresenta forse il seguito inedito del mito, inaugurando la fase<br />

della rivolta contro il creatore per affermare un’identità esclusiva di dominio sul mondo. Così,<br />

Bin Laden si è posto in competizione con gli USA per il controllo del mondo sviluppando una<br />

rete terroristica che vorrebbe sottrarsi ad ogni caccia. L’attacco terroristico acquista un<br />

significato simbolico di spaccatura di un ordine precostituito, di ferimento del “padrone”, che<br />

non è quindi invulnerabile.<br />

Per i terroristi siamo tutti nemici, in quanto parte del sistema. Il terrorismo è nemico di<br />

tutte le forze politiche perché vuole sostituirsi con la sua identità politica. Mina la stabilità, in<br />

attesa di un mondo migliore e al tempo stesso rifiuta il cambiamento, in direzione riformista,<br />

mentre la criminalità convive con lo stato, con l’ordine costituito. Per fermare il terrorismo<br />

dobbiamo mostrare un’estrema risolutezza nel difendere il nostro radicamento culturale e<br />

identitario, pur dialogando con i componenti moderati dell’Islam. Il dialogo con i moderati<br />

rappresenta l’armamentario più efficace nella lotta al terrorismo e all’estremismo, perché<br />

spinge gli stessi moderati ad isolare e a n<strong>eu</strong>tralizzare i fanatici. In effetti, da un punto di vista<br />

sistemico, non esiste il potere in se stesso, bensì solo in funzione del consenso che uno riceve.<br />

In breve, un individuo ha potere solo se noi glielo attribuiamo, con il nostro consenso<br />

e il nostro appoggio. Un individuo isolato, emarginato, non ascoltato, non ha potere,<br />

nemmeno se è a capo di un grande movimento terroristico o fondamentalista. Comprendere<br />

bene il concetto di “potere” significa anche non avere paura e non sentirsi minacciati, quando<br />

si è in grado di controllare il fenomeno terroristico ottenendo il consenso e l’appoggio<br />

costruttivo della “quasi totalità” moderata.<br />

L’identità dell’Europa assediata.<br />

La Grecia è stata per tanto tempo sotto la dominazione ottomana e non è diventata<br />

musulmana perché aveva una forte religione ortodossa e una coscienza identitaria. Viceversa,<br />

l’Europa appare impreparata a confrontarsi con l’invasività di una penetrazione che è prima di<br />

202


tutto culturale.<br />

Dietro lo schermo della mitezza e della tolleranza si nasconde la mancanza di<br />

“anticorpi”, di spina dorsale, di fronte ad una sfida cieca, brutale, intollerante, che non<br />

riconosce nessuno dei valori nei quali noi ci riconosciamo. Il terrorismo è solo un affare di<br />

fanatici? È vero che non si può identificare l’Islam con il terrorismo o l’integralismo, e che i<br />

primi nemici del terrorismo sono rappresentati dai componenti del mondo islamico moderato.<br />

È in atto una guerra civile islamica tra terroristi e islamici moderati.<br />

Tuttavia, la laicità intesa come relativismo culturale, che non prende mai una<br />

posizione identitaria, e non afferma nulla per non scontentare nessuno degli illuministi, dei<br />

positivisti o di chicchessia finisce per condannarsi alla propria disfatta.<br />

Essere laico vuol dire non agire, lasciare che le cose vadano alla deriva, perché occorre<br />

cercare nell’azione una “misura”?<br />

O essere laici non significa piuttosto appellarsi alla forza della civiltà a cui agganciare<br />

questa Europa alla deriva? La matrice da cui proviene lo sviluppo liberal-democratico è<br />

giudaico-cristiana. Un continente decerebrato che non sa mettersi d’accordo su questa<br />

constatazione storico-culturale si definisce per ciò stesso terreno ideale di occupazione, di<br />

conquista, perché manca di difese immunitarie, di riconoscimento dei propri valori comuni e<br />

delle proprie radici storiche.<br />

Il fatto che la giornalista Oriana Fallaci si sia definita un’“atea cristiana” nel suo libro<br />

“La forza della ragione”, è indicativo della possibilità di una non-credente di riconoscersi nei<br />

valori fondanti della civiltà <strong>eu</strong>ropea. La Fallaci parla dello “splendido nazareno” (Gesù) e del<br />

cristianesimo come di una “irresistibile provocazione”. Il cristianesimo è la più grande<br />

rivoluzione, quella dell’anima. Senza cristianesimo, non ci sarebbero stati né il Rinascimento,<br />

né l’Illuminismo, e nemmeno la Rivoluzione Francese. Non ci sarebbero stati il socialismo, e<br />

neppure il liberalismo e il femminismo.<br />

Il positivismo e il comunismo, avversari del cristianesimo, sono stati confutati dalla<br />

storia. Oggi ci sono le élites agnostiche, atee per forza d’inerzia, che non si rimettono in<br />

discussione e danno piuttosto per scontato che laico sia tutto ciò che non puzza di sacrestia o<br />

di religione. Non si pongono il problema dei valori a cui aderiscono e, perciò, non hanno il<br />

senso della propria identità e ritengono che affermare la propria identità significhi<br />

necessariamente fare violenza a qualcuno. In questo modo, essendo senza confini identitari,<br />

non percepiscono la necessità che tali confini siano trovati anche a livello nazionale ed<br />

<strong>eu</strong>ropeo, e lasciano libero campo all’attecchimento di altre identità, ben più agguerrite e<br />

pronte ad affermare i loro criteri e le loro leggi.<br />

203


C’è chi sostiene che l’Occidente si sta islamizzando di giorno in giorno e che “Prodi<br />

ha venduto l’Europa al mondo islamico”. Blair, dopo che è stato sventato nell’aprile 2004<br />

l’ultimo attentato, ha dato un giro di vite alla società multiculturale, in quanto permette<br />

all’Islam di attecchire.<br />

Constatando lo smarrimento della nostra identità come Europa, qualcuno ha osservato<br />

che la società <strong>eu</strong>ropea è più minacciata da se stessa che dall’Islam. La “guerra culturale che<br />

vuole colpire la nostra filosofia di vita”, in cui “ci ammazzano per piegarci, scoraggiarci”, in<br />

quanto “vogliono distruggere la nostra anima, nelle idee, nei sogni”, trova il terreno ideale<br />

nell’incapacità di accordarci sulle nostre radici e sul riferimento ad esse nel preambolo della<br />

Costituzione che ci richiami alla nostra identità, alla nostra coscienza identitaria. Qualcuno ha<br />

osservato che non c’è alcun bisogno di fare del riferimento alle radici una bandiera, che il<br />

cristianesimo è dentro di noi e si manifesta nella mitezza, non come “bandiera”.<br />

A questi fautori della “mitezza senza identità”, di fronte a quella parte dell’Islam che<br />

ha una fortissima identità, anche se fanatica, vorrei far notare qual è il destino dei vasi di<br />

coccio in mezzo a tanti vasi di ferro. In questo caso la minaccia non incombe solo sul nostro<br />

stile di vita, sui nostri sentimenti e valori, ma sulla nostra sopravvivenza in quanto individui,<br />

perché il pesce nuota solo nell’acqua e occorre una vasta rete di protezioni e coperture<br />

nell’ambiente islamico per poter attuare un attentato “sofisticato” come quello dei Madrid<br />

dell’11 marzo 2004. Analogamente, anche se la maggioranza dei tedeschi e degli italiani non<br />

è direttamente responsabile della ghettizzazione e della “soluzione finale” riguardo agli ebrei,<br />

durante la seconda guerra mondiale, l’atteggiamento di indifferenza assunto dalla popolazione<br />

ha favorito l’attuazione del piano criminale. Il terreno di coltura del fondamentalismo e del<br />

terrorismo resta l’Islam. Se è vero che il fondamentalismo cattolico ha generato l’IRA, anche<br />

se non si può dire che tutti i cattolici siano membri dell’IRA, è anche vero che la rete del<br />

terrorismo internazionale islamico non ha né la portata né le motivazioni dell’IRA. È<br />

indagando sulle motivazioni culturali, politiche, ideologiche di fondo del terrorismo, che noi<br />

possiamo comprendere come questo fenomeno riguardi tutti noi, nella nostra identità e<br />

cultura, nei nostri valori e nelle nostre radici storiche.<br />

La strategia di combattere il terrorismo con la forza della conoscenza parte dall’idea<br />

che capire costituisce l’arma migliore che abbiamo per difenderci dalle minacce e dalla paura.<br />

Napoleone ha detto: “La mente fermerà sempre la spada”.<br />

Dobbiamo comunque distinguere tra guerra agli estremisti e tutela di chi viene qui per<br />

lavorare e avere migliori condizioni di vita. Ma il fatto che sia difficile estrapolare le<br />

“intenzioni” delle persone dovrebbe renderci estremamente cauti nell’aprire l’ingresso delle<br />

204


frontiere a chiunque.<br />

La trasmissione dei valori nella strutturazione dell’identità individuale e culturale.<br />

Le donne, che trasmettono ai figli la cultura e i valori, svolgono un ruolo fondamentale<br />

nello strutturare l’identità e perciò va loro attribuita l’importanza che meritano nella cultura e<br />

nelle istituzioni. La nascente cultura delle donne va compresa e valorizzata in quanto si<br />

presenta come la struttura portante della società del futuro. È confidando nelle donne che gli<br />

uomini potranno costruire un mondo più giusto, più sano, più solidale, più vero.<br />

A Vigevano, (Lombardia) il 5 aprile 2004 è stato aperto il primo asilo aziendale, nella<br />

nuova frontiera della politica di conciliazione tra famiglia e lavoro. Una web-camera e<br />

internet permettono il collegamento tra nido e ufficio, consentendo alle madri di essere vicine<br />

al proprio figlio, seguendone le attività attraverso il video.<br />

È auspicabile che l’iniziativa si diffonda su tutto il territorio, per favorire<br />

l’integrazione della percezione di sé delle donne come madri e lavoratrici. Le donne hanno<br />

bisogno di aiuto e incoraggiamento nello svolgere molteplici ruoli contemporaneamente, in<br />

sintonia con le richieste di una società che ha bisogno di madri esperte anche nell’arte di<br />

vivere in mezzo agli altri, combattendo per un mondo migliore, e non solo di “angeli del<br />

focolare” alla vecchia maniera.<br />

Perché le istituzioni non si rivolgono esplicitamente alle donne?<br />

Cinquemila persone tutte in piedi in un battimani ritmato, altri mille davanti a un<br />

maxischermo fuori dal padiglione più grande della Fiera di Rimini. È l’evento di questo<br />

Meeting, e qualcuno potrebbe non credere che non si tratta di un concerto rock ma di una<br />

lezione di teologia, di filosofia. In realtà è una lezione di umanità e di fede, protagonista il<br />

Patriarca di Venezia, Angelo Scola. Come Cardinale è corresponsabile insieme al Papa della<br />

guida della Chiesa universale; ecco perché la sua presenza qui va oltre il fatto che si tratta del<br />

primo sacerdote di CL elevato al porporato. È la Chiesa che parla. E la sua è un’analisi severa,<br />

a tratti anche dura, del mondo occidentale; ma anche un messaggio di ottimismo e di speranza<br />

nella capacità dell’uomo di capire il senso della frase-chiave del Meeting, “il nostro progresso<br />

non consiste nel presumere di essere arrivati ma nel tendere continuamente alla meta”.<br />

Il Patriarca di Venezia, che a metà agosto ha celebrato una S. Messa nella chiesa di<br />

Jesolo rivolgendosi a tutti i turisti presenti, in lingua italiana e tedesca e ha commentato il<br />

Vangelo confrontandone il messaggio con la cultura odierna, ha rilasciato un’intervista a Il<br />

Gazzettino del 28 agosto 2004, in cui parla del progresso: “Nel suo apprezzabile intento di<br />

205


valorizzare la persona - egli dichiara - la modernità ha dato il via a un processo di riduzione<br />

ideologica del cristianesimo. Come se Dio fosse indifferente o nemico dell’umana libertà.<br />

L’Occidente e l’Europa non riescono a liberarsi da questa concezione ideologica del<br />

progresso”. Riporto il seguito dell’intervista:<br />

Anche il modello di progresso proposto dal Nordest è da condannare?<br />

“E’ un modello che per avere futuro deve trasformarsi in un modello di civiltà. Il problema di<br />

oggi non è il progresso, perché quello lo tocchiamo tutti con mano. Il problema è avere un progresso<br />

ragionevole, a misura di uomo, a misura delle famiglie, a misura di una regione, a misura del mondo”.<br />

Cosa garantisce un progresso ragionevole?<br />

“Se parliamo del Nordest, constato che questo sviluppo è stato reso possibile dalla solidità<br />

della sensibilità cristiana dei nostri padri verso gli affetti e verso il lavoro. Accettiamo pure tutte le<br />

trasformazioni; ma accettiamo almeno che è necessario porre alcuni punti fondamentali, alcuni pali<br />

come quelli che circondano la nostra Venezia. La prima condizione è che dobbiamo finirla con la<br />

confusione nel mondo degli affetti e del lavoro. Ritrovare una bussola, una stella polare. A partire dal<br />

matrimonio e dalla famiglia; dal lavoro come equilibrato sviluppo personale e sociale, e che non sia<br />

lavoro per il lavoro. Poi dobbiamo avere il senso della Storia, la capacità di riconoscere i processi in<br />

atto, accompagnarli e assecondarli rispettando i diritti fondamentali della persona che sono diritti<br />

sociali, economici, del lavoro, il principio di sussidiarietà e solidarietà. E soprattutto è ora di finirla<br />

con la pretesa di separare la vita privata dalla vita sociale: come se nella vita privata ci si potesse<br />

concedere qualunque vizio e al contempo pretendere che la vita pubblica sia ineccepibile. E questo<br />

discorso vale anche per il Veneto”.<br />

Nella parte finale dell’intervista il Patriarca di Venezia sostiene che “l’autorità<br />

istituzionale a tutti i livelli e gli uomini che sono impegnati in primo piano nella politica,<br />

nell’economia e nella cultura devono guardare al popolo con un atteggiamento diverso,perché<br />

nel nostro popolo italiano c’è una profonda radice che si rifà a un’esperienza elementare di<br />

vita legata alla crescita degli affetti e del lavoro, che è straordinaria. E le autorità devono far<br />

maturare tutto questo. Se guardassero di più lì, anche la litigiosità tra loro scemerebbe”.<br />

Vorrei far notare che il cardinale si rivolge agli “uomini impegnati in primo piano<br />

nella politica, nell’economia e nella cultura” e, in altre parti dell’intervista, parla di “uomo<br />

<strong>eu</strong>ropeo” che “non può evitare un giudizio sul suo presente”, di “cristiano <strong>eu</strong>ropeo” per<br />

concludere che “siamo ormai uomini impagliati”. Non c’è alcun accenno esplicito alle<br />

“donne”, come se non esistessero o vivessero solo in funzione dell’uomo e delle sue decisioni<br />

206


in materia di politica, economia e cultura. Anche nel corso delle S. Messe, le invocazioni<br />

rivolte a Dio vengono fatte al maschile: “Per gli uomini che hanno responsabilità educative e<br />

sociali...” ho sentito ripetutamente, come se le donne non entrassero nel mondo della<br />

responsabilità educativa e sociale. Qualcuno può obiettare che nella lingua italiana per<br />

“uomini” si intendono genericamente anche le donne. Ma questa spiegazione non mi convince<br />

né come psicologa né come donna. Perché in alcuni casi si parla di “uomini e donne”,<br />

soprattutto nel linguaggio dei politici, e altre volte no? La Programmazione N<strong>eu</strong>rolinguistica<br />

insegna che il linguaggio, che è generato dalla “realtà interiore”, finisce per “creare la realtà<br />

esteriore”, costituendo un “filtro” tra noi e gli altri. In altri termini, usando un certo modo di<br />

esprimerci, condizioniamo il modo di percepire la realtà degli altri.<br />

L’esperienza interna costruisce il linguaggio, ma è da questo condizionata. Esiste tra<br />

linguaggio ed esperienza interna un legame bidirezionale. Il linguaggio di una persona ci<br />

consente di accedere alla sua mappa del mondo.<br />

Nel mondo degli affari giapponese, c’è una parola che viene sempre usata quando si<br />

discute di affari o di rapporti umani. Questa parola è kaizen. Letteralmente significa<br />

“miglioramento costante” e viene usata in continuazione. Spesso i giapponesi parlano di<br />

kaizen del loro deficit commerciale, di kaizen della linea di produzione, di kaizen dei rapporti<br />

personali. Di conseguenza, i giapponesi cercano continuamente di migliorare. Kaizen si basa<br />

sul principio del miglioramento graduale, fatto di piccoli, semplici miglioramenti. I<br />

giapponesi però sanno che i piccoli ritocchi fatti quotidianamente finiscono per creare dei<br />

miglioramenti complessi, a un livello che ai più sembra impensabile.<br />

Un detto giapponese suona così: “Se un uomo non si è fatto vedere per tre giorni,<br />

quando torna i suoi amici devono guardarlo bene per scoprire che cambiamenti ha subito”.<br />

Il principio organizzativo del kaizen ha un enorme effetto sulla cultura imprenditoriale<br />

giapponese. Tutti abbiamo bisogno di una parola per concentrarci sul miglioramento continuo<br />

o costante. Quando creiamo una parola, le diamo un significato in codice e creiamo un modo<br />

di pensare. Le parole che usiamo costituiscono il tessuto di come pensiamo e influiscono<br />

anche sulle nostre decisioni.<br />

In Giappone si parla spesso di controllo di qualità in tutta l’azienda. Ma un<br />

miglioramento costante e continuo negli affari, nei rapporti personali e spirituali, nella salute<br />

e nelle finanze, fa della vita un viaggio entusiasmante.<br />

Un miglioramento graduale e continuo è fonte di sicurezza nella vita nella sfera<br />

personale, familiare, sociale, lavorativa.<br />

207


Scoprire i problemi in formazione<br />

Uno degli scopi del continuo miglioramento è scoprire i problemi ancora in<br />

formazione e dominarli prima che diventino vere e proprie crisi. Il momento migliore per<br />

uccidere un mostro è quando è ancora piccolo. Le parole rimandano dunque alla mappa<br />

interna delle persone. E la nostra mappa agisce da “filtro” nei confronti della mappa altrui.<br />

Esiste uno strumento in Programmazione N<strong>eu</strong>rolinguistica, detto “metamodello”, che può<br />

essere utilizzato in ogni tipo di conversazione e consente di indirizzare la nostra<br />

comunicazione alla mappa dell’altra persona. Se qualcuno afferma ad esempio “Lui mi<br />

rifiuta”, è possibile riconoscere una violazione del metamodello nel verbo non specificato.<br />

Attraverso le domande di confrontazione: “Come ti rifiuta? A quale livello? In che modo?<br />

Come precisamente?”, possiamo raggiungere lo scopo di specificare il verbo per evitare<br />

fraintendimenti. D’altro lato, non si dice anche comunemente che chi mal capisce peggio<br />

risponde?<br />

Un altro esempio. L’affermazione “E’ sbagliato essere disordinato” non fa capire chi<br />

dà il giudizio di valore, ossia lascia emergere un performativo mancante. Le domande di<br />

confrontazione “Chi dice che è sbagliato? Per chi è sbagliato? Come fai a sapere che è<br />

sbagliato essere disordinato” ci portano a perseguire la finalità di ricercare la fonte della<br />

credenza, ricercare il performativo mancante e ricercare le strategie di esame.<br />

Un altro esempio ancora. Se qualcuno dice “Io non ti piaccio”, si fa una lettura della<br />

mente con una distorsione. Occorre chiedere: “Come sai che non mi piaci? Come sai<br />

specificamente? Da cosa lo sai l’hai dedotto? Quando non ti piaccio? In che modo? Cosa ti fa<br />

pensare che non ti piaccio?”. Attraverso queste domande, si ricerca la fonte dell’informazione.<br />

Noi prestiamo scarsa attenzione anche ad una violazione molto diffusa, che coinvolge<br />

i quantificatori universali: tutti, niente, tutto, sempre, mai, nessuno, ogni volta che ecc. Ad<br />

esempio, se io dico “lei non mi ascolta mai”, si può chiedere: “Proprio mai? C’è mai stata<br />

almeno una volta in cui ti ha ascoltato? Quando non ti ha ascoltato? Cosa succederebbe se lo<br />

facesse?”. Lo scopo di queste domande è la ricerca del contro-esempio. Questo tipo di<br />

violazione-generalizzazione sta alla base del pregiudizio. Ad esempio, se uno dice: “Tutti i<br />

tedeschi sono nazisti”, si può chiedere: “Proprio tutti? Chi specificamente lo era? Di chi<br />

stiamo parlando? Ma quelli sono ‘tutti’ per te?”.<br />

Per smantellare i pregiudizi etnici, razziali, nazionali ecc. occorre avvalersi di queste<br />

domande di confrontazione, ricercando i contro-esempi, per rompere la generalizzazione.<br />

Questi esempi di meta-modello illustrano come sia possibile creare un collegamento<br />

tra linguaggio di una persona e la sua esperienza interna.<br />

208


Le violazioni della nostra mappa ci impediscono di vedere le violazioni della mappa<br />

altrui. È quindi importante conoscere le nostre violazioni.<br />

L’omissione del riferimento specifico alle donne quando si parla di “uomo <strong>eu</strong>ropeo”<br />

ecc., può somigliare alla violazione della mancanza di indice referenziale o soggetto. Nella<br />

frase “Loro non mi ascoltano”, manca la specificazione del soggetto a cui si può ovviare<br />

chiedendo: “Chi specificamente non ti ascolta?”. Il recupero degli indici referenziali è<br />

importante perché il linguaggio condiziona l’esperienza interna di chi parla e di ascolta. Esiste<br />

un legame bidirezionale tra linguaggio ed esperienza interna.<br />

Non è quindi affatto irrilevante specificare il riferimento esplicito alle donne e al loro<br />

contributo nella costruzione della società. In effetti, a furia di evitare tale riferimento<br />

specifico, incappiamo in una violazione colossale, e non solo linguistica, in quanto le<br />

implicazioni riguardano il buon andamento della società, oltre al mancato riconoscimento dei<br />

meriti effettivi delle donne.<br />

Restando inchiodati nell’idea che le donne non contano o contano molto meno degli<br />

uomini nell’evoluzione della civiltà, si finisce per parlare sempre di “uomo <strong>eu</strong>ropeo”, “uomo<br />

artefice dei cambiamenti economici, politici, sociali, culturali” ecc.<br />

D’altro lato, le violazioni ripetute della nostra mappa che diventano una sorta di<br />

“abitudine mentale”, ci impediscono di vedere le violazioni della mappa altrui e di fare le<br />

domande chiarificatrici di confrontazione.<br />

In breve, si finisce per dare per scontato che l’uomo è artefice della società e le donne<br />

sono passive, perché pensano solo a mettere al mondo figli e allevarli.<br />

Non a caso era una ragazza a leggere in chiesa, in pubblico, l’invocazione “Per gli<br />

uomini con responsabilità educative e sociali...”. Presumibilmente, è stata così abituata ad<br />

usare il maschile per tutto ciò che implica “responsabilità”, che non si è mai posta il problema<br />

se questa espressione fosse adeguata ad estrinsecare l’effettivo coinvolgimento delle donne<br />

nella conduzione della società. Non ha “visto” le violazioni della mappa di chi ha composto lo<br />

scritto, perché nella sua mappa ci sono violazioni ormai radicate. Oppure non ha avuto il<br />

coraggio di porre obiezioni al clero che pensa “unicamente” al maschile per tutto ciò che<br />

riguarda le responsabilità educative e sociali. Ma finché nessuna donna avrà il coraggio di fare<br />

domande di confrontazione del tipo “Solo gli uomini hanno responsabilità educative e sociali?<br />

Come sai che sono solo gli uomini? C’è mai stata almeno una volta in cui una donna ha avuto<br />

responsabilità educative e sociali?”.<br />

Adesso può forse far sorridere l’idea che non sia stata presa in considerazione la donna<br />

per quanto concerne le responsabilità educative, perché sicuramente le donne ne hanno molte.<br />

209


Ma l’assunzione del maschile in maniera sistematica non può essere giustificata con l’ipotesi<br />

che per “uomo” si intenda automaticamente anche la donna. In effetti, quando i politici e gli<br />

ecclesiastici intendono rivolgersi anche o soprattutto alle donne, sanno bene cosa dire e come<br />

dirlo.<br />

Allora l’ipotesi più accreditata nell’interpretazione di questa situazione è che le donne<br />

vengano considerate irrilevanti, di serie B e C per tutto ciò che riguarda i compiti di alta<br />

responsabilità nella conduzione della società. E ciò si riflette nell’uso del linguaggio della<br />

gerarchia ecclesiastica immersa in una cultura maschile. E, nonostante le donne costituiscano<br />

il 53% dell’elettorato, sono irrilevanti sul piano politico, con una rappresentanza in<br />

Parlamento al di sotto del 10%. Ciò significa che il linguaggio dei politici non può che<br />

riflettere la loro cultura maschile, a detrimento di una sana integrazione tra Maschile e<br />

Femminile anche nella cultura.<br />

Parlando ripetutamente di “uomini impegnati in primo piano nella politica,<br />

nell’economia e nella cultura”, senza nominare le donne, il messaggio ricevuto implica che<br />

l’essere “in primo piano” nella guida della società riguarda soltanto gli uomini e non le donne.<br />

La “cultura al maschile” della Chiesa, tuttavia, non è la cultura di Cristo, che si rivolgeva<br />

sullo stesso piano agli uomini e alle donne e ha affidato ruoli di responsabilità alle donne nella<br />

cultura, nell’educazione e nella società. La Chiesa gerarchica ha fatto del Maschile una<br />

categoria dominante a detrimento del Femminile. Ma questo non era lo spirito di Gesù e del<br />

Vangelo. L’integrazione del Maschile e del Femminile anche nel linguaggio ecclesiastico,<br />

quale sintesi degli opposti, va considerata attentamente, per evitare l’“unilogica” sociale,<br />

foriera di ideologie di stampo dittatoriale. Su questa linea, il Papa Giovanni Paolo II ha<br />

iniziato a valorizzare sullo stesso piano uomini e donne attraverso modelli esemplari di<br />

santità, ma selezionandoli sulla base di “affinità” nelle risorse.<br />

Una filosofa diventata santa<br />

Verso la fine di agosto 2004 il Pontefice ha rivolto ai giovani le sue “persuasioni”,<br />

riemerse con forza dentro al messaggio in preparazione della XX Giornata mondiale della<br />

gioventù che si svolgerà a Colonia dal 15 al 21 agosto 2005.<br />

Giovanni Paolo II non ha paura di rinverdire antiche verità, e di tirar fuori dal cassetto,<br />

che in qualche sacrestia sa di muffa, parole come “santità”. Egli propone per esempio,<br />

ricollegandole con Colonia, un grande vescovo filosofo (e, a suo modo, scienziato) del<br />

Medioevo, Alberto, maestro di Tommaso d’Aquino, e un’affascinante figura femminile,<br />

l’ebrea Edith Stein, diventata monaca carmelitana e incenerita dai nazisti ad Auschwitz.<br />

210


Edith, che si chiamò alla fine Benedetta Teresa della croce, era stata la discepola<br />

prediletta del più grande filosofo della prima metà del secolo, l’austero Husserl, e gli aveva<br />

dato un certo dispiacere quando era passata dalla libera ricerca filosofica alla libera e insieme<br />

vincolante adesione al vangelo della croce.<br />

La Stein scriveva: “Io incontro questo dolore o questa gioia direttamente nel luogo in<br />

cui è, presso l’altro, e così si rende evidente anche a me che io sono altro”. È un atto<br />

esperienziale, dunque, dove l’uno esiste di fronte all’altro, capace di confrontarsi con lui,<br />

come dice Buber, e confermarlo nella presenza comune. Questo sistema di concordanza<br />

implica un “abitare la distanza”, un dimorare nello spazio vuoto con l’altro riconosciuto,<br />

stando discosti da noi stessi per poter ospitare l’altro, con un movimento simultaneo di<br />

assenza e presenza, di distanza e coincidenza.<br />

L’approccio fenomenologico, di cui Husserl è uno dei massimi esponenti, mira a<br />

cogliere e descrivere l’evento psicologico nel suo darsi immediato, nell’incessante divenire<br />

del vissuto.<br />

È nella variazione della distanza che avviene l’interazione tra ciò che si presenta<br />

inizialmente come corpo fisico che diventa via via corpo vivente, e la “lettura” della realtà<br />

avviene sulla base di una modificazione che la mia esperienza subisce per effetto del<br />

presentarsi.<br />

Che cosa permette ad ogni persona di passare dal “corpo proprio” al riconoscimento<br />

dell’altro? È quel “sentire” che Husserl chiama via empatica, e che in psicologia si chiama<br />

rapporto, seconda posizione percettiva o mettersi ad osservare una cosa dal punto di vista<br />

dell’altro. Questo “corpo proprio” incontra il “mondo trascendente” (l’altro) ed è così che si<br />

costituisce la “messa in comune” del mondo, dando vita ad un “noi” o quarta posizione<br />

percettiva, che comporta un comune sentire e “un’armonia di monadi”.<br />

Attraverso la variazione della distanza avviene la relazione d’aiuto, con la<br />

comprensione dell’umana presenza come con-essere-nel mondo, alla ricerca dei modi<br />

fondamentali in cui l’altro esiste e aiutandolo a riprogettarsi in modo autentico. C’è un intento<br />

antiriduzionistico a parametri biologici, sociologici, causalistici, che comporta la costante<br />

apertura a un orizzonte di senso proprio di ogni evento psichico.<br />

È forse giunto il momento che anche gli uomini della Chiesa considerino finalmente<br />

l’aspirazione alla libera ricerca filosofica delle donne, in contrasto con i parametri<br />

“riduzionistici”, che hanno orientato a lungo la visione del mondo femminile? E che non si<br />

limitino ad apprezzarne le abilità di cuoche o procreatrici alla stessa stregua delle culture del<br />

Guerriero di livello inferiore che hanno improntato il nazifascismo imperante durante la<br />

211


seconda guerra mondiale e il fondamentalismo islamico che soggioga la società in Iran e in<br />

altri stati?<br />

FRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE: LA DONNA DI OGGI E DI DOMANI<br />

Le nostre rappresentazioni interne, le nostre esperienze degli eventi, non sono<br />

esattamente quel che è accaduto, ma piuttosto una personale ri-presentazione. La mente<br />

conscia dell’individuo non è in grado di utilizzare tutti i segnali che le vengono inviati. Con<br />

ogni probabilità, impazziremmo se dovessimo ricavare consciamente un senso da migliaia di<br />

stimoli, dalla pulsazione del sangue nel pollice destro al brusio nell’orecchio. Perciò il<br />

cervello filtra e immagazzina le informazioni di cui ha bisogno o si aspetta di aver bisogno<br />

più tardi, e permette alla mente conscia dell’individuo di ignorare il resto.<br />

Il “filtro” nella percezione della realtà<br />

Il processo di filtraggio spiega l’enorme gamma delle percezioni umane. Due individui<br />

possono assistere allo stesso incidente stradale e fornirne resoconti completamente diversi.<br />

Uno può aver prestato maggiore attenzione a ciò che vedeva, mentre l’altro a ciò che udiva.<br />

Hanno sperimentato l’incidente da prospettive diverse, registrando nel cervello dati diversi.<br />

Può darsi anche che uno si sia trovato a sua volta coinvolto in precedenza in un<br />

incidente stradale e ne abbia già immagazzinato una vivida rappresentazione. Comunque sia, i<br />

due avranno rappresentazioni differenti dello stesso evento. E procederanno<br />

all’immagazzinamento di tali percezioni e rappresentazioni interne che diventeranno nuovi<br />

filtri attraverso i quali in futuro sperimenteranno il reale.<br />

Questi “filtri” agiscono in un certo modo come una sorta di mappa. Alfred Korzybsky<br />

scrisse su Science and Sanity: “Vanno tenute presenti fondamentali caratteristiche delle<br />

mappe. Una carta geografica non è il territorio che rappresenta ma, se è esatta, ha una struttura<br />

simile a quella del territorio, ciò che ne giustifica l’utilità”.<br />

Il significato di questa affermazione è che la rappresentazione interna dei singoli non<br />

coincide con l’esatta riproduzione dell’evento, ma è soltanto un’interpretazione filtrata<br />

attraverso specifiche credenze, atteggiamenti e valori personali. Il 25 novembre 2004 ho<br />

assistito al dibattito politico sulla riforma dell’ordinamento giudiziario che si è tenuto sul<br />

programma televisivo “Punto e a capo”. Durante la trasmissione, condotta da Giovanni<br />

Masotti e Daniela Vergara - in cui finalmente si è introdotto in televisione il role-playing,<br />

212


l’alternanza della conduzione tra uomo e donna, mentre in passato comparivano solo<br />

conduttori uomini o donne - Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti Italiani ed ex<br />

ministro della Giustizia, ha accusato il conduttore di essere fazioso. Questi si è difeso<br />

osservando che non si può prescindere dalla propria visione politica, ma tutt’al più cercare di<br />

“smorzare i toni” o cercare di essere “moderatamente faziosi”.<br />

Prendendo atto che ogni interpretazione è “necessariamente” filtrata attraverso<br />

specifiche credenze, atteggiamenti e valori personali, è possibile contenere i “bollenti spiriti”,<br />

tenendo presenti anche altre interpretazioni alternative della stessa realtà.<br />

Si possono portare vari esempi di “rovesciamento” del punto di vista, in<br />

corrispondenza di credenze, atteggiamenti e valori personali differenti.<br />

Per citarne uno, per vario tempo la classe politica al potere ha ritenuto che la<br />

solidarietà fosse essenzialmente di sinistra e che a destra lo stesso concetto corrispondesse al<br />

vecchio e “umiliante” concetto del “fare l’elemosina” al povero.<br />

Qualcuno pensa che la maniera migliore per aiutare i poveri sia di essere uno di loro.<br />

Tuttavia, qualche altro ha constatato che forse è vero il contrario, che la maniera migliore per<br />

aiutarli consista nell’offrire loro un modello di altre possibilità, la dimostrazione che è<br />

disponibile un’altra gamma di scelte, e nell’aiutarli a sviluppare le risorse necessarie a<br />

raggiungere l’autosufficienza.<br />

Un atteggiamento analogo ha contrapposto in Italia chi vedeva nel taglio delle tasse<br />

l’opportunità per rilanciare l’economia e chi - a sinistra - ha continuato a vedere in questa<br />

linea politica un modo per favorire i ricchi e impoverire ulteriormente i poveri.<br />

Alla prova dei fatti, il 25 novembre 2004 il premier Berlusconi ha annunciato la<br />

“svolta epocale”, dopo un animato dibattito all’interno della maggioranza, che si è protratto<br />

per settimane, sulla necessità di avere coperture finanziarie e di non intaccare i parametri di<br />

Maastricht, anche se serve una ridefinizione di essi. Non c’è alcuna macelleria sociale e non si<br />

tocca una lira per il Sud. Si interviene su sprechi, privilegi e spese inutili, senza incidere sullo<br />

stato sociale. Le coperture, dunque, ci sono: su tutte c’è il timbro della ragioneria dello Stato.<br />

Conclusione: meno tasse, meno Stato e anche meno statali. Ha vinto la tenacia del<br />

premier; che non ha ceduto di fronte alla proposta di un Berlusconi-bis che rivedeva la<br />

promessa fatta agli italiani di ridurre le tasse. La ferma determinazione del premier, che in una<br />

lettera prospettava il voto anticipato in caso di mancato accordo, si è rivelata la chiave della<br />

soluzione della crisi. Le coperture indicate sembrano ragionevolmente lontane da crinali<br />

avventurosi. Il realismo con i piedi per terra sembra esserci. Gli sgravi destinati alle famiglie<br />

danno un po’ di respiro a chi non arriva alla fine del mese e denotano che ci si è posti<br />

213


ealisticamente nei panni dei meno abbienti.<br />

Le donne – politiche del futuro<br />

Occorre tuttavia intervenire anche con risorse cospicue e adeguate politiche a favore<br />

della natalità. Altrimenti, l’Italia diventerà la terra dei morti. Il tasso di natalità è il più basso<br />

d’Europa. Il 52% delle famiglie è formato da un solo individuo o da una coppia senza figli.<br />

Sono l’emblema della desertificazione familiare. Spetterà alle donne-politiche del futuro<br />

mobilitarsi in direzione di una illuminata politica di sostegno alle famiglie con figli,<br />

facilitando alle donne l’impegno di occuparsi contemporaneamente del lavoro, della carriera e<br />

dei figli. Il punto di vista delle donne è fondamentale in questa area di scottante attualità e va<br />

valorizzato in un’ottica non repressiva dei diritti-doveri delle donne di realizzarsi anche<br />

nell’ambito professionale.<br />

Il fatto è che perfino nell’era dell’informatica l’informazione non basta. Se tutto ciò di<br />

cui abbiamo bisogno fossero idee e un modo di pensare concreto, da adolescenti tutti<br />

avremmo potuto soddisfare i nostri capricci e attualmente tutti saremmo in grado di vivere il<br />

nostro sogno. L’azione, ecco il minimo comun denominatore di ogni grande successo.<br />

L’azione è ciò che produce risultati. Il sapere è potere potenziale finché non capita<br />

nelle mani di qualcuno che sa agire con efficacia. In definitiva, il termine “potere” significa,<br />

alla lettera, “facoltà di agire”.<br />

Ma ogni comunicazione è un’azione, una causa che produce effetti. E ha qualche<br />

conseguenza per noi e per gli altri.<br />

Quello che facciamo nel corso dell’esistenza è determinato dal nostro modo di<br />

comunicare attraverso comunicazioni interne, e sono le cose che immaginiamo, diciamo e<br />

sentiamo nel nostro intimo, e comunicazioni esterne, cioè parole, tonalità, espressioni facciali,<br />

portamenti corporei, azioni fisiche che servono a comunicare con il mondo.<br />

Nel mondo moderno, la qualità della vita è tutt’uno con la qualità delle comunicazioni.<br />

Da quello che pensiamo e diciamo di noi stessi, dal nostro modo di muoverci e di servirci<br />

della muscolatura corporea e facciale dipenderà fino a che punto saremo in grado di servirci di<br />

quello che sappiamo.<br />

Ad esempio, se io vi trasmetto quello che ritengo essere un messaggio positivo, ma la<br />

mia voce è fievole e incerta e il linguaggio del mio corpo è scomposto e incongruente, il mio<br />

messaggio risulterà contraddittorio e poco credibile. L’incoerenza mi impedisce di essere tutto<br />

quello che potrei essere. Trasmettere a se stessi messaggi contraddittori è un modo<br />

subliminale di darsi la zappa sui piedi.<br />

214


Tutti noi abbiamo pagato e paghiamo il prezzo dell’incoerenza quando accade che una<br />

parte di noi vuole davvero qualcosa, ma un’altra parte dentro di noi sembra bloccarci.<br />

Coerenza è potere. Le persone che hanno successo sono quelle che sono in grado di far agire<br />

insieme tutte le loro risorse mentali e fisiche nell’esecuzione di un compito. Soffermatevi per<br />

un momento a pensare alle tre persone più coerenti che conoscete e quindi alle tre più<br />

incoerenti a voi note. Qual è la differenza tra esse? Qual è l’effetto che individui coerenti<br />

hanno su di voi, e quale è quello esercitato da persone contraddittorie? Un’importante chiave<br />

della comunicazione è la coerenza. Quando comunichiamo, il nostro portamento, la nostra<br />

espressione facciale, il nostro respiro, i nostri movimenti, il modo e il tono della voce sono<br />

congruenti o no? Se diciamo a noi stessi: “Eh, sì, credo che sia proprio così che si debba<br />

fare”, ma la nostra fisiologia è debole e indecisa, che genere di messaggio riceve il cervello?<br />

Se i segnali trasmessi dal nostro organismo sono deboli e contraddittori, il nostro cervello non<br />

ha una chiara idea sul da farsi. È come un soldato che stia per cimentarsi in una battaglia<br />

guidato da un comandante il quale dica: “Be’, forse dovremmo fare così, non sono certo che<br />

funzionerà, ma facciamolo, e vediamo cosa succede”. In quale stato d’animo si troverà il<br />

soldato?<br />

Viceversa, se ci diciamo: “Devo assolutamente fare questo o quello” e la nostra<br />

fisiologia concorda, ci riusciremo senz’altro. Il potere deriva dall’emissione di un unico,<br />

congruente messaggio. Se il nostro corpo dice una cosa e la nostra mente un’altra, ne deriverà<br />

un messaggio conflittuale. Tutti noi desideriamo pervenire a condizioni di coerenza e<br />

l’iniziativa più efficace che si può prendere a tale scopo è di accertarsi di essere in uno<br />

fisiologico di fermezza, decisione e coerenza. Se le nostre parole e il nostro corpo sono in<br />

disaccordo, la nostra efficacia ne risulterà sminuita.<br />

Comunicazione è potere. Quelli che hanno imparato a servirsene in maniera efficace,<br />

possono mutare la propria esperienza del mondo e l’esperienza che il mondo ha di loro. Non<br />

c’è comportamento e sentimento che non abbia le proprie originarie radici in una forma di<br />

comunicazione. Le persone che influiscono sui pensieri, i sentimenti e le azioni della maggior<br />

parte di noi sono quelle che sanno come servirsi di questo strumento.<br />

L’integrazione dei punti di vista all’interno di una comunicazione efficace, e non la<br />

soppressione della voce femminile, per lasciare spazio solo al pensiero e alle decisioni degli<br />

uomini, può costituire la base su cui costruire l’intera società. In effetti, le convinzioni, gli<br />

atteggiamenti e i valori personali attraverso cui le donne filtrano la realtà sono spesso - ma<br />

non necessariamente sempre - diversi da quelli degli uomini. Questa differenza che fa la<br />

differenza non può che giovare ad una sana democrazia, in cui uomini e donne cooperano<br />

215


insieme per rafforzare l’unità del Paese e progettarne e realizzarne il futuro.<br />

La gestione dei conflitti nell’orientamento di ruolo.<br />

Gli effetti dell’orientamento di ruolo maschile e femminile si ripercuotono sullo stile<br />

di gestione dei conflitti, secondo Greenhalgh e Gikley (1999). Questi studiosi osservano che<br />

lo stile negoziale maschile e femminile non è da imputarsi soltanto ad una differenza<br />

ormonale e genetica, ma ad un orientamento di ruolo acquisito nelle fasi di socializzazione<br />

primaria. Pertanto, lo stile negoziale femminile può essere appreso e impiegato con efficacia<br />

anche da negoziatori maschi. In particolare, secondo gli autori, nella socializzazione al ruolo<br />

maschile giocano un forte effetto distorsivo la pregnanza e la generalizzazione nei diversi<br />

contesti della mentalità dello sport, dove la sfida è sempre episodica (“one-shot”), gli altri<br />

sono avversari e dove può esserci un solo vincitore.<br />

L’orientamento di ruolo acquisito della mentalità dello sport, in cui ci può essere un<br />

solo vincitore, si riverbera in particolare nelle professioni esercitate tradizionalmente dagli<br />

uomini, in cui scatta un forte pregiudizio antifemminile.<br />

Fortunatamente, la rigidità del clima antifemminile si sta temperando. Un segnale di<br />

disgelo è fornito dal premio Nobel per la pace, che è stato assegnato il 10 dicembre 2004 ad<br />

un’ambientalista keniota, Wangari Maathay.<br />

Tuttavia, permangono altri segnali allarmanti.<br />

Il 18 ottobre 2004 il TG2 serale rende noto che in Italia un chirurgo su due è donna,<br />

ma la metà denuncia episodi di mobbing.<br />

La strategia di contesa, in cui si tenta di prevalere sull’altro utilizzando numerose<br />

tattiche, denominate nella letteratura statunitense “contending”, è caratterizzata dall’intento di<br />

risolvere il conflitto secondo le proprie condizioni senza prestare alcuna attenzione agli<br />

interessi della controparte. L’affinità di questa strategia con il mobbing praticato nei contesti<br />

lavorativi appare evidente.<br />

Greenhalgh e Gikley hanno individuato le tendenze distinte del negoziatore con<br />

orientamento maschile e di quello con orientamento femminile. Ad esempio, a fronte delle<br />

tendenze maschili ad affrontare la trattativa come episodica (“mordi e fuggi”), ci sono<br />

tendenze femminili ad affrontare la trattativa presente come un evento nel contesto di una<br />

relazione a lungo termine. Mentre il “maschile” ricerca la vittoria di tipo sportivo, il<br />

femminile ricerca il vantaggio comune. Sul versante maschile ritroviamo ancora il<br />

sottolineare le regole del gioco, i precedenti e le posizioni di potere, mentre su quello<br />

femminile vengono sottolineate l’equità e la giustizia. Ancora, sulla sponda maschile viene<br />

216


evidenziata la logicità delle proprie posizioni negoziali, e su quella femminile vengono<br />

approfonditi i bisogni dell’altro, con la concentrazione sulla persona. Il nascondere o<br />

presentare in modo distorto i propri bisogni fa parte dello stile maschile, mentre l’essere<br />

consapevoli e dirette nell’esprimere i propri bisogni fa parte dello stile femminile.<br />

Il comunicare con modalità asimmetrica, mirando al controllo e al dominio dell’altro è<br />

ascrivibile alle caratteristiche maschili, mentre il comunicare con modalità simmetrica<br />

mirando alla parità e al confronto con l’altro è ascrivibile a quelle femminili. Di nuovo,<br />

l’essere intransigenti sulle proprie posizioni è “maschile”, mentre l’essere disponibili al<br />

compromesso è “femminile”. Infine, un effetto dell’orientamento di ruolo maschile è<br />

l’interrompere e ingannare la controparte, mentre un effetto dell’orientamento di ruolo<br />

femminile è costituito dall’evitare tattiche che possano danneggiare il futuro della relazione.<br />

Dalle ricerche di altri studiosi risulta tuttavia che i fattori situazionali e in particolare le<br />

caratteristiche della controparte hanno un’influenza almeno altrettanto importante degli<br />

attributi di personalità del soggetto nel determinare la risposta che egli adotterà nell’affrontare<br />

un conflitto. Una stessa persona può quindi utilizzare diversi stili a seconda dell’importanza<br />

che attribuisce alla persona che ha di fronte. In termini operativi, nel cercare di prevedere lo<br />

stile che adotterà un individuo con il quale si sta iniziando a negoziare, sembra più razionale<br />

soffermarsi a stimare l’interesse che egli nutre al mantenimento di una buona relazione con<br />

noi, piuttosto che spingersi in complesse e spesso improbabili analisi di personalità.<br />

C’è comunque un fattore individuale con un’influenza stabile e coerente sulla modalità<br />

con cui si affrontano i conflitti: l’appartenenza di genere, l’essere maschio o femmina.<br />

Le femmine tendono ad utilizzare più dei maschi strategie di “problem solving” e<br />

compromesso (Utley et Al. 1989). Inoltre, sono più orientati all’altro, più empatiche (Gikley,<br />

Greenhalgh, 1984) e hanno la tendenza ad interpretare il conflitto più come una questione<br />

affettiva e relazionale che cognitiva e legata al compito (Pinkley, 1990). D’altro lato, i maschi<br />

sono generalmente più aggressivi fisicamente e verbalmente (Eagly, Steffen, 1986) e quindi<br />

più propensi alla contesa (Ohbuchi, Tedeschi, 1995).<br />

In diverse aree negoziali è stata osservata una sequenza di maturazione in due fasi<br />

della trattativa, prima competitiva e poi cooperativa (Morley, Stephenson, 1977; Snyder,<br />

Diesing, 1977; Mc Gillicuddy, Welton, Pruitt, 1987; Craver, 1999). Ciò potrebbe spingere ad<br />

affermare che la dicotomia tra negoziazione competitive e negoziazioni cooperative è in realtà<br />

riconducibile al passaggio da uno “stile maschile” ad uno “femminile” o, secondo alcuni<br />

autori, ad una distinzione tra negoziazioni ancora immature e negoziazioni mature.<br />

Come si può quindi promuovere questo prezioso processo di maturazione prima che le<br />

217


parti sprechino ingenti risorse nel circolo vizioso della competizione? Rubin suggerisce la<br />

creazione di un’immagine: andare con la propria controparte in cima al dirupo ed osservare<br />

dall’alto le conseguenze catastrofiche del perseverare nella contesa e del fallimento del<br />

negoziato. In questo modo viene utilizzata una “vision” di tipo negativo. Al pari della<br />

“vision” positiva, più essa è emotivamente vivida e suggestiva, più è efficace in questo caso<br />

come deterrente al mantenimento dello stile predatorio.<br />

Come qualsiasi cambiamento, anche l’evoluzione dello stile negoziale costituisce un<br />

costo per i negoziatori che devono attuarlo. Pertanto, una incisiva “vision” negativa deve<br />

essere così sconvolgente e dura da far apparire al confronto irrilevante quel costo. Se durante<br />

le infuocate fasi di contesa vengono prospettate delle pause di raffreddamento per riflettere e<br />

proiettarsi nel futuro, si aiutano le parti a maturare questa visione.<br />

218


CAPITOLO V<br />

LE “LENTI” CHE METTIAMO<br />

TRA NOI E LA REALTÀ<br />

L’INFLUENZA DELLE MAPPE COGNITIVE CULTURALI DI DOMINAZIONE<br />

Incidere sui pregiudizi per cambiare il mondo.<br />

Kuhn Thomas ha scritto che “quando mutano i paradigmi, il mondo stesso cambia con<br />

essi” 1 . Occorre incidere sui pregiudizi culturali, etnici, sessisti, classisti, scientifici, per<br />

cambiare il mondo.<br />

Ciò che noi percepiamo durante la maggior parte del nostro tempo non è,<br />

semplicemente, un qualsiasi segmento del mondo fisico, bensì una selezione di cose che<br />

abbiamo convenuto di considerare reali ed importanti.<br />

I filtri sociali, la cultura di cui facciamo parte ci insegnano a percepire e ci<br />

socializzano in modo da creare una realtà consensuale. Don Juan parla a Castaneda di una<br />

realtà diversa, e gli insegna a considerare una diversa selezione di cose reali ed importanti: “...<br />

la tecnica ... richiedeva anni per essere perfetta ... L’assenza di conversione dell’immagine<br />

comportava una duplice percezione del mondo ... che dava l’opportunità di giudicare quei<br />

cambiamenti dell’ambiente circostante che gli occhi erano ordinariamente incapaci di<br />

percepire”.<br />

Per entrare a far parte di una determinata comunità scientifica e condividerne la realtà<br />

consensuale, occorre una socializzazione molto sofisticata: “L’esempio tipico è costituito dal<br />

giovane studente in biologia, che allorquando comincia a lavorare al microscopio inizialmente<br />

scorge immagini confuse, e solo in un secondo momento, seguendo le precise indicazioni del<br />

suo insegnante, imparerà veramente a riconoscere ciò che è chiamato a studiare, ottenendo,<br />

grazie all’allenamento, visioni stabili ed ‘oggettive’. Quindi, nel caso dello studente, esistono<br />

istruzioni atte a consentirgli la visione di determinati fenomeni in conformità con le esigenze<br />

e le aspettative di un determinato modello cognitivo. ...<br />

1 Kuhn Thomas S., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1962, p. 139<br />

219


Nell’ambito del nostro particolare quadro culturale, possiamo facilmente preparare<br />

quelli che sembrano esperimenti scientifici eccellenti, che dimostreranno che le nostre<br />

percezioni sono davvero reali, nel senso che siamo reciprocamente d’accordo su questi<br />

elementi selezionati dalla nostra realtà consensuale”. 2<br />

Gli elementi di soggettività presenti nelle teorie scientifiche diventano particolarmente<br />

evidenti quando si esamina la relazione tra le teorie stesse e il periodo storico in cui sono state<br />

formulate.<br />

Alla luce delle conoscenze attuali, la grande maggioranza dei trattamenti medici<br />

prescritti prima di questo secolo erano del tutto inefficaci 3 . “Se queste credenze fuori moda si<br />

devono chiamare miti, allora i miti possono essere prodotti dallo stesso genere di metodi, e<br />

sostenuti per lo stesso genere di ragioni, che oggi guidano la ricerca scientifica. Se, d’altra<br />

parte, essi meritano il nome di scienza, allora la scienza ha incluso complessi di credenze<br />

abbastanza incompatibili con quelle che oggi sosteniamo” 4 .<br />

Sebbene il mondo non cambi a causa di una rivoluzione scientifica, lo scienziato si<br />

trova a lavorare in un mondo differente. 5<br />

Il valore conoscitivo di una teoria scientifica è quindi strettamente legato al contesto<br />

culturale in cui è stata prodotta e ai modelli interpretativi da questo elaborati.<br />

Poiché i paradigmi, i filtri sociali e la cultura sono in gran parte responsabili delle<br />

nostre convinzioni su noi stessi, sugli altri e sul mondo, dobbiamo agire su di essi, per<br />

cambiare il modello di organizzazione sociale.<br />

È indispensabile realizzare il passaggio da un modello di organizzazione sociale e<br />

ideologica di dominazione ad un modello di cooperazione, di partnership. La sfida a radicate<br />

tradizioni di dominazione aveva già avuto inizio con le ribellioni politiche post-<br />

illuministiche contro le monarchie “di diritto divino” in Europa e in America nel XVIII e XIX<br />

secolo.<br />

È poi proseguita nel XX secolo con una sfida sempre più forte al razzismo, al<br />

colonialismo e, attraverso la ripresa del femminismo, alla supremazia della metà<br />

maschile dell’umanità su quella femminile. Più recentemente, anche la conquista e il domino<br />

sulla natura sono stati sfidati dal moderno movimento ambientalista.<br />

2 Pracca P., Kuhn T. S., La tartaruga e la farfalla; dalla Rivista “Antropos & Jatria” anno 1 n° 2, Ed. De Ferrari 1997<br />

3 Talbot M., Tutto è uno, Ed. URRA, Milano, 1991, p. 116<br />

4 Kuhn Thomas S., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, op. cit. p. 21<br />

5 Ibidem p. 151<br />

220


Anche la sfida alla componente principale dell’androcrazia, ossia ad un alto grado di<br />

violenza istituzionalizzata, è diventata sempre più forte, non solo nel crescente rifiuto della<br />

guerra come mezzo per la risoluzione dei conflitti, ma anche attraverso una maggiore<br />

consapevolezza e di conseguenza una pubblica avversione per forme istituzionalizzate di<br />

violenza privata, come la violenza sulle donne e sui bambini, nonché lo stupro.<br />

Questo crescente movimento planetario che sfida radicate tradizioni di dominazione ha<br />

però innescato anche un’intensificazione delle pressioni per il mantenimento del sistema<br />

androcratico. Un esempio visibile di ciò è la re-idealizzazione dell’aggressione e conquista<br />

“maschile” che si riflette nell’escalation di violenza nei rapporti interetnici, intertribali e<br />

internazionali, oltre che privati.<br />

Il terrorismo di Al Qaida e, in Italia, quello degli anarco-insurrezionalisti, che<br />

all’inizio del 2004 hanno aperto una campagna contro il nuovo ordine <strong>eu</strong>ropeo ritenuto troppo<br />

liberista e dirigista, attraverso l’invio di pacchi bomba da Bologna ad esponenti di spicco<br />

dell’UE, costituiscono esempi di violenza internazionale. Gli anarco-insurrezionalisti si<br />

muovono secondo logiche telematiche e mirano ad inserirsi nel conflitto tra le parti sociali per<br />

deviarlo dall’alveo democratico a scopo eversivo, in una possibile alleanza con le nuove<br />

Brigate Rosse, che esprimono una continuità con le vecchie, come ha detto il ministro<br />

dell’Interno Pisanu l’8 gennaio 2004.<br />

Un altro esempio ancora è costituito dalla pressione che élites religiose dominanti<br />

esercitano per continuare a privare le donne di opzioni di vita che vadano oltre quelle della<br />

maternità, attraverso la pari opportunità di istruzione e altri miglioramenti della condizione<br />

femminile. Nei primi giorni di gennaio 2004 l’assemblea dei capi tribù dell’Afghanistan<br />

approva la costituzione con un regime presidenziale forte in cui viene sancito il<br />

riconoscimento dei diritti delle donne e delle minoranze. Questa svolta è stata impressa al<br />

governo di un paese martoriato da precedenti regimi oppressivi che hanno annullato le donne<br />

dietro un burqa, privandole dei diritti civili, dell’istruzione e del lavoro.<br />

Ma altre religioni conservano all’interno delle gerarchie una radicata “distanza” nei<br />

confronti delle donne, considerate “tentatrici”, “streghe”, preda degli istinti, insidiate dal<br />

demonio. Il cristianesimo ha ereditato dalla religione ebraica la diffidenza verso la donna.<br />

Tuttavia, nel Vangelo di Cristo non c’è alcun discredito verso la donna. Anzi, Gesù valorizza<br />

al massimo le donne, che costituivano un largo seguito, insieme ai dodici apostoli. Il Vangelo<br />

affida la testimonianza della resurrezione di Gesù ad alcune donne, tra cui Maria di Magdala e<br />

Maria madre di Giacomo, che si recarono per prime al sepolcro. Secondo il diritto ebraico e<br />

semitico, che persiste ancora oggi presso i musulmani, le donne non potevano testimoniare<br />

221


nulla, in quanto non erano testimoni credibili. La resurrezione di Gesù, ritenuta il discrimine<br />

tra chi crede e chi non crede, viene constatata innanzitutto da una categoria discriminata di<br />

cittadini di serie B o C. Ciò porta a riflettere su una rimessa a punto di questa discriminazione<br />

praticamente posta in discussione dal Vangelo e dal primo cristianesimo, considerato una<br />

setta ebraica che si è affermata con una notevole espansione, probabilmente proprio per<br />

essersi schierata dalla parte dei deboli e degli oppressi, dei fragili e degli indifesi.<br />

La svalutazione della donna come “seduttrice” è avvenuta al momento della<br />

costituzione della gerarchia fatta di soli uomini. Nella religione ebraica il rabbino si sposa e<br />

ha figli. Tuttavia, le donne restano separate dagli uomini, in un luogo a parte, al momento<br />

della celebrazione del culto sacro, esattamente come avveniva nella religione cattolica, in cui<br />

le donne prendevano posto in chiesa in una fila separata, rispetto agli uomini e io conservo il<br />

ricordo di questa suddivisione in base al sesso, quando assistevo alla celebrazione <strong>eu</strong>caristica<br />

nell’infanzia.<br />

Anche i musulmani mantengono la suddivisione gerarchica in base al sesso e le donne<br />

non possono accedere alla moschea insieme agli uomini.<br />

Anche il celibato ecclesiastico rappresenta una “novità” dei secoli successivi alla<br />

predicazione di Gesù e degli apostoli e non è casuale che sia stato costituito quando si è<br />

radicata la cultura maschile di dominazione all’interno della Chiesa.<br />

Un ulteriore esempio di sistema androcratico è rappresentato dal ritorno di posizioni<br />

che esaltano il governo dell’“uomo forte” sia in famiglia che nello stato. Questo fenomeno si<br />

sta verificando in tutto il mondo attraverso il sorgere del cosiddetto fondamentalismo<br />

musulmano, cristiano, indù, ecc., che in realtà è fondamentalismo dominatore.<br />

Questa opposizione è così forte che, ad esempio in Bangladesh, gli integralisti islamici<br />

militanti hanno inscenato una protesta per chiedere al governo di mettere al bando le<br />

organizzazioni non-governative che istruiscono le donne e forniscono loro cure mediche,<br />

oppure per chiedere di affrontare una “guerra religiosa”. Questo avviene benché il Bangladesh<br />

non sia mai stato un paese musulmano particolarmente ortodosso, ma semplicemente perché,<br />

come ha detto un politico del Bangladesh, “hanno sfidato l’autorità del marito”. In linea con<br />

questo “filtro deformante” di dominazione, gerarchico e pregiudiziale, molte giovani donne in<br />

Bangladesh sono state sfigurate permanentemente con l’acido negli anni ’90 perché si<br />

rifiutavano di accettare il corteggiamento di un uomo o di sposarlo. La vendetta contenuta nel<br />

messaggio è lampante: “O con me o con nessun altro”. La logica di dominio e di possesso è<br />

violenta e lesiva.<br />

Come ho già sottolineato a più riprese in alcuni libri precedenti, nella cultura<br />

222


femminile scarseggia la solidarietà, in quanto la cultura patriarcale in cui siamo immerse ci ha<br />

abituate a vedere l’uomo come forte e vincente e la donna come debole e perdente. Le donne<br />

di carattere che vogliono affermarsi ed esprimere le proprie capacità e punti di vista, pertanto,<br />

sono portate ad identificarsi con gli uomini e a trattare il femminile come debole e perdente<br />

per cui, paradossalmente, si accaniscono contro le stesse donne.<br />

In quanto terap<strong>eu</strong>ta, ho osservato molte volte il trattamento discriminante, spietato e<br />

disumano che alcune madri “carabinieri”, identificate con il “maschio forte”, riservavano alle<br />

figlie femmine, deprivandole della loro autostima e fiducia in se stesse. La spietatezza e il<br />

disprezzo rilevabili nell’atteggiamento di alcune donne verso le altre donne che si affermano,<br />

è pari allo stesso disprezzo per il femminile che c’è in loro e che considerano elemento di<br />

debolezza, anziché risorsa, disponibilità al dialogo, tutela della vita e della dignità della<br />

persona, cura degli altri.<br />

Essendo state a loro volta delle bambine che hanno ricevuto un’educazione autoritaria,<br />

in cui era il maschio a dettare legge e la femmina ad eseguire, e provando rifiuto verso questo<br />

trattamento, gestiscono il conflitto attraverso meccanismi difensivi di identificazione<br />

proiettiva, per cui usano le figlie e le donne con cui hanno contatti, per scaricare il loro senso<br />

di autosvalutazione e di autodisprezzo, dirigendo verso di loro il disprezzo. Spesso subentrano<br />

meccanismi difensivi di identificazione con l’aggressore, in cui introiettano la figura del<br />

maschio aggressore e diventano spietate con le donne che ritengono subalterne, imitando la<br />

mancanza di rispetto dell’uomo verso la donna, che hanno vissuto di persona sulla propria<br />

pelle. Basta che queste donne così strutturate notino un punto debole in una donna per<br />

infierire contro di lei, scaricando così tutto il senso di frustrazione per i sensi di inadeguatezza<br />

e inferiorità accumulati nel corso del tempo. Queste donne percepiscono illusoriamente un<br />

senso di potere nel momento in cui vanno all’attacco di altre donne. Essendo<br />

fondamentalmente prive di vera identità, che si acquista solo con un percorso evolutivo, sono<br />

deboli con i forti, di cui diventano “serve” e forti con i deboli, in particolare con le donne,<br />

infierendo su di loro nei punti di fragilità. Instaurano con le figlie e con le donne che<br />

dipendono da loro un rapporto sado-masochistico, in cui utilizzano la dipendenza e il bisogno<br />

per affermare un potere improntato alla dominazione, per il solo piacere di vedere le altre<br />

dipendenti e schiacciate dal loro dominio, ai loro piedi, e le trattano come “tirapiedi”<br />

bisognose.<br />

Ma questa cultura improntata al modello di dominazione svaluta il femminile,<br />

considerandolo sinonimo di debolezza e intralcio alla realizzazione di rapporti sociali di<br />

potere e finisce in tal modo per mantenere la donna in una condizione di emarginazione,<br />

223


sudditanza e inferiorità. Le donne che intendono veramente liberare se stesse e le altre donne<br />

hanno aperta davanti a sé la strada della solidarietà reciproca, non contro l’uomo o il maschio,<br />

ma contro il patriarcato e il modello di dominazione, che stabilisce una struttura gerarchica,<br />

in cui necessariamente c’è chi sta sopra (up) e chi sta sotto (down) e in cui la donna finisce<br />

per diventare succube e per sentirsi zittire, perché il suo parere non interessa né a chi governa<br />

né a chi ha potere di decidere del suo destino e di quello degli altri.<br />

Occorre attuare una politica di conciliazione tra famiglia e lavoro e rendere la società<br />

più attenta ai bisogni delle madri che fanno i conti con i tempi da dedicare alla famiglia. I<br />

congedi parentali in cui ai papà viene concesso di accudire i figli costituiscono un valido<br />

appoggio nei confronti delle mamme, su cui non incombe tutto l’onere della presenza costante<br />

quando il figlio sta male. Questo alleggerimento del carico di responsabilità può contribuire<br />

notevolmente nella decisione di mettere al mondo altri figli, perché la donna non si sente più<br />

sola nello svolgimento dei suoi compiti e può contare sull’aiuto delle istituzioni, del mondo<br />

del lavoro ecc.<br />

I servizi per l’infanzia costituiscono un settore bloccato da 30 anni. Gli asili nido<br />

comunali e aziendali, i servizi flessibili di asili condominiali dovrebbero ricevere un nuovo<br />

impulso. La politica di sostegno alle donne nel doppio ruolo di madri e lavoratrici, mogli e<br />

donne va realizzata con la presenza delle donne nelle istituzioni come candidate ed elette. Le<br />

quote di accesso potrebbero rivelarsi necessarie, almeno in una prima fase, per predisporre<br />

una “forza d’urto” che abbatta le barriere pregiudiziali.<br />

La legittima - e auspicabile - estrinsecazione delle proprie potenzialità non va confusa<br />

con il carrierismo, una “malattia” che colpisce anche gli uomini.<br />

L’autoaffermazione implica che la donna non debba scegliere tra la vita pubblica e la<br />

famiglia. Le donne non vogliono essere “scisse”, divise a metà, sacrificate al lavoro o alla<br />

famiglia. La cultura dualistica e gerarchica in cui è cresciuta la mia generazione ci ha educate<br />

a scegliere se vogliamo costruirci una famiglia o una vita lavorativa soddisfacente.<br />

La stessa cultura ci ha educate a restare subordinate rispetto all’uomo, accettando<br />

come naturale che lui mantenesse il potere di “comandare”, mentre a noi era riservato<br />

l’obbligo di eseguire, per cui sul lavoro la donna è sempre stata relegata in ruoli marginali,<br />

anche quando le sue capacità erano ben superiori a quelle degli uomini. Oggi noi chiediamo<br />

che le donne vengano considerate per se stesse, e non emarginate o interdette o precluse<br />

perché donne, non appena si candidano per un incarico istituzionale, politico, manageriale,<br />

religioso, ai vertici delle possibilità decisionali e degli incarichi di responsabilità. Oggi le<br />

donne hanno gli strumenti culturali, economici, lavorativi per ricoprire posti di altissima<br />

224


esponsabilità, in cui il buon senso, l’equilibrio, la flessibilità, l’apertura all’innovazione<br />

giocano a favore di una candidatura femminile piuttosto che maschile, anche dove lo staff è<br />

composto in larga parte da uomini e a maggior ragione dove la struttura è composta da donne,<br />

come succede nelle riviste femminili.<br />

La presenza femminile apporta risorse nella misura in cui viene valorizzata<br />

opportunamente.<br />

Valorizzare la cultura femminile<br />

Quelli che oggi chiedono il ritorno dei “bei tempi andati”, quando la maggior parte<br />

degli uomini e tutte le donne sapevano ancora “stare al proprio posto”, paradossalmente,<br />

hanno individuato la cosiddetta questione femminile come punto centrale per il dibattito,<br />

opponendosi aspramente, e sempre più violentemente, a qualunque cambiamento nella<br />

condizione femminile. Tuttavia, molti di coloro che rifiutano un governo autoritario e<br />

l’istituzionalizzazione della violenza tipica dei sistemi dominatori, considerano ancora ciò che<br />

riguarda i ruoli e le relazioni fra donne e uomini come una “questione femminile” secondaria<br />

da trattare, semmai, dopo questioni “più importanti”. Così non si attua alcuna revisione delle<br />

mappe cognitive nell’esaminare la storia e si continua ad usare mappe di dominazione nel<br />

presentare eventi storici, personaggi, scoperte scientifiche, fasi del progresso tecnologico. Ad<br />

esempio, il problema chiave dei tempi moderni non è, come si sostiene a volte, la scienza<br />

moderna e la tecnologia. È la scienza moderna e la tecnologia all’interno di esigenze di<br />

mantenimento del sistema di un’organizzazione sociale orientata alla dominazione, con le sue<br />

mappe culturali cognitive o “filtri deformanti” che presentano un’organizzazione sociale<br />

gerarchica, violenta e fondamentalmente ingiusta, come semplicemente naturale e perfino<br />

morale. Ad esempio, non c’era alcun motivo intrinseco per cui gli impianti di produzione<br />

nelle prime fasi dell’industrializzazione dovessero essere progettati come catene di montaggio<br />

in cui perfino gli esseri umani diventavano semplici ingranaggi di un enorme meccanismo.<br />

Tant’è vero che, con la divisione della fabbrica della svedese Volvo, negli anni ’60 si è passati<br />

a una progettazione completamente diversa, in cui le squadre di lavoro potevano prendere<br />

molte decisioni autonomamente sul modo migliore di costruire un’automobile, anziché essere<br />

trasformati in poco più che automi umani.<br />

Malgrado tutti questi problemi connessi con mappe cognitive culturali di dominazione,<br />

i “filtri deformanti” o pregiudizi della maggior parte degli scritti liberali, socialisti, umanisti,<br />

“progressisti”, hanno trattato quella che i marxisti chiamano “la questione della donna” come<br />

secondaria rispetto alla lotta dell’uomo per la libertà e l’uguaglianza. Viene così a mancare<br />

225


una configurazione di collaborazione tra uomini e donne, di collegialità. Perciò,<br />

un’organizzazione sociale più pacifica e giusta non può avere basi solide, come non può avere<br />

uno stabile appoggio un tavolino a due gambe. Occorrono tre gambe per dare stabilità, così<br />

come bisogna introdurre una mappa cognitiva culturale di cooperazione e dialogo tra uomini e<br />

donne per poter creare una cultura di pacificatori e non solo di pacifisti da manifestazioni pre-<br />

elettorali.<br />

L’11 febbraio 2004 il segretario dei DS Fassino propone per le liste <strong>eu</strong>ropee la<br />

presenza delle donne al 50%. Analogamente, per le amministrative prospetta la presenza di<br />

assessori donne al 50%, mentre nelle elezioni comunali le donne dovrebbero occupare un<br />

terzo della lista.<br />

Si tratta di una risposta-segnale del cambiamento di ottica del partito o della mentalità<br />

degli uomini del partito? Come si è instaurato questo cambiamento? Come mai non si è<br />

verificato prima? Gli uomini del partito sono diventati consapevoli dei loro pregiudizi sulle<br />

donne? Ma sono pronti a dare spazio e fiducia alle donne delle loro liste? Oppure sono stati<br />

spinti a questa decisione dal timore che i voti dell’elettorato femminile - che in Italia<br />

corrisponde al 53% - vengano convogliati a destra, dove le donne sono tutelate nella loro<br />

dignità e nei loro diritti - oltre che doveri - con forza e autentica convinzione, in vista del bene<br />

di tutta la comunità, dal momento che moltissime donne sono portatrici di risorse<br />

straordinarie, spesso carenti negli uomini?<br />

Occorreva una testa d’ariete al femminile per sfondare le mura del pregiudizio che<br />

sbarrano alle donne l’accesso alla vita sociale attiva nei posti che contano?<br />

L’antica macchina d’assedio per sfondare mura o porte era costituita, nella forma più<br />

semplice, da una trave, in cima alla quale si trovava una testa d’ariete in bronzo. Possiamo<br />

paragonare l’abbattimento del pregiudizio che circonda o opprime le donne all’azione di una<br />

macchina d’assedio? E quanto durerà ancora questo assedio nei vari settori della società? È<br />

sufficiente far crollare un muro, perché questo possa servire di esempio per altri “casi” di<br />

muraglie erette a salvaguardia di privilegi veri o presunti? Lasciando le “cose” come sono,<br />

senza intervenire con la punta d’ariete per sfondare il pregiudizio, si migliora o si peggiora<br />

irrimediabilmente la società? La nostra società sarebbe migliore, se crescesse all’insegna della<br />

cultura femminile, anziché di quella maschile? Abbiamo sperimentato da secoli le aberrazioni<br />

a cui ci ha condotti la cultura maschile. Dobbiamo ancora collaudare i vantaggi offerti della<br />

cultura femminile, che non ha mai messo radici nella nostra società patriarcale. Vogliamo<br />

trovare il coraggio, uomini e donne, per attuare una politica di rinnovamento della società<br />

all’insegna dei valori insiti nella cultura femminile?<br />

226


Secondo una statistica resa nota al TG2 il 7 febbraio 2004, nell’ambito delle notizie<br />

che scorrono in fondo allo schermo televisivo, l’Italia è il Paese <strong>eu</strong>ropeo con la maggior<br />

percentuale di laureati donne: le dottoresse sono il 50,8%. Tuttavia, persiste la preclusione<br />

delle carriere e la discriminazione nell’accesso ai posti di alto livello, secondo il vecchio<br />

pregiudizio per cui “a dirigere deve essere un uomo”, anche quando si tratta di gestire<br />

problemi femminili.<br />

La “pantera rosa” agile, sinuosa e perspicace, non ha ancora solcato le scene italiane<br />

proponendo una versione femminile del potere. La “rivoluzione rosa”, che porti ad una<br />

“visione rosa” del mondo, non è ancora avvenuta.<br />

Dallo studio dei cambiamenti dei sistemi sappiamo che, quando un sistema si avvicina<br />

a un bivio cruciale, può non essere possibile prevedere quale corso prenderà (I. Prigogine e I.<br />

Sengers, 1979). Si possono però prevedere i fattori o gli interventi che amplificheranno gli<br />

effetti desiderati, nonché quelli che tenderanno ad arrestare il fenomeno. Sulla scia di queste<br />

riflessioni, delineando la dinamica interattiva dei mutamenti culturali e dei cambiamenti di<br />

fase tecnologica, dobbiamo affrontare molte forme intersecate di dominazione, dalla<br />

dominazione economica e delle razze cosiddette “inferiori” alla dominazione e allo<br />

sfruttamento sfrenato della natura. In questa fase di integrazione <strong>eu</strong>ropea, dobbiamo prestare<br />

la massima attenzione alla dominazione del fondamentalismo islamico, che mira a<br />

disintegrare non solo gli USA, ma anche l’Unione Europea. L’allargamento dell’Unione<br />

Europea dovrà valutare la mappa culturale cognitiva di dominazione del fondamentalismo<br />

islamico come un fattore destabilizzante della sua compagine, che mina il passaggio da un<br />

mondo androcratico ad un mondo in cui le relazioni fondamentali tra la metà femminile e<br />

quella maschile diventeranno più equilibrate, per poter avere le basi che ci sono mancate<br />

finora: solide basi su cui costruire un mondo più giusto, più cooperativo ed egualitario, più<br />

pacifico ed ecologicamente sostenibile.<br />

Una mappa culturale cognitiva di dominazione può portarci all’estinzione. Un<br />

Guerriero interno evoluto è tuttavia necessario, innanzitutto per proteggere i confini. Senza<br />

Guerrieri coraggiosi, disciplinati e ben addestrati, il regno corre sempre il rischio di essere<br />

invaso dai barbari. Senza un forte Guerriero interiore, noi siamo senza difesa contro le pretese<br />

e le intrusioni degli altri. Al giorno d’oggi, in cui è evidente che non può continuare ad essere<br />

la guerra il modo di dirimere le controversie fra le nazioni, molti tendono a rifiutare a livello<br />

emotivo l’archetipo del Guerriero e la guerra in Iraq del 2003, che ha diviso l’opinione<br />

pubblica <strong>eu</strong>ropea e mondiale, costituisce un chiaro esempio di rifiuto di tal genere. Eppure, il<br />

problema non è costituito dall’archetipo del Guerriero, ma bensì dalla nostra necessità di<br />

227


elevarci ad un livello superiore dell’archetipo. Senza la capacità di difendere i confini,<br />

nessuna civiltà, nessun paese, nessuna organizzazione e nessun individuo è al sicuro e oggi<br />

l’Europa è particolarmente minacciata dalla dittatura di minoranze islamiche che si sono<br />

insediate anche nel territorio italiano con cellule terroristiche. Spetta ai Guerrieri altamente<br />

evoluti - le cui armi includono il dialogo e la capacità di negoziare, oltre a quella di<br />

organizzare il sostegno alla propria “causa” - tenere sotto controllo i Guerrieri primitivi e<br />

devastatori, che minacciano di distruggere la nostra cultura e la nostra civiltà.<br />

L’Europa ha bisogno di leader che puntino sull’unità, la fiducia e la voglia di<br />

contribuire al bene della comunità. Il coordinamento <strong>eu</strong>ropeo delle polizie e magistrature e di<br />

tutta l’attività di protezione dei cittadini va accompagnato da risposte di strategia politica di<br />

isolamento del fenomeno terroristico. Bisogna combattere il terrorismo senza riserve,<br />

prevenirlo nelle cause e non rinunciare mai alla democrazia, slittando verso il totalitarismo di<br />

fronte alla minaccia esterna e interna.<br />

Nel periodo storico in cui viviamo, possiamo forse ancora unire le nostre forze, per<br />

creare le istituzioni sociali capaci di sostenere, anziché impedire, l’uso della creatività umana<br />

per realizzare le nostre specifiche potenzialità in direzione della cooperazione pacifica.<br />

Gli studiosi e gli educatori sono chiamati a ripensare le nostre mappe culturali<br />

cognitive, soprattutto nell’apprendimento della storia, nell’approccio alla ricerca e<br />

all’insegnamento così frammentario e centrato sul maschile. Guardiamo invece alla storia<br />

umana nella sua interezza, comprendendo la socializzazione sessuale che tanto a lungo ha<br />

mantenuto un sistema che può portare in un vicolo cieco dell’evoluzione, a questo punto del<br />

nostro sviluppo tecnologico. Sviluppando nuove mappe cognitive improntate alla<br />

cooperazione tra la metà femminile e quella maschile dell’umanità, potremo aprire la strada<br />

non solo ad una migliore comprensione del nostro passato e del nostro presente, ma anche per<br />

elaborare scelte più consapevoli per il nostro futuro.<br />

Salvaguardare le nostre radici identitarie.<br />

La salvaguardia della nostra cultura e civiltà richiede anche una revisione delle mappe<br />

cognitive nell’esaminare la storia, per evitare che il rifiuto del cristianesimo abbracciato come<br />

“lente” personale o politica si traduca di fatto in una visione distorta degli eventi storici.<br />

Il “filtro deformante” o pregiudiziale attraverso il quale viene guardata o “visitata” la<br />

storia viene identificato da varie parti e occorrerebbe un vero rilancio della cultura rimasta<br />

soffocata sotto le pietre di alcune correnti politiche. Ecco cosa scrive il giornalista Antonio<br />

Socci al riguardo il 29 giugno 2004 su Il Giornale:<br />

228


Siamo così immersi in un conformistico pregiudizio anticattolico che ormai non ci facciamo<br />

più caso e si accetta il linciaggio morale della Chiesa anche quando si confondono le vittime con i<br />

carnefici. Tantomeno dunque sappiamo cogliere la manipolazione storica continua che si fa della<br />

storia della Chiesa. Ecco qua, direte voi, la solita geremiade del cattolico che lamenta un po’ di sana<br />

critica laica. Nient’affatto. La voce di autodifesa dei cattolici - in questo clima - è pressoché<br />

inesistente.<br />

Sono spesso degli studiosi laici che chiedono più rispetto per la storia e la verità dei fatti.<br />

Qualche giorno fa Massimo Firpo sul laicissimo Sole 24 ore firmava una serrata critica storica di due<br />

recenti film. Il primo è Luther, un’apologia del riformatore tedesco “finanziato dalle Chiese<br />

evangeliche”. Se il S. Uffizio avesse finanziato un film apologetico della Chiesa di Roma credo non<br />

avrebbe avuto neanche distribuzione. Non così per il film su Lutero, a proposito del quale Firpo<br />

osserva: “Ciò che lascia sconcertati è la vera e propria falsificazione dei fatti per presentare un Lutero<br />

immaginario, una specie di santino agiografico”, “un Lutero che appare sempre e comunque come una<br />

sorta di intrepido difensore della verità evangelica contro la corrotta Chiesa papale e le sue interessate<br />

superstizioni”.<br />

Laddove invece si dimenticano i contadini “trucidati a decine di migliaia... con la benedizione<br />

del dotto Martino, pronto a esortare i principi tedeschi a scagliarsi senza pietà ‘contro le bande<br />

brigantesche e assassine dei contadini’... Parole dure come pietre” commenta Firpo “che è<br />

semplicemente inaccettabile aver occultato”. Del resto Firpo ha da ridire anche sulla rappresentazione<br />

così idealistica degli Elettori tedeschi “mentre è noto che a schierarli a fianco di Lutero fu soprattutto<br />

la brama dei beni della Chiesa”.<br />

Il “pregiudizio anticattolico” a cui Socci si riferisce si riallaccia al fatto che il Corriere<br />

della Sera abbia affidato al comico Dario Fo il commento al Martirio di sant’Orsola, il<br />

capolavoro di Caravaggio esposto a Milano dal 2 luglio. Una volta su quel giornale era<br />

Giovanni Testori a firmare gli articoli sul genio di Merisi, oggi è Fo.<br />

“Ma non è comico il contenuto - osserva Socci -. Fo infatti approfitta dell’occasione<br />

per la solita requisitoria contro il Vaticano, quando il soggetto dell’opera del Caravaggio parla<br />

e drammaticamente del martirio cristiano. È qui rappresentata infatti la storia leggendaria del<br />

martirio di questa principessa di Britannia con le sue undicimila compagne, secondo il<br />

racconto di Jacopo da Varagine. Ma per Fo l’opera sarebbe una denuncia del potere, ‘di ogni<br />

potere’, a cominciare da quello dello ‘Stato Vaticano’. Il ribaltamento è dunque totale e<br />

clamoroso: anziché parlare del martirio dei cristiani, il Corriere ci canta la solita solfa delle<br />

229


presunte ‘turpitudini’ della Chiesa.<br />

Ancora una volta così viene censurato il tema del massacro dei cristiani attuale ai tempi di<br />

Caravaggio (basti ricordare la carneficina che i musulmani avevano fatto a Otranto) come è<br />

attualissimo oggi (lo ha documentato proprio nei giorni scorsi la presentazione del Rapporto<br />

sulla libertà religiosa dell’Aiuto alla Chiesa che soffre)”.<br />

anticattolico:<br />

Socci prosegue la sua analisi presentando altri “casi” di “filtro deformante”<br />

L’altro film analizzato da Firpo è Pontormo. Naturalmente “accade anche al povero<br />

Pontormo” di essere “presentato come l’ultimo genio di un autunno rinascimentale destinato a<br />

spegnersi fra gli algidi rigori di una Controriforma repressiva e fanatica, in un mondo che nulla riflette<br />

della realtà fiorentina di quegli anni, che non era affatto dominata da un truce inquisitore”.<br />

Firpo conclude con “una domanda che s’impone” e cioè “il perché di un continuo<br />

travisamento di uomini e cose”. Ebbene, il perché è abbastanza chiaro: il filo rosso che lega tutta<br />

questa produzione è l’anticattolicesimo.<br />

O almeno quell’“ovvio dei popoli” che è il pregiudizio anticattolico. Si potrebbero ricordare<br />

anche la tristezza espressa dall’Osservatore romano sulla recente fiction dedicata a Nerone, così come<br />

il premiato film Magdalene. O - per andare sulla narrativa - il best-seller di Dan Brown, Il Codice Da<br />

Vinci, che ha venduto milioni di copie scrivendo di tutto sulla Chiesa, ma che è stato letteralmente<br />

demolito, sul piano storico-filologico, da Massimo Introvigne in un saggio critico uscito su Cristianità.<br />

Il fenomeno che si verifica è stato descritto esaurientemente da un sociologo americano<br />

(peraltro non cattolico), Philip Jenkins in The New Anti-Catholicism. The Last Acceptable Prejudice<br />

(Oxford University Press) secondo il quale oggi si accetta normalmente che contro i cattolici e il<br />

cattolicesimo si dicano e si facciano cose che - nei confronti di qualunque altro gruppo religioso o<br />

etnico - sarebbero ritenute inaccettabili.<br />

Tutto questo mentre i cristiani in genere e i cattolici in particolare sono attualmente il gruppo<br />

umano più perseguitato del pianeta dai regimi illiberali. Regimi che peraltro hanno sempre usato e<br />

usano a piene mani per la loro propaganda i luoghi comuni e gli stereotipi anticattolici prodotti da<br />

qualche secolo di anticlericalismo.<br />

Ultimamente certe parti del mondo laico italiano (da giornalisti della stoffa di Oriana Fallaci a<br />

personalità come Marcello Pera) hanno ritrovato un grande interesse per la Chiesa e ciò che - di<br />

luminoso - ha rappresentato nella storia dell’Occidente. Sono arrivati perfino a spronare il mondo<br />

cattolico <strong>eu</strong>ropeo, che appare loro “timido, sconcertato, angosciato”, a ritrovare l’orgoglio. Bisogna<br />

però interrogarsi anche su una cultura laica che continua a fornire una rappresentazione del<br />

cattolicesimo così carica di stereotipi, falsificazioni e disprezzo. A chi conviene che la cultura<br />

occidentale seghi il ramo dove sta seduta tutta la nostra civiltà?<br />

230


I cristiani in genere e i cattolici in particolare vengono dunque colpiti da pregiudizi e<br />

persecuzioni sulla base di luoghi comuni e stereotipi prodotti da secoli di anticlericalismo,<br />

come se Cristo e il messaggio evangelico coincidessero con il clero cattolico e non avessero<br />

dato un’impronta luminosa alla nostra civiltà che valorizza la “persona” in quanto tale. Tutto<br />

ciò che di buono la Chiesa ha seminato attraverso le sue opere e lo stesso Vangelo vengono<br />

spazzati via dall’onda d’urto degli stereotipi più accesi. Ciò può derivare in parte dalla<br />

sovrapposizione tra cattolicesimo o cristianesimo e clericalismo, come se essere cristiani<br />

equivalesse ad appoggiare tutte le “tesi” del clero, e in parte dal rifiuto del messaggio<br />

evangelico, che resta comunque fondamentale nella nostra civiltà.<br />

In sintesi, la revisione della mappa culturale cognitiva anticattolica e anticristiana<br />

potrebbe portare un po’ di ordine nella confusione della Torre di Babele di una progettata<br />

Nazione dai venticinque idiomi. L’unico collante di tanto miscuglio, quello delle comuni<br />

radici cristiane, andrebbe difeso come intangibile. Questa mappa culturale cognitiva sgombra<br />

da pregiudizi anticristiani va pertanto ad aggiungersi all’esigenza di revisione del modello di<br />

dominazione a favore di un modello di cooperazione-collegialità e appare imperativa nella<br />

costituzione di un’Europa autenticamente integrata e non solo “aggregata” attraverso criteri di<br />

assembramento o annessionismo. La sfasatura si profila nell’ipotesi di un’“Europa a due<br />

velocità”, che è riapparsa nel vertice di Berlino del 17 e 18 febbraio 2004.<br />

Il modello di dominazione in Europa.<br />

L’emergere periodico del “direttorio a tre”, costituito da Chirac, Schröeder e Blair,<br />

tutte le volte che in Europa si presenta una crisi di unità nel perseguire obiettivi comuni,<br />

rappresenta un esempio e un segnale inquietante di incidenza e pervasività del modello di<br />

dominazione della nostra cultura. Il vertice di Berlino del 17 e 18 febbraio 2004 ha suscitato<br />

in proposito molte critiche da parte dei partner <strong>eu</strong>ropei esclusi dal vertice del “direttorio”. Il<br />

ministro degli Esteri Frattini richiama ad “un’Europa più unita, non multipista”. Il premier<br />

Berlusconi protesta: “Non possiamo accettare un direttorio a tre che ci escluda”. Ma il<br />

Cancelliere Schröeder ribatte: “Non vogliamo dominare nessuno. Discutiamo di economia,<br />

per ridarle vitalità e competitività”. Tuttavia, il problema del rilancio dell’economia in Europa<br />

non riguarda solo Francia, Germania e Gran Bretagna. Come mai gli altri partner <strong>eu</strong>ropei non<br />

sono stati invitati al vertice, data la rilevanza del tema per tutta l’Europa? Come mai si è<br />

costituito un gruppo privilegiato di potere, per rilanciare la crescita <strong>eu</strong>ropea?<br />

231


La cultura competitiva, dualistica e gerarchica, che ha generato tanti disastri in<br />

Europa con la costituzione di imperi che hanno favorito alcune nazioni, schiacciandone altre<br />

sotto il peso di una feroce oppressione, si ripresenta “sotto mentite spoglie” e va gestita con<br />

scrupolosa attenzione, per evitare ulteriori scompensi e pericolosi segnali di decadenza della<br />

compagine <strong>eu</strong>ropea faticosamente costruita.<br />

Bisognerà attendere per sapere se la montagna ha prodotto il topolino oppure se<br />

effettivamente il terzetto anglo-franco-tedesco, autopromossosi al rango di direttorio<br />

dell’Europa, è riuscito a dare nuovi impulsi all’unione dei quindici che diventeranno<br />

venticinque. Per il momento una cosa è certa: ciò che è avvenuto il 18 febbraio 2004 al vertice<br />

di Berlino assomiglia molto ad un’esibizione dei muscoli. Blair, Chirac e Schröeder sono<br />

intervenuti accompagnati da uno stuolo di ministri (cinque per parte), di sottosegretari, di<br />

consiglieri, oltre a un nutrito numero di imprenditori e di esperti in questioni<br />

socioeconomiche. E, nelle dichiarazioni alla stampa, hanno fatto poco per smorzare i timori<br />

espressi dalla maggioranza dei partner <strong>eu</strong>ropei davanti alla prospettiva di un triumvirato che<br />

dividerebbe l’Unione in due categorie, quelli che indicano la strada e quelli che devono<br />

adeguarsi. Come a dire: avanti da soli, noi che siamo Grandi, gli altri seguano.<br />

Per Chirac il vertice è “perfettamente normale” dal momento che Gran Bretagna,<br />

Francia e Germania raggiungono insieme un PIL superiore al 50% di quello complessivo<br />

prodotto dai venticinque. Come dire: poiché siamo i più forti economicamente, è<br />

“perfettamente normale” che dobbiamo essere noi ad indicare la rotta della navicella <strong>eu</strong>ropea.<br />

Blair senza mezzi termini ha detto di “non sentirsi in dovere di scusarsi in alcun modo”.<br />

Schröeder è stato più diplomatico, non ha parlato di forza economica, ma indirettamente ha<br />

confermato l’aspirazione al direttorio. “Non vogliamo dominare l’Europa - ha detto - però nel<br />

precedente vertice a tre (in settembre) siamo riusciti a riavvicinare le nostre posizioni sull’Iraq<br />

e a fare passi avanti sul problema della difesa comune <strong>eu</strong>ropea. Vogliamo proseguire su<br />

questa strada”.<br />

La strada è di arrivare al successivo Consiglio <strong>eu</strong>ropeo, a fine marzo 2004, con una<br />

posizione unitaria su quello che Schröeder, promotore dell’iniziativa, ha definito un problema<br />

urgente e prioritario: il varo di una politica comunitaria per rilanciare la crescita e la<br />

competitività del nostro continente, premessa fondamentale per risolvere una serie di altri<br />

problemi che riguardano tutti i paesi dell’Unione, quali la lotta alla disoccupazione e la<br />

sostenibilità dei sistemi di previdenza sociale, sanità e pensioni. Uno dei tasti sui quali hanno<br />

insistito sia Blair che Chirac e Schröeder è quello dell’innovazione scientifica e tecnologica.<br />

Un settore sul quale il nostro continente registra un ritardo allarmante rispetto alle altre due<br />

232


grandi aree economiche del pianeta, America e Giappone, causa principale del declino<br />

economico dell’Europa. Un declino che colpisce in modo particolare proprio i tre Paesi<br />

aspiranti al direttorio: secondo una graduatoria sulla competitività dei paesi industrializzati, la<br />

Francia è al ventiseiesimo posto, la Germania al tredicesimo e la Gran Bretagna è scivolata al<br />

quindicesimo. Per recuperare, secondo i tre leader, gli sforzi isolati non bastano più; è<br />

necessaria una politica <strong>eu</strong>ropea di grandi investimenti nel settore dell’innovazione a tutti i<br />

livelli.<br />

È probabile che durante gli incontri a porte chiuse, lontano da microfoni e riflettori, i<br />

tre abbiano messo a punto alcune misure concrete per restituire all’economia <strong>eu</strong>ropea la<br />

capacità di rispondere alle sfide della globalizzazione. Ed è probabile che queste misure per il<br />

momento non siano state divulgate per non dare l’impressione di mettere gli altri partner<br />

davanti al fatto compiuto. Nella lettera congiunta diretta al presidente di turno del Consiglio<br />

Europeo, si auspica la modernizzazione del modello sociale <strong>eu</strong>ropeo nell’innovazione<br />

imprenditoriale e nell’educazione. Tuttavia, se ci si deve attenere ai comunicati e alle<br />

dichiarazioni durante la conferenza stampa conclusiva, l’impressione che prevale è che il<br />

vertice non sia andato al di là di una elencazione degli obiettivi prioritari da seguire. Un po’<br />

poco per parlare di nuovi impulsi. Di qui il sospetto che alla fine la montagna abbia prodotto<br />

il topolino. Però un mutamento è emerso chiaramente con il vertice triangolare di Berlino. Il<br />

tandem franco-tedesco sembra avere il fiato grosso e con l’arrivo di Blair si è trasformato in<br />

un triciclo, considerato un mezzo più adatto per l’Europa a venticinque.<br />

Il modello di dominazione si è consolidato con il nuovo arrivo? Il “sistema a tre” ha<br />

dato nuovo lustro a vecchie logiche di potere, i cui effetti sono tristemente noti?<br />

Più che masticare amaro, a Roma non si nascondono preoccupazioni per il “direttorio”<br />

a tre nato di fatto il 18 febbraio 2004 a Berlino. “Ciò di cui abbiamo bisogno è di un’Europa<br />

più unita - ha scritto Frattini lo stesso giorno sul Financial Times - mentre i vertici ristretti<br />

comportano il rischio non solo di causare frammentazioni, ma di rinnovare le divisioni interne<br />

alla UE”. In serata, infatti, ha insistito: “Non accetteremo intese al ribasso”, perché l’Italia<br />

vuole un’Europa che “cresca con l’aiuto di tutti” e in cui “le regole vengano scritte insieme,<br />

con l’accordo di tutti”.<br />

Il titolare della Farnesina - che vola a Varsavia e Budapest dove non mancherà di<br />

valutare coi suoi interlocutori polacco e ungherese il risultato del vertice tra Schröeder, Blair e<br />

Chirac - ha ricevuto il 18 febbraio una telefonata del collega britannico Straw che ha negato<br />

ancora una volta che ci sia una velleità di guida ristretta dell’Europa. Ma il sospetto resta<br />

forte. Tanto che Buttiglione non ha frenato la lingua ed alla BBC ha fatto sapere che se pure<br />

233


“chiunque è libero di incontrare chiunque, bisogna si faccia attenzione. Nessuno in Europa -<br />

ha chiarito il ministro per i rapporti con l’Unione - è disponibile ad essere un cittadino di<br />

seconda classe! Tanto più - ha proseguito - perché l’Italia è un Paese grande come il Regno<br />

Unito o la Francia”.<br />

Più flemmatico, il ministro della Difesa Antonio Martino che in risposta a chiarimenti<br />

sollecitatigli in Senato il 18 febbraio 2004 (nel corso dei quali ha confermato la disponibilità<br />

italiana ad integrare una forza di difesa <strong>eu</strong>ropea per missioni umanitarie specie in Africa), ha<br />

convenuto che “a Berlino sarebbe stato meglio esserci” ma che l’assenza dell’Italia dalla<br />

riunione dei grandi non deve neanche preoccupare. “Io credo - ha detto - che l’Italia debba<br />

saper essere presente quando necessario, ma non debba porsi il presenzialismo come obiettivo<br />

fondamentale”. Allarmato infine anche il leader dell’UDEUR, Clemente mastella, il quale ha<br />

indirizzato una nota a Romano Prodi facendo presente come il vertice trilaterale possa<br />

danneggiare il già faticoso cammino d’integrazione <strong>eu</strong>ropea. Da notare infine come a Londra<br />

uno dei responsabili di un’importante think-tank sull’Europa abbia rivelato che l’Italia sia<br />

stata tenuta ai margini per l’atteggiamento di apertura tenuto da Berlusconi nei confronti della<br />

Russia di Putin: Londra, Berlino e Parigi non avrebbero gradito.<br />

Ma c’è da chiedersi: è possibile che una iniziativa poco gradita basata su un<br />

atteggiamento di apertura verso un Paese possa compromettere le alleanze e lo spirito di<br />

collegialità? Se così fosse, questo sarebbe un segnale preoccupante di fragilità del “sistema<br />

Europa”, che richiederebbe un piano di “ristrutturazione”. E meno male che i “signori<br />

dell’Europa” hanno pensato anche a sbloccare la costituzione “accettando proposte<br />

dall’Europa”. Altrimenti, si è indotti a pensare che siano sufficienti loro a pensare per tutta<br />

l’Europa e “al posto dell’Europa”. Questa prospettiva tipica di una cultura maschile<br />

patriarcale ci rinvia a riflessioni di ordine socio-culturale di portata più vasta.<br />

Il giorno precedente Berlusconi aveva definito “un pasticcio” la riunione a tre di<br />

Berlino, in attesa di conoscerne i risultati. E il 19 febbraio, proprio alla luce di questi risultati,<br />

Berlusconi, in trasferta ad Atene per un vertice del PPE, ha espresso tutta la sua contrarietà<br />

all’idea di un Direttorio <strong>eu</strong>ropeo, sottolineando l’esigenza della coesione tra i 25 partner della<br />

UE. E ha colto l’occasione per annunciare il suo “no” pregiudiziale a qualsiasi decisione del<br />

trio Blair-Chirac-Schröeder che investa gli altri 22 Paesi membri.<br />

Secondo quanto viene riferito dal quotidiano “Il Giornale” del 20 febbraio 2004,il<br />

premier, parlando ai giornalisti italiani che l’avevano seguito nella capitale greca, ha ricordato<br />

che esiste un sistema di voto all’unanimità e uno a maggioranza “con il criterio dei voti<br />

assegnati a Nizza a ciascun Paese”. E siccome è “fuori dalla filosofia di un’Europa che si sta<br />

234


allargando a 25 un’attività che abbia poco a che fare con una gestione a 25”, la riunione a tre<br />

di Berlino secondo Berlusconi “non ha portato a nulla se non a definire i rapporti tra Stati, il<br />

che è perfettamente legittimo”. Ma è stata tutto sommato priva d’importanza, “dal momento<br />

che, a quanto si è saputo, hanno discusso soprattutto di problemi interni e tra di loro non si<br />

sono trovati d’accordo su molti punti, basta leggere i giornali inglesi per avere la foto di ciò<br />

che è successo”.<br />

Se invece da riunioni del genere verranno decisioni o proposte nei confronti di tutti gli<br />

altri Paesi membri, sottolinea Berlusconi, l’asse anglo-franco-tedesco sappia “che la risposta<br />

sarà sempre pregiudizialmente di no”. Quanto sopra vale anche per l’ipotesi di istituire un<br />

supercommissario all’Economia; il semplice fatto che a proporlo sia stato il Direttorio “credo<br />

che ne renderà difficile l’approvazione, soprattutto da parte dei Paesi piccoli”.<br />

Gli stessi Paesi, questi ultimi, subirebbero per primi le conseguenze di una riduzione<br />

dei contributi alla UE dei Paesi membri. Vanno quindi mantenuti invariati, secondo il<br />

Cavaliere, questi contributi, nonostante la precaria situazione dell’economia <strong>eu</strong>ropea e del<br />

bilancio dei singoli Paesi “nel momento in cui con tanta speranza e tanto entusiasmo i nuovi<br />

Paesi membri si accingono a diventare parte della grande Europa”. L’occasione è servita poi a<br />

Berlusconi per ricordare che, dopo la Germania, il nostro Paese è il secondo contributore<br />

<strong>eu</strong>ropeo ex equo con l’Inghilterra.<br />

Il giudizio del nostro presidente del Consiglio sul vertice a tre di Berlino è condiviso<br />

in molti Paesi. “Ogni ambizione di triumvirato - ha dichiarato Matthias Wissman, presidente<br />

della Commissione Europa al Bundestag - è compromessa a priori, con a bordo due peccatori<br />

estremi di bilancio”. Han-Gert Pottering, capogruppo del PPE all’Europarlamento, si è detto<br />

contrario al supercommissario all’Economia rilevando come “non si risolvono i problemi<br />

economici con una nuova carica nella Commissione UE”. Sempre in Germania critiche al<br />

vertice a tre sono venute dai liberali, per i quali “si è formato un cartello di politici industriali<br />

che punta a una politica economica dirigistica e intervenzionistica”.<br />

Su questa figura di supercommissario all’Economia frenano anche Spagna e Austria.<br />

“Quando questa iniziativa verrà messa sul tavolo - ha detto Ana de Palacio, ministro degli<br />

Esteri spagnolo - chiederemo spiegazioni sugli eventuali benefici che porterebbe all’Europa”.<br />

E la sua omologa austriaca Benita Ferrero Waldner ha espresso il suo disaccordo “se questa<br />

proposta deve servire ad impedire una Commissione più grande”. La Commissione Europea,<br />

per bocca di un portavoce, manifesta perplessità sulle idee di Chirac, Blair e Schröeder<br />

considerandole fumose, non essendo chiaro quali poteri i tre intendano conferire a un<br />

supercommissario per le politiche economiche, né cosa si intenda esattamente per riforme<br />

235


economiche.<br />

Sull’argomento è intervenuto il 19 febbraio 2004 il presidente della Commissione<br />

<strong>eu</strong>ropea, Romano Prodi. “Il dibattito sulla stampa di questi giorni si concentra sulle risorse e<br />

su quanto accaduto tra Inghilterra, Francia e Germania a Berlino: è quasi un diktat la lettera<br />

che hanno elaborato e che chiede che il bilancio non ecceda l’1% del PIL <strong>eu</strong>ropeo nemmeno<br />

fino al 2013. Ma la Commissione ha fatto richieste ben superiori”, ha detto Prodi.<br />

Una sorta di asse Berlino, Londra, Parigi, nata nella capitale tedesca il 20 settembre<br />

2003, consolidata sempre a Berlino il 18 febbraio 2004, è “benedetta” nell’incontro<br />

annunciato tra i tre leader dal cancelliere Schröeder in persona che il 26 marzo 2004 ha anche<br />

specificato: “Discuteremo di giustizia, affari interni e diritto”. Un portavoce della cancelleria<br />

ha spiegato che i tre leader avevano già convenuto sull’utilità di tali incontri nell’ultima<br />

riunione a Berlino e dichiarato di volerne altri.<br />

Nelle stesse ore Berlusconi precisava: “Noi non abbiamo alcun complesso di<br />

inferiorità, siamo tra i quattro grandi Paesi che decidono”, smentendo una presunta posizione<br />

di subordinazione nei confronti dei tre partner <strong>eu</strong>ropei. Ma a demolire la notizia di un<br />

“direttorio” Schröeder, Blair-Chirac, ci ha pensato proprio lo stesso Tony Blair che il 27<br />

marzo 2004 mattina ha preso il telefono e chiamato il presidente del Consiglio Italiano. “Un<br />

lungo e cordiale colloquio - ha informato una nota di Palazzo Chigi - nel quale il premier<br />

inglese ha avuto occasione di confermare che non è prevista alcuna riunione tra Gran<br />

Bretagna, Germania e Francia, come invece annunciavano alcuni importanti quotidiani”.<br />

Ciò che è certo, è che Londra ha concordato un summit con Berlusconi. E<br />

probabilmente sarà quella l’occasione in cui Tony Blair si metterà d’accordo col collega<br />

italiano per chiudere al più presto la partita sulla nuova Costituzione UE, che è al centro<br />

dell’attenzione nelle questioni riguardanti l’Unione Europea. Una Europa forte nelle sue<br />

istituzioni politiche, e non solo economicamente, potrà reggere i contraccolpi negli equilibri<br />

internazionali senza barcamenarsi, come sta facendo, tra “direttori” e summit separati,<br />

espedienti tattici per smuovere le acque stagnanti e avviare un processo che porti ad un<br />

risultato soddisfacente per tutti i 25 membri, senza scontentare nessuno.<br />

Una risposta alle sfide della globalizzazione.<br />

La teoria della trasformazione culturale ipotizza che un mutamento da una direzione di<br />

maggiore parità nella collaborazione tra uomini e donne ad una androcratica o patriarcale<br />

abbia alterato radicalmente il corso della civiltà occidentale durante un periodo caotico di<br />

disequilibrio dei sistemi nella nostra preistoria. Ipotizza inoltre che, nel nostro tempo di<br />

236


crescente disequilibrio di sistemi, si verifichi una forte spinta verso un altro mutamento<br />

fondamentale, questa volta dall’androcrazia ad un rapporto paritetico tra uomo e donna, anche<br />

se riemerge in una sorta di coazione a ripetere, la tendenza a gerarchizzare e a subordinare, a<br />

definire un superiore e un inferiore, ciò che deve prevalere e ciò che deve essere sottoposto.<br />

Le relazioni tra maschile e femminile come modello relazionale rappresentano un evidente<br />

prototipo in cui l’ossessione della gerarchizzazione e della subordinazione ha dissolto molte<br />

possibilità creative presenti nella tensione coevolutiva fra polarità distinte e non opposte.<br />

Il mondo contemporaneo pone molteplici sfide, affascinanti, drammatiche, in ogni<br />

caso ineludibili: la sfida della convivenza, la sfida dell’innovazione, la sfida dell’educazione,<br />

la sfida della qualità, la sfida dell’interdipendenza globale, la sfida della complessità, la sfida<br />

tecnologica, la sfida ecologica ecc.<br />

Tutte queste sfide impongono di formulare e di affrontare nuovi tipi di problemi.<br />

Esigono di capire quali presupposti, pregiudizi, specialismi, barriere comunicative siano oggi<br />

di ostacolo alla concezione e alla progettazione di nuove forme di convivenza e di<br />

cooperazione tra saperi e culture. Impongono prospettive originali e innovative, che nelle crisi<br />

presenti ci consentono di rinvenire anche opportunità impreviste.<br />

Una notizia divulgata dal TG2 serale il 17 aprile 2004 fa riflettere. A Londra, i giovani<br />

musulmani britannici usano le biblioteche pubbliche per collegarsi on line e imparare le<br />

tecniche del terrorismo.<br />

Il modello interculturale di società vigente in Gran Bretagna sta subendo uno<br />

scossone, in quanto sono stati proprio gli islamici con passaporto britannico ad architettare un<br />

catastrofico attentato che per fortuna è stato sventato.<br />

A grandi linee, nel giro di due-tre anni sono precipitate cinque drammatiche crisi, che<br />

hanno avuto un enorme peso sull’economia mondiale, e in particolare <strong>eu</strong>ropea e italiana.<br />

1. L’11 settembre 2001, seguito da due guerre in due anni, ha generato instabilità e rottura<br />

degli equilibri.<br />

2. L’entrata di Cina e India nel T.W.O. (Organizzazione Mondiale del Commercio) ha segnato<br />

l’avvento di una competizione senza regole. Occorreva più tempo per aprire il mercato a Cina<br />

e India che non hanno regole e competono in maniera insostenibile, immettendo nel mercato a<br />

prezzi stracciati prodotti copiati da quelli occidentali. Il settore dell’abbigliamento è in forte<br />

crisi anche nel Nord-Est d’Italia per questi motivi.<br />

3. Il crollo della Borsa negli USA brucia una ricchezza pari a quella persa nel 1929.<br />

4. il cambio della lira in <strong>eu</strong>ro ha fatto perdere agli italiani il valore dell’<strong>eu</strong>ro, in quanto hanno<br />

equiparato la moneta metallica a spiccioli, mentre un <strong>eu</strong>ro equivale a due biglietti da 1.000<br />

237


delle vecchie lire.<br />

5. La crisi Cirio, Parmalat, Fiat ha determinato la sfiducia degli investitori.<br />

Se aggiungiamo che l’Italia è il Paese che ha il terzo debito pubblico del mondo, il<br />

quadro è pressoché completo. Il fatto di mantenere il deficit al 2,4% contro il 4% di Germania<br />

e Francia, anche se la crescita è minima, ci dà l’idea che, in una simile situazione, è stato fatto<br />

quello che si poteva fare per arginare i “mali”.<br />

La dimensione catastrofica degli attentati in Spagna dell’11 marzo 2004 ha condotto<br />

inizialmente il governo spagnolo ad un’ipotesi di responsabilità dell’ETA o di alleanza tra<br />

ETA e Al Qaida. Gli attentati simultanei e ben pianificati che hanno fatto esplodere quasi<br />

contemporaneamente le bombe su tre treni fa pensare alla ricerca del massacro spettacolare<br />

iniziato con l’11 settembre negli USA: 200 morti e 1.400 feriti, tutti pendolari, donne,<br />

bambini, lavoratori, studenti, ci riporta all’insicurezza come una delle dimensioni della<br />

globalizzazione: non c’è luogo al mondo che sia al sicuro. La struttura “specialistica”<br />

dell’attentato rimanda a connivenze e coperture al di fuori del territorio basco, a Madrid e<br />

dintorni, forse nella comunità islamica assai numerosa in Spagna.<br />

L’odio contro l’Europa, a cui si riferiscono parlando di “Europa crociata”, ci fa<br />

riflettere sulla necessità di trovare una linea direttiva unitaria contro il terrorismo.<br />

Gandhi diceva che occorre difendersi dalla violenza senza violenza. Ma la cosa<br />

peggiore è non difendersi. L’ETA ha iniziato gli attentati il 31 luglio 1959. Non è mai stata un<br />

movimento di massa e ha avuto l’appoggio del 10% della popolazione.<br />

Il movimento separatista basco, che con il governo Aznar ha ottenuto ampia<br />

autonomia, era ridotto ai minimi termini, ma aveva annunciato un colpo di coda,<br />

probabilmente per lanciare il messaggio: “Dovete negoziare”. L’ETA ha sempre avuto<br />

rapporti con estremisti e gruppi terroristici dell’Africa del Nord e Medio Oriente.<br />

Bin Laden fonda il suo movimento nel 1981 per i mujaydin, combattenti di 32 paesi<br />

del mondo. Due anni dopo istituisce centri di addestramento in sei paesi del mondo. Al Qaida<br />

ha predisposto un terreno fertile dove ci sono i gruppi che agiscono in modo autonomo. Al<br />

Qaida è un marchio che fornisce le motivazioni e la mente e le cellule locali fanno gli<br />

attentati. Nel braccio di ferro tra governo centrale ed ETA può subentrare Al Qaida, in quanto<br />

il nemico dell’ETA diventa anche il nemico di Al Qaida, in un intreccio di alleanze.<br />

Il giorno dopo l’attentato il governo spagnolo procede all’arresto di cinque islamici,<br />

tre marocchini e due indiani e in seguito conferma la provata matrice islamica. In una<br />

videocassetta Al Qaida rivendica la responsabilità di quanto è accaduto, definendosi<br />

portavoce militare di Bin Laden. La Spagna è un bersaglio preferenziale in Europa, come altri<br />

238


Paesi <strong>eu</strong>ropei, e paga il suo appoggio agli USA nella guerra all’Iraq. La messa in atto<br />

dell’attentato alla vigilia delle elezioni politiche in Spagna, a distanza di due anni e mezzo<br />

dall’11 settembre 2001, può aver determinato il risultato elettorale, con un calo del Partito<br />

popolare di Aznar e la vittoria dei socialisti. Sembra che Al Qaida voglia rovesciare i governi<br />

considerati apostati dei Paesi arabi. Porta il terrorismo nei Paesi arabi ritenuti nemici e<br />

influenza direttamente i processi elettorali, cambiando i governi. Al Qaida ha cambiato volto<br />

rispetto all’11 settembre: è meno centralizzata, ma più flessibile, con più leader al vertice<br />

ansiosi di scatenare una Guerra Santa nel nome di un Islam in cui credono. Bin Laden è ormai<br />

troppo occupato a sopravvivere per esporsi e può essere sostituito da altri abili registi, come<br />

l’algerino che sembra aver architettato la strage di Madrid, o Al Zaroavi, terrorista giordano<br />

legato ad Al Qaida.<br />

La vittoria di Zapatero, capo del partito socialista, è strettamente intrecciata con la<br />

vittoria dell’opposizione alla guerra in Iraq. Le prime dichiarazioni di Zapatero dopo la<br />

vittoria elettorale prevedono il ritiro dei 1.300 soldati di Madrid dall’Iraq se entro giugno non<br />

interviene l’ONU. “La dura lotta al terrorismo non deve essere guerra unilaterale”, sostiene il<br />

nuovo premier, che sottolinea: “Sarò presidente di tutti. Il mio stile sarà il dialogo. Io tendo la<br />

mano al leader dell’opposizione” per esprimere l’unità del Paese nella lotta al terrorismo.<br />

Questo fenomeno in effetti colpisce più facilmente i Paesi che si dividono.<br />

Sappiamo che Al Qaida è una holding, ma non sappiamo chi sono gli azionisti.<br />

Dovremmo cercare di colpire questi azionisti. Se in Spagna e in Europa ci sono cellule<br />

operative, chi le finanzia? Come si nascondono? La lotta al terrorismo si conduce innanzitutto<br />

come lotta alla criminalità, per non moltiplicare i nostri nemici colpendo dei civili, il che<br />

inocula un sentimento di rivendicazione (retaliation) con il desiderio di far provare<br />

all’Occidente ciò che si vive in guerra, con la morte di civili innocenti. Non dobbiamo<br />

dimenticare che in Afghanistan sono morti 10.000 civili e in Iraq 6.000.<br />

È pur vero, tuttavia, che la guerra ha estirpato una dittatura sanguinaria e complice del<br />

terrorismo in Afghanistan e in Iraq. Ma ha anche fomentato il terrorismo, pur riconoscendo<br />

che è difficile stabilire quanti 11 settembre ci sarebbero stati se il terrorismo non fosse stato<br />

estirpato alla radice nei campi di addestramento afghani. Gli otto pachistani, 6 di età compresa<br />

tra i 17 e 32 anni, arrestati in Gran Bretagna il 30 marzo 2004 in relazione al sequestro di<br />

mezza tonnellata di nitrato d’ammonio usato per preparare bombe, avevano un passaporto<br />

britannico. La notizia ha precipitato gli inglesi nell’angoscia, percependo che il nemico, in<br />

una società multietnica, si trova nel cortile di casa.<br />

Gli obiettivi a basso livello di sorveglianza come pub e cinema potrebbero essere nel<br />

239


mirino dei terroristi.<br />

La conquista dell’Europa<br />

I terroristi hanno lanciato un messaggio di conquista dell’Europa, a cominciare da una<br />

delle loro prime conquiste alcuni secoli fa, l’Andalusia, che ora rivendicano come califfato di<br />

loro appartenenza. Fra poco toccherà a Roma, antica aspirazione del mondo islamico, da<br />

trasformare in capitale araba. Il tentativo di acquisto da parte degli arabi di un antico palazzo<br />

situato accanto al Vaticano - che poi è stato comprato dal Vaticano stesso - fa parte di questa<br />

strategia di islamizzazione.<br />

La sfida culturale lanciata da Adel Smith, prima rimuovendo il Crocifisso dall’aula in<br />

cui vanno a scuola i suoi figli e poi scaraventandolo dalla finestra di un ospedale, rientra di<br />

nuovo nella strategia di umiliazione e denigrazione culturale dei simboli occidentali per<br />

riaffermare una presunta superiorità del mondo islamico.<br />

In breve, come al tempo di Hitler si era verificato il processo di germanizzazione del<br />

mondo conquistato, nel nazislamismo si sta attuando una politica di islamizzazione dei<br />

territori in cui gli islamici si sono insediati. La politica “latente” e moderata che ora<br />

propongono svelerà il suo vero volto non appena acquisteranno forza e potere sul territorio<br />

nazionale e internazionale. Quando ci accorgeremo della vera funzione delle strategie di<br />

Concordato con lo Stato italiano, sarà tardi per tornare indietro.<br />

Il 15 aprile 2004 Bin Laden tenta di dividere l’Europa dagli USA attraverso<br />

un’apparizione televisiva sulla televisione araba. L’intento di frammentare il fronte<br />

occidentale contro il terrorismo, invitando gli <strong>eu</strong>ropei a lasciare l’Iraq sotto la pressione delle<br />

minacce di uccidere gli ostaggi italiani, appare come una conferma della necessità di<br />

rinsaldare l’alleanza con gli USA nella lotta contro il terrorismo, sollecitando al tempo stesso<br />

una nuova risoluzione delle Nazioni Unite sull’Iraq, in quanto una presenza internazionale<br />

legittimata può stemperare lo spessore politico del nazionalismo iracheno nell’avviare la<br />

modernizzazione o democratizzazione del Paese.<br />

Gli attacchi terroristici all’ONU presente in Iraq fanno parte della stessa strategia, che<br />

intende allontanare tutti gli alleati degli USA, a cominciare dalla Spagna, Italia e Gran<br />

Bretagna, in modo da lasciare gli USA da soli a combattere il terrorismo sul campo iracheno e<br />

internazionale. La strategia di isolare gli USA, per infliggere il massimo di perdite umane e<br />

indurli ad andarsene sotto la spinta del fantasma di un Nuovo Vietnam, è abilmente<br />

orchestrata da Bin Laden con la promessa di una tregua, se l’Iraq verrà evacuato subito.<br />

La volontà di potenza di Bin Laden troverebbe così un supporto strategico, con la<br />

240


finalità di impadronirsi dell’Arabia Saudita, in cui regna il fondamentalismo, per la sua<br />

preziosità in quanto “terra sacra” all’Islam contenente enormi ricchezze petrolifere.<br />

Gli attentati di Madrid dell’11 marzo, attuati da marocchini, si collocano nella stessa<br />

strategia di conquista: la rivendicazione dell’Andalusia come califfato musulmano.<br />

I nostri politici che sollecitano il ritiro delle truppe italiane, nella speranza che in<br />

questo modo i terroristi “faranno i buoni”, si lasciano sfuggire il “particolare” che l’11<br />

settembre 2001 è avvenuta una dichiarazione di guerra con l’attentato alle Torri Gemelle.<br />

Questa guerra è stata preparata prima e dichiarata solo l’11 settembre: fa parte di un piano di<br />

conquista aggressiva che utilizza il terrorismo al posto degli eserciti di un tempo.<br />

Gli USA hanno predisposto una strategia di difesa che, anche se non “corretta” sotto il<br />

profilo cognitivo-linguistico, designando l’“asse del male” e predisponendo una manovra<br />

unilaterale, è tuttavia pertinente nel considerare la gravità della situazione. L’Europa è terreno<br />

di conquista da parte di un Islam sempre più aggressivo che ha basi logistiche disseminate<br />

ovunque sul suo territorio. Se si rompesse l’alleanza con gli USA attraverso il miraggio di una<br />

tregua, questo Islam diventerebbe ancora più potente, perché la “vittoria” conseguita nello<br />

spezzare le alleanze rinsalderebbe la sua forza penetrativa e feroce.<br />

L’integrazione dell’ONU nell’intervento in Iraq è altamente auspicabile come forza di<br />

urto multilaterale, che non lascia gli USA isolati in questo difficile momento, in cui tutti gli<br />

stranieri vengono considerati come “forza occupante”, compresi gli italiani in missione di<br />

pace, che non hanno partecipato alla guerra.<br />

I problemi rimasti aperti<br />

Ora il seme politico culturale di trasformazione piantato in Afghanistan e in Iraq va<br />

coltivato, perché il problema che si profila ora è del tipo: cosa si lascia in Iraq, democrazia<br />

araba o dittatura sanguinaria?<br />

L’unità rappresenta la condizione per isolare e abbattere il terrorismo con diversi<br />

livelli di strategia e di azione: dialogo culturale, interreligioso, politico, impegno per lo<br />

sviluppo economico dei Paesi sottosviluppati, in quanto i ricchi organizzatori degli attentati<br />

trovano una facile manovalanza tra i diseredati.<br />

Su scala globale ci sono molte aree, molti problemi aperti, per esempio il conflitto tra<br />

arabi e israeliani o l’incomprensione tra l’Occidente e l’Islam, dove è molto importante avere<br />

degli strumenti che permettano di trovare nuove interpretazioni, in modo che la gente possa<br />

avere la possibilità di arrivare ad una comprensione del senso della natura del conflitto.<br />

Su scala mondiale c’è carenza di vera leadership e leader di vari paesi sono molto più<br />

241


espressione di quanto sono capaci di gestire la propria immagine attraverso i media che non di<br />

un apporto sostanziale alla soluzione dei problemi del mondo. Dando un contributo alla<br />

formazione di una vera leadership, si può spianare realisticamente la strada alla soluzione<br />

effettiva dei problemi. La completezza e la profondità non sono istantanee. Mettendo<br />

l’accento sulla qualità, da questo deriva che occorre una certa quantità di tempo per arrivare a<br />

quegli elementi e a quei modi di essere che sono veramente essenziali per noi e ci permettono<br />

di collocarci, in rapporto al progetto, in una maniera in cui ci troviamo più a nostro agio e che<br />

è per noi più congruente.<br />

Istituzioni comuni e regole comuni costituiscono la risposta più efficace e<br />

lungimirante al terrorismo. Uno stretto coordinamento <strong>eu</strong>ropeo nella lotta al terrorismo viene<br />

potenziato dalla Carta costituzionale. Una Europa unita, libera dall’odio e dalle ideologie e<br />

affratellata da valori comuni è una potenza contro cui il fondamentalismo islamico si sfalderà.<br />

Se l’Europa rispondesse con l’odio e l’intolleranza razzista, cadrebbe nella deriva islamica<br />

riproponendo quella stessa cultura nazista che si è imposta per dodici anni in Germania e in<br />

Europa nelle varie sfaccettature del fascismo. Questa cultura nazista è in realtà sopravvissuta<br />

ben oltre la fine della seconda guerra mondiale, riproponendo i suoi tentacoli in Italia sotto<br />

forma di organizzazioni come Ordine nuovo, e in altri stati <strong>eu</strong>ropei sotto rinnovate spoglie.<br />

Rispondere ad una cultura nazista fondamentalista e intollerante con una nuova cultura nazista<br />

estremista e intollerante significherebbe non solo mettersi sul terreno di guerra dello scontro<br />

tra culture e civiltà, ma soprattutto alimentare la legittimazione alla lotta, in quanto l’odio<br />

genera odio. Una volta che si crea il Drago da uccidere, lo stesso Drago si sente legittimato ad<br />

uccidere. E il Drago ha molte teste. Per analogia, nel 1987 lo sceicco Yassin fonda Hamas con<br />

l’obiettivo di distruggere lo stato di Israele. Il leader spirituale, carismatico dell’estremismo<br />

islamico è stato ucciso il 22 marzo 2004: tre razzi hanno colpito l’auto su cui viaggiava,<br />

uccidendo anche sette guardie del corpo. Duecentomila persone hanno sfilato al funerale di<br />

Yassin. Il governo israeliano intendeva indebolire Hamas, decapitandola, in vista del ritiro dei<br />

coloni di Gaza, in modo che i terroristi non potessero cantar vittoria. Yassin, presumibilmente<br />

implicato nel terrorismo, è più autorevole dell’Autorità palestinese, accusata di corruzione e,<br />

come un Drago che si rispetti, ha già un’altra testa che rispunta: è il suo successore. E Bin<br />

Laden ha già altre teste in Europa: i registi dell’attentato di Madrid dell’11 marzo ne sono una<br />

prova.<br />

Tuttavia, sappiamo che il Drago Bin Laden è una creatura del governo americano:<br />

riceveva finanziamenti dal Pakistan, a sua volta finanziato dalla CIA. Si è rivoltato nelle mani<br />

dei suoi finanziatori, sfuggendo alla logica della sudditanza che esprime gratitudine ai<br />

242


foraggiatori. Il punto della questione è che è sempre pericoloso creare e alimentare Draghi,<br />

per cui la logica del dialogo è l’unica che in ultima analisi si riveli vincente. Dialogo, unità e<br />

istituzioni forti dovrebbero rappresentare la colonna portante dell’Europa Unita.<br />

Occorre un mandato <strong>eu</strong>ropeo dell’ONU in Iraq non perché l’ONU abbia la bacchetta<br />

magica per risolvere tutti i problemi in quanto organismo internazionale super-partes, ma per<br />

consentire il superamento della “guerra unilaterale”. Le truppe ONU, essendo costituite da<br />

personale che non ha fatto la guerra, non sono odiate dalla popolazione.<br />

L’Italia si è dichiarata non belligerante e contribuisce a ricostruire l’Iraq.<br />

In ultima analisi, il messaggio di unità dell’Europa di fronte alle sfide del XXI secolo<br />

costituisce una roccaforte contro la minaccia terroristica.<br />

L’allargamento dell’Europa ad Est e a Sud, con Malta e Cipro, assume quindi non solo<br />

un valore economico, ma anche politico di ingrandimento della potenza <strong>eu</strong>ropea contro il<br />

rischio di attentati, con la possibilità di prendere una posizione forte in politica estera per<br />

salvaguardare la pace e la sicurezza mondiale.<br />

Questo libro ha raccolto queste sfide creando un contesto di approfondimento e di<br />

dibattito per chi consideri le interazioni tra linguaggi, conoscenze e culture del mondo<br />

contemporaneo e del passato non soltanto interessanti, ma anche indispensabili per la vita<br />

associata e per la vita professionale. In questa prospettiva, il libro si è proposto di<br />

sperimentare un tipo di informazione e di formazione culturale imperniate sull’interazione e<br />

sulla reciproca interrogazione fra differenti linguaggi, culture, competenze ed esperienze.<br />

243


LA MEMORIA E LA STORIA POSSONO FONDARE L’IDENTITÀ NAZIONALE?<br />

Il 13 febbraio 2004 Ernesto Galli della Loggia, storico e politologo romano, laureato<br />

in Scienze Politiche all’Università “La Sapienza” di Roma, liberal-democratico, laico<br />

“terzista” pronto al confronto con il mondo cattolico, attualmente docente di Storia dei partiti<br />

e dei movimenti politici nell’Università di Perugia, ha tenuto una conferenza-dibattito nella<br />

città in cui vivo sul tema “Uso e abuso della memoria e della storia”. Egli precisa: “La scena<br />

italiana è sovraccarica di storia. La memoria storica è la memoria di una collettività, non di<br />

singole persone. Ha un peso pubblico. La storia della collettività dà un significato unitario al<br />

passato, a vicende apparentemente slegate, per una comunità. C’è un uso pubblico della storia<br />

perché l’identità della collettività è nella sua storia. Se non ci fosse l’uso pubblico, non<br />

avremmo un’identità come collettività. L’identità dipende dal passato. Pertanto, questa<br />

‘litania’ contro l’uso pubblico della storia ‘non va’ (bene)”.<br />

Si può invocare una memoria condivisa?<br />

C’è una compresenza di molte memorie contemporaneamente, perché si è rotta la<br />

cultura della comunità che produceva una memoria unitaria.<br />

La polis moderna si è divisa secondo fratture di tipo politico-ideologico e produce una<br />

diversità di memorie.<br />

Si tratta di una patologia italiana. Ma si può trovare anche nell’antichità.<br />

Dove troviamo la memoria storica?<br />

Le nostre città ricordano nomi storici nelle vie, nelle scuole e nei monumenti: i nomi<br />

di Mazzini, Garibaldi, Pellico ecc. sono ovunque. Questi nomi si rifanno alla storia nazionale,<br />

nel tentativo di imporre una memoria nazionale. Si tratta del tentativo di costruire una<br />

memoria nazionale che superasse le singole memorie. Questo tentativo è fallito in Italia,<br />

perché l’Italia è stata segnata dalla politica: Mazzini e Garibaldi hanno “inventato” la nazione<br />

italiana, non prendendola dai singoli (popolo), ma dalla tradizione letteraria del paese. Questa<br />

unità è stata fatta dalla politica, costruendola sui problemi economici del Paese: lo stato<br />

nazionale ha prodotto il maggiore benessere. Gli italiani si consideravano nella fedeltà alla<br />

Chiesa cattolica, che rifiutava l’unità.<br />

Le contraddizioni di questa scelta unitaria sono evidenti: i patrioti erano repubblicani,<br />

ma si trovavano con il re al Viminale. Si tratta di una storia dissociata, conflittuale. Noi siamo<br />

nati dall’immaginazione politica di una ristretta minoranza di intellettuali e patrioti.<br />

C’è un legame inquietante che unisce la politica al racconto storico: è quello di chi ha<br />

244


vinto politicamente, che ha messo fuori gioco altre forze in grado di produrre memoria.<br />

In un paese povero come era l’Italia, la politica era importantissima, perché solo<br />

attraverso la politica era possibile avere un impiego e far funzionare le industrie.<br />

Le identità dei partiti politici sono legate ad una storia particolare. In Italia ci sono tre<br />

grandi culture politiche: il cattolicesimo politico, il fascismo e la cultura comunista<br />

gramsciana, diversa dal comunismo di Lenin. Ciascuno di questi partiti aveva una storia e una<br />

memoria, contrassegnate da scontri e guerre civili. Queste culture non si riconoscevano in un<br />

percorso comune. Il clima di tensione tra identità politiche e di incompatibilità di memorie e<br />

di storie ha determinato un conflitto sulla memoria. Queste tre identità politiche e memoriali<br />

sono finite malissimo, con un fallimento, in modi diversi.<br />

quella storia.<br />

Coloro che le avevano “vissute”, hanno avuto e hanno difficoltà a riconoscersi in<br />

L’Italia ha distrutto le libertà politiche con il fascismo, che è finito nell’Olocausto<br />

antisemita hitleriano. Possiamo dire che il ventennio fascista si sia aperto con l’assassinio di<br />

Giacomo Matteotti il 10 giugno 1924 e chiuso con quello di Giovanni Gentile il 15 aprile<br />

1944. Prima di essere ucciso, Gentile lanciò un messaggio di tolleranza e riconciliazione per<br />

tutti gli italiani. D’altro lato, oggi è impossibile un riconoscimento “tranquillo”<br />

dell’esperienza storica comunista. E l’esperienza cattolica si è conclusa con Mani Pulite, che<br />

ha minacciato di gettare un’ombra sul cattolicesimo politico del dopoguerra. Tutti questi<br />

partiti hanno cambiato nome, perché il passato comporta qualcosa che “non funziona”, per<br />

riabilitare la propria storia e identità memoriale prendendo le cose migliori ma sapendo che ci<br />

sono cose meno buone da lasciar andare. Oggi ci sono i successori, i posteri di questi tre filoni<br />

politico-culturali.<br />

Le discussioni sul passato sono cariche di valenze politiche. Il cattolicesimo politico<br />

diventò emblema e riassunto di tutta la corruzione politica e della malavita organizzata.<br />

Andreotti fu accusato di essere il capo della mafia. In Italia la storia è “diminuita”. Si cerca di<br />

far esplodere il caso degli altri. Le identità politiche sono legate alla storia. E le identità<br />

storiche hanno avuto una storia conflittuale tra di loro, vinti e vincitori. Ogni vincente ha<br />

cercato di dare un’immagine del passato a proprio uso e consumo. Ma per vincere<br />

politicamente non è necessario stare al governo. Oggi viene sollecitata una autonoma<br />

elaborazione concettuale che produca il senso comune storico del passato.<br />

245


La cultura del comunismo e del nazismo<br />

Per inciso e per completezza, risulta utile rimettere in prospettiva critica e coerente,<br />

proprio in nome delle sfide dell’umanità in questo XXI secolo, la cultura del comunismo e del<br />

nazismo, che a mio avviso hanno trovato una interessante collocazione storica nella<br />

descrizione dello storico Victor Zaslavsky, che è nato a San Pietroburgo e da alcuni anni vive<br />

a Roma. Insegna Sociologia politica alla Luiss e vi dirige l’International Center for<br />

Transition Studies. Ha pubblicato in Italia varie opere, tra cui Fuga dall’impero.<br />

L’emigrazione ebraica e la politica della nazionalità in Unione Sovietica (1985), Dopo<br />

l’Unione Sovietica. La perestroika e il problema della nazionalità (1991), Storia del sistema<br />

sovietico. L’ascesa, la stabilità, il crollo (1995, 2001), Il massacro di Katyn. Il crimine e la<br />

menzogna (1998) e, con Elena Aga-Rossi, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera<br />

staliniana negli archivi di Mosca (1997).<br />

Zaslavsky, figlio di un comunista russo, ha pubblicato nel 2004 un libro intitolato “Lo<br />

stalinismo e la sinistra italiana”, in cui indaga sulla storia inedita, i protagonisti, i retroscena di<br />

cinquant’anni di rapporti tra la sinistra italiana e l’Unione Sovietica 1 .<br />

Ha dichiarato ad Excalibur, il programma televisivo che è andato in onda il 15 marzo<br />

2004, che lo stalinismo è vivo e vegeto nella cultura italiana, in quanto la sinistra italiana non<br />

ha fatto i conti con lo stalinismo, mentre ciò è avvenuto con il nazismo e il fascismo. Gli<br />

stalinisti di ieri e di oggi hanno la loro ideologia. Oggi l’ideologia “elegge” un capo<br />

carismatico, all’interno di un sistema che si basa su odio e lotta e sceglie i nemici sulla base<br />

del fatto che appartengono ad una certa categoria, non importa se non hanno fatto niente di<br />

male: basta che esistano, per essere eliminati.<br />

L’indifferenza dell’Italia nei confronti del fondamentalismo algerino, che in otto anni<br />

ha provocato 150.000 vittime, la dice lunga sul fatto che la sinistra si è sentita protetta dal<br />

terrorismo ritenendo che questo fenomeno riguardasse solo l’Algeria e non avrebbe colpito<br />

l’Italia perché era filo-islamica. Oggi sappiamo che l’Algeria ha fatto da scudo con le proprie<br />

vittime ad un fenomeno che sta avanzando ed invadendo anche l’Italia. Se in Algeria le<br />

vittime erano famiglie, donne che non volevano portare il chador, in Italia il terrorismo<br />

islamico può colpire nel mucchio con la stessa logica spietata.<br />

L’analogia tra terrorismo islamico e dittatura nazista non è balzana e cervellotica. La<br />

logica del totalitarismo è infatti la stessa: l’eliminazione sistematica delle categorie<br />

“indesiderate”. Durante il nazismo queste categorie comprendevano ebrei, zingari,<br />

omosessuali, comunisti ecc.<br />

1 Vedi Zaslavsky V., Lo stalinismo e la sinistra italiana, Mondadori, Milano, 2004<br />

246


Oggi l’eliminazione operata dal naziterrorismo riguarda gli “infedeli”, l’Occidente, in<br />

uno scontro tra civiltà. Il bersaglio è rappresentato non solo dagli ebrei, ma dagli <strong>eu</strong>ropei,<br />

dagli americani ecc. L’obiettivo consiste nel distruggere l’economia, la cultura e la civiltà<br />

del Vecchio e del Nuovo Continente per instaurare la dittatura del nazislamismo.<br />

La natura pubblica e politica della storia<br />

Per ricollegarci a quanto detto in precedenza, a conclusione del suo discorso, Galli<br />

della Loggia dichiara che “non ci possono essere memoria e storia condivise. Ci può essere<br />

accordo sulle date, ma a volte nemmeno su quelle”. La natura pubblica e politica della storia<br />

lascia aperte alcune questioni.<br />

Durante il dibattito, la prima obiezione sottolineava che “la fine del partito cattolico è<br />

cominciata prima di Mani Pulite, con l’apertura del Concilio Vaticano II. La Chiesa è iniziata<br />

con il concetto di Memoriale della salvezza. La Chiesa non può essere partitica, in quanto non<br />

è legata ad una cultura, ma all’esperienza di Cristo. Il Partito cattolico era già sfaldato, finito<br />

ben prima di Mani Pulite, con il Concilio avviato da Giovanni XXIII. Solo il fascismo e il<br />

comunismo erano fondati sull’ideologia costituita da schemi preconcetti”.<br />

Galli della Loggia risponde: “Nel 1992 la Democrazia Cristiana aveva la maggioranza<br />

relativa dei voti. Il Partito Comunista arrivò al 16% dei voti, con una percentuale inferiore al<br />

1946. Il successo è relativo alla forza relativa. La Chiesa ha un problema con il passato. I<br />

perdoni chiesti dal Papa Giovanni Paolo II sono per il passato ‘sbagliato’ della Chiesa. C’è<br />

stata una resa dei conti con la storia della Chiesa. Non è solo l’ideologia che porta sulla strada<br />

‘sbagliata’. È la storia che porta al ‘problema’ col proprio passato, in quanto la Chiesa è anche<br />

terrena. Prima di Fini, nessuno ha chiesto scusa; solo il Papa, che ha voluto liberarsi del<br />

fardello del passato. Anche la Chiesa è chiamata a fare i conti con il passato. La memoria è<br />

costruita socialmente in base a parametri singolari. Dal 1945 ad oggi, la memoria<br />

dell’Olocausto ha avuto una parabola amplissima. Per 30 anni ci sono state responsabilità non<br />

viste dalla Chiesa: si ha l’impressione che Pio X abbia organizzato la persecuzione degli<br />

ebrei”.<br />

Riguardo alla formazione dell’identità italiana, rispetto ad altre nazioni <strong>eu</strong>ropee, Galli<br />

della Loggia osserva che “anche la Francia ha avuto giacobini e realisti. Ma i realisti si<br />

sentivano francesi, figli della Francia, perché la Francia non è morta con la Rivoluzione. Si<br />

poteva essere francesi, anche se non si era rivoluzionari. Per 30 anni i cattolici hanno avuto<br />

difficoltà a sentirsi italiani perché c’era una frattura: l’identità era connotata di parte politica<br />

durante il fascismo, per cui è stato difficile condividere qualcosa, sentirsi italiani, se si faceva<br />

247


parte di un certo partito”.<br />

Un attempato e arzillo signore simpatizzante del fascismo ha osservato che le leggi<br />

razziali in Italia non furono tanto terribili, dal momento che si limitarono ad emarginare gli<br />

ebrei e diventarono esecutive dolo dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando i tedeschi<br />

invasero l’Italia da occupanti e non più da alleati.<br />

Galli della Loggia risponde che “le leggi italiane erano punitive sul piano legale e<br />

spietatamente applicate sul piano della discriminazione. Portarono gli ebrei ad essere paria,<br />

che non potevano avere proprietà, per cui dovettero cercare prestanome. Non potevano avere<br />

radio e accedere alle scuole. I professori universitari e impiegati pubblici furono licenziati<br />

dall’oggi al domani. C’erano molti alti ufficiali ebrei. Un colonnello ebreo si sparò un colpo<br />

in alta uniforme. Non ci fu sterminio fisico degli ebrei come in Germania. In Italia si<br />

fermarono a livello 900 nella gravità dei procedimenti persecutori; mentre altrove raggiunsero<br />

quota 2.000”. Galli della Loggia invitò l’interlocutore a leggere una fotocopia - che lui gli<br />

avrebbe spedito - della Gazzetta Ufficiale che pubblicò le leggi del 1938.<br />

In definitiva, “la memoria condivisa come atto fondante di una società civile” va<br />

ancora scritta. Galli della Loggia ha scritto un libro nel 1996 intitolato “La morte della<br />

patria”, in cui esprime la fine del sentimento nazionale dopo l’8 settembre 1943, che aprì la<br />

strada alla guerra civile in Italia. Attualmente, il presidente Ciampi cerca di recuperare<br />

l’epopea risorgimentale e di creare l’unità spirituale con il coinvolgimento della Chiesa. La<br />

reazione degli italiani alla strage di Nassirya indica che lo “spirito nazionale” è maturato. Per<br />

essere una comunità politica, bisogna avere una memoria condivisa, una condivisione delle<br />

regole dello stare insieme oggi, che non comporta la “sintonia” su quanto è accaduto in<br />

passato. La ricostruzione storica del passato spetta agli storici e non ai politici. La storia<br />

italiana è fatta di forti disaccordi e le ricostruzioni storiche “posticce” non competono ai<br />

politici, anche se essi possono averne bisogno per motivi politici, di pacificazione o altro.<br />

Mazzini morì sotto falso nome perché la polizia italiana lo accusava di essere un pericoloso<br />

sovversivo.<br />

Alla domanda: “La Repubblica italiana è fondata sulla resistenza e<br />

sull’antifascismo?”, Galli della Loggia risponde: “E’ smentibile che questo fatto abbia<br />

prodotto sintonia tra DC e PC fino agli anni ’60. La DC era accusata dal PC di essere clerico-<br />

fascista e di preparare il fascismo, mentre durante la resistenza si celebrarono le ‘nozze’ tra<br />

DC e PC, in nome dell’antifascismo. Pio XII scomunicò i comunisti nel ’48, secondo la<br />

formula: con Cristo o contro Cristo. Teneva conto che i comunisti erano antifascisti e che ci<br />

fu collaborazione tra DC e PC all’insegna dell’antifascismo, anche se nessuno si fidava degli<br />

248


altri e c’erano tante tensioni? Non è forse casuale che, in seguito, il più importante uomo<br />

politico della DC, scelto da De Gasperi a 26 anni come sottosegretario alla Presidenza del<br />

Consiglio, sia stato accusato di essere il capo della mafia.<br />

L’Italia, a differenza della Germania, non fu raggiunta dall’Armata Rossa, per cui non<br />

fu divisa in due politicamente e militarmente, anche se i comunisti volevano continuare la<br />

rivoluzione e il governo che si costituì in seguito istituì misure di polizia e spionaggio politico<br />

per il legame del PC con Mosca. L’Italia fu occupata dagli anglo-americani, per cui cadde<br />

nella sfera di influenza degli USA. La Resistenza ha dato l’immagine di un paese<br />

politicamente reattivo, che ha organizzato un’alternativa al fascismo. Si può quindi sostenere<br />

che l’Italia è una Repubblica fondata sulla Resistenza, con tante contraddizioni: comunisti e<br />

cattolici combatterono un nemico comune, ma sapendo che dopo avrebbero iniziato una lotta<br />

politica tra di loro.<br />

La sinistra dà una versione di comodo del passato, caramellosa, del tipo: ‘Eravamo<br />

tutti uniti’, mentre il PC voleva continuare la rivoluzione”.<br />

Possiamo osservare, al riguardo, che non sappiamo quali documenti a suo tempo<br />

l’onorevole Cossutta avesse letto a proposito dell’atteggiamento del Partito Comunista sulle<br />

foibe, documenti che - egli ha assicurato - testimoniano come il PCI avesse sempre detto la<br />

verità. Non sappiamo quale fosse quella verità e quando fu detta e da chi, ma siamo propensi<br />

ad affermare che sia lui ad avere ragione nella disputa con Violante e Fassino, che hanno<br />

parlato di un “errore”, formula macabramente simile a quella sui “compagni che sbagliano”.<br />

Voler negare o giustificare il massacro degli italiani nell’Istria e in Dalmazia non fu, infatti,<br />

un errore, ma l’elemento essenziale di un atteggiamento politico che rispondeva a una logica<br />

impeccabile. Era una posizione che si ricollegava coerentemente al passato del PCI, posizione<br />

di soggezione adorante a Stalin e al suo disegno di estendere l’egemonia sovietica a tutta<br />

l’Europa. Di quel disegno le bande di Tito costituivano una pedina indispensabile perché<br />

l’URSS mirava ad affacciarsi sull’Adriatico in preparazione di altre conquiste (aveva sperato<br />

di sostituirsi all’Italia in Libia).<br />

Non fu un errore la lettera con cui il capo del PCI, quale vicepresidente del Consiglio,<br />

ingiungeva il 7 febbraio 1945 al presidente del Consiglio Ivanhoe Bonomi di dare ordini al<br />

Comitato di liberazione della Venezia Giulia di non opporsi alla conquista comunista<br />

jugoslava, pena una nuova guerra civile. In ogni caso i comunisti italiani non solo non<br />

avrebbero combattuto contro gli occupanti ma - minacciava il “Migliore” - avrebbero<br />

collaborato con loro. Non fu un errore il proclama firmato da Palmiro Togliatti con cui il 30<br />

aprile 1945 esortava i triestini ad “accogliere le bande jugoslave e collaborare con loro nel<br />

249


modo più assoluto”. Non fu un errore la proposta che Togliatti attribuì a Tito, secondo la<br />

quale costui avrebbe magnanimamente rinunciato ad una Trieste che non gli poteva<br />

appartenere contro la cessione da parte italiana di Gorizia che “secondo il nostro ministero<br />

degli Affari esteri è città in prevalenza slava”. Non fu un errore l’ignobile accoglienza<br />

preparata ai nostri profughi istriani dai ferrovieri comunisti di Ancona e Bologna, che si<br />

rifiutarono di assisterli. Chi se non le massime istanze di quel partito potevano aver instillato<br />

un simile inumano odio? Parlare di “errori” è riduttivo, perché non di errori si trattava, ma di<br />

una deliberata opera di distruzione della nazionalità per esaltare l’ideologia comunista e lo<br />

stato che ne era la realizzazione. Alla luce dell’ideologia, quegli “errori” erano qualcosa di cui<br />

andare fieri, non di cui vergognarsi. E, infatti, Cossutta non se ne vergogna affatto, perché non<br />

conosce perfettamente la storia del partito e di tutto il movimento comunista. È concepibile<br />

che non la conoscano, o l’abbiano dimenticata, le ex speranze della Fgci (Federazione<br />

giovanile comunista italiana)? Non dovrebbero limitarsi a onorare - con cinquant’anni di<br />

ritardo! - i poveri morti delle foibe e i profughi adriatici, ma condannare senza se e senza ma<br />

chi volle ed esaltò quei crimini contro tutto il popolo italiano. Se non lo fanno - ed è<br />

improbabile che lo facciano - continuano a dar ragione a Cossutta.<br />

“Riportare alla memoria quei fatti è oggi un obbligo morale che si impone alla<br />

coscienza civile della nazione”. Si conclude così un lungo e dettagliato articolo dedicato<br />

all’“orrore assoluto” delle foibe, che appare sul numero di marzo 2004 di Civiltà Cattolica. È<br />

una presa di posizione chiara fin dal titolo (“Massacro delle foibe e ‘silenzio di Stato’”), che<br />

di fatto esprime la posizione della Santa Sede sull’argomento. Lo storico gesuita Giovanni<br />

Sale, sulla base di nuovi documenti d’archivio, scrive che “per lunghi anni si è voluto<br />

rimuovere, cancellare quei fatti che colpirono migliaia di cittadini italiani (forse addirittura<br />

diecimila) nella maggior parte dei casi colpevoli soltanto di essere italiani”.<br />

La strage, perpetrata dai partigiani titini in quaranta giorni, nel maggio-giugno 1945,<br />

rispondeva, secondo Civiltà Cattolica, “ad una precisa politica di ‘pulizia etnica’ anti-italiana<br />

messa a punto dai capi comunisti jugoslavi”. E se certamente alcuni degli “infoibati” furono<br />

fascisti o collaborazionisti, “la maggior parte degli uccisi erano semplici cittadini, alcuni dei<br />

quali addirittura antifascisti notori”. A questo proposito padre Sale cita una relazione di un<br />

avvocato triestino, giunta in Vaticano il 2 giugno 1945, dove si descriveva così la situazione<br />

della città giuliana: “In città vi è un’atmosfera di terrore. La città stessa è percorsa da forti<br />

pattuglie di partigiani, armati fino ai denti, vestiti come straccioni, che fanno praticamente<br />

quello che vogliono. Sono stati arrestati e messi in campi di concentramento moltissimi<br />

antifascisti e in genere tutte le persone, soprattutto gli intellettuali, che per non essersi<br />

250


compromessi col fascismo avrebbero potuto diventare i capi naturali degli italiani della<br />

Venezia Giulia”.<br />

La parte più interessante dell’articolo di Civiltà Cattolica è quella dedicata ai motivi<br />

che hanno portato al “silenzio di Stato” su questo “genocidio nazionale”. “Perché tale<br />

vergognoso silenzio - si chiede la rivista dei gesuiti - da parte di uno Stato che ha sempre<br />

ricordato e commemorato i propri caduti per la patria?”. I motivi sono tre. Il primo è<br />

determinato dalla necessità dell’Occidente di blandire la Jugoslavia dopo la sua rottura con<br />

l’URSS di Stalin: “La spiegazione data da Tito già all’indomani dei massacri su quegli<br />

‘spiacevoli fatti’ - scrive padre Sale - divenne di fatto una sorta di versione ufficiale che la<br />

diplomazia occidentale (compresa quella italiana) accettò passivamente”. Il secondo motivo è<br />

legato alla richiesta avanzata dal regime di Tito di estradare centinaia di soldati e di ufficiali<br />

italiani accusati di aver compiuto crimini di guerra durante il periodo dell’occupazione<br />

nazifascista della Jugoslavia nel 1941-43. Una richiesta che “imbarazzava il governo di Roma<br />

perché la maggior parte degli ufficiali indicati nelle liste era stata immessa nel ricostruito<br />

esercito italiano, mentre altri occupavano addirittura posti di rilievo nell’amministrazione<br />

dello Stato”, come nel caso dell’onorevole Achille Marazza, sottosegretario alla Pubblica<br />

Istruzione. L’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi ritenne dunque “opportuno<br />

non sollevare la questione delle foibe nella speranza che anche quella sui presunti crimini di<br />

guerra compiuti dagli italiani venisse in qualche modo ‘insabbiata’”. E così di fatto avvenne:<br />

l’Italia acconsentì di dimenticare i massacri delle foibe “in cambio dell’assoluzione morale<br />

concessa in sede internazionale per le ‘irregolarità’ compiute dai propri soldati durante la<br />

guerra”.<br />

Il terzo motivo del “silenzio” è attribuito da Civiltà Cattolica ai “partiti di sinistra, in<br />

particolare il PCI”, che “fecero di tutto perché negli anni del dopoguerra non venisse riaperto<br />

il capitolo delle foibe, a motivo delle gravi responsabilità che il partito di Togliatti ebbe in<br />

quelle vicende”. Il “Migliore” aveva infatti definito l’occupazione dei territori giuliani da<br />

parte degli jugoslavi “un fatto positivo di cui dobbiamo rallegrarci e che dobbiamo in tutti i<br />

modi favorire”.<br />

Così il “silenzio di Stato” fu imposto, conclude la rivista dei gesuiti “non soltanto dalla<br />

‘cattiva coscienza’ dei comunisti collaborazionisti col regime di Tito, ma anche dalla classe<br />

politica in quegli anni al potere in Italia”, perché “dimenticare quei terribili fatti in realtà<br />

faceva comodo a tutti”.<br />

Oggi il PC non si identifica più con Lenin, ormai “buttato a mare”, ma ha paura di<br />

perdere l’ultima parte forte della propria identità storica e di collassare. L’aggancio alla<br />

251


Resistenza diventa quindi essenziale al PC per il recupero di radici storiche che gli<br />

conferiscano un’identità. Il timore espresso da Bertinotti di una “deriva revisionista”, se si va<br />

a scalfire un certo paradigma “rivoluzionario”, va visto nel quadro più ampio del timore di<br />

perdere un’identità storica.<br />

Il 16 marzo 2004 il Senato approva a larga maggioranza con voto bipartisan,<br />

l’istituzione del 10 febbraio come giorno della memoria per le vittime delle foibe e per<br />

l’esodo di fiumani e istriani dalle loro terre. Rifondazione Comunista ha espresso un voto<br />

contrario “per non mettere sullo stesso piano fascismo e antifascismo”.<br />

Possiamo costruire l’identità nazionale sulla memoria e sulla storia?<br />

In base alle riflessioni sopra esposte, potrebbe risultare difficile credere di poter<br />

costruire un’identità nazionale sulla base della memoria e della storia, in quanto non c’è<br />

condivisione sulla memoria storica, a causa del “filtro” di diverso colore che ciascun<br />

movimento utilizza per guardare la realtà dei fatti concreti, dei personaggi-chiave, dello<br />

svolgimento delle azioni. Lo stesso dubbio concerne la possibilità di scardinare i pregiudizi.<br />

Se è vero che il pregiudizio è spesso radicato nella rigidità della personalità e quindi è difficile<br />

rimuoverlo, è anche vero che si può stringere d’assedio il pregiudizio e farlo crollare o<br />

contenere con una politica sociale adeguata.<br />

La stessa politica sociale può essere estesa alla formazione dell’identità locale,<br />

regionale, nazionale, <strong>eu</strong>ropea e planetaria, come ho esposto nel corso del libro.<br />

Come soggetti che vivono in un contesto familiare e sociale, abbiamo un’identità e<br />

siamo il frutto di un percorso evolutivo, che affonda le radici nelle esperienze del passato,<br />

anche se siamo proiettati verso le mete future. Anche quando vogliamo disidentificarci dal<br />

passato, cambiando la nostra storia, dobbiamo fare i conti con il nostro passato, perché è ad<br />

esso che abbiamo attinto le nostre conoscenze, i nostri valori, le nostre convinzioni, i nostri<br />

scopi e obiettivi per il futuro.<br />

In quanto appartenenti ad una comunità locale, regionale, nazionale, <strong>eu</strong>ropea,<br />

planetaria, la nostra identità si espande fino ad includere il nostro senso di sé in quanto<br />

membri di un nucleo familiare ristretto e allargato, di una città, di una regione, di una nazione,<br />

di un continente, di un pianeta. C’è chi si ferma a sentirsi parte di una famiglia e di una città e<br />

c’è chi estende la pluriappartenenza a sentirsi parte di due nazioni diverse, essendo nato da<br />

una parte e vissuto da un’altra.<br />

Il nocciolo della questione consiste nella definizione di quali radici hanno formato la<br />

nostra identità e di quali radici sono importanti e formano la nostra identità attuale, dando una<br />

252


configurazione a convinzioni e valori. Tale identità può essere parzialmente o totalmente<br />

diversa da quella che avevamo in passato, 10, 20, 30, 50 anni fa. Questo discorso identitario<br />

vale sia per l’identità individuale, sia per quella nazionale, in quanto collettività che ha una<br />

memoria storica.<br />

Il rischio di slittare verso il revisionismo, in un tentativo nostalgico di recuperare una<br />

memoria storica di grandezza o megalomania fascista rinvia ad un analogo rischio di<br />

incappare nell’egemonia marxista. In entrambe queste polarità, il “filtro” pregiudiziale si<br />

frappone in modo massiccio nello sbarrare la strada ad una visione plurilogica dei fatti.<br />

Durante il Risorgimento italiano, essere clericali equivaleva ad essere contrari all’unità<br />

d’Italia e all’identità italiana, in quanto lo Stato Pontificio, che possedeva il potere temporale<br />

e spirituale - il Pontefice era ed è un capo di stato - e deteneva il potere sul clero cattolico, era<br />

contrario alla formazione di uno stato italiano unitario e indipendente. L’anticlericalismo si è<br />

sviluppato in larga parte negli ambienti intellettuali che erano animati da spirito patriottico,<br />

anche se c’erano intellettuali di spicco, come Vincenzo Gioberti - l’abate teologo della corte<br />

di Torino che con abile retorica delineò una possibile consociazione di patriottismo e<br />

religione, confidando nel sorgere del mito neoguelfo - che prospettavano una visione<br />

federalista dell’unità d’Italia. Delineando una fondamentale corrispondenza fra il popolo<br />

italiano e il papato depositario dell’idea cattolica, Gioberti fece coincidere la grandezza<br />

d’Italia con la grandezza del papato: la sua decadenza derivava dall’essersi lasciata fuorviare<br />

dal pensiero acattolico della Francia. Secondo Gioberti, nel ristabilito accordo con l’idea<br />

cattolica, l’Italia avrebbe ritrovato il suo primato morale e civile e la missione nel mondo. Il<br />

quadro idilliaco di quel programma che venne battezzato “neoguelfo” prefigurava l’Italia in<br />

stretta confederazione attorno al papato e sotto la sua presidenza, un felice accordo fra<br />

aspirazioni di popoli e politica di principi, mediante istituzioni non parlamentari, ma<br />

semplicemente consultive, unione economica tra i diversi stati, riforme consone ai bisogni dei<br />

popoli secondo la tradizione settecentesca.<br />

Contro il neoguelfismo fu soprattutto la Toscana, la culla del neoghibellinismo, ossia<br />

di una ventata di acceso anticlericalismo democratico, che ebbe i suoi più forti esponenti in<br />

Francesco Domenico Guerrazzi e nel letterato e drammaturgo Giovambattista Niccolini<br />

(1782-1961), il quale nella sua tragedia Arnaldo da Brescia ritornava alla nota tesi del<br />

Machiavelli, e al papato liberale del Gioberti opponeva il cruento quadro di un papato piovra<br />

d’Italia. Più bonariamente, Giuseppe Giusti (1809-1820) canzonava l’ideale giobertiano e<br />

neoguelfo nella poesia Il papato di prete Pero.<br />

Meno anticlericale, ma democraticamente più proficua e profonda - a dispetto dello<br />

253


scarso numero di seguaci - era l’opposizione del gruppo radicale, che ebbe il suo massimo<br />

centro in Lombardia e i propri corifei in Carlo Cattaneo (1801-1869) e in Giuseppe Ferrari<br />

(1811-1876). Essi si opponevano al programma semplicemente riformista del partito<br />

moderato e volevano l’avvento della repubblica. Tuttavia, non accettavano l’unità voluta dal<br />

Mazzini: più democratici di quest’ultimo, essi asserivano la necessità di una repubblica<br />

federale, la quale non era la federazione di stati auspicata dai moderati, bensì un ordinamento<br />

costituzionale speciale, che lasciasse ampie possibilità di autogoverno ai comuni, alle<br />

province, alle regioni. Inoltre, se il Cattaneo poneva come ideale ultimo da raggiungere la<br />

costituzione degli Stati Uniti d’Europa, il Ferrari dava al proprio programma democratico un<br />

chiaro contenuto sociale, auspicando una rivoluzione socialista.<br />

Il rifiuto dell’eredità culturale del cristianesimo.<br />

L’equivalenza complessa, che metteva sullo stesso piano l’essere cattolici e l’essere<br />

contrari alla formazione di un’identità nazionale italiana e, viceversa, l’essere laici<br />

anticlericali e l’essere promotori di un’identità italiana, ha fatto scattare un “meccanismo” di<br />

rifiuto dell’eredità culturale del cristianesimo, ritenendola foriera di avversione verso lo stato<br />

nazionale unitario e verso la formazione di una coscienza e di una identità nazionale, in una<br />

sorta di competitività in cui erano in gioco un territorio da conquistare e il consenso degli<br />

italiani divisi da sbarramenti politici e culturali, nei vari stati e statarelli in cui era polverizzata<br />

la Penisola.<br />

Poiché il Papa deteneva il potere temporale, politico, sui suoi territori e in tutta Italia,<br />

attraverso le parrocchie e le diocesi, si è sviluppata una contrapposizione tra Chiesa e Stato,<br />

che era in realtà contrapposizione tra due Stati che si contendevano il controllo del territorio<br />

italiano. La competizione si configurò come avversione reciproca, in cui si fronteggiavano<br />

due culture sempre più contrapposte e distanti: quella laica e quella cattolica.<br />

In questa logica del “Chi non è con me, è contro di me”, si è radicata anche<br />

l’avversione per il “contenuto” - il cristianesimo - oltre che per il “contenitore”, ossia<br />

l’istituzione ecclesiastica in quanto organismo politico dotato di potere e di controllo. Questo<br />

tipo di potere si configurava come Stato etico che controllava la vita e le coscienze dei<br />

cittadini. La sua influenza politica era quindi totalizzante.<br />

Con la Rivoluzione francese del 1789 si è imposta l’idea della separazione tra potere<br />

politico e religioso, ma in Italia si è verificata un’“anomalia”, in quanto lo Stato Pontificio<br />

risiedeva all’interno del territorio italiano e, pertanto, era più difficile separare la realtà<br />

politica da quella religiosa. Si è pensato di agevolare questa separazione ricorrendo alla lotta<br />

254


politica e alle armi, fino alla presa di Porta Pia.<br />

Il governo italiano, quando a Parigi fu proclamata la decadenza dell’impero e sorse il<br />

nuovo regime repubblicano (4 settembre 1870), non si sentì più vincolato dalla convenzione<br />

di settembre e comunicò alle potenze <strong>eu</strong>ropee la sua intenzione di occupare Roma, garantendo<br />

la piena libertà spirituale del pontefice. In tale occasione Pio IX raccolse i tristi frutti della sua<br />

politica: dal 1869 era riunito il Concilio Vaticano per proclamare il dogma dell’infallibilità<br />

pontificia, e ciò aveva irritato le potenze cattoliche, spingendo la stessa Austria a rompere il<br />

concordato che la legava alla Santa Sede. Nessuna obiezione pertanto venne sollevata alla<br />

dichiarazione italiana e l’11 settembre, fallite le ultime trattative pacifiche col papa (una<br />

lettera personale di Vittorio Emanuele II aveva ricevuto da Pio IX un non meno intransigente<br />

non possumus), un corpo dell’esercito italiano, al comando del generale Raffaele Cadorna,<br />

varcò la frontiera pontificia. Il 20 giunse sotto le mura di Roma e aprì con le artiglierie una<br />

breccia presso Porta Pia; Pio IX, sentendo che ormai era inutile resistere e non volendo<br />

spargere altro sangue (si erano avuti 200 morti nelle truppe italiane e 69 in quelle pontificie),<br />

fece cessare la resistenza. Il Cadorna lasciò fuori dall’occupazione la Città Leonina, ma il<br />

Vaticano, preoccupato delle condizioni dell’ordine pubblico, ne chiese esso stesso<br />

l’occupazione. Mentre il papa si rinchiudeva nel Palazzo Vaticano, Roma con plebiscito del 2<br />

ottobre 1870 a stragrande maggioranza decideva di unirsi alla patria italiana. Nel luglio 1871<br />

il governo e la corte si trasferivano nella nuova capitale del Regno d’Italia.<br />

La cosiddetta “questione romana” non era però del tutto risolta; piuttosto, aveva<br />

mutato ora aspetto. Il Papa rinnovò i fulmini della scomunica che periodicamente lanciava<br />

contro la dinastia dei Savoia e il governo italiano fin da quando, nel 11860, le Marche e<br />

l’Umbria erano state unite all’Italia; l’aristocrazia romana, nella sua maggioranza, prese il<br />

lutto per l’oltraggio fatto alla Santa Sede e i cattolici fecero il divorzio dalla vita politica<br />

italiana, obbedendo al non expedit espresso dai supremi organi vaticani circa la loro<br />

partecipazione alle elezioni (1874). Si creava così una frattura tra il Regno d’Italia e i cattolici<br />

- per lo meno quelli attivi e militanti - che ne facevano parte. Però il tempo non avrebbe<br />

mancato, alla lunga, di colmare il fossato, grazie anche a quel “monumento di sapienza<br />

giuridica” (sono parole di Benedetto Croce), che il 13 maggio 1871 il Parlamento italiano<br />

elevò votando la cosiddetta legge delle guarentigie.<br />

Tale legge non solo garantì il libero esercizio al Papa della sua funzione di capo della<br />

Chiesa cattolica, riconoscendo l’extraterritorialità dei palazzi del Vaticano, del Laterano e<br />

della villa di Castel Gandolfo, resi pertanto immuni dalla giurisdizione dello stato italiano, ma<br />

fece trionfare il principio cavouriano della separazione tra Stato e Chiesa, con la rinuncia da<br />

255


parte del Regno d’Italia a tutti i privilegi giurisdizionali, che i precedenti sovrani avevano<br />

avuto, ad eccezione del placet (assenso statale alla nomina dei vescovi) e dell’exequatur<br />

(ratifica statale degli atti amministrativi ecclesiastici). Vennero infine riconosciuti gli onori<br />

sovrani al pontefice e sul bilancio dello Stato fu inscritta una dotazione annua, pari a quella<br />

che l’ex Stato Pontificio versava per il mantenimento della corte papale.<br />

La Santa Sede rifiutò di riconoscere la validità della legge delle guarentigie e, dopo la<br />

tempesta del 1870, nel mutato clima internazionale, incominciò a trovare benevolo ascolto<br />

alle sue proteste presso alcune potenze <strong>eu</strong>ropee. Ma il leale e scrupoloso mantenimento della<br />

legge, divenuta per il rifiuto papale atto unilaterale, da parte dei successivi governi italiani,<br />

impedì che questa nuova fase dell’annosa questione romana degenerasse in pericolo per<br />

l’unità d’Italia e creò le premesse attraverso le quali poté avvenire il lento svuotamento della<br />

questione stessa e la riconciliazione dei cattolici alla vita politica italiana.<br />

I fronti politico-militari che si erano creati per formare l’unità d’Italia conservarono<br />

tuttavia la separazione tra due culture: quella laica e quella cattolica, in cui spesso essere laici<br />

equivaleva ad essere contrari o ostili non tanto e non solo alla Chiesa come istituzione politica<br />

- il contenitore - ma anche al contenuto, il cristianesimo in quanto religione. In tal modo<br />

proprio quella struttura - contenitore - che si è impegnata a diffondere il cristianesimo in<br />

quanto religione, paradossalmente, ha favorito l’avversione verso il contenuto, la religione,<br />

bloccandone la conoscenza e l’accesso diretto. L’avversione verso il clero come istituzione<br />

politica gerarchizzata e come rappresentanza religiosa ha generato una sorta di “fobia” per la<br />

religione cristiana come insegnamento di Cristo e messaggio di salvezza. L’istituzione<br />

politico-temporale sembra aver spento o ucciso, per molti, l’originario invito della buona<br />

novella. Si è arrivati al rifiuto della religione e della cultura cristiana in quanto veicolate da<br />

una realtà politica in competizione con gli interessi dell’identità nazionale unitaria. Di qui la<br />

frattura tra le due Italie: quella dell’unità nazionale e quella della “conservazione”,<br />

frammentata in “regionalismi” e “localismi”. Ma mentre in Francia i giacobini e i realisti si<br />

sentivano comunque francesi, in Italia i veneti, i friulani e i trentini si sentivano austriaci, i<br />

napoletani erano borbonici ecc. a seconda di chi reggeva le sorti dello stato.<br />

Pur essendoci stati alcuni politici – pur essendo cattolici -che hanno lottato per la<br />

formazione di uno stato nazionale, la diffidenza verso l’eredità culturale cristiana trasmessa<br />

dal clero ha contrassegnato la concezione della “laicità dello stato”. La cultura del<br />

cristianesimo è stata in tal modo estromessa dalla concezione dello stato, nella separazione<br />

della Chiesa dallo Stato.<br />

Occorre tuttavia osservare che l’identità italiana non è incompatibile con il<br />

256


cristianesimo in quanto eredità culturale e nemmeno con l’identità regionale e locale<br />

emergente dalla dimensione collettiva in cui si è calati in loco; ma neppure con l’identità<br />

<strong>eu</strong>ropea che affonda le radici nella memoria e nella storia comune del popolo <strong>eu</strong>ropeo. Tutte<br />

queste identità rientrano “a pari merito” e contemporaneamente nel concetto di<br />

pluriappartenenza.<br />

Anche l’interpretazione della Bibbia - su cui si fonda la propria identità in quanto<br />

cristiani, per chi è credente in Cristo, ma anche per i laici che apprezzano la cultura del<br />

cristianesimo in quanto religione, e non in quanto istituzione politica e clericale - richiede<br />

buon senso e plurilogica, per non incorrere in pregiudizi fuorvianti. Ad esempio, Gesù<br />

propone la beatitudine: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli” (Mt 5, 3).<br />

I destinatari sono gli apostoli, cioè tutti coloro che hanno scelto di seguire Cristo e non<br />

semplicemente le folle. Per capire la proposta di Gesù, è necessario sperimentarla e viverla.<br />

Chi sono i poveri secondo il pensiero di Gesù? La povertà in spirito è una disposizione<br />

interiore, non necessariamente legata a una condizione sociale ed economica. È la coscienza<br />

del bisogno di Dio e dei suoi doni. Dopo la pesca miracolosa, Luca dice che gli apostoli<br />

lasciarono tutto e lo seguirono (Lc 5, 11). Così anche Matteo che era seduto sul banco delle<br />

imposte: “Egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì” (Lc 5, 28). Nel contesto evangelico si dice<br />

che la condizione necessaria per seguire Gesù è questa: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i<br />

suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 33). Certo, questo non vuol dire che<br />

dobbiamo buttare all’aria tutto quello che possediamo e ridurci in miseria. Gesù non ha mai<br />

disprezzato la ricchezza, ma ha denunciato i rischi deleteri che essa può avere,<br />

nell’attaccamento morboso che si manifesta in certi casi, come se fosse la fonte di tutte le<br />

proprie sicurezze.<br />

Povero in senso evangelico è colui che, illuminato dalla parola di Cristo, dà ai beni il<br />

loro giusto valore. Li apprezza, li stima, sa che sono un dono di Dio, ma non se ne appropria,<br />

capisce che non gli appartengono, si rende conto di essere solo un amministratore e li investe<br />

in conformità ai progetti del “titolare”. Tutto ha ricevuto in dono, tutto trasforma in dono. Il<br />

povero è colui che si fa simile al Padre che sta nei cieli il quale, pur possedendo tutto, è<br />

infinitamente povero perché non trattiene nulla per sé: è dono totale.<br />

La tematica del pregiudizio, talvolta invalicabile, che impone una visione laicistica<br />

della cultura, per cui tutto ciò che ha attinenza con il cristianesimo viene rifiutato anche sotto<br />

il profilo semplicemente culturale, sembra particolarmente attuale anche in vista<br />

dell’integrazione dell’Europa che, come ho più volte ribadito, non può essere solo “unione di<br />

mercati” e “contratti commerciali in comune”.<br />

257


Ci sono passaggi difficili, ma anche necessari per far crescere un partito, che non si<br />

arricchisce con gli yes men, ma semmai con chi vuole proporre ed indicare soluzioni<br />

alternative.<br />

Le Figaro del 30 luglio 2004 esaminava le qualità e i punti deboli dei candidati<br />

americani della Casa Bianca per le elezioni presidenziali del 2004, dicendo di John Kerry, il<br />

candidato democratico, che “il ne possède tout d’abord pas le charisme étonnant d’un Bill<br />

Clinton ou l’aura naturelle d’un John F. Kennedy. E dans un imaginaire politique américain<br />

qui préfère le caractère à l’intelligence, et la force de volonté a la compétence tecnique, Kerry<br />

apparaît souvent comme une caricature de un p<strong>eu</strong> coincé ». E Jeff Jacoby<br />

commenta crudelmente nel Boston Globe : « La verité, c’est que Kerry, le politicien de 60<br />

ans, est dépourvu de tout courage politique e c’est pour cette raison qu’il doit en emprunter<br />

tellment a Kerry le soldat de 25 ans ».<br />

L’immaginario politico americano preferisce il carattere all’intelligenza e la forza di<br />

volontà alla competenza tecnica. Il coraggio politico di cui il Kerry di 60 appare sprovvisto,<br />

secondo Jacoby, viene preso abbondantemente in prestito dal soldato di 25 anni, al Kerry che<br />

combatté in Vietnam.<br />

E, per quanto concerne l’Europa, il coraggio politico può esprimersi in una visione<br />

dell’Europa in cui la sua eredità storico-culturale viene riconosciuta e assunta nella sua<br />

essenza identitaria senza preclusioni laicistiche, pur conservando la separazione tra politica e<br />

religione. La cultura cristiana, focalizzata sulla centralità della persona, non va confusa né con<br />

l’istituzione ecclesiastica, né con il clericalismo, e nemmeno con un partito o una politica.<br />

Una Grande Famiglia ha anche un’identità, fondata su valori condivisi e radici<br />

storiche comuni. Una famiglia in cui si parlasse esclusivamente di profitti, investimenti, Pil e<br />

interessi commerciali sarebbe profondamente dissestata o disgregata in partenza, fin nelle<br />

premesse. La coesione istituzionale va rintracciata anche ad altri livelli, che coinvolgono<br />

valori, convinzioni, tradizioni, “miti familiari” ecc. e richiede una particolare attenzione verso<br />

queste componenti, per non costruire un grande castello sulla sabbia. Vediamo dunque come<br />

si è profilato “storicamente” il nuovo assetto dell’Europa del 2004 alla luce delle decisioni<br />

“cruciali” degli elettori.<br />

258


CAPITOLO VI<br />

DOVE STIAMO ANDANDO?<br />

IL FUTURO DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA<br />

Il sogno dell’Europa unita in una Grande Famiglia sembra svanito dopo il voto<br />

elettorale che ha chiamato alle urne il 12 e 13 giugno i 25 Paesi che includono anche 10<br />

nuovissimi componenti? Qualcuno sembra propendere per il sì. Tuttavia, possiamo fare<br />

alcune riflessioni, prendendo spunto dall’articolo che Livio Caputo, ex sottosegretario al<br />

Ministero degli Esteri, ha pubblicato su Il Gazzettino del 15 giugno 2004:<br />

La domanda è brutale, ma i risultati delle elezioni per il Parlamento <strong>eu</strong>ropeo la impongono.<br />

Quale può essere il futuro di un’Unione in cui la percentuale dei votanti per il suo unico organismo<br />

veramente rappresentativo è scesa, nella scia dell’allargamento a Est, al minimo storico del 44,2%<br />

(contro il 63% del 1979 e il 49,8% nel 1999) e in cui gli <strong>eu</strong>roscettici guadagnano quasi ovunque<br />

vistosamente terreno? Si dirà che, nonostante tutto, l’aula di Strasburgo continuerà a essere dominata<br />

dal Partito Popolare (279 seggi) e dal Partito Socialista (201), tradizionalmente favorevoli<br />

all’integrazione <strong>eu</strong>ropea, e che perciò il nuovo Parlamento nel suo insieme continuerà a spingere nella<br />

direzione di sempre. Ma ciò è vero fino a un certo punto.<br />

Nel PPE, per esempio, stanno acquistando forza partiti come i Conservatori britannici e le<br />

formazioni di centro-destra ceche e ungheresi, oggi all’opposizione, che di <strong>eu</strong>ropeista hanno ben poco<br />

e che non mancheranno perciò di contrastare la spinta dei tedeschi, dei francesi e degli italiani.<br />

La verità è che in Europa una grande massa di cittadini, pur dando in genere per acquisito<br />

quanto l’Unione ha fatto per loro, considera con diffidenza un suo ulteriore “approfondimento”, specie<br />

quando contrasta con i suoi interessi particolari e prevede nuove cessioni di poteri di sovranità a quella<br />

che è chiamata una burocrazia senza volto.<br />

Si dice anche che nella maggioranza dei Paesi gli elettori che sono andati alle urne non si<br />

sono, in realtà, espressi contro l’“unione sempre più stretta” e “l’Europa che parla con una voce” sola<br />

previste dalla cosiddetta bozza Giscard, ma hanno semplicemente approfittato dell’occasione per<br />

esprimere la loro insoddisfazione per l’operato dei governi in carica. Questo è vero nella Francia<br />

chiracchiana come nella Germania rosso-verde, nella Gran Bretagna laburista come nel Portogallo<br />

259


socialdemocratico, nell’Olanda conservatrice come nella Repubblica Ceca socialista, nell’Ungheria<br />

del nuovo centro-sinistra come (anche se in misura minore che altrove) nell’Italia della Casa delle<br />

Libertà. Uniche eccezioni, la Spagna socialista e la Grecia conservatrice, dove i governi eletti da poco<br />

godono ancora della tradizionale luna di miele. Il guaio è che, tra pochi giorni, toccherà proprio a<br />

questi governi “bastonati” dagli elettori ritentare il varo della nuova Costituzione fallito nel dicembre<br />

scorso a Bruxelles, con tutti i nuovi condizionamenti che il voto ha creato. Come potrà per esempio<br />

Tony Blair sfidare la sua opinione pubblica e apporre la firma a un documento che preveda<br />

l’abolizione del voto all’unanimità su politica estera, politica fiscale e politica sociale? Come potranno<br />

i governi dei nuovi Paesi membri dell’Europa dell’Est accettare ulteriori trasferimenti di sovranità a<br />

Bruxelles, quando i loro cittadini contestano perfino quelli già avvenuti? In ogni caso, è improbabile<br />

che, in almeno una decina di Paesi, una Costituzione forte, come la vogliono gli <strong>eu</strong>ropei, riuscirebbe a<br />

passare il test dei referendum; e, a meno di non cambiare le regole in corsa, essa dovrà essere ratificata<br />

da tutti i 25 prima di entrare in vigore.<br />

I Capi di Stato e di governo che stanno per riunirsi si troveranno perciò in una situazione<br />

particolarmente difficile. O si rassegneranno ad approvare un documento “al ribasso”, pieno di toppe e<br />

di compromessi, quale la presidenza italiana si rifiutò di avallare, o rinvieranno il problema di altri sei<br />

mesi rischiando di perdere il treno, o in un sussulto di orgoglio <strong>eu</strong>ropeista lanceranno una sfida alle<br />

rispettive opinioni pubbliche, cercando di imporre ancora una volta dall’alto - come fu fatto per il<br />

Mercato Unico e per Maastricht - un decisivo passo avanti sulla via dell’integrazione. Ma stavolta la<br />

scommessa potrebbe anche fallire.<br />

Oltre a decidere sulla Costituzione, il Consiglio Europeo dovrebbe anche designare il<br />

successore di Romano Prodi alla presidenza della Commissione. Sia per la (non scritta) legge<br />

dell’alternanza, sia in considerazione della vittoria dei Popolari, dovrebbe essere un uomo di centro-<br />

destra. Ma, con l’eccezione del democristiano lussemburghese Juncker, tutti i candidati più quotati<br />

sono usciti male dalle elezioni, rafforzando i veti incrociati e complicando ulteriormente i giochi.<br />

Un’altra conseguenza negativa di questa tornata elettorale è di ridare fiato a coloro che<br />

considerano l’allargamento non la tanto sognata riunificazione del continente, ma un ostacolo alla<br />

creazione di una Unione veramente coesa e capace di trasformarsi, con il tempo, in un gigante politico.<br />

Il fatto che, con l’eccezione di Cipro e di Malta, nei nuovi Paesi membri tre elettori su quattro se ne<br />

siano rimasti a casa significa che l’Unione è, nel migliore dei casi, poco sentita, e nel peggiore vista<br />

con ostilità. Purtroppo, specie con tutte le clausole di salvaguardia inserite nei trattati di adesione,<br />

passerà molto tempo prima che questi sentimenti negativi possano modificarsi e che i Quindici e i<br />

Dieci si sentano a loro agio sotto lo stesso tetto.<br />

Un ulteriore approfondimento dell’Unione Europea sembra essere considerato con<br />

diffidenza da chi considera una minaccia ai propri interessi nuove cessioni di poteri di<br />

260


sovranità a quella che viene identificata come una “burocrazia senza volto”. Tuttavia, la<br />

Grande Famiglia può anche offrire molte tutele, che i nuovi Paesi appena entrati nell’Unione<br />

non hanno ancora avuto la possibilità di verificare, e consolidare nella propria esperienza i<br />

benefici di una “Unione più stretta”. Passerà ancora molto tempo, come prefigura Caputo,<br />

prima che i sentimenti negativi degli elettori dei nuovi Paesi membri, che sono rimasti a casa<br />

in tre su quattro, possano modificarsi e che i Quindici e i Dieci si sentano a loro agio sotto lo<br />

stesso tetto?<br />

Costruire la cultura <strong>eu</strong>ropea<br />

Per condurre le persone in organizzazioni dotate di senso, in grado cioè di attraversare<br />

il percorso individuato o di sfruttare appieno le opportunità presenti, secondo la formulazione<br />

di Nicholls, bisogna definire la visione dell’organizzazione, la sua missione, il suo percorso o<br />

strategia e la sua struttura. In altre parole, come ho accennato in precedenza, per costruire la<br />

cultura, bisogna rispondere a questioni come: cosa fa questa organizzazione? Qual è il mio<br />

posto in essa? Come verrà valutato e giudicato? Che cosa ci si attende da me? Per quali<br />

ragioni dovrei dare il mio impegno?<br />

Per definire la visione e missione, si risponde alle domande: cosa fa l’organizzazione e<br />

per quali ragioni dovrei dare il mio impegno individuale?<br />

Per definire percorso e struttura, si risponde alle altre domande: qual è il mio posto in<br />

essa? Che cosa essa si attende da me? Come verrò valutato e giudicato?<br />

Per ottenere la condizione desiderata in rapporto alla missione del gruppo, in certi<br />

particolari ambienti e culture, può essere necessario predisporre percorsi o “punti di tensione”<br />

multipli, in relazione alla condizione attuale in cui quegli ambienti e quelle culture si trovano.<br />

Occorre tener presente che l’espressione della missione del gruppo in un dato<br />

ambiente seguirà un percorso particolare, in un contesto culturale specifico. In altri termini,<br />

per acquisire la condizione desiderata in Polonia, piuttosto che in Italia, potrebbe essere<br />

necessario introdurre modifiche in concetti di “profitto”, “pianificazione”, “competenza<br />

transculturale” ecc.<br />

Inoltre, è necessario ricorrere, in contesti diversi, a sistemi di capacità e di azioni<br />

diverse per realizzare un identico valore distintivo. Negli USA, ad esempio, le capacità<br />

“pubblicitarie” e di “pubbliche relazioni” sono più importanti di quella di “pianificazione”,<br />

rispetto ad altri continenti.<br />

Ambienti e culture diverse richiederanno tendenzialmente percorsi diversi, per cui<br />

occorrerà rafforzare o sviluppare valori, capacità e/o azioni diversi per raggiungere gli<br />

261


obiettivi.<br />

La costruzione della cultura, come ho già esposto in altra sede, esige una risposta alle<br />

seguenti fondamentali questioni: quale è la visione più ampia che l’organizzazione sta<br />

perseguendo?; qual è la missione in rapporto alla visione e alla comunità di cui intende servire<br />

i bisogni?; quali sono il percorso e la strategia che l’organizzazione intende seguire per<br />

perseguire la propria missione?; qual è la sua struttura in termini di compiti fondamentali e<br />

relazioni necessarie per realizzare la propria strategia? Solo dopo aver raggiunto un consenso<br />

comune su queste domande si può cominciare a fare passi concreti.<br />

Per creare un mondo al quale le persone vogliano appartenere ci vuole la capacità di<br />

individuare i percorsi da seguire per raggiungere la visione che ci siamo prospettati e per<br />

creare strutture organizzative in grado di supportare il cammino lungo questi percorsi. Per<br />

stabilire i percorsi e la cultura in grado di creare quell’organizzazione dotata di senso capace<br />

di realizzare una visione organizzativa condivisa, occorrono le abilità di leadership cosiddette<br />

di tipo “macro”.<br />

Allora, come possiamo predisporre il terreno in modo che i Quindici e i Dieci nuovi<br />

componenti della Famiglia Europea si sentano a loro agio nella loro Casa?<br />

La risposta è tutt’altro che semplice, ma sostenere che ciò dipende dalla politica<br />

culturale, sociale e scolastica, anziché dall’insistenza sul PIL e sulla politica economica, mi<br />

sembra doveroso, per poter entrare nel nocciolo della questione. Lo smantellamento dei<br />

pregiudizi che dividono i componenti della Grande Famiglia Allargata mi sembra il tema<br />

centrale da trattare in proposito.<br />

Gli entusiasmi nell’ex cortina di ferro sembrano essersi spenti da tempo. Se l’adesione<br />

alla NATO ha segnato la fine di un’epoca di sofferenze, quella all’Unione Europea è stata<br />

solo la successiva logica conseguenza. “Mica possiamo essere nuovamente risucchiati verso<br />

Est, verso l’Asia”, è il ritornello più popolare da Tallinn a Budapest.<br />

L’entrata nell’UE è stata, quindi, più per convenienza politico-economica che per reale<br />

convinzione di costruire una “grande Europa” dei diritti, dei valori, dei popoli? Con<br />

ragionevole probabilità, i nuovi Dieci Paesi che sono entrati nella Grande Famiglia Europea<br />

non sono stati adeguatamente preparati da una politica”educativa”.<br />

Lo storico debito verso questa sfortunata gente è stato colmato il primo maggio 2004<br />

ma adesso viene il difficile: lavorare con loro a contatto di gomito e farli crescere nell’ideale<br />

<strong>eu</strong>ropeo. Occorre trasmettere loro dialogo e scambi culturali, desiderio e volontà di sentirli<br />

radicati e appartenenti alla nuova Casa Europea, e non “inquilini” di un condominio in cui<br />

nessuno si conosce e tutti si fanno i fatti loro.<br />

262


La formazione dello “spirito <strong>eu</strong>ropeo”<br />

L’esperienza di integrazione dei tedeschi dell’Est post caduta Muro di Berlino<br />

dovrebbe aver pur insegnato qualcosa. Ed invece, si ha la sensazione che - malgrado i lunghi<br />

negoziati, trattative e quant’altro - la conoscenza della realtà socio-psicologica dei nuovi Dieci<br />

membri abbia non poche lacune. Lo stesso vale per i politici continentali che non si rendono<br />

conto di quanto sia rischioso proporre l’approvazione tramite referendum della nascente<br />

Eurocostituzione, prima che i nuovi fratelli si sentano “a casa loro”.<br />

I dati di affluenza alle urne nel week-end (Slovacchia 17%; Polonia 20%; Lituania<br />

24%; Estonia 26%; Repubblica Ceca 29%) rispecchiano situazioni note già dalle<br />

consultazioni di adesione all’UE nel 2003. Allora i vari legislatori locali si inventarono le<br />

regole più strane per garantirsi da spiacevoli sorprese, eliminando, in alcuni casi, persino il<br />

quorum. Due sembrano essere le ragioni: ad Est lo scollamento tra la società civile e la<br />

politica è netto e dura dagli anni dell’instaurazione del comunismo; la gente sembra non avere<br />

assolutamente capito il ruolo del Parlamento <strong>eu</strong>ropeo e come funziona la complessa macchina<br />

burocratica di Bruxelles.<br />

In questa realtà il grido degli <strong>eu</strong>roscettici polacchi: “No ad un’altra Unione come<br />

l’URSS” diventa tremendamente efficace. Anche perché l’UE ha posto condizioni<br />

impegnative ai Dieci. Per molti, soprattutto fra le classi lavoratrici, essere parte dell’Unione<br />

significa nel prossimo futuro tirare essenzialmente la cinghia e fare ulteriori sacrifici. Ecco, in<br />

sintesi, quale può essere un’altra delle ragioni della vittoria degli <strong>eu</strong>roscettici e delle nette<br />

sconfitte dei governi, che hanno gestito l’adesione all’UE.<br />

Un caso a parte è la “grande malata”, la Polonia, il quinto Paese più influente dell’UE,<br />

che il 13 giugno doveva eleggere ben 54 deputati. Il 2 maggio il premier Miller si è dimesso.<br />

Il primo ministro incaricato Marek Belka è stato bocciato già una volta alla Dieta e si<br />

ripresenterà per la fiducia il 24 giugno. Spaventosa alle <strong>eu</strong>roelezioni è stata la sconfitta dei<br />

partiti di governo con una imperiosa avanzata degli <strong>eu</strong>roscettici e dei conservatori, ma con il<br />

contenimento del partito xenofobo “Samoborona” che ha ottenuto il 13% contro il 25% delle<br />

preferenze di voto nei sondaggi del mese di maggio. Varsavia sembra di primo acchito una<br />

mina sulla strada dell’Eurocostituzione. Non può fare ulteriori concessioni. “O Trattato Nizza<br />

o morte” è lo slogan corrente.<br />

D’altro lato, il regresso del partito di Haider in Austria, malgrado la svolta a destra<br />

dell’Europa, sembra indicare che gli estremismi xenofobi hanno lasciato il posto ad<br />

orientamenti più accorti e strategicamente più efficaci.<br />

La matematica non si trasferisce mai in fotocopia nella politica; ma i numeri<br />

263


significano pur sempre qualcosa, se non altro in termini di tendenza, e ignorarli sarebbe<br />

miope. Ma al di là dei numeri, dello scarso coinvolgimento nel destino dell’Europa, come se<br />

fosse un’entità a sé stante che si vuole tenere lontana dalla quotidianità del vivere, o come se<br />

costituisse un ostacolo alle proprie realizzazioni, c’è il problema della formazione dello<br />

“spirito <strong>eu</strong>ropeo”, che non si ottiene spingendo gli elettori a votare, bensì costituendo lo<br />

“spirito di gruppo” e risvegliando il bisogno di radicamento e di appartenenza nella nuova<br />

Casa Europea.<br />

Gli astenuti sono infatti risultati il vero vincitore delle elezioni: le urne sono state<br />

disertate dal 55% degli <strong>eu</strong>ropei, con il peggiore risultato nella storia dell’Assemblea di<br />

Strasburgo dal 1979 (prima tornata elettorale). A deludere sono stati soprattutto i Dieci nuovi<br />

stati membri, che - ad eccezione di Cipro e Malta - hanno nettamente steccato la prima uscita,<br />

con una media di votanti del 26,7% che ha gelato entusiasmi ed aspettative generate<br />

dall’altissima partecipazione ai referendum per l’adesione all’UE. Tra i nuovi Paesi spicca in<br />

negativo il dato della Polonia (il più grande tra i Dieci, con circa 40 milioni di abitanti), dove<br />

ha votato appena il 20%. Nei Quindici Paesi della “vecchia UE” le cose sono andate un po’<br />

meglio, e la media dei votanti si è attestata al 49,1% (poco lontana dal 49,8% del 1999), con<br />

picchi del 90,8% in Belgio (dove si è votato però anche per le regionali), del 90% in<br />

Lussemburgo (dove si sono svolte anche le politiche) e del 73,5% in Italia. Preoccupanti<br />

invece il 43% di Francia e Germania e il 38,9% della Gran Bretagna.<br />

Sulle elezioni italiane, soprattutto amministrative, contemporanee a quelle <strong>eu</strong>ropee del<br />

2004, è stato detto che la lezione vera di questo voto è che le rendite di posizione non pagano,<br />

e che le vittorie non arrivano per investiture dall’alto, ma si devono conquistare sul campo.<br />

Sudandosele tutte, e non solo nel giorno delle elezioni, ma anche e soprattutto durante gli anni<br />

di legislatura. Altrimenti, su quel campo non resta che contare i caduti.<br />

Riguardo all’Europa allargata ad Est si può dire che è mancato il “lavoro sudato” di<br />

assorbimento nella nuova entità, arando il terreno culturale e sociale non tanto con una<br />

campagna propagandistica dell’ultima ora, quanto con un attivo coinvolgimento emozionale e<br />

una disseminazione di valori condivisi e radici comuni.<br />

Il risultato elettorale in Gran Bretagna<br />

Il giornalista Caprarica, presentando al telegiornale le prime proiezioni dei risultati<br />

elettorali, ha definito “guastatori” i nuovi rappresentanti del Partito dell’Indipendenza del<br />

Regno Unito, che si insedieranno a Bruxelles.<br />

Il Labour party di Tony Blair scivola addirittura al terzo posto, battuto nelle<br />

264


contemporanee elezioni locali sia dai conservatori sia dai liberali e “finito” nel conteggio<br />

<strong>eu</strong>ropeo dalla “esplosione” del partito della protesta, l’inedito UKIP, ovvero Partito<br />

dell’Indipendenza del Regno Unito, propagatore del più diretto messaggio anti<strong>eu</strong>ropeo.<br />

Prima la batosta alle elezioni amministrative, con il partito finito dietro anche i liberal-<br />

democratici, poi la seconda legnata delle <strong>eu</strong>ropee con i laburisti in calo di 5 punti - quattro in<br />

meno dei conservatori - e con gli indipendentisti dell’UKIP al terzo posto dopo aver superato<br />

i liberal-democratici. Non una sconfitta come alle amministrative, ma un duro segno di<br />

sfiducia ed un ammonimento al premier che ha sempre immaginato la Gran Bretagna come<br />

uno dei perni centrali del sistema politico <strong>eu</strong>ropeo mentre, per la prima volta dalla sua<br />

elezione, si trova con la maggioranza dell’opinione pubblica <strong>eu</strong>roscettica.<br />

La consistenza del pericolo ha fatto scendere in campo i big del partito e del governo.<br />

Una sorta di operazione preventiva e protettiva prima che si scatenasse una possibile gara al<br />

“Blair deve lasciare”. Anche il Cancelliere dello scacchiere Gordon Brown ha fatto sentire<br />

con calore la sua voce in difesa di un premier che per ora rappresenta ancora la miglior carta<br />

che il partito possa giocare per conquistare un terzo mandato popolare.<br />

L’onda di <strong>eu</strong>roscetticismo ha ritrovato slancio e motivazioni che, per la verità, non<br />

erano mai venute del tutto meno, a cominciare dalla repulsione verso l’<strong>eu</strong>ro e verso tutto<br />

quello che sa di <strong>eu</strong>roburocratico. Temi che ora i 12 parlamentari <strong>eu</strong>ropei dell’UKIP hanno<br />

promesso di rilanciare e di riportare al centro del dibattito politico, spiazzando i conservatori<br />

che avevano trovato un equilibrio interno sotto la leadership di Michael Howard, legato ad<br />

una politica non aggressiva dopo anni di lacerazioni su Europa sì o Europa no. Una bandiera<br />

di lotta alzata per tanto tempo da Margareth Thatcher ed ora passata nelle mani del giovane<br />

partito indipendentista, che proprio il 14 giugno 2004 ha annunciato che si organizzerà per<br />

diventare un movimento di massa.<br />

“Per piacere, ora non chiamateci più ‘altri’”, ha infatti detto, sull’onda del suo<br />

successo, Roger Knapman, il leader del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP),<br />

che non può essere più relegato nella generica categoria che raggruppa tutti i partiti minori<br />

britannici. Dal giorno delle elezioni <strong>eu</strong>ropee in Gran Bretagna, l’UKIP è la terza forza politica<br />

britannica rappresentata nell’<strong>eu</strong>roparlamento, dopo una cavalcata che ha dato agli <strong>eu</strong>roscettici<br />

una vera roccaforte a Bruxelles con ben 12 seggi rispetto ai 3 ottenuti nel 1999. L’obiettivo di<br />

Knapman è chiaro: “Vogliamo ridare ai britannici il loro Paese”, ha dichiarato il leader<br />

durante una conferenza stampa tenuta a Londra. E poi, in vista del summit dei paesi UE sulla<br />

Costituzione, il partito ha presentato un poster con un messaggio a Blair: “Non firmare la<br />

costituzione, Tony. La Gran Bretagna dice No”.<br />

265


Fondato nel 1993 alla London School of Economics da alcuni membri della lega anti-<br />

federalista, l’UKIP ha scavalcato i liberal-democratici con il 16,1% delle preferenze contro il<br />

14,9%. Un vero terremoto politico che ha visto inoltre rafforzarsi altri partiti minori come il<br />

British National Party (BNP, estrema destra) che ha raccolto oltre 800mila voti (4,9%) e il<br />

“Respect-The Unity Coalition” del deputato ex laburista George Galloway, cacciato dal<br />

Partito per aver sostenuto Saddam Hussein, che è arrivato all’1,5%.<br />

Solo un inglese su quattro se l’è sentita, dunque, stavolta, di votare per il partito di<br />

Tony Blair. Colpa dell’Iraq? In buona parte, senza dubbio: il ruolo del premier è stato molto<br />

diverso, più attivo e più “esposto” di quello dei governanti <strong>eu</strong>ropei che hanno appoggiato<br />

l’America in Iraq per lealtà di alleati o per vecchia gratitudine, dopo averle dato buoni<br />

consigli in genere non accolti. È dunque l’“antiamericanismo” il motore degli <strong>eu</strong>ropei? Non lo<br />

è, e lo dimostra il risultato parallelo della Germania. Al contrario del premier laburista, il<br />

cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröeder aveva capeggiato fin dall’inizio il “fronte<br />

del no”, affrontando la rottura con Washington, cavalcando le inquietudini dei pacifisti e i<br />

sussulti di orgoglio nazionale ed <strong>eu</strong>ropeo. Era riuscito con questo a salvarsi in extremis nelle<br />

elezioni nel 2002, per una manciata di voti. Ma ha continuato a governare come prima e<br />

adesso gli è stato recapitato il conto: poco più del 21%, il minimo nella storia centenaria della<br />

SPD, meno della metà dell’opposizione democristiana. Una catastrofe pari o addirittura<br />

superiore a quella della Gran Bretagna. Londra e Parigi si guardano costernate a vicenda.<br />

Il risultato elettorale in Germania<br />

Gerhard Schröeder ha firmato domenica 12 giugno 2004 la peggiore disfatta elettorale<br />

nella storia della SPD, ma sa di non avere alternative alle riforme e il 14 giugno ha giurato<br />

che il governo non cambierà rotta. E un portavoce governativo ha smentito ogni ipotesi di<br />

rimpasto. Per l’opposizione il Cancelliere è arrivato al capolinea e in mancanza della fiducia<br />

degli elettori la cosa migliore che potrebbe fare sarebbe dimettersi.<br />

Una caduta così nella polvere non se l’aspettava nessuno tra i social-democratici: alle<br />

<strong>eu</strong>ropee la SPD ha perso oltre nove punti arrivando a meno della metà dei voti della CDU-<br />

CSU, e alle regionali in Turingia è arrivata a un terzo della CDU che pure ha perso otto punti.<br />

Il verdetto elettorale suona: 21,5% alle <strong>eu</strong>ropee per la SPD, contro il 30,7% del ’99, e 44,5%<br />

per la CDU-CSU (48,7% nel ’99). In Turingia la SPD scivola al 14,5% (18,5%) contro il 43%<br />

della CDU (51%), che nonostante il calo difende la maggioranza assoluta in seggi al<br />

parlamento regionale e può quindi continuare a governare da sola. Per i rapporti di forza a<br />

livello federale, la situazione al Bundesrat, la camera alta delle regioni, resta invariata: la<br />

266


maggioranza ce l’ha sempre l’opposizione e il governo rosso-verde ha bisogno del suo placet<br />

per far passare le sue leggi.<br />

Il 14 giugno 2004 tutti i partiti si sono riuniti per esaminare il voto, e i giornali<br />

commentano senza fronzoli la inequivocabile debacle SPD. Il “Crepuscolo del Cancelliere”,<br />

commenta la Frankfurter Allgemeine Zeitung, mentre per la Suedd<strong>eu</strong>tsche Zeitung Schröeder<br />

è diventato un’ipoteca per il partito: qualsiasi cosa faccia agli elettori non va giù, e la SPD è<br />

diventata il Partito del Capro Espiatorio della Germania.<br />

La sconfitta è amara ma il governo non farà marcia indietro sulla strada delle riforme<br />

del welfare, ha annunciato Schröeder. “Posso e voglio portare avanti solo questa politica”, ha<br />

detto ribadendo ancora una volta di far dipendere la sua sorte politica dal successo<br />

dell’Agenda 2010. Dello stesso tenore le dichiarazioni del neoleader SPD Franz<br />

Muentefering, succeduto a Schröeder tre mesi prima nel tentativo di arginare la frana di<br />

consensi nel partito. “Muente”, com’è soprannominato, si è mostrato tetro in volto a una<br />

conferenza stampa e ha dato fondo a tutto il repertorio lessicale per descrivere la disfatta: da<br />

disastro a tramonto, passando per una divagazione calcistica ispirata dalla partita Francia-<br />

Inghilterra.<br />

Per l’opposizione CDU-CSU, Schröeder ha perso la sua base elettorale e la cosa<br />

migliore sarebbe che si dimettesse. Per il premier bavarese Edmund Stoiber, la SPD dovrebbe<br />

chiedersi se vuole, e può, ancora continuare a governare. La leader della CDU, Angela<br />

Merkel, ha parlato di “disastro” per Schröeder, ma ha detto anche di non credere che la<br />

legislatura finirà prima del previsto nel 2006. Per elezioni anticipate si è detto invece<br />

apertamente il leader liberale Guido Westerewelle, la cui FDP ha vinto il 6,1% alle <strong>eu</strong>ropee<br />

(rimettendo piede dopo dieci anni a Strasburgo), tanto quanto i post-comunisti della PDS.<br />

I Verdi invece, al governo con la SPD, da un lato esultano per la loro vittoria (un salto<br />

dal 6,4% all’11,9% alle <strong>eu</strong>ropee), e dall’altra piangono per la sconfitta dell’alleato: i principali<br />

esponenti hanno usato il guanto di velluto col partner umiliato e promesso la loro solidarietà<br />

sulla via delle riforme.<br />

Il risultato elettorale in Francia<br />

In Francia Jean-Pierre Raffarin è muto come un pesce. In compenso il traballante<br />

primo ministro - ancora una volta bistrattato dalle urne - ha dato fiato alle trombe per la<br />

clamorosa vittoria dei “bl<strong>eu</strong>” sugli inglesi agli <strong>eu</strong>ropei di calcio. Ed è polemica.<br />

“E’ una cinica forma di disprezzo nei confronti degli elettori il commento sulla<br />

nazionale e il silenzio sul risultato delle urne”, tuona il leader socialista François Hollande, al<br />

267


settimo cielo perché grazie al 28,89% dei voti il suo PS è di nuovo “il primo partito di<br />

Francia” e capeggia un’opposizione di sinistra ridiventata maggioranza.<br />

“L’assordante silenzio” di Raffarin sulle <strong>eu</strong>ropee si spiega ovviamente con il<br />

disastroso risultato dell’UMP. Che delusione per il presidente Jacques Chirac: ha fondato due<br />

anni fa quel partito (sulle ceneri dell’RPR gollista) con l’ambizione di farne la casa comune di<br />

tutto il fronte moderato e si ritrova adesso con una formazione che ha sì la maggioranza<br />

assoluta in parlamento ma alle <strong>eu</strong>ropee ha incamerato appena il 16,63% dei suffragi. Meglio<br />

dunque glissare sul responso delle urne, meglio mandare invece un bel telegramma ai<br />

fuoriclasse francesi del pallone, con “calorose congratulazioni” soprattutto per Zidane e<br />

Barthez “protagonisti di due imprese decisive”: così Raffarin può sentirsi più in sintonia con i<br />

connazionali che in quantità industriale (57,2%) hanno boicottato i seggi ma non la super-<br />

partita in tv contro l’Inghilterra.<br />

La strategia è chiara: il premer vuole “guardare avanti” archiviando - come qualcosa<br />

che non lo tocca - la sonora disfatta della domenica elettorale, un bis del rovescio già sofferto<br />

alle regionali di marzo. In fondo il dribbling è possibile perché da qui alle presidenziali e<br />

legislative del 2007 non ci sono altri scomodi incontri ravvicinati con gli elettori.<br />

Un sondaggio realizzato in concomitanza con le <strong>eu</strong>ropee ha indicato che il 51% dei<br />

francesi vorrebbe un nuovo primo ministro ma nemmeno dopo l’<strong>eu</strong>ro-batosta Chirac sembra<br />

disposto a cacciare l’impopolare Raffarin. Secondo alcuni commentatori politici, la ragione è<br />

semplice: non ha un ricambio valido sotto mano. Il fido Dominique de Villepin? Prima deve<br />

“crescere” come ministro degli Interni. Il delfino Alain Juppé? È spacciato a causa dei guai<br />

con la giustizia per un filone della “tangentopoli sulla Senna”. L’unico ingombrante cavallo di<br />

razza che scalpita nel centrodestra - il superministro dell’Economia Nicolas Sarkozy - non è<br />

proponibile perché si sa che ha un solo obiettivo: vuole la poltrona di presidente e Chirac non<br />

si fida di qualcuno intento soprattutto a manovrare per fargli le scarpe.<br />

Raffarin appare quindi “condannato” a restare nel prevedibile futuro a Palazzo<br />

Matignon, con ogni probabilità alla guida di una compagine ancora una volta rimpastata, forse<br />

con una più forte presenza di vip dell’UDF, il partito centrista che con il cattolico François<br />

Bayrou al timone è salito la domenica delle elezioni all’11,94%. Juppé, presidente uscente<br />

dell’UMP, sempre secondo alcuni commentatori politici, punta adesso proprio a questo:<br />

riagganciare il frondista Bayrou, allettarlo con poltrone ministeriali, convincerlo che soltanto<br />

riorganizzandosi e ricompattandosi il centrodestra potrà resistere alla spettacolare rimonta di<br />

una “gauche” balzata in testa con il 42,88% dei voti contro il 37,98 dello schieramento<br />

moderato.<br />

268


Uno sguardo al risultato elettorale in Europa<br />

Quando Blair e Schröeder guardano Chirac, dunque, non vi trovano consolazione. Poi<br />

guardano Roma, la capitale della “anomalia” e provano, forse per la prima volta, un po’ di<br />

invidia. Per non parlare dei nuovi arrivati: dei governi socialisti di Polonia, Repubblica Ceca,<br />

Ungheria. Altrettante disfatte storiche, in minima parte dovute al coinvolgimento marginale<br />

nella vicenda irachena: li ha condannati lo stato dell’economia, aggiunto alle inquietudini del<br />

cambiamento di status in Europa. In proporzioni non ancora note con altrettanta precisione,<br />

fenomeni analoghi si sono delineati nei paesi baltici. Per quanto riguarda la Spagna, “orfano”<br />

di Aznar, il Partido Popular ha dato qualche segno di ripresa dopo la batosta di marzo<br />

innescata dalla strage di Al Qaida. I socialisti subentratigli hanno mantenuto le posizioni: il<br />

malumore degli spagnoli si era già sfogato. È toccato semmai ai portoghesi con una rimonta<br />

protestataria della sinistra. Perfino i belgi hanno trovato l’occasione per protestare,<br />

convogliando, come i lontani parenti nell’ex Est il proprio malumore su liste nazional-<br />

populiste di estrema destra. Gli effetti di tutti questi spostamenti, proprio per la loro<br />

eterogeneità, si sono poi in buona parte compensati a vicenda, per cui il volto del nuovo<br />

Parlamento <strong>eu</strong>ropeo assomiglierà molto a quello del vecchio: la leadership rimarrà al<br />

centrodestra guidato dal PPE. In un’Europa superficialmente scombussolata, le istituzioni per<br />

il momento tengono; e in qualche caso anche le radici. A smentita della favola circa le<br />

instabilità dell’Italia “anomala”.<br />

In tutti i Paesi <strong>eu</strong>ropei i governi perdono e le opposizioni vincono. In Italia le<br />

opposizioni rosicchiano qualcosa e il governo tiene, malgrado la ragionevole flessione: una<br />

flessione prevista e prevedibile che colpisce senza pietà il partito del premier alle elezioni di<br />

metà termine, come sanno perfettamente gli americani nel cui Paese di norma il Presidente e il<br />

suo partito perdono questo test elettorale, cosa considerata fisiologica e per la quale nessuno<br />

si suicida o canta troppo vittoria. Controprova: tutti i partiti di governo <strong>eu</strong>ropei, dalla destra di<br />

Chirac alle sinistre di Blair e di Schröeder (e dunque senza alcuna distinzione fra chi ha<br />

partecipato e chi si è opposto alla guerra in Iraq) prendono delle mazzate che in Italia nessun<br />

partito di governo ha ricevuto.<br />

Un dato emergente dalle elezioni <strong>eu</strong>ropee che va evidenziato, indipendentemente dallo<br />

schieramento di partito, è che raddoppia la pattuglia delle donne a Strasburgo: sono 17 le<br />

donne elette, mentre nel ’99 furono 10 su 87 parlamentari italiani, cioè l’11,5%. Stavolta sono<br />

il 20,5%: 17 su 78.<br />

Il dialogo interno fa bene al governo. “E per capire questo metodo essenzialmente<br />

democratico si è attesa una sconfitta!”. È quanto sottolinea L’Osservatore romano,<br />

269


commentando l’esito delle elezioni e, in particolare, una dichiarazione del ministro<br />

Giovanardi - riportata da “Il Gazzettino” del 16 giugno 2004 -, per il quale appunto “la<br />

maggioranza si metterà attorno a un tavolo e discuterà di tutto, compreso della squadra di<br />

governo: parlare pacatamente è sempre utile alla coalizione”. Quanto all’esito del voto, per il<br />

quotidiano vaticano “mentre i seggi conquistati per l’<strong>eu</strong>roparlamento confermano il<br />

sostanziale equilibrio tra gli schieramenti, nel primo turno delle amministrative risulta una<br />

netta affermazione del centrosinistra”.<br />

Per quanto concerne le elezioni amministrative, Giustina Destro, di centrodestra,<br />

sindaco uscente di Padova (Veneto), in un’intervista pubblicata il 16 giugno 2004 su Il<br />

Gazzettino, dichiara: “Ho pensato solo a lavorare e comunicare con i fatti invece che con le<br />

chiacchiere, con la dietrologia, con la politica. Ho creduto che sarebbe bastato far vedere ai<br />

cittadini le cose fatte per ottenere il loro ringraziamento. Invece non è stato così”.<br />

Cos’altro serve? “Credevo che fosse più appagante sistemare una buca, aggiustare un<br />

marciapiede, installare un lampione, costruire strade e case, aiutare i più deboli; invece conta<br />

di più avere un progetto politico, un disegno di rapporti e strategie”.<br />

Il peso attribuito ai progetti politici va dunque attentamente valutato, al di là dei<br />

semplici fatti, che vengono interpretati a seconda del “filtro deformante” di ciascuno. Il<br />

pragmatismo va integrato con un disegno strategico di più ampio respiro, con una cultura<br />

organizzativa che preveda una risposta a domande relative all’identità e alla mission.<br />

270


LA NUOVA COSTITUZIONE E LA NUOVA EUROPA<br />

Il 19 giugno 2004 un grande sogno è diventato realtà.<br />

In una piovosa nottata belga di inizio estate - dopo un travaglio di ore - vede la luce la<br />

Costituzione <strong>eu</strong>ropea. È logico che ginecologi e levatrici di prima fila alzino i calici al cielo. È<br />

scontato che i primari alle spalle si limitino a sorrisi di circostanza. Perché sarà pur vero che<br />

con la nuova carta fondamentale si è posta una premessa forte per un miglior coagulo di<br />

nazioni e cittadini, ma sono tante le ferite non ancora cicatrizzate che l’evento ha messo in<br />

bella evidenza. I sei Paesi fondatori, ad esempio, non esistono più, così come il direttorio a tre<br />

Parigi-Londra-Berlino che Chirac ha cercato di far nascere in ogni modo. Nella due giorni<br />

brussellese, tra l’altro, sembra confermato che il laburista Blair va d’accordo più con<br />

Berlusconi che col socialista Zapatero. E che Chirac non intende consegnare posizioni di<br />

rilievo a chi non sia entrato nell’<strong>eu</strong>ro e in Schengen. Come a dire che anche Copenhagen e<br />

Stoccolma, oltre che Londra, sono considerate fuori gioco dall’Eliseo.<br />

Già si fanno i primi calcoli dell’intesa. Chi ha vinto e chi ha perso in questa prima<br />

kermesse comunitaria a 25? Ahern ci tiene a magnificare la presidenza irlandese, ma la<br />

stampa internazionale non è d’accordo. “Troppi cedimenti a Londra”, accusano francesi e<br />

tedeschi. “Non ha tenuto conto delle richieste dei Paesi più piccoli”, caricano da Vienna,<br />

Praga e Helsinki. La sua felicità per il varo di un testo “comprensibile anche all’uomo della<br />

strada” ha fatto roteare gli occhi persino agli addetti ai lavori, stesi dal fitto reticolo di<br />

percentuali sulla doppia maggioranza. Ma, al di là degli irlandesi che alla fine il traguardo<br />

l’hanno toccato, sia pure a tentoni, chi ha vinto e chi ha perso nella “battaglia di Bruxelles”?<br />

Il giornalista Alessandro M. Caprettini, inviato a Bruxelles per Il Giornale, fa una<br />

sintesi dei risultati in un articolo dal titolo “Vincitori e vinti della battaglia <strong>eu</strong>ropea”:<br />

BLAIR. In quasi tutte le cronache giornalistiche di ieri si dava il premier britannico come<br />

l’uomo che alla fine ha più fieno in cascina. Politica estera e di difesa restano materie in cui la Gran<br />

Bretagna può continuare a marciare senza condizionamenti comunitari. Ma anche su fisco, giustizia e<br />

politica sociale, di fatto, ha costruito una muraglia sulla Manica. Non solo: non voleva l’anti-USA<br />

Verhofsdadt alla guida della Commissione e l’ha fatto secco al primo colpo.<br />

CHIRAC. Forse credeva davvero che la sua intesa con Schröeder potesse bastare a segnare la<br />

direzione di marcia, perché tanto “l’intendenza avrebbe seguito”, come da napoleoniche certezze. Ha<br />

fatto la voce grossa e a tratti ha fatto trasparire una arroganza figlia, probabilmente, dell’irritazione per<br />

il non riuscire a condurre le cose come avrebbe voluto. Già qualcuno gli rimproverava le condizioni<br />

271


troppo favorevoli concesse a Nizza a Spagna e Polonia pur di chiudere l’argomento. Adesso si è fatto<br />

nuovi nemici, tra cui il Vaticano che non ha gradito il no all’inserimento dei valori cattolici nella carta,<br />

motivato col laicismo vittorioso oltralpe da ormai 100 anni.<br />

BERLUSCONI. Lo avevano tacciato di incapacità per la mancata stipula della Costituzione<br />

alla fine del dicembre scorso e ora è chiaro a tutti che a impedire quel risultato non furono le sue<br />

presunte scarse qualità diplomatiche, ma il braccio di ferro sotto il pelo dell’acqua tra Londra e Parigi.<br />

Molte delle soluzioni adottate ieri, poi, si sono delineate grazie all’azione sua e di Frattini. E inoltre a<br />

Bruxelles si è formalizzata di fatto la sua nomina a leader dello schieramento di centro-destra in<br />

Europa. Visto che è stato lui, a nome di tedeschi della CDU, degli spagnoli del Pp,dei conservatori<br />

britannici a proporre Patten a guida della Commissione.<br />

PRODI. Più d’uno ieri ha ricordato le proteste e le lamentazioni del professore contro i rischi<br />

di una intesa al ribasso, fatti risuonare lungo l’arco della presidenza italiana. Da ieri alla commissione<br />

hanno limato le unghie sul Patto di Stabilità, si sono fatti passi da gambero sulle materie da trattare a<br />

maggioranza ed è rispuntato fuori addirittura un doppio diritto di veto (anche i piccoli possono<br />

chiamarsi fuori da certe intese). Eppure Prodi ha parlato di “risposte molto più avanzate di quelle che<br />

mi aspettavo” e ha agitato a lungo il turibolo. Sarà perché si sente ormai in corsa per un premierato o<br />

perché non ha seguito passo passo i 383 articoli di un documento che più che una Costituzione pare un<br />

regolamento condominiale dei più arzigogolati?<br />

conta.<br />

Tra pareri contrastanti e contraddizioni, l’Europa comunque va avanti ed è ciò che<br />

Nel giorno in cui si celebra, con toni spesso enfatici, la nascita della Costituzione<br />

<strong>eu</strong>ropea, c’è chi esce dal coro per esprimere critiche alla Carta fondamentale sulla quale si<br />

modellerà il nuovo Vecchio Continente. Ed è, quello degli scettici, un partito assolutamente<br />

trasversale che quindi non tiene minimamente conto dell’appartenenza a un dato schieramento<br />

o coalizione.<br />

Il più acceso “anticostituzionalista” è sicuramente il leghista Roberto Calderoli.<br />

“Sembra un certificato di morte” è il suo primo giudizio. “Un certificato veramente brutto -<br />

prosegue - in cui, neppure nel momento del decesso, si è avuto il coraggio di un gesto<br />

d’orgoglio con cui affermare il valore delle radici, delle culture, delle identità dei vari popoli.<br />

Neppure le radici cristiane sono state accettate, bel sistema per affrontare il terrorismo e il<br />

fanatismo religioso che hanno dichiarato guerra all’Occidente!”. In forza di queste<br />

considerazioni, il vice-presidente del Senato sostiene la necessità di un referendum. “Bisogna<br />

sottoporre subito la Costituzione <strong>eu</strong>ropea al giudizio del popolo - propone Calderoli - visto<br />

che essa tocca la sovranità del popolo e solo il popolo può decidere in tal senso. I cittadini<br />

272


devono poter dire sì o no alla Costituzione, è una questione fondamentale visto che viene<br />

toccata la sovranità del popolo”.<br />

Quasi altrettanto duro è Daniele Capezzone, il quale invita a confrontare “la chiarezza,<br />

la semplicità, il linguaggio della Costituzione americana con il mostriciattolo” varato a<br />

Bruxelles: “Da una parte un testo fatto per essere vissuto, compreso e diffuso nelle piazze,<br />

nelle taverne, nelle chiese, per creare il senso di un’appartenenza comune; dall’altra, un<br />

incomprensibile papocchio di burocrati per altri burocrati”. Per il segretario dei Radicali<br />

“questa Costituzione, questa Unione Europea, questa realtà sono non solo lontane, ma<br />

contrarie al mito e alla speranza di Ernesto Rossi, Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni ed al<br />

loro Manifesto di Ventotene”.<br />

Più blande, ma non per questo meno convinte, le critiche di Oliviero Diliberto, che<br />

definisce “debole” la nuova Carta costituzionale. “Ci sono ancora diversi punti da verificare,<br />

come quello relativo ai meccanismi di modifica - osserva il leader dei Comunisti italiani - e<br />

noi insisteremo perché vi siano più riferimenti alle questioni sociali e perché vi sia un articolo<br />

simile all’11 della nostra Costituzione sulla pace”. I DS, per bocca di Marina Sereni, non<br />

nascondono “gli ostacoli ancora da superare”, mentre infine Gustavo Selva (AN), pur<br />

esprimendo compiacimento, sottolinea come non si tratti “di una Magna Charta dei valori e<br />

dei diritti”.<br />

La soddisfazione per l’accordo sulla Costituzione <strong>eu</strong>ropea è dunque generale; con<br />

l’eccezione di radicali e leghisti. Tuttavia, accanto a un sentimento che accomuna<br />

maggioranza e opposizione, c’è il rammarico per il mancato riferimento alle comuni radici<br />

cristiane, uno stato d’animo che si rintraccia in entrambi gli schieramenti. Se ne fanno<br />

interpreti il vicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini, che rivendica il lavoro svolto dalla<br />

Convenzione della quale ha fatto parte, e il presidente della Camera Pier Ferdinando Casini.<br />

Ma anche Clemente Mastella di AP-UDEUR e Maurizio Lupi di Forza Italia.<br />

Fini ricorda comunque che a Bruxelles “è stato conseguito un obiettivo fondamentale<br />

per il futuro dei popoli d’Europa”. Casini auspica che “l’Europa sia in condizione di parlare<br />

con una voce sola, in particolare sul versante della politica estera, della difesa e della<br />

sicurezza, pilastri essenziali per costruire un’Unione credibile e protagonista nella difficile<br />

fase che il mondo sta vivendo”.<br />

Il presidente del Senato, Marcello Pera, sottolinea come la firma sotto la Carta <strong>eu</strong>ropea<br />

sia soprattutto “utile più per ciò che evita che non per ciò che permette: evita un ritorno<br />

all’indietro, ma non promette ancora una vera Unione Europea”.<br />

Il Vaticano esprime “rammarico” per la mancata citazione del cristianesimo nel<br />

273


trattato costituzionale <strong>eu</strong>ropeo: un “misconoscimento dell’evidenza storica” e dell’“identità<br />

cristiana” dei popoli del continente.<br />

Parole severe, pronunciate il 19 giugno 2004 dal portavoce Navarro-Valls ed<br />

esplicitamente indirizzate ai “governi” che si sono opposti a quella citazione. Il portavoce non<br />

li ha nominati, ma si tratta di Francia, Belgio, Finlandia e Svezia.<br />

Navarro-Valls ha pure ringraziato i governi dell’altra sponda, cioè quelli che si sono<br />

battuti per la citazione, anche qui senza fare nomi. Si tratta di Italia, Polonia, Slovacchia,<br />

Repubblica Ceca, Malta, Lituania e Portogallo, che a metà maggio hanno scritto alla<br />

presidenza di turno irlandese per proporre la menzione delle radici cristiane nel preambolo<br />

della Carta.<br />

Le parole forti del “rammarico” si spiegano con la lunga battaglia per quella citazione<br />

- è durata due anni e mezzo - combattuta personalmente da Papa Wojtyla. La sua prima<br />

protesta per come andavano le cose la fece nel gennaio del 2002: il Papa esprime “tristezza” e<br />

considera “ingiusto e sbagliato” che la Dichiarazione di Laeken - che dà avvio all’iter<br />

costituzionale - non abbia citato le religioni tra i partner da consultare in vista della<br />

Costituzione. Già nel dicembre del 2000 aveva denunciato il fatto che la Carta <strong>eu</strong>ropea dei<br />

diritti (approvata dal vertice di Nizza) non avesse fatto “neppure un riferimento a Dio”.<br />

Giovanni Paolo II è tornato più volte ad insistere sull’argomento. Tra luglio e agosto<br />

del 2003, in particolare, il Pontefice è intervenuto per sette domeniche consecutive:<br />

“Riconoscere esplicitamente le radici cristiane dell’Europa diventa per il continente la<br />

principale garanzia di futuro”.<br />

Nel febbraio 2004 il cardinale Walter Kasper, inviato del Papa in Russia, incontra il<br />

Patriarca ortodosso Alessio II e spiega che Giovanni Paolo II vorrebbe che le due Chiese<br />

“facessero di tutto per collaborare, soprattutto in Europa, al rafforzamento delle radici<br />

cristiane indebolite dal secolarismo”.<br />

Alla vigilia della decisione di Bruxelles, l’ultimo appello di Wojtyla: l’Europa<br />

“avviata verso un nuovo ordine” sta cercando un modo per “manifestare espressamente le<br />

proprie radici cristiane”.<br />

Fiato sprecato, si direbbe. Da qui il “rammarico”, ma prudentemente stemperato con<br />

due note di “soddisfazione”, perché il Trattato non solo è una “tappa” storica, ma anche<br />

contiene buone “disposizioni” per le Chiese.<br />

Dunque la Santa Sede “esprime soddisfazione per questa nuova e importante tappa nel<br />

processo di integrazione <strong>eu</strong>ropea, sempre auspicata e incoraggiata dal romano pontefice”.<br />

Altro “motivo di soddisfazione” è l’“inserimento nel Trattato della disposizione che<br />

274


salvaguarda lo status delle confessioni religiose negli stati membri e impegna l’Unione a<br />

mantenere con esse un dialogo aperto, trasparente e regolare, riconoscendone l’identità e il<br />

contributo specifico”: tutto questo è nell’articolo 51.<br />

Ed ecco la protesta: “La Santa Sede non può tuttavia non esprimere rammarico per<br />

l’opposizione di alcuni governi al riconoscimento esplicito delle radici cristiane dell’Europa.<br />

Si tratta di un misconoscimento dell’evidenza storica e dell’identità cristiana delle<br />

popolazioni <strong>eu</strong>ropee”.<br />

Dopo la protesta contro i governi della cattolica Francia e del cattolicissimo Belgio - il<br />

Papa non se la può certo prendere con Finlandia e Svezia, che sono luterane - viene il<br />

riconoscimento per la Polonia, l’Italia e gli altri cinque: “Vivo apprezzamento e gratitudine -<br />

dunque - a quei governi che, nella consapevolezza del passato e dell’orizzonte storico in cui<br />

prende forma la nuova Europa, hanno lavorato per dare concreta espressione alla sua<br />

riconosciuta eredità religiosa”.<br />

Ma per la menzione del cristianesimo si era adoperato anche il presidente della<br />

Commissione Europea Romano Prodi e si era battuto il leader della CSU Stoiber e tanti altri<br />

sparsi per l’Europa. Il portavoce non dimentica nessuno: “Non va dimenticato il forte<br />

impegno profuso da varie istanze per fare menzionare il patrimonio cristiano dell’Europa in<br />

tale Trattato”.<br />

Vediamo dunque come funzionerà la nuova Europa, sapendo che il “Trattato<br />

Costituzionale” entrerà in vigore dal 2009 dopo che sarà ratificato dai 25 Paesi. Il Giornale<br />

del 20 giugno 2004 ha preparato dieci risposte a dieci domande. Le riporto integralmente:<br />

1. Che cosa vuol dire che l’Unione Europea ha una Costituzione, e quando entrerà in vigore?<br />

I governi dei 25 paesi dell’UE riuniti in “conferenza intergovernativa” a Bruxelles, hanno approvato, il<br />

18 giugno, un “Trattato costituzionale” che unifica e supera tutti i precedenti trattati, da quelli più<br />

lontani di Roma del 1957, successivamente modificati a più riprese, fino ai più recenti di Maastricht e<br />

di Nizza, in un documento organico in cui vengono fissate le istituzioni <strong>eu</strong>ropee, i loro compiti, il loro<br />

modo di operare. Si tratta di un trattato internazionale, che per entrare in vigore dovrà essere ratificato<br />

da tutti e 25 i Paesi firmatari, senza eccezioni, alcuni procederanno alla ratifica per via parlamentare,<br />

altri mediante referendum popolare. Se tutti gli Stati membri della UE ratificheranno il trattato, questo<br />

entrerà in vigore a partire dal 2009 per alcuni aspetti e dal 2014 per altri. Fino a quel momento, l’UE<br />

continuerà a funzionare come oggi, con i trattati vigenti. È sostanzialmente un compromesso tra la<br />

visione “federalista”, sostenuta da Francia e Germania, e la visione “intergovernativa”, sostenuta<br />

principalmente dalla Gran Bretagna. Parigi e Berlino hanno avuto la Costituzione; Londra, la<br />

275


Costituzione che voleva.<br />

2. Perché adesso è stato possibile raggiungere un accordo che era sfuggito sei mesi fa alla<br />

presidenza semestrale italiana?<br />

Durante la presidenza italiana furono risolte tutte le controversie minori, ma sui pochi fondamentali<br />

punti rimasti le divergenze erano insanabili, sia per la rigida posizione dei governi di Spagna e di<br />

Polonia, che adesso sono stati sostituiti da altri più disposti a un compromesso, sia perché sei mesi fa<br />

le tensioni tra i governi <strong>eu</strong>ropei erano molto forti a causa delle recenti spaccature sulla questione<br />

irachena, largamente superate in questa prima metà di giugno da tre iniziative convergenti: il viaggio<br />

di Bush in Europa, le nuove risoluzioni del Consiglio di sicurezza sull’Iraq, il vertice G8. Ma è stato<br />

soprattutto il risultato delle elezioni <strong>eu</strong>ropee a consigliare un po’ a tutti i leader di fare uno sforzo per<br />

dare credibilità al progetto <strong>eu</strong>ropeo.<br />

3. Che cosa prevede la Costituzione per il Parlamento Europeo?<br />

Il Parlamento Europeo, che è l’unico organo dell’UE eletto dai cittadini, avrà più poteri rispetto al<br />

passato. Esso eserciterà, insieme al Consiglio <strong>eu</strong>ropeo, la funzione legislativa e quella di bilancio,<br />

avendo l’ultima parola su tutte le spese dell’Unione. Esso elegge il presidente della Commissione, con<br />

una specie di voto di fiducia dato teoricamente per cinque anni. Ratifica la nomina del ministro degli<br />

Esteri e dei membri della Commissione. Una novità, rispetto alla bozza preparata da Giscard<br />

d’Estaing, è che potrà raggiungere un massimo di 750 membri (quando entreranno tre nuovi membri) e<br />

gli Stati, in base alla popolazione, avranno un minimo di sei deputati e un massimo di 96. La<br />

Germania ha dovuto cedere pochi seggi.<br />

4. Che cosa prevede la Costituzione per il Consiglio Europeo?<br />

Il Consiglio è stato istituzionalizzato e diventa l’organo centrale decisionale dell’UE. È formato dai<br />

capi di Stato e di governo dei Paesi membri, dal suo presidente e dal presidente della Commissione. Il<br />

ministro degli Esteri partecipa alle sue riunioni. Fornisce all’UE gli impulsi necessari al suo sviluppo e<br />

definisce orientamenti e priorità politiche. Il suo rilevante potere politico costituisce un limite alla<br />

visione strettamente federale, quale era sostenuta da Germania e Francia. Esso rappresenta la visione<br />

intergovernativa dell’UE.<br />

5. Quali sono i compiti del presidente del Consiglio Europeo?<br />

Una delle maggiori novità è l’istituzione della figura del Presidente del Consiglio Europeo, eletto dal<br />

Consiglio stesso per la durata di 30 mesi e rinnovabile una volta. Viene così a cessare la presidenza a<br />

rotazione semestrale. Con questo, la Costituzione intende creare una figura che dia al Consiglio stesso<br />

continuità e coerenza. Rappresenta all’esterno l’UE ma senza pregiudicare le responsabilità del<br />

ministro degli Esteri.<br />

6. Quali sono i compiti del Consiglio dei ministri?<br />

È composto da un rappresentante a livello ministeriale per ogni Stato membro (per esempio i ministri<br />

dell’Economia o dell’Agricoltura, ecc.). Ad eccezione del Consiglio dei ministri degli Esteri, la<br />

presidenza di ogni singolo Consiglio viene esercitata a rotazione ugualitaria da un gruppo di tre Paesi<br />

276


per 18 mesi. Verrà così a cessare la rotazione semestrale con i presidenti appartenenti al Paese che<br />

esercitava la presidenza semestrale. In questo modo si vuole assicurare più collegialità e più<br />

continuità.<br />

7. Come decide il Consiglio dei ministri?<br />

Questo punto è stato lo scoglio maggiore per l’approvazione della Costituzione. A partire dal 2009,<br />

ogni decisione sarà presa con l’accordo del 55% degli Stati membri, ma con un minimo transitorio di<br />

15 purché rappresentino almeno il 65% della popolazione complessiva dell’UE. Quando le decisioni<br />

riguardano provvedimenti che sono proposti dalla Commissione o dal ministro degli Esteri, per la<br />

maggioranza occorrono il 72% degli Stati, pari ad almeno il 65% della popolazione. Resta comunque<br />

in vigore, su richiesta soprattutto della Gran Bretagna, che è stata irremovibile, il diritto di veto in<br />

tema di fiscalità, mentre ci sono formule di maggioranza diverse per la cooperazione giudiziaria, la<br />

politica sociale e quella estera. Sono facilitate, in alcuni settori, le cooperazioni rafforzate.<br />

8. Che cosa prevede la Costituzione per la Commissione?<br />

La Commissione risulta meglio definita e circoscritta nei suoi compiti, che con il passare del tempo si<br />

erano di fatto molto dilatati. In linea generale, promuove l’interesse generale dell’UE mediante<br />

appropriate iniziative. Verifica il rispetto della Costituzione e l’applicazione del diritto comunitario in<br />

tutti i Paesi membri sotto il controllo della Corte di giustizia. Promuove l’attività legislativa eccetto<br />

che per gli atti che la Costituzione riserva ad altri organi. Rappresenta all’esterno l’UE eccetto che per<br />

la politica estera e di difesa. È composta da un commissario per ogni Paese membro, ma solo fino alla<br />

seconda legislatura dopo la ratifica della Costituzione. Successivamente - presumibilmente dal 2014 - i<br />

suoi componenti saranno ridotti ai due terzi degli Stati membri, salvo diversa futura decisione<br />

all’unanimità del Consiglio <strong>eu</strong>ropeo. La composizione della Commissione è stata uno dei punti più<br />

controversi perché ogni Paese membro vorrebbe avere un rappresentante, ma l’elevato numero<br />

complessivo è ritenuto un ostacolo all’efficienza di questo organismo. L’assenza futura di alcuni Stati<br />

dovrà abituare ad accettare decisioni “<strong>eu</strong>ropee”. Il presidente della Commissione, eletto<br />

dall’Europarlamento su proposta del Consiglio <strong>eu</strong>ropeo, sceglie i commissari e può nominare dei<br />

vicepresidenti della Commissione. La Costituzione attribuisce più poteri alla Commissione nella<br />

sorveglianza dei conti pubblici nella sola fase di verifica di deficit eccessivo, ma non in quella sulle<br />

misure per ridurlo. Ai paesi dell’<strong>eu</strong>rozona è attribuito il potere di valutare l’ingresso di nuovi membri.<br />

È stata allegata al testo del Trattato una dichiarazione in cui si riafferma l’impegno a rispettare il<br />

dettato del Patto di Stabilità. È stata questa una vittoria dei Paesi che chiedevano maggiore flessibilità<br />

per il Patto e, quindi, maggiore autonomia per le politiche economiche nazionali.<br />

9. Quali sono i compiti del ministro degli Esteri?<br />

Anche questa figura è una delle maggiori novità introdotte. Egli contribuisce all’elaborazione di una<br />

politica estera, di sicurezza e di difesa comune; presiede il Consiglio Affari Esteri; è di diritto<br />

vicepresidente della Commissione. Viene eletto dal Consiglio <strong>eu</strong>ropeo d’accordo con il presidente<br />

della Commissione, e la nomina viene ratificata dall’Europarlamento. Solo la prassi deciderà chi sarà<br />

277


il vero rappresentante dell’UE sui temi di politica estera e di difesa: se il presidente del Consiglio<br />

<strong>eu</strong>ropeo o il ministro degli Esteri.<br />

10. Come ha reagito il Vaticano?<br />

Con soddisfazione per l’approvazione della Costituzione, ma con “rammarico” per l’opposizione di<br />

alcuni Stati al riconoscimento esplicito delle radici cristiane dell’Europa. Così ha detto il portavoce<br />

vaticano Joaquin Navarro-Valls. Ma l’Osservatore Romano ha parlato di “un’Europa dalla memoria<br />

sbiadita”, quella che non ha voluto inserire nella sua Costituzione un richiamo alle radici cristiane del<br />

continente, come avevano chiesto Italia, Polonia e altri cinque Paesi. Decisiva, fin dall’inizio, è stata<br />

l’opposizione della Francia. Nel primo paragrafo del testo finale - ampiamente rimaneggiato - compare<br />

un riferimento “all’eredità culturale, religiosa ed umanistica dell’Europa”.<br />

La battaglia per l’affermazione delle radici cristiane è dunque definitivamente persa ad<br />

opera soprattutto della cattolica Francia che rivendica la sua tradizione laica poggiante sulla<br />

Rivoluzione Francese, e del cattolicissimo Belgio? Oppure queste nazioni, nel loro Viaggio<br />

evolutivo, dimostrano di essere ancora alla ricerca di sé, non avendo ritrovato la loro identità?<br />

Emanuele Severino, 75 anni, insegna Ontologia fondamentale nella Facoltà di Filosofia del<br />

San Raffaele e scrive un articolo sul Corriere della Sera del 20 giugno 2004 intitolato<br />

“Quello spirito critico che viene da Atene”:<br />

Se c’è, in che cosa consiste lo “spirito <strong>eu</strong>ropeo”? La Costituzione <strong>eu</strong>ropea appena approvata lo<br />

rispecchia? Si possono dare subito le risposte.<br />

Lo “spirito <strong>eu</strong>ropeo” è lo “spirito critico”.<br />

E nessuna Costituzione, inevitabile frutto di compromessi, può rispecchiare lo “spirito critico”.<br />

Al senso di quest’ultima espressione, tuttavia non si accede facilmente.<br />

Lo spirito critico è lo spirito dell’Europa perché, comparso a un certo punto della storia<br />

dell’uomo, in Grecia, si è allargato sino a dominare tutti gli eventi del continente <strong>eu</strong>ropeo, e<br />

nonostante tutto tende oggi a estendersi sull’intero pianeta. Nessun altro “spirito” è stato in grado di<br />

far questo.<br />

Per millenni gli uomini vivono nel mito, cioè accettando le consuetudini culturali della società<br />

in cui vivono o, prima ancora, facendosi guidare dai loro impulsi. Poi, cinque secoli prima di Cristo,<br />

nell’antico popolo greco viene alla luce la volontà di dubitare di ogni consuetudine e di ogni impulso,<br />

e di respingere tutto ciò che si lascia respingere.<br />

A questa volontà i Greci hanno dato il nome di “filosofia”. “Filosofia” è sinonimo di “spirito<br />

critico”. O ne è la radice. Respingendo i “sepolcri imbiancati” ed esaltando la “retta intenzione” Gesù<br />

278


è un grande sostenitore dello spirito critico - anche se sarà tradito da molti che si porranno al suo<br />

seguito. Il cristianesimo autentico è la religione filosofica per eccellenza, si è detto. Ed è giusto, per<br />

quel tanto che il cristianesimo è critica dei sepolcri. Alla base della libertà, della democrazia, del<br />

rispetto della dignità dell’uomo, che la Costituzione <strong>eu</strong>ropea dichiara di promuovere, c’è quello<br />

spirito, cioè la lotta contro le antichissime e le più recenti tirannidi che esigono la cieca accettazione<br />

dei loro comandi.<br />

L’atteggiamento critico si estende sin dove gli è possibile. Non si ferma sin quando gli è<br />

possibile detronizzare tiranni e abbattere idoli. Si ferma cioè solo dinanzi all’innegabile - l’innegabile<br />

autentico è la verità -. “Filo-sofia” significa, alla lettera, “cura per ciò che è luminoso (saphés)”; e la<br />

verità è per essenza ciò che si mantiene nella luce.<br />

Tutte le forme della cultura e della civiltà <strong>eu</strong>ropea tengono al loro centro questa volontà di<br />

verità. Che non può essere regolata da leggi esterne - e in questo senso è “anarchica” -, ma solo dalla<br />

legge che prescrive di respingere tutto ciò che può esser respinto - e in questo senso è sommamente<br />

non anarchica -. È palese l’anima comune della verità, della scienza moderna e della crescente<br />

razionalizzazione dell’agire in Europa. E anche dell’arte <strong>eu</strong>ropea - la quale conduce sì nel sogno, ma<br />

perché ha costantemente dinanzi i connotati della veglia, cioè della verità del mondo, da cui vuol<br />

prendere provvisorio o definitivo congedo .<br />

Il rapporto alla verità divide gli uomini perché di fronte a essa ogni individuo deve essere solo<br />

e perdere in qualche modo di vista quel che fanno gli altri. Non guardava in questa direzione Gesù,<br />

quando diceva di esser venuto a portare la spada? Nessuna meraviglia se, a differenza di quanto<br />

accade negli Stati Uniti, gli Stati Europei, come le antiche città greche, e ripetendo la diaspora degli<br />

individui rispetto alla verità, siano così differenti, divergenti, in lotta e liberi gli uni dagli altri. Una<br />

libertà, questa, che non ha nulla a che vedere con le degenerazioni dello spirito critico, come la libertà<br />

che è licenza delle masse <strong>eu</strong>ropee e occidentali, o come l’inerzia culturale che trasforma in un dogma<br />

lo stesso spirito critico. Del quale il cristianesimo, nel suo sviluppo storico, è stato un grande nemico.<br />

Si comprende quindi che cosa stia al fondo delle riserve di chi avrebbe dovuto inserire nella<br />

Costituzione Europea il riconoscimento delle nostre “radici cristiane”. È breve il tragitto che<br />

(indipendentemente dalle intenzioni) conduce da questo riconoscimento a quello della sopravvivenza<br />

di tali radici e dunque al riconoscimento che l’Europa è uno Stato cristiano - con l’inevitabile<br />

conseguenza che una condotta di vita non cristiana sarebbe una violazione della Costituzione <strong>eu</strong>ropea -<br />

. È un’affermazione dello spirito critico che l’Europa non abbia i suoi “Patti Lateranensi”.<br />

Fuori discussone, dunque, l’importanza della Costituzione Europea. Ma è ancora un passo<br />

formale. Più decisivo è come l’Europa possa disporre, sul piano della politica estera, di una “capacità<br />

operativa ricorrendo a mezzi civili e militari” (art. 40 della Costituzione).<br />

L’Europa non può allontanarsi dagli Stati Uniti, ma può esserne un interlocutore credibile e<br />

dunque un valido alleato solo se è militarmente forte. Penso alla forza che, in un mondo sempre più<br />

pericoloso, non può essere improvvisa, e che però esiste già, ed è l’armamento nucleare russo. Europa<br />

279


e Russia stanno già da tempo riavvicinandosi.<br />

Come potrebbe essere diversamente? Se si prospetta l’aggregazione della Turchia all’Europa,<br />

come ignorare, oltre al resto, che lo “spirito critico” ha condotto in Russia al tramonto del comunismo?<br />

Detto questo, il passo più decisivo incomincia a questo punto: gettar luce nell’abisso<br />

inesplorato da cui lo “spirito critico” è emerso.<br />

Sono pienamente d’accordo con Severino nel sostenere che Gesù fosse un grande<br />

sostenitore dello spirito critico e anche per questo è finito sulla Croce con un’accusa politica,<br />

oltre che religiosa. Condivido anche l’affermazione che il cristianesimo autentico è la<br />

religione filosofica per eccellenza e, in quanto tale, affascina molti intellettuali. Alla base<br />

della libertà, della democrazia, del rispetto della dignità dell’essere umano - uomo e donna -<br />

che la Costituzione <strong>eu</strong>ropea dichiara di promuovere c’è quello spirito, “cioè la lotta contro le<br />

antichissime e le più recenti tirannidi che esigono la cieca accettazione dei loro comandi”,<br />

come sottolinea Severino.<br />

L’atteggiamento critico si ferma solo davanti all’innegabile, cioè la verità che “è per<br />

essenza ciò che si mantiene nella luce”. Gesù ha detto: “La verità vi renderà liberi”. La<br />

volontà di verità non può essere regolata da leggi esterne, ma solo dalla legge che prescrive di<br />

respingere tutto ciò che può essere respinto.<br />

Rilevante è l’accenno di Severino alle degenerazioni dello spirito critico, come la<br />

libertà che è licenza delle masse <strong>eu</strong>ropee e occidentali o come l’inerzia culturale che<br />

trasforma in un dogma lo stesso spirito critico. Dire infatti che “tutto è relativo” rappresenta<br />

una “pura verità assiomatica” equiparabile agli stessi dogmi che il relativismo filosofico e<br />

culturale intende abbattere. Secondo Severino, al fondo delle riserve di chi avrebbe dovuto<br />

inserire nella Costituzione <strong>eu</strong>ropea il riconoscimento delle nostre “radici cristiane” non ci<br />

sarebbero le degenerazioni dello spirito critico sopra citate, in particolare il relativismo<br />

culturale, bensì il “sospetto” che ci sia un breve tragitto che conduce da questo<br />

riconoscimento a quello della sopravvivenza di tali radici e dunque al riconoscimento che<br />

l’Europa è uno Stato cristiano, con l’inevitabile conseguenza che una condotta di vita non<br />

cristiana sarebbe una violazione della costituzione <strong>eu</strong>ropea. In breve, secondo questa ipotesi,<br />

sarebbe corto il percorso che porta all’istituzione di uno stato teocratico, di antica memoria,<br />

con richiami ai “roghi” e alla caccia alle “streghe”. Ma tutto ciò che viene temuto da Severino<br />

è esattamente l’opposto dello “spirito critico” sostenuto da Gesù. Molti seguaci di Gesù hanno<br />

tradito questo “spirito critico” e il cristianesimo come “religione filosofica per eccellenza”,<br />

forse a cominciare dallo stesso soldato romano Paolo di Tarso, che è stato sbalzato da cavallo<br />

280


mentre si recava a Damasco a perseguitare i cristiani e che è rimasto un “soldato romano”<br />

anche dopo la conversione al cristianesimo, conservando la foga tipica dei militanti e negando<br />

voce in capitolo alle donne da sottomettere e zittire, secondo un “codice relazionale” di tipo<br />

up/down, dominante/dominato.<br />

Ritengo che proprio l’affermazione dello “spirito critico” dell’Europa salvaguardi le<br />

future generazioni da queste aberrazioni. E proprio all’insegna di questo “spirito critico” non<br />

possiamo sottoscrivere la temuta retrocessione sul cammino che porterebbe a riconoscere una<br />

condotta di vita non cristiana come anti-costituzionale.<br />

Il ministro degli Esteri Frattini ha detto, in un’intervista rilasciata al Corriere della<br />

Sera del 20 giugno 2004, “che noi, più di altri Paesi, ci siamo battuti fino all’ultimo per<br />

cambiare il testo del preambolo. La nostra proposta in extremis era quella di aggiungere due<br />

sole parole: ‘notamment chrétienne’, ‘in particolare cristiana’, subito dopo il passaggio che<br />

richiama ‘l’eredità religiosa’. Ma abbiamo incontrato un’opposizione pregiudiziale che<br />

risponde a una concezione di laicismo invalicabile. Belgio, Francia, Finlandia ci hanno fatto<br />

sapere che in nessun caso si poteva accettare la nostra idea, salvo mettere a rischio l’esistenza<br />

stessa del preambolo”. Più avanti, Frattini aggiunge: “E’ vero, comunque, che Chirac<br />

pubblicamente ha dichiarato che la Francia ha risolto da tempo la questione Stato-Chiesa.<br />

Noi, però, volevamo approfondire il richiamo storico alla tradizione religiosa che in ogni caso<br />

rimane nel preambolo e che, anzi esce rafforzata rispetto alla prima versione elaborata nella<br />

Convenzione di Giscard d’Estaing”.<br />

La concezione del “laicismo invalicabile” di Francia, Belgio, Finlandia rappresenta un<br />

“filtro” pregiudiziale che rispecchia una visione dicotomica, dualistica della realtà del tipo<br />

o/o. In altre parole, dove c’è Stato, non può esserci posto per un’identità che sia supportata da<br />

una storia condivisa anche nelle radici cristiane.<br />

La domenica 20 giugno all’Angelus il Papa Giovanni Paolo II esclama, rammaricato:<br />

“Non si tagliano le radici dalle quali si è nati”. Il Papa si era battuto negli ultimi due anni e<br />

mezzo “per evitare la nascita di un’Europa senza anima”. Tuttavia, nell’articolo 51 viene<br />

messo in luce il contatto dell’Europa con le Chiese nazionali.<br />

Infine, è opportuno osservare che è giusto coinvolgere i Parlamenti nazionali e<br />

chiedere un’ulteriore investitura popolare circa l’approvazione della Costituzione. Già in<br />

precedenza mi sono espressa a favore di questa linea “comunicativa”. Non sarebbe<br />

“dialogico” dare l’impressione ai cittadini inglesi, per esempio, che l’Europa possa<br />

tranquillamente fare a meno di loro, andando avanti qualunque sia l’esito del referendum.<br />

Occorre piuttosto diffondere una cultura di “inclusione” della Gran Bretagna nelle vicende<br />

281


<strong>eu</strong>ropee e di smantellamento dei pregiudizi reciproci, dando una forte spinta in termini di<br />

comunicazione al valore storico della Costituzione.<br />

I vertici successivi sanciscono il consolidamento dell’alleanza con gli USA, quale<br />

presagio di un “fronte unico” nella lotta al terrorismo internazionale.<br />

282


L’INTESA USA-EUROPA SI RAFFORZA<br />

Il vertice USA-UE di Shannon (Irlanda) riavvicina il presidente americano George W.<br />

Bush all’Europa.<br />

“Le divergenze sull’Iraq sono superate”, ha detto Bush. Egli ottiene dall’Unione<br />

Europea una dichiarazione di “appoggio pieno e duraturo al popolo dell’Iraq”, e impegni<br />

all’assistenza del governo iracheno ed interim e alla riduzione del debito.<br />

Ma Bush deve trangugiare, nel documento congiunto, un appello “al pieno rispetto”<br />

delle Convenzioni di Ginevra sul trattamento dei prigionieri.<br />

Dopo la rinuncia all’ONU della proroga dell’esenzione degli americani dalla<br />

giurisdizione della Corte Penale Internazionale, è un altro pegno pagato dagli Stati Uniti allo<br />

scandalo degli abusi inferti a detenuti iracheni da soldati americani.<br />

Nella cornice del parco del Castello di Dromoland, l’annuale vertice UE-USA, prima<br />

tappa della missione <strong>eu</strong>ropea del presidente americano, si svolge lontano dalla contestazione<br />

di migliaia di manifestanti, che riescono, comunque, a mobilitare un terzo delle forze di<br />

sicurezza irlandesi e a ritardare la conferenza stampa finale, bloccando gli autobus dei<br />

giornalisti.<br />

È un vertice UE-USA storico per alcuni aspetti, come ricorda il premier irlandese<br />

Bertie Ahern, presidente di turno del Consiglio Europeo, perché è il primo dopo<br />

l’allargamento dell’Unione e dopo il varo della Costituzione.<br />

Bush se ne dichiara, comunque, soddisfatto anche se le conclusioni sull’Iraq non fanno<br />

riferimento a un ruolo dell’ONU e non contengono cifre sulla riduzione del debito: la “forza”<br />

e la “profondità” delle relazioni UE-USA, osservano Ahern e il presidente della Commissione<br />

Europea Romano Prodi, ne escono confermate, nella comprensione “delle sfide comuni”. E il<br />

presidente americano ribadisce che “le differenze del passato sono superate”: si congratula<br />

con l’UE per l’allargamento, spezza una lancia per l’adesione della Turchia.<br />

La discussione con l’UE sull’Iraq è stata - dice Bush - “costruttiva”. E, tra oggi e<br />

domani, il presidente spera di ottenere dalla NATO una risposta “positiva” alla richiesta<br />

venuta dal premier iracheno Iyad Allawi d’assistenza tecnico-militare (addestramento e<br />

equipaggiamento) alle forze di sicurezza irachene. La NATO, dice Bush, ha “la possibilità e la<br />

responsabilità di aiutare l’Iraq a sconfiggere la minaccia terroristica”.<br />

Il suo intervento, che sarà sancito dai leader, potrà accelerare l’uscita di scena dei<br />

contingenti americano e internazionale: “Prima gli iracheni sono pronti a garantire la loro<br />

sicurezza prima noi possiamo venircene via. Ma non ce ne andremo finché la missione non<br />

283


sarà compiuta”.<br />

La dichiarazione comune UE-USA sull’Iraq echeggia la risoluzione 1546 delle<br />

Nazioni Unite, varata all’unanimità l’8 giugno 2004: esprime sostegno comune alla missione<br />

della forza multinazionale in Iraq, su invito dell’esecutivo iracheno, per combattere il<br />

terrorismo e mantenere la sicurezza e la stabilità nel Paese, oltre che per proteggere la<br />

presenza dell’ONU.<br />

Il documento, definito “d’appoggio al popolo dell’Iraq”, incoraggia l’accettazione<br />

delle richieste di Allawi, indirizzate all’Alleanza Atlantica, senza però citare la NATO.<br />

Sulla riduzione del debito estero iracheno, “cruciale perché il popolo iracheno abbia<br />

l’opportunità di costruire un paese libero e prospero”, il documento dice che essa “dovrebbe<br />

essere fornita in collegamento con un programma del Fondo Monetario Internazionale” per<br />

l’economia irachena e dovrebbe essere “sufficiente ad assicurarne la fattibilità, tenendo conto<br />

delle recenti analisi” dell’FMI.<br />

Il testo sull’Iraq è quello che richiama più attenzione, fra la ridda di documenti comuni<br />

pubblicati da UE e USA: molti testi concordati sono analoghi (e in larga parte ricalcano)<br />

quelli sugli stessi temi adottati, il 10 giugno, al Vertice del G8.<br />

Il vertice di Istanbul.<br />

I 26 Paesi della NATO hanno raggiunto un “accordo preliminare” sull’assistenza da<br />

fornire all’Iraq nell’addestramento del suo nascente esercito. Risultato ben lontano dal<br />

desiderio di Bush, che sperava in un contributo militare concreto. Contributo che il presidente<br />

francese Chirac ha escluso categoricamente chiudendo di fatto la questione.<br />

L’intesa, annunciata in una breve dichiarazione scritta dal segretario generale della<br />

NATO Jaap de Hoop Scheffer, dovrà essere approvata dai capi di stato e di governo che si<br />

riuniscono il 28 e il 29 giugno 2004 a Istanbul per il vertice della NATO. L’accordo raggiunto<br />

in sostanza già il 25 giugno, ma messo a punto solo il 26 giugno dopo varie riunioni del<br />

Consiglio atlantico consiste nel “rispondere positivamente alla richiesta del governo ad<br />

interim iracheno di assistenza nell’addestramento delle proprie forze di sicurezza”.<br />

Secondo una fonte, saranno i premier e le loro delegazioni a mettere a punto il testo<br />

finale su cui la Francia continua a fare resistenza pur di ottenere il minor impegno possibile da<br />

parte dell’Alleanza.<br />

L’arrivo, la sera del 26 giugno, del presidente USA Bush ad Ankara e la due giorni del<br />

summit della Nato a Istanbul sono stati preceduti da inquietanti segnali. Il 26 giugno una<br />

bomba di debole potenza è esplosa su un cavalcavia del quartiere <strong>eu</strong>ropeo di Bahcelievler a<br />

284


Istanbul, senza provocare feriti. La bomba era collocata alla base di un cartello che recava la<br />

scritta “NATO assassina” a cui era stata aggiunta la sigla “KP-IO”, una sigla sconosciuta che<br />

presumibilmente fa riferimento ad una nuova formazione di estrema sinistra (dato che “KP”<br />

può significare Partito Comunista). L’ordigno è esploso mentre alcuni poliziotti, allertati da<br />

una telefonata, stavano circondando il cavalcavia ed isolando la zona dal traffico.<br />

Nel frattempo ad Ankara sono state dispiegate gran parte delle misure di sicurezza<br />

predisposte per proteggere la sicurezza del presidente americano e del suo seguito, fra cui il<br />

segretario di stato Colin Powell ed il consigliere per la sicurezza nazionale Condoleeza Rice.<br />

Il clima generale in Turchia è di apprensione per possibili attentati, tanto che si<br />

moltiplicano i falsi allarmi-bomba. Mentre in genere - secondo quanto riportano vari media<br />

turchi - la popolazione “dà il benvenuto a Bush, con riserve sulla sua politica estera”.<br />

Al vertice dell’Alleanza Atlantica a Istanbul sono stati prodotti tre documenti. Il primo<br />

riguarda l’Afghanistan, ed è stato il più impegnativo e concreto. Il secondo si riferisce all’Iraq<br />

e il terzo a una enunciazione di principi, la “dichiarazione di Istanbul” sulla “sicurezza in una<br />

nuova era”, che per natura sua è importante ma non contiene scadenze di calendario né cifre<br />

né date. Nel documento si riafferma la necessità di dare una risposta alle “sfide del<br />

ventunesimo secolo: la difesa collettiva rimane l’obiettivo base dell’Alleanza, ma ora i<br />

pericoli emanano da un’area più vasta che in passato e includono il terrorismo e la<br />

proliferazione delle armi di distruzione di massa”. Quello che rimane è il “carattere unico di<br />

legami fra le due sponde dell’Atlantico, quelli di un’alleanza fondata sui principi della<br />

democrazia, della libertà individuale e del primato della legge”.<br />

Sull’Afghanistan, invece, ci sono enunciazioni abbastanza precise, anche se non come<br />

sperava Bush, che fino all’ultimo ha premuto sui colleghi perché dall’incontro nella metropoli<br />

turca uscisse una “lista” degli impegni e una precisa tabella di marcia. Le decisioni sono<br />

invece soprattutto di principio. La NATO dà il proprio benestare all’allargamento della<br />

missione ISAF in Afghanistan sotto il mandato dell’ONU, e manderà rinforzi: 3.000 o 3.500<br />

uomini oltre ai 6.500 che già ci sono, fino a un tetto massimo di 10.000. I nuovi distaccamenti<br />

si chiameranno PRT, vale a dire Squadre di Ricostruzione Provinciale, e saranno per ora<br />

quattro in altrettante province afghane al di fuori di Kabul e Kunduz: ogni “squadra” consterà<br />

di qualche centinaio di militari. Ne sono state delineate per ora quattro, due a guida britannica,<br />

uno sotto comando tedesco e una affidata all’Olanda. Il turno dell’Italia dovrebbe venire forse<br />

in autunno, quando l’operazione verrà estesa ad altre province verso il confine con l’Iraq. È<br />

confermato che per i nostri è “prenotato” lo Herat.<br />

I distaccamenti opereranno, a quanto pare, sotto la bandiera dei rispettivi Paesi. Non<br />

285


sembra essere “passato”, infatti, il progetto americano di fare intervenire in Afghanistan la<br />

nascente “forza di reazione rapida” dell’Alleanza, sotto bandiera NATO. Si è opposta la<br />

Francia, perché, ha sottolineato Chirac, “la vocazione di questa forza è di agire quando ci<br />

sono crisi ufficialmente riconosciute, e questo non è il caso dell’Afghanistan”. È stato solo un<br />

esempio dei dissapori tra Parigi, spalleggiata da Berlino, e Washington, con l’appoggio della<br />

maggioranza dei Paesi membri. Nonostante l’intensa attività diplomatica degli ultimi mesi<br />

l’uomo dell’Eliseo non ha ammorbidito la sostanza del suo dissenso né i suoi toni, più<br />

apertamente a proposito dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, che Bush ha<br />

caldeggiato in questi giorni quasi in ogni suo intervento, sia al summit <strong>eu</strong>roamericano in<br />

Irlanda, sia nella sua visita ad Ankara, sia durante il vertice di Istanbul. Chirac gli ha mandato<br />

a dire che si tratta di un problema <strong>eu</strong>ropeo, di cui il presidente americano non dovrebbe<br />

impicciarsi, “perché sarebbe come se l’Unione Europea pretendesse di spiegare agli Stati<br />

Uniti come essi devono gestire i loro rapporti con il Messico”. Il processo sarà, qualunque<br />

cosa dica Bush, “lungo e difficile, anche se non per questo infinito”.<br />

Alcuni mesi dopo, la Francia socchiude la porta all’ingresso della Turchia nell’Unione<br />

Europea. “Vogliamo che il fiume dell’Islam irrompa nella nostra società laica?”: in<br />

un’intervista pubblicata il 23 settembre 2004 dal Wall Street Journal il premier francese Jean<br />

Pierre Raffarin ha inquadrato in questi termini la questione. Il dubbio del primo ministro è<br />

sulla compatibilità di un grande Paese musulmano come la Turchia con i “valori” <strong>eu</strong>ropei. “Il<br />

punto non sono gli impegni presi dal governo di Ankara - ha osservato Raffarin -, il punto<br />

sono gli atteggiamenti della società turca”. “Non stiamo dubitando della buona fede del<br />

(primo ministro) Erdogan - ha spiegato il premier francese -, ma ci chiediamo fino a che<br />

punto i governi di oggi e di domani possano far sì che la società turca abbracci i valori <strong>eu</strong>ropei<br />

dei diritti umani”. Non un “no” secco ad Ankara, ma un freno senza dubbio alle sue<br />

aspirazioni di aggregarsi presto all’Unione. La visita di Erdogan a Bruxelles il 23 settembre<br />

2004 verte proprio su questo tema. “La Francia per prima nel 1963 ha sollevato la questione<br />

(dell’ingresso della Turchia) con il generale De Gaulle - argomenta Raffarin - ora non<br />

pensiamo di dover dire ad Ankara che le porte d’Europa sono per sempre chiuse”. Ma certo,<br />

conclude il premier, il processo di avvicinamento dovrà essere lento e graduale: almeno dieci<br />

anni perché tutti gli ostacoli siano superati.<br />

Erdogan, in una conferenza stampa a Bruxelles, ha cominciato osservando che “non<br />

gli risulta” che l’Europa “sia un club cristiano”, quanto piuttosto, “un’unione multiculturale”.<br />

L’Unione Europea, vista da Ankara, “rappresenta civilizzazioni diverse che si integrano<br />

insieme”. “Abbiamo fatto i compiti - ha aggiunto Erdogan - e ora, ce lo ha detto il<br />

286


commissario Verh<strong>eu</strong>gen, non ci sono più cose da regolare”. Il premier turco, non senza una<br />

certa teatralità, si è fatto garante, nell’incontro a porte chiuse con gli <strong>eu</strong>roparlamentari, delle<br />

riforme e del cambiamento nel suo Paese. “Finché io sarò al governo posso assicurare che<br />

l’adulterio non sarà mai reato. Certo, non posso dire che cosa succederà quando non sarò più<br />

lì”.<br />

Il 29 giugno 2004, Bush, nel discorso che lo rappresenta televisivamente con il<br />

Bosforo sullo sfondo, dichiara che “l’Europa non è un club cristiano”.<br />

Al riguardo, vorremmo osservare innanzitutto che spetta agli <strong>eu</strong>ropei stabilire se<br />

l’Europa è o no “un club cristiano” e che una tale definizione da parte del presidente di un<br />

altro continente costituisce una interferenza inaccettabile. Inoltre, la definizione di “club”<br />

attribuita all’Europa costituisce un insulto alla sua Identità di Famiglia in cui ci sono 25<br />

Fratelli, e uno svilimento della sua “natura integrata”. Nessun paese, né gli USA né la<br />

Turchia, può arrogarsi il diritto di scalfire questa solida Identità con una “prosaica”<br />

definizione. In Europa siamo tutti Fratelli Cristiani, anche i “laici francesi” che pur<br />

provengono da un’eredità cattolicissima. E la Francia è un’altra Patria per gli italiani.<br />

D’altro lato, impugnare la definizione dell’Europa come se si trattasse di un’entità che<br />

“non è un club cristiano” appare anche come una manipolazione non giustificabile del<br />

concetto di identità <strong>eu</strong>ropea. Chi ha interesse a diffondere una simile definizione? Chi ha<br />

interesse a servirsene per raggiungere i propri obiettivi? Allora, è un tragico errore lasciar<br />

perdere questa “identità cristiana” non tanto nel preambolo della Costituzione, ma<br />

essenzialmente nella coscienza o consapevolezza di noi <strong>eu</strong>ropei. Non reagire di fronte alla<br />

manipolazione della nostra identità equivale a farsi mettere i piedi in testa. Allora, non<br />

scandalizziamoci se non solo Adel Smith, ma molti altri, un esercito di “altri”, strapperanno il<br />

crocifisso dalle aule scolastiche o lo scaraventeranno fuori dalla finestra degli ospedali.<br />

D’altronde, “reagire” non vuol dire proclamare le crociate, secondo la logica dualistica<br />

e gerarchica che domina tanta parte degli uomini e del clero - fatto di uomini -, bensì<br />

diventare criticamente consapevoli di queste manipolazioni e fronteggiarle adeguatamente,<br />

senza alcun bisogno di ricorrere a guerre di religione.<br />

In secondo luogo, il riconoscimento della propria identità è un fatto squisitamente<br />

individuale e nessuno può sostituirsi al diretto interessato per suggerirgli di riconoscersi in<br />

una certa identità.<br />

Infine, il fatto che un presidente USA precisi che “l’Europa non è un club cristiano”<br />

suona come una sconfitta per l’Europa che non ha posto le sue radici cristiane nel preambolo<br />

della Costituzione, aprendo implicitamente un varco di vulnerabilità agli “attacchi identitari”.<br />

287


Pertanto, gli <strong>eu</strong>ropei sono invitati a non subire passivamente il trattamento riservato alle<br />

“pecorone” e a farsi assertori fieri e orgogliosi della loro identità cristiana, anche “a dispetto”<br />

del mancato riconoscimento “ufficiale” nella Costituzione.<br />

L’analogia usata da Bush, che paragona il processo di democratizzazione della Turchia<br />

a quello degli USA, quando abolirono la schiavitù, è valida fino ad un certo punto, nel senso<br />

che gli USA seguirono un percorso interno di democratizzazione in un processo di<br />

integrazione tra culture in cui non era prevista la Jihad. Se Bush tiene conto di questa<br />

“differenza che fa la differenza”, non può fare paragoni di questo genere.<br />

Molto freddi, infine, i francesi anche sul progetto di impegno collettivo della NATO<br />

per l’addestramento delle forze armate del nuovo regime iracheno, che ha ricevuto le<br />

consegne dagli americani il 28 giugno 2004, con due giorni di anticipo sulla famosa data del<br />

30 giugno, allo scopo evidente di accelerare il processo diplomatico, di prevenire un assalto a<br />

sorpresa della guerriglia durante la cerimonia di insediamento e di consentire a Bush di<br />

trasmettere al pubblico americano l’impressione che stia per cominciare lo “sganciamento”<br />

USA da Baghdad proprio mentre si rende necessario, invece, l’invio di ulteriori rinforzi.<br />

Il premier Allawi lancia un messaggio chiaro alla resistenza: “Non scorderemo mai chi<br />

è stato contro di noi”.<br />

L’annuncio è stato, infine, una forma di pressione diplomatica. Della decisione era a<br />

conoscenza la sola Gran Bretagna, e Bush ha annunciato che il trasferimento era cosa fatta<br />

durante la seduta con un segnale convenuto con Tony Blair. Un incoraggiamento deve venirne<br />

anche agli alleati <strong>eu</strong>ropei; ma anche in questo caso la Francia si è incaricata di smorzare gli<br />

entusiasmi, ribadendo la propria contrarietà a che le operazioni di addestramento avvengano<br />

su suolo iracheno (come si è invece raccomandato il neopresidente Allawi) e il proprio veto a<br />

che ciò accada sotto la bandiera della NATO.<br />

Il sostegno che l’Unione Europea ha concordato con gli Stati Uniti per la ricostruzione<br />

dell’Iraq nel vertice del 27 giugno 2004 in Irlanda è anche il frutto di una nuova strategia. Il<br />

presidente di turno irlandese e il presidente della Commissione Prodi, forse “acido” l’anno<br />

precedente con la Casa Bianca nell’analogo incontro annuale svoltosi a Washington,<br />

schierandosi con Parigi e Berlino, hanno rappresentato una Unione in cui si è appannato il<br />

timbro alternativo, se non antagonistico, agli Stati Uniti, che Chirac e Schröeder miravano a<br />

imprimerle.<br />

Chirac, pensando a una Europe puissance mirava forse a farne d’intesa con Schröeder<br />

una entità politica e militare che parlasse francese. Si sono rassegnati a una costituzione in cui<br />

si riflette una Europa che, mantenendo il veto di ogni membro su politica estera, difesa, fisco<br />

288


e giustizia, non sarà “potere politico”. Nell’immediato, volevano far succedere a Prodi un loro<br />

uomo come il premier belga, ma a nome di tanti altri sono stati stoppati da Blair e Berlusconi.<br />

Subita la battuta d’arresto nell’Unione, Parigi, affiancata da Berlino ma con profilo più<br />

basso, sembra rifarsi nella NATO, al vertice dei capi di stato e di governo che si apre il 28<br />

giugno 2004 a Istanbul. L’incontro si presenta come un’occasione storica per l’alleanza per<br />

definire la propria missione nella nuova situazione internazionale dopo la fine della guerra<br />

fredda. Il Patto Atlantico è nato e cresciuto per la difesa dell’Europa davanti a un avversario,<br />

l’Unione Sovietica, ora scomparso. Adesso la minaccia alla sicurezza dei suoi membri viene<br />

dal terrorismo fondamentalista islamico, come si è visto a New York, a Madrid, a Istanbul,<br />

mentre le stragi quotidiane in Iraq e le prevedibili difficoltà del nuovo governo in tema di<br />

sicurezza, con in più il conflitto israelo-palestinese, mettono a repentaglio l’intera regione.<br />

Non solo alla luce della richiesta di aiuto espressa dal premier iracheno per l’addestramento<br />

del suo nuovo esercito e per “assistenza tecnica”, cioè logistica, armamenti, tecnologia, la<br />

NATO dovrebbe affrontare scelte decisive: andare “fuori area o fuori gioco”: agire oltre i<br />

territori dei suoi membri o contare sempre di meno.<br />

Dopo l’11 settembre, si ebbe la decisione americana di ignorare la decisione NATO di<br />

far scattare la clausola del “tutti per uno, uno per tutti”, preferendo coalizioni ad hoc per non<br />

restare impigliati nel faticoso processo di consenso dell’Alleanza. Ma dopo l’attacco<br />

all’Afghanistan e la cacciata dei talebani, la NATO, d’intesa con l’ONU, si è impegnata in<br />

quel paese, e continuerà a impegnarsi come ha chiesto adesso Karzai: in questo senso, è già<br />

fuori area, come lo è anche nel Kosovo. Per l’Iraq, la risoluzione ONU 1546 approvata nel<br />

giugno 2004 parla della possibilità di appellarsi a “organizzazioni regionali” per la<br />

stabilizzazione: dunque la NATO, ben sedici dei cui 26 membri sono comunque già con dei<br />

reparti in Iraq a titolo individuale.<br />

Davanti a queste scelte la Francia ribadisce il suo no: “né una bandiera né una<br />

mostrina della NATO in Iraq”, afferma Chirac, proprio perché avverte la posta in gioco: una<br />

ridefinizione di grande portata della NATO, del cui comando militare integrato non fa parte,<br />

custodendo l’eredità gollista. L’occasione sarà mancata, e la questione immiserita in<br />

“distinguo” posti dallo stesso Chirac, manifestando una certa disponibilità ad aiutare l’Iraq:<br />

addestramento sì, ma non in suolo iracheno, forse in qualche paese NATO come Italia e<br />

Germania; non un istruttore, non un uomo né un mezzo con insegne NATO in Iraq. Come se<br />

gli incendi nell’area non riguardassero anche l’Europa. Nel Medio Oriente è invece in gioco<br />

anche la sicurezza dei paesi NATO - la Turchia è nell’occhio del ciclone - e di un’Unione<br />

Europea in parte immemore: ben di più che nel Kosovo, dove soprattutto su pressioni francesi<br />

289


la NATO è intervenuta nel 1999 restandovi impantanata e ancora senza soluzioni in vista.<br />

D’altronde, l’instabilità appare come una condizione generale del dopoguerra e<br />

occorre fronteggiarla. In Italia dal 1945 al 1948 sono stati uccisi 30.000 italiani. In Kosovo<br />

dopo cinque anni ci sono uccisioni e stragi e in Afghanistan dopo tre anni si uccidono militari<br />

della peace-keeping e gente del posto.<br />

290


L’EUROPA DÀ IL PRIMO SÌ ALLA TURCHIA<br />

La proposta di mete elevate ma ragionevoli, come il consolidamento dell’intesa tra<br />

Europa e USA, basata sulla rispettiva crescita politica, economica e sociale e sul vicendevole<br />

rispetto, su un piano paritario, ci porta a definire i dettagli di un “problema” a cui si è già<br />

accennato, raccogliendo innanzitutto le informazioni necessarie.<br />

La Commissione <strong>eu</strong>ropea dà il via libera all’adesione della Turchia all’Europa.<br />

Stretta tra la paura di destabilizzare la Turchia e quella di destabilizzare l’Europa, la<br />

Commissione di Bruxelles ha scelto una raccomandazione grondante di “se” e di “ma” per<br />

l’apertura con Ankara dei negoziati di adesione. Ai capi di Stato e di governo che<br />

prenderanno nel dicembre 2004 la decisione finale viene recapitata la testimonianza di un<br />

tormento ancora non risolto.<br />

Franco Venturini scrive sul Corriere della Sera del 7 ottobre 2004:<br />


(dovrebbe esserci una rivoluzione, ha detto Erdogan) la risposta è no”.<br />

Le cautele dell’Europa.<br />

Consideriamo allora come si sono concretizzate le “cautele” dell’Europa, enumerando<br />

le otto raccomandazioni di Bruxelles:<br />

1. Sono stati fatti sostanziali progressi nel processo di attuazione delle riforme<br />

politiche, ma non tutte sono ancora in vigore.<br />

2. Tolleranza-zero nella lotta alla tortura, consolidamento delle misure sulla libertà di<br />

espressione, libertà religiosa, diritti delle donne.<br />

3. La Commissione considera che la Turchia rispetti sufficientemente i criteri politici e<br />

raccomanda che vengano aperti negoziati di adesione.<br />

politiche.<br />

4. Primo pilastro dei negoziati, il monitoraggio da vicino dei progressi delle riforme<br />

5. Nel caso di serie e persistenti violazioni dei principi di libertà, democrazia, rispetto<br />

dei diritti umani e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto saranno sospesi i negoziati.<br />

6. Secondo pilastro sarà la complessità e particolarità dei negoziati, nel quadro di una<br />

conferenza intergovernativa dove le decisioni richiedono unanimità.<br />

7. Terzo pilastro sarà il dialogo politico e culturale, in cui la società civile avrà un<br />

ruolo importante.<br />

8. L’esito delle trattative è indeterminato, ma deve essere assicurato che la Turchia<br />

rimanga pienamente ancorata alle strutture <strong>eu</strong>ropee.<br />

Ma come si è arrivati all’apertura del negoziato?<br />

“Missione compiuta”, si lascia andare, soddisfatto, il tedesco Günter Verh<strong>eu</strong>gen,<br />

commissario all’allargamento, sorridendo al presidente Romano Prodi che gli siede al fianco<br />

dopo la presentazione ai capigruppo dell’Europarlamento del sì della Commissione al via<br />

dell’apertura del negoziato con la Turchia per il suo ingresso nella Unione Europea. Un sì che<br />

è risuonato parecchie altre volte nel dibattito che è seguito nell’aula di Bruxelles, ma che è in<br />

realtà così ancorato a richieste di verifiche da apparire più una operazione di salvataggio che<br />

un via libera.<br />

Lo stesso Romano Prodi del resto ha tenuto a precisare di avere avuto incarico dal<br />

Consiglio (e cioè dai capi di Stato e di Governo) di verificare se ci fossero o no le condizioni<br />

per metter su il tavolo delle trattative. Come a dire che lui, se è entrato nella vicenda, è solo<br />

per caso. Ha avuto una direttiva e si è limitato ad eseguirla.<br />

E comunque sia, non è stato per nulla facile arrivare al semaforo verde. Almeno tre<br />

292


commissari - la spagnola De Palacio, l’austriaco Fischler e il francese Lamy - anche nei giorni<br />

precedenti, hanno storto e non di poco il naso. Più di loro ha fatto l’olandese Frits<br />

Bolkenstein, commissario al Commercio interno, il quale ha anzi fatto mettere il 6 ottobre<br />

2004 a verbale la sua contrarietà, diversamente dagli altri che, sia pur critici, alla fine hanno<br />

fornito il loro sì all’apertura del negoziato.<br />

Non che nell’aula dell’Europarlamento sia andata poi meglio. Anche qui sono fioccati<br />

lo stesso giorno parecchi sì, ma pochi davvero convinti: quello del socialdemocratico tedesco<br />

Schulz (a cui l’<strong>eu</strong>rodeputato Antonio Tajani si è rivolto sorridente, dicendo di aver apprezzato<br />

il suo trovarsi al fianco di Berlusconi), quello del verde Cohn-Bendit e pochi altri. Molti però<br />

i via libera condizionati, molte le richieste di ulteriori paletti, moltissime le perplessità. Ha<br />

prevalso comunque la ragion politica, la difficoltà di accendere un semaforo rosso dopo aver<br />

accettato la richiesta di Ankara. Così se si sono sentiti solo tre secchi no - un francese ha fatto<br />

presente che non si dovrebbe neppure dialogare in presenza di truppe turche in un Paese<br />

dell’Unione come Cipro, un olandese ha lamentato come sarà più facile vedere moschee a<br />

Bruxelles che chiese cristiane a Istanbul e un nazionalista fiammingo ha previsto una spesa di<br />

28 miliardi di <strong>eu</strong>ro l’anno, più di quanto pagato per l’ingresso degli ultimi 10 soci - e se il<br />

capogruppo del PPE il tedesco Poettering, ha suggerito un passaggio preliminare ad un<br />

“partenariato privilegiato”, gran parte della compagnia ha recitato un copione scontato: sì, ma<br />

piano piano.<br />

La Commissione stessa del resto - tanto con Prodi che con Verh<strong>eu</strong>gen - aveva deciso<br />

di indicare questa strada.<br />

Nel documento che verrà recapitato al successivo consiglio dei capi di Stato e di<br />

Governo, si riferirà infatti che Ankara rispetta gli standard richiesti da Bruxelles in base al<br />

Trattato di Copenhagen, ma che a questo punto, nelle trattative che si possono aprire (e che se<br />

non ci saranno controindicazioni dovrebbero portare la Turchia nella UE fra non meno di 10-<br />

15 anni) devono essere definiti: un monitoraggio annuale delle riforme che Ankara deve fare,<br />

una serie di negoziati molto complessi e l’intensificarsi di un dialogo culturale. Fuori dagli<br />

schemi burocratici, si tratta di capire se i turchi dopo aver fatto leggi “democratiche” (no alla<br />

tortura, rispetto della condizione femminile, libertà religiosa) le fanno rispettare o no. Perché<br />

ad esempio proprio riguardo alla tortura, Verh<strong>eu</strong>gen ha dovuto ammettere che la situazione<br />

ancora presenta zone d’ombra. Meno spinose le questioni relative invece a Bulgaria e<br />

Romania (dovrebbero entrare nel 2007 ma Bucarest è in netto ritardo) e Croazia (avvio della<br />

trattativa nel gennaio del 2005). Ma il nodo vero resta Ankara: non si tratta solo di un Paese<br />

geograficamente <strong>eu</strong>ro-asiatico né di una nazione a stragrande maggioranza musulmana. Ma di<br />

293


un possibile nuovo socio che, coi suoi 80 milioni d’abitanti oggi, 100 tra dieci anni,<br />

diverrebbe di fatto il più importante membro dell’Unione Europea a 29.<br />

E ciò determinerebbe, di fatto, uno spostamento degli equilibri a favore dell’eventuale<br />

peso politico e decisionale della Turchia all’interno delle istituzioni <strong>eu</strong>ropee, con<br />

l’affermazione di un nuovo impero (romano?) d’oriente. Sarebbe infatti illusorio ritenere che<br />

la Turchia, con la sua storia imperiale, scelga di restare nella parte dell’Unione ipotizzata dal<br />

giornalista Venturini, precedentemente citato, “più simile ad una zona di libero scambio dalle<br />

ambizioni ridotte”. L’altra parte dell’Unione “più integrata e più presente sulla scena<br />

internazionale”, come ipotizza lo stesso giornalista, verrebbe “di fatto” oscurata dalla<br />

preponderanza numerica, compattata da tradizioni millenarie e ancorata ad un passato<br />

glorioso della Turchia.<br />

La priorità dell’Europa è l’unione politica o l’allargamento dei mercati?<br />

Sondando le reazioni dei vari governi <strong>eu</strong>ropei, possiamo avere un quadro globale della<br />

dinamica in atto.<br />

Soddisfazione, apprezzamento ma anche scetticismo costituiscono la cornice della<br />

trattativa. Le porte dell’Europa aperte alla Turchia hanno destato reazioni diverse nelle<br />

capitali del Vecchio Continente, dove prevale comunque l’idea di lanciare un segnale al<br />

mondo islamico.<br />

ITALIA. Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha rilevato che la Commissione UE<br />

“ha riconosciuto i progressi” della Turchia nel rispetto dei criteri politici di Copenhagen.<br />

Quindi il governo italiano esprime “apprezzamento e soddisfazione” per il primo sì<br />

all’apertura dei negoziati per l’ingresso di Ankara nella UE. Frattini è convinto che<br />

“contribuiremo così a mantenere saldamento ancorato all’Europa un partner d’interesse<br />

strategico come la Turchia”. Dello stesso parere il ministro per il Commercio con l’estero<br />

Adolfo Urso che sottolinea come “la Turchia sia una miniera per il made in Italy”. L’export<br />

italiano continua a crescere. . Fuori dal<br />

coro soltanto la Lega che parla di gesto grave e insensato. “La Turchia - ha detto<br />

l’<strong>eu</strong>rodeputato Mario Borghezio - resta la patria della negazione dei diritti umani”.<br />

FRANCIA. Il Paese è diviso: da un lato la Francia ufficiale che è favorevole,<br />

dall’altro la gente comune che è ampiamente contraria. Secondo un recente sondaggio, il 56%<br />

dei francesi si oppone all’ingresso della Turchia in Europa. Il presidente Jacques Chirac è<br />

personalmente favorevole ad aprire le porte ad Ankara anche se, come ha ricordato pochi<br />

294


giorni prima nel vertice a Strasburgo con Gerhard Schröeder, i francesi dovranno poter dir la<br />

loro sull’adesione della Turchia all’UE e comunque su qualsiasi altro allargamento<br />

successivo. In quell’occasione, Chirac aveva anche annunciato che il governo avrebbe<br />

studiato una modifica costituzionale per permettere ai cittadini di pronunciarsi attraverso un<br />

referendum. E il 6 ottobre 2004 lo ha ribadito: “I negoziati dureranno almeno dieci o quindici<br />

anni” e nel frattempo la Costituzione “prevederà che ogni allargamento, oltre a quelli già<br />

esistenti, implicherà la decisione dei cittadini francesi attraverso una consultazione<br />

referendaria”.<br />

GERMANIA. Dal governo rosso-verde di Berlino, grande avvocato della causa turca<br />

in Europa, arriva il plauso alla decisione di Bruxelles. Critica invece l’opposizione cristiano-<br />

democratica secondo la quale l’UE è ancora impegnata a smaltire l’ingresso dei nuovi Stati<br />

membri e non ce la farebbe a digerire un nuovo allargamento di queste dimensioni. Per<br />

l’Europa, dicono CDU e CSU, significherebbe anche la fine della prospettiva di un’unione<br />

politica. Ma il Governo del cancelliere Schröeder è entusiasta anche se si attendono tempi<br />

lunghi: “Le trattative - ha detto un portavoce - saranno condotte con l’obiettivo<br />

dell’adesione”. Dietro la posizione del governo si nasconde soprattutto un calcolo politico: la<br />

Germania ospita la maggiore comunità turca di Europa (sono 2,2 milioni) e, di questi, la<br />

maggioranza vota rosso-verde.<br />

GRAN BRETAGNA. Anche da Londra arriva il plauso al primo passo della Turchia<br />

verso l’Unione. “Ankara ha fatto grandi cambiamenti negli ultimi anni - ha detto il ministro<br />

degli Esteri Jack Straw - promuovendo le riforme che l’UE aveva chiesto. L’UE ora deve<br />

mantenere gli impegni”. Se la Turchia può contare su un alleato di peso in Europa, questo è la<br />

Gran Bretagna, che voleva addirittura meno paletti all’adesione turca. Londra è infatti<br />

contraria a “trattamenti speciali” per Ankara e a ogni limitazioni della circolazione dei<br />

lavoratori turchi in Europa.<br />

La scelta del governo Chirac di studiare una modifica costituzionale per consentire ai<br />

cittadini francesi di pronunciarsi sull’ingresso di nuovi Paesi, oltre a quelli già esistenti,<br />

appare ponderata e illuminata. Un’Europa troppo grande finirebbe infatti per subire le<br />

traversie disgreganti dell’Impero romano. Sull’onda delle paure o degli interessi economici di<br />

trovare nuovi mercati redditizi, non dobbiamo allargare a dismisura la nostra Unione Europea.<br />

In un documento di sedici pagine che fa il punto sui progressi registrati, la<br />

Commissione rileva, innanzitutto, che l’entrata dei nuovi dieci Stati, a maggio 2004, “ha<br />

rinforzato l’unità del continente <strong>eu</strong>ropeo” e che “gli argomenti storici e politici a favore<br />

dell’allargamento sono eloquenti”.<br />

295


Ma dobbiamo valutare altri argomenti storici e politici che sono sfavorevoli<br />

all’allargamento ulteriore dell’Europa, se vogliamo che diventi protagonista degli equilibri<br />

internazionali e della pace mondiale, e non disgregata e impegnata a tenersi in piedi mentre<br />

vacilla di qua e di là senza baricentro e spina dorsale, come è stata fino ad oggi.<br />

Dobbiamo inoltre tener presente che un interlocutore competitivo interpreta le<br />

concessioni immediate come un segno di debolezza. Solo nelle situazioni più collaborative, in<br />

cui la relazione è già sicura, si può concedere in modo più diretto, supponendo che<br />

l’interlocutore non scambi disponibilità con debolezza.<br />

Un’Europa consapevole della sua identità e del suo ruolo storico non può espandersi a<br />

dismisura, se non smagliandosi e perdendo la sua compagine, oltre alla credibilità,<br />

all’affidabilità e al prestigio. Sono pertanto pienamente d’accordo con Chirac e con i Paesi<br />

che proporranno il referendum quale condizione di accesso della Turchia.<br />

È indispensabile una consultazione degli elettori.<br />

D’altro lato, sul versante turco, nemmeno il referendum popolare previsto dalla<br />

Francia (e da altri paesi) sulla adesione della Turchia sarebbe legittimo secondo Erdogan. “Un<br />

referendum sarebbe una decisione ingiusta, perché per nessun altro Paese è stato fatto<br />

altrettanto nell’UE”, ha affermato suggerendo ai governi <strong>eu</strong>ropei meno disposti verso Ankara<br />

(come Francia, Germania, Olanda, Spagna ed Ungheria) di proseguire con una politica filo<br />

turca senza curarsi degli orientamenti delle popolazioni. “Nessun leader politico è eterno: se è<br />

convinto di una sua politica va fino in fondo e se sbaglia paga con la sconfitta elettorale”, ha<br />

sottolineato il premier turco.<br />

Ma chi non si cura degli orientamenti delle popolazioni è un dittatore, che prima o poi<br />

finirà defenestrato. La nostra democrazia richiede la consultazione da parte dei cittadini. Non<br />

si tratta di discriminare un Paese o un altro, né tantomeno di cercare “scontri di civiltà”, bensì<br />

di concentrarsi sulle priorità da parte di una Europa che deve ancora diventare una Unione<br />

attraverso l’abbattimento delle barriere del pregiudizio. La priorità attuale per l’Europa è il<br />

consolidamento della sua struttura identitaria, in modo che giunga presto a parlare con una<br />

sola voce in politica estera, nella difesa e in altri settori di importanza strategica. Come potrà<br />

essere un’alleata affidabile degli USA nella lotta al terrorismo, se non diventa un colosso alla<br />

pari con gli USA?<br />

Esplorando e rafforzando la coesione su interessi, valori e necessità, si può procedere<br />

a discutere le forme e i modi operativi per raggiungerli insieme.<br />

La forza della collaborazione aumenta se questo nucleo di interessi e valori condivisi è<br />

296


espresso nella forma di una “vision” comune, cioè di una dettagliata e suggestiva immagine<br />

che rappresenti uno scenario futuro ideale e motivante, raggiungibile solo attraverso la<br />

cooperazione di tutte le parti coinvolte. L’immagine di una Europa coesa e forte, una sorta di<br />

colosso inespugnabile, alleata degli USA, incentiva a mettere in gioco tutte le proprie risorse<br />

per imboccare l’irto sentiero della lotta al terrorismo. La necessità di coalizzarsi contro il<br />

terrorismo spinge le parti a non considerare i propri interessi come distinti, ma come un tutto<br />

unico.<br />

Questa “vision” vivida e avvincente ha il potere di trasformare le parti negoziali in<br />

partner negoziali.<br />

L’appoggio dato a metà ottobre 2004 dagli USA, nella veste di Colin Powell, alla<br />

proposta italiana di insediare nell’ONU una “voce” che rappresenti tutta l’Europa è di buon<br />

auspicio in questo progetto “di lunga durata”.<br />

Occorre definire in modo preciso e chiaro il proprio obiettivo finale in modo da averlo<br />

sempre a fuoco durante l’elaborazione del processo che dovrà condurre dallo status quo al suo<br />

raggiungimento. Inoltre, ad ogni tappa del processo negoziale è necessario controllare i<br />

risultati ottenuti rispetto all’obiettivo finale in modo da poter costantemente apporre<br />

correzioni.<br />

Per diventare un colosso, l’Europa deve crescere nella riflessione sulla sua identità, sui<br />

suoi valori condivisi, che definiscono i suoi obiettivi congruenti con la sua identità, e non<br />

solo funzionali ad una strategia di mercato o di interesse politico, in funzione del voto<br />

elettorale della comunità turca presente in Europa. Concentrandosi soprattutto sulle<br />

conseguenze a breve termine delle questioni negoziali, infatti, si dimostra di soffrire di<br />

un’allarmante miopia.<br />

L’identità <strong>eu</strong>ropea.<br />

La democrazia si nutre dell’aperto e anche aspro confronto delle opinioni, ma alla base<br />

ci deve essere il dialogo.<br />

Una legge della cibernetica, la legge della varietà richiesta, dice che ciascun sistema,<br />

per adattarsi all’ambiente esterno, deve incorporare la variabilità tra i suoi controlli interni. Se<br />

si riduce la variabilità all’interno del sistema, il sistema non può far fronte alla variabilità<br />

dell’ambiente esterno. La diversità di punti di vista è la fonte principale di innovazione<br />

continua e di adattamento ai cambiamenti esterni. L’assenza di variabilità genera monoliticità,<br />

ma anche autocompiacimento, se le cose vanno bene o depressione, se le cose vanno male.<br />

Ma è stato dimostrato che in entrambi i casi si arriva alla stagnazione e al declino.<br />

297


Tuttavia, nella prospettiva di una moderna leadership e visione creativa, si staglia<br />

nettamente l’ingresso, in tutta la sua portata, del concetto di Identità, connessa ai valori o<br />

criteri più alti, di cui occorre prendere coscienza, per non essere risucchiati nel vortice della<br />

globalizzazione.<br />

In altre parole, ci può essere un conflitto interno sostenibile, che crea propulsione,<br />

spinta all’innovazione, alla crescita, all’adattamento ai cambiamenti esterni.<br />

Tuttavia, quando il conflitto si focalizza sui valori e sull’Identità, il sistema si logora<br />

ed è avviato al declino esattamente come un sistema totalmente privo di tensioni interne e,<br />

quindi, monolitico. È utile precisare che c’è assenza di tensione, quando la conflittualità<br />

interna viene soppressa, mettendo fuori gioco i “dissidenti”, perché in un “sistema sano” la<br />

diversità di punti di vista è tollerata o anche incoraggiata, cercando ovviamente di canalizzarla<br />

verso risultati utili.<br />

Allora, bisogna chiedersi: quali sono i modi di agire e i valori di riferimento dei<br />

componenti di un sistema? Conta più aumentare i ricavi/comprimere i costi o creare le<br />

condizioni per una sana integrazione e unità interna?<br />

L’Europa non è una sommatoria di PIL variamente distribuiti e nemmeno un contratto<br />

commerciale, in cui basti dimostrare di poter comprare prodotti <strong>eu</strong>ropei, per poter avere un<br />

passaporto identitario. L’Europa è innanzitutto una Grande Famiglia, in cui circolano valori,<br />

tradizioni, storia, relazioni che vanno a costituire una Identità Comune, una Grande Identità<br />

Europea.<br />

L’Europa non gioca perennemente in difesa o agli ordini di qualche altra potenza che<br />

detti le sue condizioni o pressioni. L’Europa è una grande potenza-immagine, capace di<br />

portare i suoi valori e la sua Identità al mondo, quale protagonista di pace negli equilibri<br />

internazionali. Per questo, non possiamo definire il problema dell’adesione di nuovi Paesi<br />

come un problema di PIL o di mercato, consapevoli che l’Europa dei popoli ha una missione<br />

di integrazione all’interno di sé, all’insegna dei valori condivisi, e nel mondo all’insegna della<br />

pace, della libertà e della democrazia. L’Europa non vuole lo scontro di civiltà e per questo<br />

consolida la sua Identità per poter interagire nella consapevolezza di essa, senza negare o<br />

ignorare le sue radici, e dialogando con tutti i Paesi che desiderano confrontarsi, in modo<br />

aperto e cordiale. L’Europa dei popoli non potrà essere una super potenza al pari degli USA,<br />

se non saprà ascoltare la voce dei suoi cittadini. Gli statisti <strong>eu</strong>ropei sono chiamati ad avere il<br />

senso dei cittadini, più che il senso dello Stato, inteso come Moloch dai regimi autoritari.<br />

Ignorando la volontà dei cittadini, ci si sottrae al compito di guida autorevole e illuminata.<br />

Secondo Scott, un piano efficace deve essere semplice, specifico e flessibile. Semplice,<br />

298


in quanto i suoi principi devono poter essere tenuti ben presenti dal negoziatore anche nei<br />

momenti più complessi e confusi della trattativa. Specifico, in quanto la genericità può<br />

ostacolare l’efficacia: la precisione è potere. Flessibile, perché deve lasciare spazio all’ascolto<br />

attivo della controparte e al cambiamento.<br />

Tenendo presente l’Identità dell’Europa e la sua aspirazione di essere protagonista<br />

degli equilibri internazionali e della pace nel mondo, ci facciamo portatori di un piano di<br />

integrazione basato sui valori condivisi e sulle radici storiche comuni e inalienabili e non<br />

consentiremo che il criterio commerciale o elettorale prenda il sopravvento sulla<br />

considerazione di interessi di immagine, di cultura e di civiltà.<br />

Erdogan, intervistato al TG1 serale il 30 ottobre 2004, ha spiegato le ragioni per cui la<br />

Turchia va considerata parte dell’Europa: “Perché in parte è già <strong>eu</strong>ropea; è un corridoio tra<br />

Europa e Asia; è un mercato che vale 4 miliardi di dollari l’anno; è entrata nella NATO; ha<br />

avuto accesso al trattato doganale di Helsinky e Copenaghen nel ‘92”. In questa scorsa<br />

geografico-economica e “burocratica” non c’è alcun accenno all’interculturalità che prende<br />

atto della ricchezza insita nella varietà, che non si propone l’omogeneizzazione e mira solo a<br />

permettere l’interazione più piena e fluida possibile tra le diverse culture. Come potranno<br />

gestire l’interculturalità cento milioni di turchi, che diventeranno molti di più al momento<br />

della decisione finale sul loro ingresso in Europa?<br />

Entrare in una logica interculturale è qualcosa di totalmente diverso dal mirare ad un<br />

“melting pot” (crogiolo) come quello effettuato in America da spagnoli, portoghesi e inglesi.<br />

Secondo la teoria del “crogiolo”, ogni differenza culturale si deve fondere in una nuova realtà<br />

e la fase multiculturale è transitoria, in attesa dell’omogeneizzazione. La multiculturalità<br />

indica una situazione transitoria e limitata nel tempo, dettata da necessità contingenti e non da<br />

scelta, mentre l’interculturalità rappresenta un atteggiamento costante, che prende atto della<br />

ricchezza insita nella varietà, che non si propone l’omogeneizzazione, il livellamento,<br />

l’appiattimento, l’uniformismo, e mira solo a permettere l’interazione più piena e fluida<br />

possibile tra le varie culture.<br />

Il crogiolo linguistico e culturale è certo più facile da gestire di quanto non lo sia una<br />

prospettiva interculturale. In effetti, l’omologazione semplifica il passaggio delle<br />

informazioni e la diffusione di valori omogenei, ma impoverisce in termini di pluralità di<br />

approccio ai problemi. L’Europa ha scelto con chiarezza un modello interculturale, anche se<br />

nei testi dell’UE compare la parola “multiculturale” e chi opera in questo continente deve<br />

tener conto di questa essenziale scelta strategica del nostro contesto socio-politico futuro.<br />

Pertanto, entrare in una prospettiva interculturale e formare alla comunicazione e, più<br />

299


in generale, a un atteggiamento interculturale non significa creare dei cloni di modelli altrui,<br />

anche se sono modelli dominanti come quello americano. La prospettiva interculturale<br />

considera storie e persone diverse e talvolta conflittuali in relazione tra loro, comprendendole,<br />

ma senza mai negare la legittimità delle singole identità culturali.<br />

Perciò, formare alla comunicazione interculturale implica formare:<br />

a) persone che consapevolmente scelgono quali modelli comunicativi e culturali<br />

accettare, tollerare o rifiutare a seconda delle situazioni in cui si trovano;<br />

b) operatori che sanno evitare i conflitti involontari dovuti alle differenze culturali;<br />

c) protagonisti di un mondo che alle pulizie etniche sostituisce la curiosità, il rispetto,<br />

l’interesse per soluzioni diverse da quelle proprie della sua cultura. 1<br />

La situazione comunicativa viene definita anche dalla scena culturale. Le persone<br />

vengono da scene diverse e conservano le regole e i valori del luogo culturale da cui<br />

provengono. Per portare un esempio di problemi comunicativi interculturali, in Turchia un<br />

dirigente italiano che accetta critiche, che ammette errori, ecc., può perdere la faccia ed essere<br />

ritenuto debole. 2<br />

Inoltre, l’argomento di cui parlano gli interlocutori, può non essere condiviso, in<br />

quanto i valori sottostanti ad esso non sono sempre condivisi nelle varie culture, anche se gli<br />

interlocutori possono dimenticarsene.<br />

Il ruolo dei partecipanti è un altro elemento di grave difficoltà: in ogni cultura lo<br />

status sociale viene attribuito e mantenuto secondo valori e regole proprie, spesso molto<br />

distanti, se non contrastanti, tra culture.<br />

Infine, un evento include i messaggi extralinguistici: gesti, mimica facciale, distanze<br />

interpersonali ecc. che sono all’origine di uno dei principali problemi della comunicazione<br />

interculturale.<br />

Ci sono anche scopi dichiarati e non. Le varie culture regolano in maniera diversa il<br />

ruolo in cui si possono rendere espliciti certi scopi. Si tratta di regole che coinvolgono valori<br />

fortemente marcati come la gerarchia, lo status, il rapporto uomo-donna. Il modo di velare o<br />

enfatizzare gli scopi cambia da cultura a cultura e anche all’interno della stessa cultura, della<br />

stessa famiglia.<br />

Ci sono poi gli atteggiamenti psicologici nei confronti degli interlocutori, della loro<br />

cultura, della loro azienda, istituzione, organizzazione, università: rispetto, ironia, diffidenza,<br />

ammirazione, sarcasmo ecc. che emergono nel testo linguistico e soprattutto nei linguaggi non<br />

verbali.<br />

1 Cfr. BALBONI P. E., Parole comuni, culture diverse, Marsilio, Venezia, 2003, p. 18<br />

2 Cfr. op. cit. p. 49 e 93<br />

300


La riflessione su tutti questi punti critici dell’interculturalità non può che stemperare i<br />

facili ottimismi sulla possibilità di un accorpamento di 100 milioni di persone in una Europa<br />

politica, unita da valori condivisi e da radici storiche comuni, e non solo da criteri di PIL, di<br />

ricchezza.<br />

Le questioni in gioco.<br />

Per creare consenso è necessario riconoscere, comprendere e n<strong>eu</strong>tralizzare gli eventi e<br />

le percezioni che possono far degenerare i conflitti rendendoli difficilmente negoziabili.<br />

conflitto.<br />

Nella negoziazione vengono indicate strategie per trasformare le diverse percezioni del<br />

Le strategie sono definite dall’insieme dei mezzi che il mediatore mette in atto per<br />

giungere allo scopo, ovvero il piano generale, il metodo o l’approccio adottati dal mediatore.<br />

Uno dei modi in cui i mediatori interpretano la condotta strategica è quello di<br />

descrivere che cosa intendono fare e in che modo tenteranno di farlo.<br />

Le tattiche sono tutte quelle condotte, che il mediatore pone in atto per acquisire<br />

informazioni utili per delineare le questioni della trattativa, le priorità nonché per favorire le<br />

mosse tra le parti volte a ridurre la loro distanza iniziale.<br />

Le tattiche possono essere comprese solo nel contesto del processo strategico,<br />

all’interno del piano delineato dal mediatore. Perciò non è infrequente che si osservino<br />

sovrapposizioni tra tattiche differenti e mediatori che adottano in modo differente le<br />

medesime tattiche.<br />

Una delle strategie usate nella negoziazione consiste nel n<strong>eu</strong>tralizzare la tendenza a<br />

percepire le questioni conflittuali come questioni di principio, promuovendo una valutazione<br />

economica delle questioni in gioco e quindi trasformando una questione indivisibile (morale)<br />

in una frazionabile (materiale). Thompson e Gonzales (1997) arrivano a sostenere che in<br />

molte negoziazioni le questioni dichiarate sacre e intoccabili in realtà sono ps<strong>eu</strong>dosacre, sono<br />

cioè trattabili a patto di ricevere una adeguata compensazione economica: “tutto ha un<br />

prezzo!”. Ad esempio, il parametrare a livello economico anche materie associate a valori<br />

fondamentali (ad esempio la salvaguardia dell’ambiente) ha permesso di rendere negoziabili,e<br />

quindi anche in qualche misura controllabili, dei problemi come quelli dell’inquinamento,<br />

destinati altrimenti ad arenarsi in una conflittualità irrisolvibile.<br />

Tuttavia, il ridurre ogni questione ad una valutazione economica degli elementi in<br />

gioco può rivelarsi estremamente pericoloso, in quanto fonte di gravi conflitti in futuro. Oscar<br />

Wilde ha detto: “Oggi si conosce il prezzo di tutto, ma non si conosce il valore di niente”.<br />

301


Forse è giunto il momento di connettersi ai valori, per non sprofondare nell’aridità culturale<br />

più totale.<br />

La negazione dei problemi sottostanti ad un conflitto incartandoli con un foglio di <strong>eu</strong>ro<br />

o di dollari o di voti elettorali appare un rimedio di breve durata destinato ad aprire in futuro<br />

nuovi fronti di lotta o di guerra. I finanziamenti americani a Bin Laden nel periodo<br />

dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan, o a Saddam Hussein durante la guerra Iraq-Iran<br />

possono rappresentare un monito a non perpetuare le valutazioni economiche delle questioni<br />

in gioco. Sono forse gli effetti dell’orientamento di ruolo femminile nello stile di gestione dei<br />

conflitti che ci portano ad essere consapevoli e dirette nell’esprimere i “veri problemi”,<br />

anziché a nasconderli o a presentarli in modo distorto, a suggerire di confrontarsi con piena<br />

responsabilità sull’ingresso della Turchia consultando anche il popolo <strong>eu</strong>ropeo.<br />

Il parametrare a livello economico una materia associata a valori, convinzioni, identità<br />

come l’ingresso di un Paese con tradizioni, cultura, storia, usanze, mentalità, ambizioni che si<br />

collocano in una dimensione diversa rispetto a quella <strong>eu</strong>ropea, appare estremamente arbitrario<br />

e foriero di conflitti futuri anche paralizzanti per la crescita e gli equilibri interni e<br />

internazionali dell’Unione Europea.<br />

L’approccio economico, secondo il quale ad ogni bene, o alle volte ad ogni principio,<br />

ad esempio il rispetto dell’ambiente, viene attribuito un valore monetario che è per eccellenza<br />

graduabile e divisibile, rende possibile un certo tipo di negoziazione, e quindi permette di<br />

gestire conflitti in modo incruento su questioni altrimenti intrattabili.<br />

Tuttavia, la possibilità di soluzioni intermedie e compromessi deve tener conto della<br />

complessità della realtà, quando entrano in gioco convinzioni e valori e il livello identitario, in<br />

cui le parti non si riconoscono. Qui non si tratta di volere l’unica mela divisibile, piuttosto che<br />

l’unica ciliegia indivisibile, per cui risulta semplice tagliare la mela in due pezzi per<br />

raggiungere un accordo. Si tratta piuttosto di far confluire all’interno di una realtà politica e<br />

istituzionale - l’Europa - un popolo con una cultura, tradizioni, usanze, identità, ambizioni<br />

radicate in una storia millenaria parallela a quella <strong>eu</strong>ropea.<br />

Ci sono “trappole sociali” che spingono i decisori a un certo comportamento che può<br />

offrire nell’immediato un beneficio o una ricompensa a chi lo mette in atto ma, nel contempo,<br />

far pagare a quest’ultimo un costo o una punizione nel lungo periodo. Tuttavia, anche quando<br />

gli effetti sul lungo periodo sono conosciuti fin dall’inizio, la gente tende a ignorarli. È ciò<br />

che si verifica, ad esempio, quando un individuo è consapevole dei rischi che corre fumando,<br />

ma decide comunque di continuare a fumare dato che la questione - decidere di smettere - si<br />

porrà quando sarà ora, cioè quando incomincerà a sentirsi male.<br />

302


Questa visione miope, che non vede più in là del naso, è estremamente deleteria<br />

soprattutto in politica, dove l’“effetto Bin Laden” e l’“effetto Saddam Hussein” sono<br />

imputabili anche ad una strategia di alleanze mal gestite, rivolte ad ottenere risultati<br />

immediati, ma che nel lungo periodo hanno fatto pagare un costo altissimo e si sono rivelate<br />

una “punizione” per gli USA.<br />

Quando il fumatore accanito che non vuole smettere di fumare si sente male, può già<br />

essere troppo tardi, come nel caso in cui sia presente un tumore in fase avanzata.<br />

La strategia americana di imbottire di dollari e di armi chiunque serva in un certo<br />

momento per combattere un certo “nemico” reale o presunto, senza curarsi della sua struttura<br />

di personalità, delle sue convinzioni e criteri e della sua cultura, ha già sortito effetti<br />

disastrosi, di cui la prossima “vittima” potrebbe essere proprio l’Europa.<br />

Qualcuno può obiettare che la motivazione che spinge ad avviare questo negoziato<br />

appare come bisogno di evitare problemi, in quanto lo “scontro di civiltà” può essere più<br />

costoso dell’accordo. La motivazione ad evitare perdite più che la motivazione ad acquisire<br />

vantaggi sembra il motore della negoziazione in questione. L’alternativa rappresentata<br />

dall’attacco è in prospettiva la meno vantaggiosa.<br />

Le parti devono quindi sviluppare una percezione così chiara dei costi del conflitto<br />

aperto da maturare la motivazione ad evitare queste perdite rendendosi disponibili a<br />

negoziare. Più limpida sarà questa percezione, prima decollerà la trattativa. Più chiaramente le<br />

due parti sapranno raffigurarsi le lunghe e pesanti conseguenze sul clima di un loro eventuale<br />

scontro profondo, prima saranno emotivamente pronte a sedersi attorno ad un tavolo. Si tratta<br />

di raffreddarsi tenendo ben presente il potenziale punitivo della controparte, specialmente nel<br />

lungo periodo.<br />

Tuttavia, occorre constatare che le decisioni prese in fretta senza valutare le<br />

conseguenze nel lungo periodo hanno quasi sempre provocato disastri: guerre, conflitti<br />

interminabili come quello in Medio Oriente tra israeliani e palestinesi. Il voler evitare ad ogni<br />

costo “per principio” uno scontro di civiltà, paradossalmente, può portare esattamente ciò che<br />

si vuole evitare prendendo una decisione affrettata, ostentando il potere punitivo della<br />

controparte.<br />

A questo punto, è doveroso precisare che tra le alternative estreme prospettate per il<br />

negoziato, ossia l’entrata della Turchia nelle istituzioni <strong>eu</strong>ropee in tempi brevi, valutando<br />

l’accesso solo in base al criterio del PIL e il mancato avvio del negoziato, esiste un punto<br />

intermedio di soluzione del “conflitto” che potrebbe coincidere con la costituzione di un<br />

partenariato privilegiato per la Turchia, che tuttavia non prevede il suo ingresso nelle<br />

303


istituzioni politiche.<br />

Pertanto, il comprendere e assecondare le posizioni e gli interessi della controparte<br />

senza sacrificare l’integrità della propria parte rientra nelle linee guida. Un’identità si evolve<br />

e si va plasmando nell’interazione. I paesi dell’Europa dell’Est in meno di sei anni hanno<br />

cambiato i loro riferimenti culturali. Ma ciò può essere esteso tale e quale ad un Paese come la<br />

Turchia con “credo”, tradizioni e ambizioni ben diverse da quelle dell’Europa dell’Est?<br />

Occorre tener presente che è arduo e pericoloso tentare di generare risorse con chi<br />

vuole solo conquistarle. Nella dinamica negoziale, è meglio dimostrarsi sempre per primi<br />

disponibili a correre il rischio di negoziare in modo cooperativo, salvo rimanere pronti a<br />

cambiare stile in conseguenze delle scelte della controparte.<br />

Con le parole di Pruitt e Lewis (1975), “i negoziatori che mantengono un alto livello di<br />

aspirazione e sono lenti nel fare concessioni evitano compromessi prematuri e si prendono<br />

carico dello sforzo che spesso è necessario per cercare un accordo che dia alti benefici<br />

comuni” 3 .<br />

Le elevate aspirazioni resistono meglio alla tentazione di accontentarsi di un mediocre<br />

accordo compromissorio. Inoltre, aspettandosi importanti risultati dalla trattativa, si è più<br />

motivati ad investire energie nell’impegnativo processo negoziale integrativo dove la qualità<br />

dell’accordo è proporzionale a quanto si mettono in gioco numerose attitudini quali: le abilità<br />

relazionali e comunicative, la tolleranza alla frustrazione e la capacità di problem-solving<br />

creativo.<br />

Negoziare un accordo soddisfacente.<br />

I negoziatori che sperimentano contemporaneamente e con la stessa spiccata intensità<br />

l’interesse per i propri rendimenti e quello per i rendimenti della controparte evitano sia il<br />

rischio di un approccio competitivo che è frutto di un’alta ambizione personale e del<br />

disinteresse verso la controparte sia il rischio di un approccio remissivo e compromissorio<br />

frutto di moderate aspirazioni personali e di una forte motivazione a compiacere la<br />

controparte.<br />

Secondo il Dual Concern Model, l’atteggiamento motivazionale che meglio sostiene la<br />

negoziazione integrativa è dato quindi da una forte ambizione personale combinata ad una<br />

pari attenzione ai rendimenti della controparte. Ne consegue che un negoziatore può puntare<br />

al raggiungimento del meglio per sé o per l’organizzazione o lo stato che rappresenta nella<br />

3 PRUITT D. G., LEWIS S. A., “Development of integrative solutions in bilateral negotiation” in Journal of Personality<br />

and Social Psychology 31, 1975, p. 622<br />

304


trattativa solo nella misura in cui egli è altrettanto genuinamente motivato a cercare di<br />

ottenere il meglio anche per la controparte.<br />

Per negoziare in modo integrativo, quindi, l’orientamento al sé e all’altro sono due<br />

dimensioni che devono decollare congiuntamente. Sarebbe più utile combinarli in un unico<br />

concetto e a questo scopo Jeffrey Rubin (1999) ha proposto la nozione di “individualismo<br />

illuminato”. L’individualista illuminato ha chiare e forti aspirazioni personali, ma sa che la<br />

controparte ha pari motivazioni e diritto a volere il meglio per sé. Inoltre è convinto che sia<br />

possibile e desiderabile lavorare insieme per raggiungere entrambi questi obiettivi. Mentre<br />

l’esclusivo orientamento al sé porta all’indipendenza e l’esclusivo orientamento agli altri<br />

porta alla dipendenza, ogni efficace processo di interdipendenza si basa sull’individualismo<br />

illuminato.<br />

In alcune culture, ad esempio in Pakistan, Colombia, Taiwan, è più naturale assumere<br />

un orientamento collettivistico, mentre in altre, ad esempio negli USA, in Gran Bretagna e nei<br />

Paesi Bassi, è più forte quello individualistico. Nelle prime prevale l’interesse verso la qualità<br />

e l’armonia delle relazioni anche a costo di ottenere scarsi rendimenti negoziali, mentre nelle<br />

seconde prevale l’interesse verso i risultati personali anche a costo di commettere ingiustizie.<br />

La strada maestra percorribile appare quella verso un approccio che integri le virtù di<br />

entrambi questi orientamenti culturali. La negoziazione è soprattutto un fenomeno relazionale,<br />

nonostante per molti anni sia stata studiata prettamente secondo una prospettiva economico-<br />

matematica.<br />

Gli elementi relazionali hanno una notevole influenza prima della negoziazione<br />

(reputazione, aspettative, percezioni, ecc.) durante il processo (fiducia, comunicazione,<br />

cooperazione, ecc.) e dopo (fidelizzazione, rispetto, affidabilità, ecc.). Pertanto la qualità della<br />

relazione tra le parti determina in larga misura la qualità dell’accordo a cui giungeranno<br />

negoziando.<br />

Nel determinare la relazione con la controparte contribuiscono i fattori cognitivi, che<br />

influenzano l’accuratezza della percezione degli interessi della controparte. Ad esempio, è<br />

emerso da una ricerca di Thompson e Hastie (1990) che essa è in genere vista come portatrice<br />

di interessi perfettamente speculari ai propri per cui tutto ciò che rappresenta un vantaggio per<br />

la controparte deve necessariamente costituire uno svantaggio per sé e viceversa. Ma anche i<br />

fattori affettivi sono rilevanti e sono costituiti principalmente dal potere, dalla fiducia e dalla<br />

positività del rapporto tra le parti (Pruitt, Carnevale, 1993).<br />

Anche quando la fiducia tra i negoziatori è scarsa, è comunque possibile tentare la<br />

negoziazione integrativa soprattutto se si adottano due accorgimenti (D<strong>eu</strong>tch, 1973; Fisher,<br />

305


1964). Il primo è la reversibilità delle proposte, secondo cui ogni parte deve sentirsi<br />

pienamente libera di ritirare in ogni momento le proprie offerte qualora non venissero<br />

reciprocate. Il secondo accorgimento è la frammentazione, secondo cui le parti abbattono i<br />

rischi della defezione aprendosi alla cooperazione a piccoli passi progressivi e attendono che<br />

ciascuno venga corrisposto prima di passare al successivo.<br />

È stata individuata una serie di condizioni che contribuiscono alla positività della<br />

relazione. La percezione di similarità negli atteggiamenti e nei valori (Byrne, 1977), il<br />

ritenersi appartenenti allo stesso gruppo soprattutto se si è in competizione con un gruppo<br />

esterno (Kramer, Brewer, 1984) l’avere sperimentato un successo nelle collaborazioni passate<br />

o perfino l’aver sperimentato un insuccesso a patto che la scelta di collaborare sia stata<br />

percepita come del tutto volontaria (Turner et Al., 1984), l’essere stati di aiuto alla controparte<br />

in passato (Gaertner et Al., 1990) e l’aspettativa di una futura relazione di reciproca<br />

dipendenza (Pruitt, Kimmel, 1977).<br />

Anche la struttura socio-economica e il sistema politico giocano un ruolo importante.<br />

È stato osservato, ad esempio, che stati che hanno lo stesso sistema politico manifestano un<br />

numero minore di percezioni negative reciproche (Gochman, 1993).<br />

Spesso si corre il rischio di confondere una negoziazione in cui è difficile trovare un<br />

pronto compromesso con una negoziazione impossibile. Nel 1978 a Camp David, Egitto e<br />

Israele si siedono al tavolo negoziale per trattare la pace, dopo che nel 1967, in soli sei giorni,<br />

Israele occupò l’intera penisola egiziana del Sinai. Da subito le posizioni negoziali espresse<br />

da Sadat e Begin appaiono incompatibili. Israele insiste a mantenere una parte del Sinai<br />

mentre l’Egitto vuole riacquisire la sovranità su tutta la penisola. Malgrado un accurato<br />

ridisegnare delle mappe, non emerge alcuna configurazione delle suddivisioni del Sinai<br />

reciprocamente accettabile. Anche una piccola porzione di territorio mantenuta da Israele fa<br />

scattare il rifiuto intransigente degli egiziani, mentre il ristabilimento del confine dov’era<br />

prima del 1967 provoca il veto degli israeliani. Se le due parti avessero avuto mete negoziali<br />

meno rigide ed ambiziose, avrebbero magari potuto accontentarsi di un semplice<br />

compromesso distributivo, del tipo concedere ad Israele il 50% di quella parte del territorio<br />

del Sinai che avrebbe voluto mantenere, e restituire il resto all’Egitto. Entrambi i Paesi<br />

sarebbero però rimasti parzialmente insoddisfatti da un accordo di questo tipo, rischiando di<br />

minare la solidità e la stabilità del processo di pace. Pertanto, la difficoltà ad intravvedere un<br />

immediato compromesso può costituire lo stimolo migliore per puntare ad un accordo<br />

integrativo, se c’è il supporto di adeguate risorse cognitive, emotive e relazionali.<br />

D’altro lato, è noto che il rango, l’identità e il peso dei mediatori giocano un ruolo<br />

306


determinante nella conduzione delle trattative. Un esempio paradigmatico è proprio lo storico<br />

incontro a Camp David nel 1978 tra Sadat e Begin, che poneva fine a 31 anni di guerra tra<br />

Egitto e Israele. In quell’occasione il ruolo di mediatore era giocato da Jimmy Carter, che<br />

godeva del ruolo e del rango di presidente della maggior potenza mondiale.<br />

I mediatori invitarono le parti ad andare oltre le proprie posizioni negoziali<br />

esplicitando la ragione per cui volessero il territorio del Sinai. Cos’era importante per Israele<br />

ed Egitto? Da questa domanda è emerso l’elemento fondamentale su cui si basa ogni accordo<br />

integrativo: la diversità tra le parti. Israele era interessato alla protezione e alla sicurezza dei<br />

propri confini: non voleva rischiare di avere i carri armati arabi ai limiti del proprio territorio,<br />

per cui vedeva nel possesso del Sinai una preziosa cintura di sicurezza contro aggressioni<br />

militari terrestri. L’Egitto era interessato all’orgoglio nazionale di rivedere finalmente la<br />

propria bandiera sventolare su tutte le proprie terre. Questo orgoglio era stato frustrato per<br />

secoli dal susseguirsi di dominazioni greche, romane, turche, francesi ed inglesi.<br />

Gli interessi erano sufficientemente diversi da non essere sovrapposti, per cui la<br />

negoziazione integrativa era possibile. Il territorio del Sinai ritornò del tutto sotto la sovranità<br />

egiziana, ma un’ampia area venne demilitarizzata per garantire la sicurezza di Israele. Nel<br />

Sinai oggi c’è la bandiera egiziana, con piena soddisfazione di quel popolo, e non ci sono<br />

carri armati arabi, con piena soddisfazione di Israele.<br />

In questo caso, la diversità di prospettive, di aspirazioni, di paure e di interessi è<br />

decisamente una risorsa tra gli esseri umani.<br />

Con il concetto di diversità tra le parti negoziali non si indica solo il fatto che esse<br />

desiderano ottenere dalla negoziazione cose diverse - caso non frequente -, ma soprattutto che<br />

esse mirino alle stesse cose con diversa intensità e quindi con diverse priorità.<br />

La diversità, quindi, è da ricercare sia nei possibili diversi obiettivi delle parti sia, e in<br />

modo più attento, nei diversi livelli di priorità che ciascuno attribuisce agli stessi obiettivi.<br />

La differenza, quindi, crea opportunità: quando tra le parti non c’è una perfetta<br />

sovrapposizione di interessi e priorità in relazione alle questioni negoziali, allora si apre lo<br />

spazio per una soluzione migliore rispetto al semplice compromesso, a patto che la diversità<br />

venga accettata e fatta emergere.<br />

Il negoziatore va oltre le globali dichiarazioni circa ciò che si vuole ottenere dal<br />

negoziato, del tipo “voglio il Sinai!”. Il processo prende quota solo quando gli interlocutori<br />

riescono ad esplicitare gli interessi, le aspirazioni e le paure sottostanti alle loro posizioni,<br />

dicendo ad esempio: “voglio la sicurezza o voglio l’onore”. Se le parti si scontrano ad un<br />

livello di semplici posizioni, finiscono per arroccarsi su di esse al punto di perdere di vista<br />

307


cosa veramente cercano dall’accordo. Per superare e approfondire le posizioni, bisogna porre<br />

la domanda “perché?”. Perché vuoi quello che chiedi? Che benefici ti assicura? Che rischi o<br />

perdite ti evita? Quali aspirazioni personali ti consente di perseguire?<br />

Per conoscere gli interessi della controparte, si possono proporre contemporaneamente<br />

varie soluzioni negoziali, ciascuna rappresentativa di una diversa configurazione di interessi.<br />

In base al gradimento che riscuotono, si potrà estrapolare per approssimazioni successive la<br />

struttura degli interessi e delle priorità della controparte.<br />

Uno degli ostacoli psicologici più consistenti al riconoscimento delle differenze tra sé<br />

e l’interlocutore è effetto dell’<strong>eu</strong>ristica del falso consenso (Dawes, 1989). Questa <strong>eu</strong>ristica,<br />

intesa come “scorciatoia mentale” per formulare velocemente giudizi senza impegnarsi in più<br />

complesse elaborazioni cognitive, spinge a formulare indebiti giudizi di similarità tra i propri<br />

interessi e quelli della controparte. Si assume a priori che in realtà “vogliamo tutti le stesse<br />

cose”, e “in fondo siamo tutti uguali” e che quindi sia uno sforzo inutile impegnarsi a sondare<br />

le possibili differenze.<br />

Il trade-off tra le questioni in gioco consiste essenzialmente nel processo per cui<br />

ciascuna delle parti cede sulle questioni prioritarie per la controparte in cambio di avere la<br />

meglio sulle questioni prioritarie per sé. In questo modo la diversità tra le parti può consentire<br />

di incrementare il rendimento negoziale comune dal momento che il guadagno che ciascuno<br />

ricava dalle concessioni che riceve è maggiore del costo di quelle che concede.<br />

Nel caso della Turchia, la questione prioritaria per sé è strettamente connessa con la<br />

sua crescita economica, in quanto si tratta di un Paese povero. Il sostegno economico che<br />

l’Europa può offrire alla sua economia va considerato come rendimento negoziale in cambio<br />

dell’appoggio alla questione prioritaria per l’Europa: l’affermazione della sua Identità storica<br />

e dei suoi valori condivisi e delle radici comuni, che non prevedono quindi l’ingresso della<br />

Turchia nelle istituzioni <strong>eu</strong>ropee.<br />

All’aumentare delle questioni sul tavolo negoziale, si alza la probabilità che le parti<br />

nutrano verso di esse interessi con priorità differenziali, consentendo così l’accordo<br />

integrativo. In altri termini, più questioni si considerano, più differenze emergono e più cresce<br />

il potenziale integrativo della trattativa. Bisogna quindi trasformare la struttura della trattativa<br />

da “mono-issue” a “multi-issue”. Talvolta, una questione è così emotivamente pregnante per i<br />

negoziatori da creare su di essa una focalizzazione che adombra le possibili altre questioni<br />

secondarie, nonostante sia proprio grazie a queste che spesso si raggiunge una soluzione più<br />

vantaggiosa.<br />

Nel caso in cui la trattativa apparisse irrimediabilmente di tipo “mono-issue”, le parti<br />

308


possono impegnarsi a far esplodere la questione in gioco. Si tratta di trasformare un’unica<br />

questione in più di una. Nel caso delle trattative tra Egitto e Israele, una questione<br />

apparentemente monolitica come il territorio del Sinai può esplodere in più questioni quali la<br />

sovranità, il controllo militare, ma anche lo sfruttamento di eventuali giacimenti, il diritto di<br />

transito, le facilitazioni per l’insediamento di coloni, ecc. Si potrebbe affermare che in ogni<br />

risorsa oggetto di trattativa si possono vedere tante caratteristiche quanti sono gli interessi di<br />

coloro che la guardano.<br />

Il modo più efficace per suddividere una questione in sotto-questioni è appunto quello<br />

di osservarla attraverso gli occhi, e quindi gli interessi e i valori delle diverse parti, scoprendo<br />

così che essa può rappresentare cose diverse e tra loro compatibili. La stessa questione può<br />

avere significati anche profondamente diversi per le parti in gioco.<br />

Maggiore è il numero di interessi profondi che le parti rivelano, più aumentano le<br />

possibilità di far esplodere la risorsa.<br />

Un conflitto non può essere pienamente risolto finché le parti non portano in superficie<br />

i loro interessi fondamentali (Burton, 1984).<br />

È raro trovare una questione assolutamente scomponibile. Pruitt e Rubin (1986)<br />

osservano che una singola questione può sempre scomporsi in almeno due componenti: la sua<br />

sostanza e la forma con cui viene discussa. Ad esempio, possono esserci casi in cui una parte<br />

sia disposta a cedere sul merito della questione a patto che la forma con cui si arriva alla<br />

decisione finale le permetta di salvare la faccia, ad esempio venendo coinvolta, ricevendo<br />

spiegazioni o scuse.<br />

Oltre all’allargamento delle questioni, si può ricorrere alle compensazioni specifiche e<br />

aspecifiche. Le prime rappresentano delle nuove risorse che vengono aggiunte al tavolo<br />

negoziale al fine di indennizzare la parte che ha fatto le concessioni più consistenti. La parte<br />

che rischia di uscire più impoverita dal negoziato riceve quindi delle risorse in grado di<br />

soddisfare interesse e obiettivi che sarebbero stati frustrati dalle concessioni fatte. Ciò è<br />

avvenuto, ad esempio, con la proposta del governo Sharon di indennizzare i coloni israeliani<br />

insediati nella striscia di Gaza e della Cisgiordania, dopo la decisione di ritirarsi da questa<br />

area, approvata dal Parlamento israeliano il 26 ottobre 2004. Si tratta di un passo storico nel<br />

processo di pace.<br />

Pertanto, un negoziatore ottiene ciò che chiede e l’altro riceve nuove risorse a titolo di<br />

indennizzo dei costi o dei rischi a cui si è esposto concedendo. Il potenziale integrativo della<br />

trattativa cresce nella misura in cui tale indennizzo richiede un basso costo per chi lo concede<br />

e rappresenta una compensazione interessante per chi lo riceve.<br />

309


Con le compensazioni aspecifiche, viceversa, una parte ottiene ciò che vuole mentre<br />

l’altra è ripagata attraverso qualche risorsa non in relazione con il tipo di questioni presenti<br />

sul tavolo negoziale. Così, mentre la compensazione specifica indennizza il negoziatore più<br />

disponibile alle concessioni cercando di soddisfare lo stesso tipo di interessi che egli ha<br />

sacrificato concedendo, la compensazione aspecifica soddisfa il negoziatore su un tipo diverso<br />

di interessi. Più si approfondisce la relazione e la conoscenza reciproca tra le parti, più diventa<br />

proponibile un allargamento che consenta questo tipo di compensazioni.<br />

Infatti, attraverso il “bridging”, nessuna delle parti negoziali ottiene ciò che<br />

originariamente chiedeva, ma viene sviluppata in modo creativo una nuova opzione in grado<br />

comunque di soddisfare gli interessi sottostanti alle richieste delle parti. Per operare il<br />

“bridging” è quindi necessario non rimanere invischiati nell’originaria e statica definizione<br />

del conflitto. Diventa pertanto indispensabile per le parti analizzare, rivelare e chiarire gli<br />

interessi e gli obiettivi che realmente vogliono soddisfare attraverso le proprie posizioni e le<br />

proprie richieste negoziali. Una volta posti sul tavolo tutti i desideri fondamentali dei<br />

negoziatori, è possibile avviare in modo cooperativo un processo creativo finalizzato a trovare<br />

una soluzione originale che lo soddisfi.<br />

Condizione preliminare per l’accettabilità di un accordo è la sua capacità di soddisfare<br />

più interessi di quelli realizzabili mediante il proprio BATNA (Best Alternative To the<br />

Negotiated Agreement), termine coniato da Roger Fisher, Bill Ury e Bruce Patton nel best-<br />

seller “Getting to YES” per descrivere l’alternativa che una parte potrebbe perseguire se<br />

l’accordo proposto non si realizzasse. Esso include la possibilità di abbandonare il tavolo<br />

della negoziazione, prolungare uno stallo, prendere contatto con altri potenziali<br />

“interlocutori”, cercare di formare nuove alleanze, ecc. Quindi il BATNA determina la zona<br />

del possibile accordo. La disponibilità ad abbandonare il tavolo della negoziazione per seguire<br />

il BATNA è in realtà l’arma più importante. È preferibile avere nella borsa una fantastica<br />

offerta di lavoro - piuttosto che una pistola - durante una trattativa con il proprio capo avente<br />

come oggetto la propria retribuzione.<br />

Non si dovrebbe solo stabilire con precisione il proprio BATNA, ma anche conoscere<br />

accuratamente quello dell’altra parte. Così facendo si possono evitare inutili e spiacevoli<br />

sorprese. Il potenziale accordo e il BATNA dovrebbero funzionare assieme, come fanno le<br />

lame delle forbici quando tagliano un pezzo di carta.<br />

L’interazione sempre maggiore tra popolazioni di cultura diversa ha fatto nascere<br />

problemi con una valenza sempre più marcatamente culturale. Ad esempio, si sono imposti<br />

problemi quali la difesa delle identità linguistiche e culturali particolari, i diritti delle<br />

310


minoranze, i diritti dell’essere umano, l’applicazione della sharia, l’uso del chador, i simboli<br />

sulle bandiere, l’unificazione dell’Europa e i suoi aspetti culturali, l’omogeneizzazione etnica<br />

forzata, la presenza del crocifisso nelle scuole, lo stato di diritto, i canali di informazione.<br />

Sembra che il pianeta sia impegnato in un colossale negoziato dove la posta in gioco è di<br />

ordine culturale. Si tratta infatti di conciliare l’affermazione di particolarismi estremi con la<br />

tendenza all’uniformismo globale.<br />

Il negoziatore deve poter identificare e superare non soltanto i conflitti interculturali<br />

che gravitano attorno agli individui, ma deve anche interrogarsi sugli aspetti giuridici, sui<br />

fondamenti del diritto altrui, e, se questi sono di matrice culturale, diventa difficile “essere<br />

morbidi con le persone” e “severi con il problema”, in quanto il problema si manifesta come<br />

soggettivo. È cioè legato all’uno o all’altro degli interlocutori e quindi è più difficile da<br />

isolare. In genere, infatti, non si negoziano le convinzioni personali, l’educazione dei propri<br />

figli o i propri gusti artistici come si negozia un contratto di locazione o l’acquisto di un<br />

terreno.<br />

Ci sono numerosi negoziatori, consulenti o funzionari, che non dedicano molto tempo<br />

a studiare gli individui o i problemi all’interno dei loro contesti. Tentare di integrare nei<br />

sistemi sociali in crisi comportamenti e leggi senza un’adeguata preparazione e senza un<br />

successivo monitoraggio è controproducente. Tuttavia, è auspicabile il processo di<br />

acculturazione alla democrazia e all’economia di mercato nei Paesi in transizione, in via di<br />

sviluppo, anche attraverso il contributo di diversi professionisti, mediatori interculturali e<br />

giuristi. Ciò non significa che l’esito finale debba essere necessariamente l’accorpamento<br />

all’Europa politico-istituzionale. Altri criteri si profilano, infatti, in una decisione così gravida<br />

di conseguenze per la stessa Unità dell’Europa.<br />

Il gioco si è aperto.<br />

Adesso che finalmente si è aperto il gioco, il 4 ottobre 2005 a Bruxelles, non son pochi<br />

a mettere le mani avanti. “Il sì alla Turchia? L’ingresso non è garantito né automatico, e il<br />

negoziato sarà lungo e difficile anche se deve essere equo”, comunica burbero da Londra Josè<br />

Durao Barroso, dove era al fianco di Blair e Putin per una sessione di lavori UE-Russia.<br />

Anche l’inquilino di Downing Street, che pure è stato tra i più efficaci sponsor di Erdogan,<br />

dice di “capire” le preoccupazioni che circolano nel Vecchio Continente per allargare i confini<br />

comuni fino all’Anatolia e si limita ad osservare l’importanza “del rispetto degli obblighi”<br />

messi nero su bianco a Lussemburgo e validi per tutti i contraenti.<br />

Sono tante, in buona sostanza, le regole d’oro che dovranno esser rispettate per<br />

311


l’adesione turca che, nel migliore dei casi, non avverrà prima del 2014. Intanto, come<br />

rammentava Barroso, il negoziato resta aperto: non implica cioè una automatica accettazione.<br />

Ancora, è previsto che per “gravi e continue violazioni” da parte turca su un numeroso elenco<br />

di temi, il dialogo possa essere bruscamente interrotto. Ancora, c’è la questione cipriota sulla<br />

quale si reclama “un proseguimento degli sforzi per un regolamento globale” delle relazioni e<br />

“ulteriori progressi nella normalizzazione del rapporto bilaterale”. Poi ci sono procedure da<br />

verificare attraverso continui screening da parte di Bruxelles. E infine, c’è la rielaborazione<br />

del capitolo “capacità di assorbimento” che Vienna ha fatto passare per un suo successo per<br />

cui, una volta rispettati tutti i paletti, l’Europa si interrogherà se può accogliere i 100-120<br />

milioni di turchi o se non sarà il caso di rinviare l’appuntamento nel tempo.<br />

Insomma di tagliole ce ne sono parecchie, fanno capire i leaders della UE mentre,<br />

come osserva il commissario alla concorrenza, il finlandese Olli Rehn, “le preoccupazioni<br />

legittime degli <strong>eu</strong>ropei devono esser bilanciate con i vantaggi per gli indirizzi strategici<br />

dell’Unione, specie in tema di stabilità e sicurezza”.<br />

Eppure tanto le mani avanti che gli inviti a guardare più in là, ai benefici che possono<br />

venire dall’intesa con Ankara, non paiono convincere più di tanto. Non solo nei territori dei<br />

25, ma anche a Bruxelles dove, ad esempio, l’Europarlamento non è per nulla soddisfatto che<br />

non ci sia una riga sull’eccidio di armeni e curdi. E dove persino un azzurro come il vice-<br />

presidente dell’aula Mauro trova che la Turchia si nasconda ancora dietro “troppe ambiguità”,<br />

chiedendosi se non andrà a finire “più che con una Turchia più evoluta, con una Europa più<br />

rassegnata”.<br />

Si spaccano orizzontalmente le grandi famiglie politiche continentali. A sinistra c’è chi<br />

esulta ma anche chi lancia segnali allarmati. A destra accade lo stesso. Josep Borrell, lo<br />

spagnolo presidente dell’Europarlamento, da Nicosia, a Cipro, chiedeva l’abbattimento<br />

dell’ultimo muro d’Europa. Ma se a Famagosta sarebbero anche disponibili, sulla costa turca<br />

le orecchie son rimaste tappate. In Italia, alla soddisfazione di tanti s’accoppia l’irritazione dei<br />

leghisti - pronti a chiedere un referendum e, come detto da Maroni “decisi ad opporsi con<br />

ogni mezzo”.<br />

La Lega Nord resta infatti, tra i partiti italiani, il principale oppositore all’apertura<br />

dell’UE alla Turchia. Il ministro delle Riforme Roberto Calderoli ha parlato dell’adesione di<br />

Ankara come di un attacco “al mondo occidentale e alle nostre radici cristiane”, promettendo<br />

che la Lega indirà un referendum sulla questione. Anche il ministro del Welfare Roberto<br />

Maroni ha promesso battaglia. E Giancarlo Pagliarini ha ricordato che la Turchia si ostina a<br />

negare l’esistenza stessa del genocidio armeno. Ma c’è anche la perplessità dell’ex ministro<br />

312


per i rapporti con la UE e mancato commissario a Bruxelles Rocco Buttiglione. Ricordando<br />

come i referendum sull’ingresso della Turchia “diano ad oggi prognosi infauste”, nota come<br />

sarebbe meglio non sottovalutare gli ostacoli ancora sul terreno: “Vanno considerati subito<br />

sennò ci si sbatte contro”.<br />

Ecco i passi principali del documento adottato il 3 ottobre 2005 dai ministri degli<br />

Esteri <strong>eu</strong>ropei per l’avvio dei negoziati di adesione della Turchia all’Unione Europea:<br />

1. Negoziati aperti. I negoziati sono un processo aperto il cui risultato non può essere<br />

garantito in anticipo. Potranno concludersi solo dopo che saranno stabilite le prospettive<br />

finanziarie per il periodo che si aprirà nel 2014;<br />

2. Sospensione dei negoziati. Avverrebbe in caso di violazione seria e persistente, da<br />

parte della Turchia, dei principi di libertà, di democrazia, di rispetto dei diritti umani,<br />

delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto sui quali si fonda l’UE;<br />

3. Rispetto del diritto UE. L’adesione implica l’accettazione del complesso delle norme<br />

e dei principi alla base del diritto dell’Unione;<br />

4. Capacità di assorbimento. La capacità dell’Unione di assorbire la Turchia è una<br />

considerazione importante nell’interesse generale dell’Unione e della Turchia;<br />

5. Cipro. L’UE chiede alla Turchia di proseguire negli sforzi per regolare la questione<br />

cipriota nel quadro dell’ONU e di progredire nella normalizzazione delle relazioni<br />

bilaterali con tutti gli Stati membri dell’UE;<br />

6. Procedure. I negoziati si svolgeranno in una conferenza intergovernativa e saranno<br />

preceduti da un lavoro di screening della Commissione.<br />

“Vittoria storica” per Ankara, ma i diplomatici frenano.<br />

La Turchia ce l’ha fatta, ha ottenuto quello che voleva. Il sospirato negoziato per<br />

l’adesione all’UE è finalmente partito senza alcun riferimento a quel “partenariato speciale”<br />

che costituiva l’incubo di Ankara e che l’Austria aveva sostenuto fino all’ultimo minuto.<br />

Esultano i politici, a partire dal premier Recep Tayyip Erdogan e dal suo vice Abdullah Gül<br />

(“una vittoria storica, anche se il cammino sarà lungo e difficile”); e manifestano <strong>eu</strong>foria gli<br />

ambienti economici, che si aspettano grandi flussi di investimenti stranieri in Turchia fin dalla<br />

fase negoziale - e destinata a durare un decennio - e una maggiore stabilità politica ed<br />

economica. La Borsa di Istanbul ha registrato questi umori, facendo segnare il 4 ottobre 2005<br />

un corposo +3,86% dopo il record di +5,70% della sera precedente.<br />

Anche i comuni cittadini turchi sono per lo più molto contenti, sebbene alcuni temano<br />

cedimenti su temi come il riconoscimento di Cipro o il genocidio degli armeni. La<br />

313


soddisfazione si traduce al momento in una crescita di consensi per il governo e verso la<br />

stessa Unione Europea, che negli ultimi tempi erano nettamente calati.<br />

Meno entusiasti appaiono invece i diplomatici turchi, che prevedono un irrigidimento<br />

del quadro negoziale e si preparato a colloqui irti di ostacoli. Il primo risiede nel concetto,<br />

rafforzato nel documento-quadro approvato a Lussemburgo, secondo cui l’UE dovrà<br />

verificare nel corso del negoziato la propria effettiva “capacità di assorbimento” della<br />

Turchia, un Paese che oggi conta più di 70 milioni di abitanti, che nel 2015 ne avrà almeno 80<br />

milioni e che nel 2020 potrebbe averne quasi 100 milioni. C’è poi il test di verifica, fissato già<br />

nel 2006, sull’apertura dei porti e aeroporti turchi alle nevi e agli aerei greco-ciprioti, oltre<br />

all’impegno di Ankara a riconoscere Cipro prima del suo accesso. I diplomatici turchi sono<br />

poi insoddisfatti del fatto che solo la presidenza di turno britannica ha garantito ad Ankara la<br />

conservazione del suo potere di veto nella Nato.<br />

Allargamento finito o infinito?<br />

Niente polemiche invece sulla ripresa dei negoziati con la Croazia il cui presidente<br />

Mesic spera a questo punto in un ingresso nella UE già nel 2008. E, almeno per ora, nessuna<br />

voce contraria all’avvio dei colloqui con Serbia e Montenegro per una “associazione” che è il<br />

primo passo da compiere in vista della richiesta di adesione. Anche se con Belgrado sono<br />

ancora aperti parecchi conti sui crimini di guerra.<br />

Fino a dove arriva l’Europa? Fino alla Vistola. Ancora un pizzico turbati - per la<br />

maggior parte - dall’annuncio giunto da Lussemburgo del “via” alle trattative coi turchi, i<br />

Popolari Europei (PPE) riunito il bureau politico del gruppo nel castello di Genval, hanno<br />

deciso che non se ne può più di marciare di allargamento in allargamento. E a precisa<br />

domanda del presidente del gruppo, il tedesco Hans Gert Poettering hanno risposto che la UE<br />

finisce in Polonia. Si mettano il cuore in pace bielorussi, ucraini, moldavi e quant’altri. Per<br />

loro, se del caso, sono partenariati privilegiati.<br />

Un coro unanime nel summit del maggior partito dell’Europarlamento - 268 deputati<br />

di 53 diverse formazioni - a differenza che su altre questioni in cui l’avvento della UE a 25 ha<br />

seminato non pochi impicci procedurali ma anche politici. Più sofferta, ad esempio, la<br />

questione del dialogo con l’Islam, posta dal vice-presidente del gruppo Cesa (UDC)che a<br />

questo punto, complice il dialogo coi turchi, diviene fondamentale. Non tutti erano d’accordo,<br />

ma alla fine è prevalso un largo sì: proprio Cesa guiderà un gruppo di lavoro che dovrà<br />

contattare i singoli governi arabi per aprire un canale di comunicazione. Si inizierà a<br />

Bruxelles a metà novembre 2005 con un megaconvegno al quale è stato invitato il presidente<br />

314


della Lega Araba e molti esponenti islamici, senza parlare degli ambasciatori di tutti i paesi<br />

interessati.<br />

315


RIFLESSIONI CONCLUSIVE<br />

La cultura è l’insieme dei modelli culturali messi in atto da un popolo per rispondere a<br />

bisogni naturali: nutrirsi, procreare, proteggersi dal freddo, vivere in gruppo ecc.<br />

Poiché siamo cresciuti all’interno dei modelli della nostra cultura, ne siamo<br />

generalmente inconsapevoli. Ci sembra ad esempio naturale, mentre è “culturale”, che ci sia<br />

un capofamiglia anziché una capofamiglia, che non si debba picchiare chi ha idee diverse<br />

dalle nostre. Ma sono passati pochi decenni dal fascismo, dove venivano dispensate bastonate<br />

o “purghe” a chi non pensava come dettava il regime dittatoriale. D’altro lato, negli stadi di<br />

calcio ci si picchia ancora oggi per tifo, e neppure per diversità di idee. È quindi utile saper<br />

osservare la propria cultura mentre si osserva quella altrui.<br />

Valori culturali diversi<br />

La vita quotidiana di un sempre maggior numero di individui è segnata<br />

dall’onnipresenza di alimenti, tessuti, materie prime, oggetti e simboli che hanno origine nelle<br />

aree più disparate del pianeta. Giornali, televisioni e reti telematiche informano tutto il mondo<br />

su conflitti distruttivi e su conquiste civili, su aspirazioni e su atrocità che in passato avevano<br />

soltanto pochi testimoni locali. Musica, sport, cinema, arti, design, moda e in genere tutta la<br />

cultura giovanile moltiplicano le varietà e le mescolanze di stili e di linguaggi provenienti<br />

dalle più diverse civiltà e tradizioni.<br />

La mappa o visione del mondo che ciascuno di noi ha non si identifica con il territorio,<br />

con la realtà oggettiva o, meglio, la realtà “indipendente” viene percepita in modo diverso,<br />

con rappresentazioni soggettive. Se è utile riconoscere che ogni individuo costituisce una<br />

propria, unica, personale mappa rappresentativa della realtà sulla base delle singole esperienze<br />

individuali connesse ai genitori, alla propria storia, agli affetti, avvenimenti ecc., è altresì<br />

opportuno aggiungere che la mappa di ciascuno di noi si viene formando anche in relazione<br />

all’ambito culturale e alla struttura sociale in cui siamo cresciuti e dove ci troviamo inseriti.<br />

Ad esempio, tra i valori culturali di fondo dei giapponesi c’è l’enryo, cioè la tendenza<br />

ad autocontrollarsi e a non esprimersi in maniera diretta, sia per non esibire le proprie<br />

emozioni e opinioni, sia per non rischiare un grave “peccato” culturale, quello di infastidire o<br />

offendere l’interlocutore.<br />

316


La struttura del “testo” o discorso asiatico permette ad esempio una serie di commenti<br />

prima di giungere, come in un movimento a spirale, a definire il vero argomento, il vero tema<br />

del testo.<br />

Viceversa, il testo anglosassone e scandinavo, ma in parte anche quello francese, è<br />

lineare, diretto: va straight to the point e tutte le informazioni accessorie che nel testo latino<br />

erano collocate in frasi secondarie, in digressioni, qui vengono poste di seguito. Il testo si<br />

presenta quindi come una serie di frasi brevi e semplici, con forte uso di ripetizioni che<br />

riprendono un termine della frase precedente. Le ripetizioni sono invece fortemente osteggiate<br />

in italiano.<br />

D’altro lato, occorre sottolineare che i diversi punti di vista da cui si osserva la<br />

medesima “realtà” si integrano, come pezzi di un mosaico in cui ciascuno offre il suo<br />

contributo essenziale per formare il “quadro” complessivo.<br />

Finalità e valori condivisi<br />

C’è un ostacolo emozionale alla evidenziazione delle diversità. Spesso si ha la<br />

credenza implicita che non si possa avere una buona relazione se si è diversi. Sottolineare le<br />

differenze diventa pertanto un’azione che potrebbe rischiare di incrinare il rapporto. In realtà<br />

ciò che rende forte una relazione non è la semplice uguaglianza ma soprattutto le finalità e i<br />

valori condivisi ed essi possono essere raggiunti spesso grazie al confronto aperto sulle<br />

diversità. Paradossalmente la cooperazione di miglior qualità si nutre di differenze.<br />

Un’Europa coesa e forte si alimenta di queste diversità, avendo presente la propria Identità e i<br />

propri Valori Condivisi.<br />

Gray (1999) illustra efficacemente questo concetto con la storiella degli uomini ciechi<br />

che vagando per la giungla finiscono per arrivare intorno ad un elefante. Il primo entra in<br />

contatto con una zampa e la percepisce come un tronco, il secondo tocca la coda e la<br />

interpreta come una corda, il terzo palpa un orecchio e dichiara di aver incontrato una foglia<br />

gigante. Solo l’esplicitazione, l’accettazione e l’integrazione delle reciproche differenze potrà<br />

permettere a tutti di raggiungere con successo l’obiettivo comune di conoscere correttamente<br />

il proprio ambiente.<br />

Filosofie occidentali e filosofie orientali vengono a poco a poco riconosciute come<br />

parti integranti, e anche complementari, di una medesima ricerca comune sul senso della vita<br />

e del mondo. Religioni e spiritualità di differenti radici e tradizioni si incontrano e si<br />

confrontano nella difficile ricerca di un’etnia planetaria. Si comincia a riconoscere il<br />

contributo originale e importante, per le esperienze e per le conoscenze umane, di popoli che<br />

317


sembravano sul punto di essere travolti dalla storia, quali - tra gli altri - i tibetani e i nativi<br />

americani.<br />

D’altro lato, un limite alla comunicazione è rappresentato dagli stereotipi che gli<br />

interlocutori proiettano sulla controparte. Uno stereotipo tende ad autoconfermarsi<br />

aumentando la sensibilità verso le informazioni che lo rafforzano e portando ad ignorare o<br />

distorcere le informazioni che lo indeboliscono (Sherif, 1958). Inoltre gli stereotipi<br />

restringono il flusso di comunicazione tra le parti impedendo così di smentirli o confutarli. È<br />

difficile comprendere realmente l’interlocutore finché non si mettono in discussione e non si<br />

testano le proprie assunzioni nei suoi confronti. E a volte non si è nemmeno consapevoli di<br />

tali assunzioni.<br />

Dialoghi fecondi<br />

Scienze, arti, miti e spiritualità stanno annodando dialoghi fecondi.<br />

L’interculturalità è un atteggiamento di fondo, che prende atto della ricchezza insita<br />

nella varietà, che non si propone l’omogeneizzazione ma mira solo a permettere<br />

un’interazione il più piena e fluida possibile tra le diverse culture.<br />

Tuttavia, in direzione esattamente contraria a questi sviluppi, molti popoli, civiltà,<br />

gruppi, forme di vita, forme di conoscenza sembrano inclini a un indurimento dei loro confini,<br />

a un irrigidimento dei criteri di appartenenza, a un’enfatizzazione delle distanze che separano<br />

ciò che è percepito come interno al proprio orizzonte di vita e di conoscenza da ciò che è<br />

considerato altro, non controllabile e non assimilabile, e quindi pericoloso o letale.<br />

Il pensiero religioso esprime un modo di concepire l’universo tipico di una comunità<br />

umana più o meno grande. La sharia, per esempio, divide il mondo in due zone: il territorio<br />

dell’Islam e il territorio di guerra (dar el harb). Un’applicazione rigorosa (senza ijtihad) di<br />

tale concetto rende sospetto tutto ciò che proviene dal dar el harb. Ad esempio, un giudice<br />

non musulmano non potrà giudicare un musulmano; prevale la prova di un testimone maschio<br />

e musulmano. Al momento solo in pochissimi paesi tali norme trovano ancora applicazione.<br />

Attestano comunque l’esistenza di norme culturali difficilmente accettabili per altri sistemi.<br />

Forme più o meno virulente di pulizia etnica, religiosa o sociale si moltiplicano in<br />

tutto il pianeta, spesso distruggendo antiche coesistenze. Tutte le religioni, tutte le<br />

appartenenze etniche, tutti i sistemi di pensiero sono oggi esposti al rischio di derive<br />

integraliste e fondamentaliste, tanto più dannose in quanto coniugano omologazione interna<br />

ed espansionismo esterno.<br />

I ripetuti attacchi terroristici in Iraq contro le chiese cristiane, sferrati nell’autunno<br />

318


2004, testimoniano l’equiparazione del cristianesimo alla politica dell’Occidente, come ha<br />

sottolineato il Papa Giovanni Paolo II l’8 dicembre 2004. L’assunzione pregiudiziale di<br />

equivalenza tra un “credo religioso” e una politica rappresenta uno dei rischi più gravi per la<br />

pacifica convivenza tra i popoli.<br />

D’altro lato sul versante <strong>eu</strong>ropeo, l’assassinio del regista olandese Theo Van Gogh,<br />

compiuto il 2 novembre 2004 con un rituale islamico da un militante integralista marocchino<br />

di 27 anni già noto alle forze dell’ordine, sta sollevando resistenze nell’opinione pubblica<br />

sulla compatibilità della presenza in un paese liberale come l’Olanda di movimenti<br />

integralisti. Van Gogh, un intellettuale di spicco che ha creato un film sulla condizione della<br />

donna islamica basandosi sulla testimonianza di una donna messa sotto stretta protezione<br />

perché in pericolo di vita, ha pagato con la morte il diritto di esporre un pensiero critico in un<br />

paese democratico. La sua tragica scomparsa suona come un monito a chi ritiene che la libertà<br />

di espressione sia ormai acquisita e intangibile in una società multietnica in cui i<br />

fondamentalisti sono ben organizzati e vitali. Collettività e individui “devianti” o<br />

semplicemente ritenuti “diversi” continuano dunque a diventare capri espiatori o addirittura<br />

bersaglio di massacri e di genocidi mirati.<br />

Proposte culturali e formative<br />

In questo inquietane scenario, non possiamo né soffocare né ignorare i tentativi di<br />

riportare la “normalità” attraverso il dialogo, soprattutto nelle aree più a rischio, come il<br />

Medio Oriente, per evitare che l’“infezione” si propaghi ad altre aree e/o continenti.<br />

Nonostante le azioni di guerra dell’esercito israeliano e gli attentati kamikaze<br />

palestinesi, c’è chi lavora per la pace, in un modo inconsueto rispetto agli scenari della<br />

politica e della democrazia. Come?<br />

Partendo dalla scuola. Ma si tratta di scuole particolari definite ufficialmente<br />

“democratiche”, libertarie nella pratica e nella teoria. Così si scopre una realtà poco<br />

conosciuta, si potrebbe dire occultata dai media. Una realtà che propone un dialogo fra uguali<br />

invece di costruire muri.<br />

La scuola ha sempre cercato di compensare, attraverso la sua proposta culturale e<br />

formativa, le disparità tra i livelli di partenza degli allievi e di formarli alla cittadinanza<br />

democratica. Nell’attuale contesto è necessaria una riflessione nuova sui concetti stessi di<br />

cultura, formazione e cittadinanza. Gli stimoli e le provocazioni della riflessione<br />

contemporanea come possono essere utilizzati dalla scuola per mirare ad un adeguamento alla<br />

realtà, difficile quanto inevitabile? Con un dialogo fra insegnanti israeliani e palestinesi e,<br />

319


soprattutto, un dialogo fra bambini e studenti israeliani e palestinesi.<br />

Un dialogo che si sviluppa grazie a queste scuole (sono 25 con 4.500 studenti) che<br />

fanno parte della “grande famiglia” dell’IDEC, Conferenza Internazione sull’Educazione<br />

Democratica, un organismo che riunisce scuole alternative e libertarie in tutto il mondo<br />

(Canada, Stati Uniti, Brasile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Danimarca, Norvegia,<br />

Finlandia, Germania, Francia, Polonia, Gran Bretagna, Ungheria, Ucraina, Australia, Nuova<br />

Zelanda, Thailandia, India, Corea del Sud, Giappone ...). Scuole dove non si insegna un<br />

“dover essere” imposto dall’alto, ma dove si rispetta “l’essere”, l’unicità dello studente. Un<br />

luogo dove si esalta la diversità che porta a conoscere e riconoscere l’altro come eguale. Bene,<br />

è anche su questi laboratori di libertà che bisogna scommettere per costruire una vera pace e<br />

una giusta convivenza fra israeliani e palestinesi.<br />

In assenza di un’educazione “democratica”, molti valori degenerano miseramente.<br />

Joseph Borrel, presidente del Parlamento Europeo, è stato intervistato al TG2 serale<br />

sulla Costituzione Europea il 28 ottobre 2004, alla vigilia della firma del secondo Trattato di<br />

Roma, dopo che il primo Trattato fu firmato il 25 marzo 1957, dando vita alla Comunità<br />

Economica Europea, con la libera circolazione di uomini e merci. Alla domanda concernente<br />

il nuovo “ostacolo” che incontrerà la Costituzione, in relazione al voto dei Parlamenti <strong>eu</strong>ropei<br />

e ai referendum popolari che saranno richiesti da alcuni Paesi, Borrel ha risposto che occorre<br />

intervenire “con la pedagogia, con l’educazione, perché la gente capisca”. “La Costituzione<br />

Europea non è una rivoluzione”, precisa Borrel. È l’Europa dei popoli che individua nella<br />

Costituzione una tappa fondamentale per formare l’Europa politica.<br />

Ora si tratta di sciogliere il nodo delle incomprensioni reciproche, dei pregiudizi etnici,<br />

religiosi, linguistici, politici ecc. Un lavoro arduo, ma promettente, attende i politici, gli<br />

insegnanti, gli operatori sociali e turistici, le guide religiose.<br />

Una adeguata impostazione del tema dell’integrazione <strong>eu</strong>ropea è essenziale per<br />

raggiungere l’obiettivo di costituire un’Europa politica, unita nelle differenze, con un ministro<br />

degli Esteri <strong>eu</strong>ropeo, con la responsabilità della difesa e della politica estera e con meno<br />

materie all’unanimità.<br />

Cooperazione e rispetto reciproco<br />

Costruire rapport con l’altro significa dare all’altro l’esperienza di essere compreso e<br />

considerato. Questo non vuol dire rinunciare alle proprie convinzioni e criteri o valori e<br />

nemmeno alla propria identità. Ricalcando o rispecchiando comportamenti, stati d’animo,<br />

interessi, capacità, convinzioni e valori, si può incontrare l’altro a livello di identità, senza<br />

320


inunciare alla propria identità, puntando su ciò che è condivisibile. L’effetto del rapport è<br />

l’instaurazione di fiducia, armonia, cooperazione in una comunicazione e relazione. L’effetto<br />

del rapport è dunque la relazione.<br />

I testi religiosi si prestano spesso ad interpretazioni assolutistiche e dualistiche. È il<br />

buon senso di chi legge che è chiamato a contestualizzare in una dimensione di rispetto<br />

reciproco, confronto e dialogo, solidarietà, valori importanti in una democrazia. Il valore della<br />

pace è connesso a dialogo e rispetto reciproco.<br />

Se consideriamo l’espressione di Gesù “Chi non è con me è contro di me” fuori dal<br />

contesto dell’intero Vangelo letto attentamente, siamo forse indotti a pensare come coloro che<br />

l’hanno impressa con lo spray nero sul muro accanto ad una svastica, nella città in cui vivo. Il<br />

rischio di “filtrare” in modo estremistico espressioni isolate dei testi sacri è sempre presente e<br />

va valutato da parte di chi diffonde i messaggi biblici o coranici o comunque “sacri”, in<br />

quanto il coinvolgimento del livello logico dell’identità sollecita processi che si traducono in<br />

comportamenti. I valori più elevati e le convinzioni coinvolgono infatti l’identità, che a sua<br />

volta determina i comportamenti scelti.<br />

Non esiste comunicazione corretta o sbagliata in assoluto. Il significato della<br />

comunicazione è la risposta che si riceve. La comunicazione può essere vista come un sistema<br />

di feed-back all’interno di un sistema cibernetico. La risposta ricevuta è il feed-back che<br />

influenza la comunicazione successiva.<br />

In altre parole, la comunicazione è definita dal risultato che essa ottiene. La risposta<br />

che otteniamo dalla persona o dal gruppo con cui stiamo comunicando è il significato della<br />

nostra comunicazione, indipendentemente da quello che intendiamo attribuire alla<br />

comunicazione stessa. È possibile, cioè, che la comunicazione non venga interpretata secondo<br />

i nostri intendimenti o desideri, ma spetta a noi osservare quale risposta essa provochi e<br />

rispondere a nostra volta in modo appropriato, ossia variare il nostro comportamento fino a<br />

quando il significato che intendevamo comunicare non sia trasmesso all’altra parte. La<br />

retroazione ci fa sapere quando e in quale misura ciò che stiamo facendo funziona, quando<br />

continuare a farlo e quando invece cambiare il nostro comportamento. In questo processo la<br />

nostra capacità di effettuare sottili distinzioni sensoriali costituirà una risorsa preziosa e un<br />

risparmio di tempo.<br />

La flessibilità<br />

È necessario quindi imparare a “leggere” il risultato e, di conseguenza, variare il<br />

proprio comportamento. La dote maggiore di un individuo o di una organizzazione è quindi la<br />

321


flessibilità, cioè la capacità di variare il proprio comportamento per ottenere il risultato<br />

voluto, per “contenere” gli estremismi, i fondamentalismi.<br />

Il senso di un’appartenenza nazionale può infatti degradarsi nella “malattia”<br />

nazionalista, e la giusta enfatizzazione dell’importanza dei risultati scientifici e tecnologici<br />

può degradarsi in uno scientismo presuntuoso e trionfalista.<br />

Al riconoscimento condiviso dei valori della pace, della tolleranza, dei diritti umani,<br />

della convivenza e della democrazia corrisponde su un altro versante l’esplosione di conflitti,<br />

violenze, efferatezza, distruttività, armamenti, a livelli in passato inconcepibili, fino a<br />

prospettare la possibilità di autoannientamento della specie umana.<br />

I nostri valori sono disposti in scala gerarchica di importanza. C’è una scala generale<br />

di valori e una relativa. Ci si chiede cosa è importante in quel contesto, cosa ci deve essere in<br />

un contesto o quando ci dispiace se non c’è. Il contesto è la cornice che circonda un<br />

particolare evento. Cambiando la cornice, può cambiare il modo in cui un’esperienza<br />

particolare ed un avvenimento possono essere interpretati. Ad esempio, l’espressione “Io ti<br />

assolvo” assume un significato diverso, a seconda che sia pronunciata in un tribunale, in<br />

chiesa o in un salotto.<br />

I nostri valori più elevati entrano nella definizione dell’identità e sono motivanti,<br />

importanti ai fini della comunicazione. Fanno parte della nostra “mappa” del mondo, assieme<br />

alle convinzioni, alle decisioni fondamentali, alle emozioni “preferite”, alle nozioni su di sé,<br />

sugli altri e sul mondo, il tutto espresso con rappresentazioni sensoriali.<br />

È possibile cambiare i valori della gente? Possiamo notare che le persone, crescendo<br />

ed evolvendo nella vita, cambiano da sole i propri valori. Talvolta cambia semplicemente la<br />

loro disposizione nella scala gerarchica, a seconda delle fasi attraversate o delle esperienze<br />

vissute.<br />

In un conflitto di valori, quello al livello più alto prevale.<br />

L’intensificazione della creatività e della varietà delle esperienze individuali e<br />

collettive trova sul polo opposto le omogeneizzazioni e subordinazioni forzate imposte da<br />

piccoli gruppi.<br />

Terrorismo islamico e Islam moderato<br />

Il problema del terrorismo islamico si pone qui con inquietante attualità. Il 17 giugno<br />

2004 aumenta la violenza a Baghdad. A soli 13 giorni dal passaggio di poteri agli iracheni,<br />

un’autobomba ha ucciso 35 persone e ne ha ferite quasi 130, per lo più civili, passanti e<br />

giovani che attendevano davanti al centro di reclutamento per arruolarsi nel nuovo esercito<br />

322


iracheno. Poche ore dopo un’altra vettura imbottita di esplosivo è saltata in aria uccidendo sei<br />

poliziotti iracheni. Una situazione di straordinaria gravità che sta mettendo a rischio il ritorno<br />

nel paese delle Nazioni Unite. Il 16 giugno il segretario generale Kofi Annan è stato chiaro:<br />

“In queste condizioni è impossibile il ritorno dell’ONU”.<br />

Il premier iracheno Ayad Allawi ha puntato il dito contro “paesi stranieri che mirano<br />

all’instabilità dell’Iraq”. Dalla Casa Bianca il presidente George W. Bush ha assicurato che<br />

l’Iraq diventerà comunque “un paese libero”.<br />

E il 24 giugno 2004 una serie di attacchi in Iraq provoca 88 morti e 320 feriti. Sembra<br />

che alla base d questa offensiva terroristica ci sia il tentativo di Restaurazione del partito<br />

Baath di Saddam Hussein: si vuole rimettere le cose come un tempo, perpetuando la dittatura<br />

della vecchia dirigenza.<br />

Il fenomeno del terrorismo iracheno, data la particolare situazione che si è instaurata in<br />

Iraq, va comunque trattato in un capitolo a parte rispetto all’argomento del terrorismo<br />

islamico internazionale e del fondamentalismo.<br />

Sergio Romano scrive sul Corriere della Sera del 25 settembre 2004 che “l’esistenza<br />

di un Islam moderato, a cui il Corriere ha dedicato inchieste e commenti, è oggetto di<br />

parecchi dubbi e di molto scetticismo. Se i moderati esistono, perché non denunciano più<br />

esplicitamente gli orrori del fondamentalismo islamico? Se sono davvero moderati, perché<br />

condiscono le loro prese di posizione con riserve, giustificazioni, attenuazioni? Da queste<br />

domande e dalla mancanza di risposte soddisfacenti molti traggono la convinzione che l’Islam<br />

moderato sia soltanto la maschera di uno spietato fenomeno eversivo e rivoluzionario,<br />

qualcosa di simile al partito Sinn Fein, per molto tempo braccio politico dell’organizzazione<br />

militare irlandese (Ira) che dichiarò contro la Gran Bretagna la guerra del terrore”.<br />

L’Islam ragionevole, tollerante, aperto all’influenza dell’Occidente e desideroso di<br />

uscire dal baratro di arretratezza in cui il mondo musulmano è andato progressivamente<br />

scivolando dopo i secoli del suo splendore sarebbe dunque solo un miraggio?<br />

L’Algeria è stata devastata dai fondamentalisti islamici, che hanno sgozzato interi<br />

villaggi, e ha superato da sola tutti gli ostacoli contro il nazislamismo dilagante.<br />

La donna algerina di cui i fondamentalisti islamici avevano decretato la morte per la<br />

sua difesa dei diritti delle donne, è vissuta per tanti anni in semi-clandestinità in Algeria, non<br />

volendo lasciare il suo Paese, malgrado le gravi minacce di morte. Nel novembre 2004 è<br />

diventata ministro della Cultura.<br />

La frequenza con cui gli “eretici”, buoni o cattivi, dell’Islam sono finiti nel mirino dei<br />

fondamentalisti, dimostrerebbe che questo tipo di Islam esiste, forse a cominciare dal leader<br />

323


egiziano Sadat, ucciso dai Fratelli musulmani. La guerra di Bin Laden contro i regimi arabo-<br />

musulmani modernizzatori, laici o meno, come l’Arabia Saudita, rappresenta un modo di<br />

stroncare l’“eresia” rispetto alla “purezza” dell’ideologia fondamentalista.<br />

La domanda che viene spontanea è allora la seguente: “Ma perché allora permettono<br />

nelle loro società manifestazioni di pensiero fondamentalista e voltano le spalle quando i loro<br />

giornali o le loro televisioni diventano portavoce di messaggi violenti? Perché gli imam delle<br />

società occidentali chiudono un occhio, giustificano l’estremismo dei loro fedeli o addirittura<br />

permettono che le loro moschee diventino centri di reclutamento?”.<br />

“La spiegazione - secondo Romano - è nella fragilità dei regimi politici e delle<br />

comunità musulmane. Pochi leader hanno mantenuto le promesse fatte ai loro cittadini e quasi<br />

tutti hanno alle loro spalle una lunga storia di guerre perdute, risorse sprecate, corruzione,<br />

arricchimenti illeciti, putsch, colpi di Stato, rivoluzioni di palazzo. Sanno di governare società<br />

irrequiete, scontente e attraversate da ondate di nazionalismo frustrato a cui la politica post-<br />

coloniale delle grandi potenze e quella di Israele hanno fornito, in qualche caso, buoni<br />

argomenti. Lo stesso accade nelle comunità islamiche dove l’imam (se non è lui stesso un<br />

fondamentalista) deve tenere insieme un gregge arrabbiato e scontento. I leader sono ambigui<br />

perché sanno che il fondamentalismo esercita una forte attrazione su una parte importante dei<br />

loro cittadini e devono guardarsi le spalle”.<br />

Una simile situazione non appare incoraggiante e sembra sfuggire a qualsiasi<br />

possibilità di controllo. Tuttavia, come rileva Romano, “negare l’esistenza di un Islam<br />

moderato significa dare una carta in più a Osama Bin Laden, giocare il match dalla sua parte.<br />

Per quanto difficile, non abbiamo altra soluzione fuor che quella di tenere distinti i nemici<br />

dagli interlocutori possibili. I primi vanno combattuti duramente, i secondi vanno incoraggiati<br />

a diventare veramente moderati. Magari evitando errori che hanno reso il loro atteggiamento<br />

ancora più ambiguo e acrobatico”.<br />

Il presidente pachistano Musharaf, il 27 settembre 2004, ha parlato nel corso del<br />

telegiornale serale di “modernizzazione illuminata e moderata” dell’Islam, in cui i governi<br />

sono invitati a respingere ogni forma di estremismo. Per aiutarli nella crescita e nello<br />

sviluppo, occorre agire sulla povertà e sull’analfabetismo, che costituisce in larga parte il<br />

terreno di coltura dell’estremismo.<br />

I possibili interlocutori di un dialogo interreligioso e interculturale vanno attentamente<br />

aiutati a “crescere” in direzione moderata, in quanto la convivenza si regge sul rispetto delle<br />

reciproche identità, convinzioni, valori o criteri.<br />

Noi non vogliamo uno “scontro di civiltà”. Ma tale “scontro” è in atto, come pure la<br />

324


Jihad, la “guerra santa”. “Bisogna combatterla e c’è un nemico da combattere”, per usare le<br />

parole del laico Giuliano Ferrara, durante la trasmissione “Porta a porta” del 21 ottobre 2004.<br />

I terroristi sono “nemici” prima di tutto dell’Islam moderato, laico e democratico: dove c’è<br />

democrazia c’è meno terrorismo.<br />

Laicità e laicismo<br />

La “terra di nessuno” del laicismo antireligioso - che non coincide con quello<br />

anticlericale puro e semplice - favorisce l’attecchimento del fondamentalismo islamico e dello<br />

“scontro di civiltà” in quanto viene a mancare su un altro versante un interlocutore con un<br />

“credo” paritetico. Qualcuno può obiettare che c’è anche un “credo” laico o laicista. In realtà,<br />

in questo caso si può parlare di “convinzioni”, più che di credo, perché si esclude a priori la<br />

sfera dello Spirito, che non coincide con quella dell’Io, a cui fa riferimento il “credo laico e<br />

laicista”.<br />

D’altro lato, oggi dobbiamo guardarci anche dall’Inquisizione laicista. Come si è<br />

espresso Giuliano Ferrara durante la trasmissione “Porta a porta” del 21 ottobre 2004, in<br />

relazione al “caso Buttiglione”, il commissario alla Giustizia e Sicurezza e vice-presidente<br />

della Commissione Europea, “è una strega cattolica da bruciare sul rogo”. In particolare<br />

Buttiglione ha citato le madri non sposate nel contesto che precisa: “La famiglia esiste per<br />

permettere alla donna di avere figli ed essere protetta dal marito”. Questa concezione<br />

“conservatrice” fa parte di quello che pensa Buttiglione. In quanto commissario, è tenuto alla<br />

tolleranza verso i gay e le mamme single, e tutti coloro che esprimono “credi” diversi dal suo.<br />

Anche secondo il credo cattolico, non spetta a lui giudicare o tantomeno condannare. Gesù<br />

dice: “Non giudicate e non sarete giudicati”.<br />

Buttiglione ha detto ufficialmente: “Non volevo offendere donne e omosessuali”. E ha<br />

aggiunto: “Non dovevo usare la parola peccato”. Egli ha reso espliciti alcuni principi e valori<br />

cattolici senza per questo sentirsi autorizzato a discriminare chiunque. Pur definendo<br />

“immorali” alcuni comportamenti, ha detto che “non per questo devono essere vietati”.<br />

Essendo rispettoso della legge, delle istituzioni e del mandato ricevuto, si impegna a trattare<br />

questi argomenti come uomo di governo. La discriminazione messa in atto contro<br />

omosessuali e tutti coloro che considerano i rapporti interpersonali in modo diverso da<br />

Buttiglione sarebbe lesiva dei diritti umani fondamentali e Barroso ha inizialmente<br />

provveduto ad incaricare quattro commissari, sotto la sua supervisione - prima delle<br />

dimissioni di Buttiglione -, a gestire quest’area così delicata e intrecciata con le convinzioni<br />

personali, che tutti noi abbiamo.<br />

325


Le radici cristiane dell’Europa<br />

D’altro lato, il Presidente del Senato Pera, laico che “rivendica” le radici cristiane<br />

dell’Europa, in un’intervista comparsa su un quotidiano italiano il 31 ottobre 2004, definisce<br />

Buttiglione “vittima di una congiura anticristiana, di un pregiudizio antireligioso” e parla di<br />

un’“Europa senz’anima; solo la cristianità può dargliela”.<br />

Lo stesso giorno il Papa Giovanni Paolo II benedice la nuova Europa e ribadisce<br />

“l’anima cristiana dell’Europa” e il suo patrimonio spirituale e culturale cristiano.<br />

La negoziazione presuppone una diversità di opinioni, atteggiamenti e credenze in<br />

coloro che la attuano. Sono queste le differenze che costituiscono la sostanza del processo di<br />

negoziazione.<br />

La negoziazione è spesso considerata come un rapporto antagonista nel quale due o<br />

più parti cercano di ottenere il massimo possibile, l’una contro l’altra.<br />

Nel contesto dei rapporti di cooperazione, la negoziazione unifica le diverse parti per<br />

ottenere un risultato superiore a quello che una parte, singolarmente, avrebbe potuto<br />

raggiungere.<br />

È auspicabile che l’incontro tra culture e religioni si traduca in un rapporto di<br />

cooperazione ed è dunque importante evidenziare gli elementi che portano verso questo tipo<br />

di rapporto, in quanto l’alta competitività conduce al massacro di tutti. Il detto “muoia<br />

Sansone e tutti i filistei” potrebbe rivelarsi una tragica realtà, se la direzione assunta dalla<br />

“negoziazione” non fosse di crescita, ma di schiacciamento dell’altro.<br />

Quando la strada imboccata è quella di dimostrare chi è più forte, si è molto deboli. Se<br />

si vince in questo “clima”, ci si fa il più grande nemico. La strategia negoziale della contesa,<br />

in cui due passano la vita a duellare, non lascia spazio all’accordo. La guerra è la risposta<br />

all’impossibilità negoziale. Nella strategia della contesa (in inglese contending) si negozia<br />

sottolineando il proprio punto di vista, ma ci si occupa poco di soddisfare la controparte: io<br />

cerco di avere il massimo dando il minimo. La contesa può tuttavia sfociare nel<br />

compromesso. Occorre salire di livello logico, chiedendosi cosa è importante per noi, da cui<br />

emergeranno i valori o criteri. Se si trova l’accordo sul valore condiviso a cui corrisponde<br />

l’obiettivo comune, si trova la soluzione.<br />

D’altro lato, i conflitti in sé non costituiscono un ostacolo al funzionamento efficiente<br />

delle organizzazioni se sono gestiti in maniera appropriata ai fini del raggiungimento degli<br />

obiettivi delle organizzazioni stesse. È stato osservato, infatti, che i conflitti gestiti in maniera<br />

efficace possono influenzare le prestazioni dei team, aumentandone la motivazione a<br />

modificare lo status quo, la produzione di idee nuove e la riconsiderazione degli obiettivi e<br />

326


delle attività del team (Tjosvold, 1991).<br />

mediatrice.<br />

Un ruolo positivo nelle situazioni conflittuali può svolgere una terza parte, in veste di<br />

Le strategie di intervento adottabili per risolvere in maniera negoziata le dispute<br />

all’interno delle organizzazioni possono essere quelle in cui la terza parte ha il controllo del<br />

processo. Ad essa appartiene la strategia di “controllo dei mezzi”, che implica un intervento<br />

volto a facilitare l’interazione, la comunicazione, comprensione dei punti di vista reciproci, la<br />

definizione delle questioni e delle regole per affrontare la disputa.<br />

In altre strategie di intervento la terza parte ha il controllo dell’esito. Ad essa<br />

appartiene la strategia di “controllo dei fini”, in virtù della quale l’intervento della terza parte<br />

è volto ad influenzare l’esito della risoluzione, mentre i contendenti hanno il controllo sul<br />

contenuto e sulla forma delle informazioni presentate. Tale strategia quindi assegna alla terza<br />

parte il controllo totale della risoluzione finale e la determinazione di quale dovrà essere la<br />

decisione, cosicché egli potrà imporre la risoluzione ai contendenti (Lewicki, Sheppard,<br />

1985).<br />

Unità dell’Europa e politica di condivisione<br />

Nell’incontro che si è svolto tra Chirac e Blair a Londra nel novembre 2004 l’accento<br />

è stato posto su ciò che unisce le politiche dei due Paesi, anziché su ciò che le divide: la<br />

guerra in Iraq è oggetto di contrasti, mentre esiste un’ottica condivisa sul conflitto israelo-<br />

palestinese, sul controllo della corsa agli armamenti nucleari, sulla questione iraniana ecc.<br />

L’unità dell’Europa è ora fondamentale anche per creare una barriera contro il<br />

terrorismo, che punta sulla divisione interna dell’Europa per poterla controllare e manipolare.<br />

Quando l’Eroe diventa Sovrano, l’unità e l’integrità interiore viene trasferita al regno.<br />

Il Sovrano è intero e completo, in quanto l’archetipo unifica il sapere della giovinezza e<br />

quello dell’età matura, tenendoli in tensione dinamica.<br />

L’archetipo del Sovrano abbraccia quindi gli estremi della giovinezza e della maturità,<br />

ma anche quelli del maschile e del femminile. La combattività del Guerriero si congiunge con<br />

la cooperatività del Femminile che può essere personificato da una Dama castellana, signora<br />

del castello.<br />

L’unità interna si riflette all’esterno in un regno di pace e di armonia. Il<br />

raggiungimento del Sé come espressione della propria identità nel mondo trasforma la propria<br />

vita dentro e fuori. Il Sovrano è intero e completo, dopo aver attraversato degli stadi<br />

sperimentali e formativi.<br />

327


L’Eroe classico privato dei suoi veri genitori e allevato da povera gente fa l’esperienza<br />

di vivere con persone più umili per imparare l’umiltà, la compassione e la conoscenza delle<br />

normali difficoltà della vita necessarie a un vero leader.<br />

Molti racconti, fiabe e leggende terminano con la scoperta che il protagonista, in<br />

apparenza un personaggio di umili natali, che ha lottato per superare una serie di ostacoli e di<br />

vicende, è in realtà il figlio o la figlia, da tempo scoparsi, del Re. Questo mito descrive<br />

simbolicamente il percorso evolutivo e trasformativo della vita, dallo stadio di “anonimato”<br />

all’acquisizione della propria individualità.<br />

alchemica.<br />

Il Sovrano androgino è simbolo del completamento del processo della trasformazione<br />

Mentre il Viaggio dell’Eroe viene spesso ritenuto una preparazione al ruolo di leader,<br />

il ritorno dal Viaggio avvia l’unificazione del Regno e la sua trasformazione, mentre il<br />

giovane Eroe diventa il nuovo Sovrano.<br />

Sul versante italiano, per quanto concerne l’accordo sulla politica economica, si<br />

presentano gli stessi problemi di conflittualità tra prospettive diverse, che possono essere<br />

risolti utilizzando la strategia descritta in precedenza.<br />

Trasmettere una visione<br />

Si parla molto del grande potere dei Sovrani. Le persone che hanno successo nella vita<br />

sono quelle che hanno imparato a raccogliere tutte le sfide che l’esistenza lancia loro e a<br />

comunicare questa esperienza a se stessi in modo da poter cambiare positivamente le cose.<br />

Falliscono coloro che, di fronte alle difficoltà della vita, le accolgono come limitazioni. Gli<br />

individui che plasmano le nostre esistenze e le nostre culture sono anche maestri della<br />

comunicazione con gli altri. L’elemento che hanno in comune è la capacità di trasmettere una<br />

visione, un’aspirazione, una missione, una gioia.<br />

Ma il potere supremo è la capacità di cambiare, di adattarsi, di crescere, di evolvere.<br />

Potere supremo non significa che si avrà sempre successo o che non si fallirà mai. E potere<br />

illimitato significa semplicemente che si ha la capacità di imparare da ogni umana esperienza,<br />

e far sì che ogni esperienza in un modo o nell’altro operi a nostro vantaggio. Si tratta<br />

insomma dell’illimitato potere di cambiare le proprie percezioni, le proprie azioni, i risultati<br />

che si ottengono. È l’illimitato potere che si ha di curarsi degli altri e di amarli, che può<br />

trasformare nella misura più ampia la qualità della nostra vita.<br />

Il potere è la capacità di cambiare la propria vita, di ottenere i risultati che si vogliono,<br />

al tempo stesso valorizzando gli altri. Il potere è la capacità di fare in modo che le cose<br />

328


operino a nostro beneficio, non a nostro svantaggio e di concretizzare le proprie intuizioni. Il<br />

vero potere è condiviso, non imposto. Consiste nella capacità di definire i bisogni e nel<br />

soddisfarli, sia i propri che quelli delle persone care o quelli verso i quali si esercita una<br />

responsabilità.<br />

Consiste nella capacità di governare il proprio personale reame, i propri processi<br />

mentali, il proprio comportamento, allo scopo di ottenere esattamente i risultati desiderati. La<br />

nostra cultura non è più primariamente industriale, bensì una cultura della comunicazione.<br />

Nella nostra epoca nuove idee, movimenti e concetti trasformano il mondo quasi<br />

quotidianamente. Il massiccio flusso di informazioni che caratterizza il mondo moderno<br />

determina i cambiamenti. Per dirla con John Kenneth Galbraith: “E’ stato il denaro ad<br />

alimentare la società industriale. Ma nella società dell’informatica, il combustibile, la forza<br />

motrice, è data dalla conoscenza. Abbiamo sott’occhio una nuova struttura di classe: da un<br />

lato coloro che sono in possesso delle informazioni, e dall’altro quanti sono costretti ad agire<br />

in stato di ignoranza. E la nuova classe il suo potere non lo deriva dal denaro né dalla terra,<br />

bensì dalla conoscenza.<br />

Nell’età moderna l’informazione è la merce dei re: coloro che hanno accesso a certe<br />

forme di sapere specialistico sono in grado di trasformare se stessi e, sotto molti aspetti, tutto<br />

il nostro mondo.<br />

Individui che hanno trasformato il nostro mondo, per esempio John F. Kennedy,<br />

Martin Luter King, Wiston Churchill, il Mahatma Gandhi e, intermini molto sinistri, Hitler,<br />

avevano in comune la capacità di comunicare ad altri le loro visioni, si trattasse di viaggiare<br />

nello spazio o di dare vita al Terzo Reich traboccante di odio. Hanno comunicato le loro<br />

visioni con tale coerenza da riuscire ad influenzare il modo di pensare e di agire delle masse.<br />

Grazie al loro potere di comunicare, hanno cambiato il mondo”.<br />

Il potere della cooperazione<br />

Il potere supremo è quello di persone che cooperano, anziché andare ciascuno per la<br />

propria strada. E il gruppo può essere composto dai propri familiari o da buoni amici, fidati<br />

soci d’affari o persone con cui si lavora e di cui ci si cura. Far parte di un gruppo porta a<br />

moltiplicare i propri sforzi, e fa crescere. Gli altri sono in grado di fornirci quei nutrimenti e<br />

quelle sfide che non possiamo procurarci da soli, perché per gli altri si fanno cose che non si<br />

fanno per se stessi. D’altro lato, spesso si ottengono dagli altri cose che rendono più che mai<br />

valida lo cooperazione. Se ci circondiamo di persone che progrediscono, che hanno<br />

atteggiamenti positivi, che mirano a produrre risultati, che ci sostengono, tutto questo ci<br />

329


spronerà ad essere di più, a fare di più e a condividere di più.<br />

La sinergia che ricaviamo dalla programmazione in comune è preziosa. Ma quando<br />

caliamo il tono, abbiamo bisogno di qualcuno che veda le lacune, le incongruenze. La<br />

sensibilità critica, analitica, è di grande importanza in ogni attività, anche economica.<br />

La sfida per un leader consiste nell’avere potere e capacità di visione sufficienti a<br />

prevedere il risultato che deriverà dalle sue azioni, grandi o piccole che siano. John Naisbitt<br />

ha scritto che la maniera migliore di predire il futuro è di avere una chiara idea di quello che<br />

sta accadendo attualmente. Qualcun altro ha osservato che il profeta non è uno che predice il<br />

futuro, ma uno che il futuro lo prepara. Questo libro, con il suo proposito di scandagliare il<br />

significato dell’essere <strong>eu</strong>ropei senza barriere nel mondo attuale, ha analizzato alcuni processi<br />

fondamentali che ci portano a liberarci della zavorra delle ideologie e dei pregiudizi.<br />

La differenza fra presentazione e persuasione<br />

Nell’antichità classica ci sono stati due grandi oratori: Cicerone e Demostene. Si dice<br />

che quando Cicerone aveva finito di parlare, l’uditorio lo applaudiva sempre calorosamente<br />

gridando: “Che grande oratore!”. Quando Demostene finiva il suo discorso, la gente diceva:<br />

“Diamoci da fare!”. E si mettevano subito in moto. È questa la differenza fra presentazione e<br />

persuasione.<br />

Quelli che fanno, che mirano al risultato e plasmano la propria vita esattamente come<br />

desiderano che sia si differenziano da coloro che si limitano ad avere vaghe aspirazioni. Che<br />

differenza corre tra chi fa e chi non fa? Come si spiega che certe perone superino terribili,<br />

incredibili avversità e facciano della propria vita un trionfo, mentre altre, nonostante i<br />

vantaggi di ogni genere di cui godono, abbiano internamente il vuoto assoluto, mentre<br />

esteriormente non gli manca nulla, e portino le proprie vite al disastro? Marilyn Monroe o<br />

Ernest Hemingway, che avevano avuto enorme successo, hanno finito per autodistruggersi,<br />

mentre altri conducono un’esistenza gioiosa, malgrado avversità di ogni genere.<br />

Comunicare con se stessi<br />

La differenza consiste nel modo in cui comunichiamo con noi stessi e nelle azioni che<br />

compiamo. A distinguere fallimento da successo è ciò che ci accade; a fare la differenza è il<br />

modo con cui percepiamo ciò che ci “accade”.<br />

Il significato di un evento può rappresentare un motivo per abbandonarsi alla<br />

disperazione o a qualsiasi altra cosa deprimente. Oppure possiamo decidere di comunicare<br />

coerentemente a noi stessi che quella esperienza ha avuto uno scopo e che prima o poi ci<br />

330


procurerà vantaggi ancora maggiori per il raggiungimento del nostro fine.<br />

stessi.<br />

La chiave per riuscire sta dunque nel padroneggiare la propria comunicazione con se<br />

Il Viaggio esistenziale comporta che il mondo interiore e quello esteriore si riflettano a<br />

vicenda. Il bravo Sovrano comprende la connessione fra interno ed esterno, fra il Re/Regina e<br />

il regno e non può farsi illusioni sul proprio conto. Deve conoscere il proprio Sé Ombra ed<br />

essere pronto ad assumersene la responsabilità. Talvolta questo vuol dire prendersi addirittura<br />

la responsabilità di vedere che si è diventati dei despoti, duri e dogmatici, o Re Pescatori<br />

deboli e malati, e che in pratica il nostro regno è diventato un deserto perché noi dobbiamo<br />

rinnovarci e guarire. Nell’un caso e nell’altro, dobbiamo lasciare la presa mortale sul regno o<br />

sulla nostra psiche, e lasciar emergere una nuova voce.<br />

Le nostre scelte dipendono da quelli che, al momento, consideriamo i nostri valori<br />

supremi. E quindi occorre scoprire quali sono in effetti i nostri valori. Ed ecco che allora si<br />

capisce perché si fanno certe cose o perché altri si comportano in un certo modo. I valori<br />

costituiscono uno dei supremi strumenti di scoperta del modo di funzionare di una persona.<br />

Anche la storia può costituire un fertile terreno di recupero dei valori, che stanno alla<br />

base del comportamento dei protagonisti di essa.<br />

Non possiamo procedere a ritroso nel tempo. Non possiamo mutare ciò che è<br />

affettivamente accaduto. Possiamo però mutare le nostre rappresentazioni in modo che ci<br />

forniscano qualcosa di positivo per il futuro. E il recupero dei valori, al di là di ciò che è<br />

accaduto, rappresenta il ponte costruttivo attraverso il quale si può recuperare il meglio anche<br />

“filtrando” la barbarie.<br />

Se qualcuno mi chiedesse ora cosa ritengo di aver generato attraverso questo libro,<br />

risponderei istintivamente: “Sono stata una creatrice di possibilità, un catalizzatore di crescita,<br />

una costruttrice di percorsi culturali e individuali, una produttrice di emozioni, istigando<br />

all’entusiasmo per la scoperta di nuovi orizzonti culturali creativi. Non dobbiamo essere<br />

prigionieri del passato. Ridefiniamo noi stessi, affrontando nuove iniziative con fiducia e<br />

spirito di realizzazione”.<br />

Avete mai tentato di comporre un puzzle senza prima aver visto l’immagine cui deve<br />

corrispondere? È proprio ciò che succede quando si cerca di organizzare la propria vita o<br />

un’attività senza conoscere gli esiti cui si mira. Se invece questi sono noti, si fornisce al<br />

cervello una chiara immagine delle informazioni ricevute dal sistema nervoso alle quali si<br />

deve attribuire l’assoluta priorità. Bisogna trasmettergli messaggi chiari perché il cervello<br />

operi in maniera efficiente.<br />

331


Occorre fornire segnali al nostro cervello, in modo da elaborare un modello chiaro e<br />

conciso dei risultati. Gli obiettivi sono simili a magneti, nel senso che attraggono le cose che<br />

li rendono realizzabili. Il cervello ha bisogno di acquisire un’immagine sempre più chiara e<br />

intensa di ciò che ci proponiamo di compiere. Il cervello risponde soprattutto a ripetizioni e<br />

sentimenti profondi, ragion per cui se riusciamo a sperimentare in continuazione la nostra<br />

esistenza quale la desideriamo, con l’accompagnamento di profondi e intensi sentimenti,<br />

avremo la quasi certezza di attuare i nostri desideri.<br />

Formulare i propri obiettivi<br />

Ma come si fa a formulare i propri obiettivi, sogni e desideri, a fissarsi bene nella<br />

mente ciò che si vuole e come fare per ottenerlo?<br />

Ci sono individui che sembrano sempre perduti in un mare di confusione. Procedono<br />

in un senso, poi in un altro, imboccano una strada, e all’improvviso fanno retromarcia: non<br />

sanno quello che vogliono, ma non si può raggiungere un obiettivo se non lo si conosce. È<br />

indispensabile sognare in maniera concentrata, focalizzata, scoprire quello che ci si propone<br />

di essere, di fare, vedere e creare, fissare obiettivi e determinare esiti, tracciare una mappa<br />

delle strade da percorrere nel corso dell’esistenza, prefigurarsi dove si vuole arrivare e come<br />

ci si propone di giungervi.<br />

È necessario decidere consciamente ciò che si vuole, perché dal saperlo dipenderà ciò<br />

che si realizzerà. Prima che qualcosa accada nel mondo esterno, deve aver luogo nel mondo<br />

interno, e quando si ha una rappresentazione interna di ciò che si vuole, ecco che si verifica<br />

qualcosa di assai singolare: la nostra mente e il nostro organismo vengono ad essere<br />

programmati al raggiungimento di quello scopo.<br />

Per superare le nostre attuali limitazioni, dobbiamo innanzitutto sperimentare una<br />

maggiore concentrazione mentale, in modo che la nostra esistenza possa trarne beneficio. Si<br />

crea una nuova realtà esterna, programmando il nostro cervello a superare i precedenti limiti.<br />

Creando nella nostra mente la rappresentazione di ciò che vogliamo, ci accingiamo a creare la<br />

nostra esistenza quale noi vogliamo che sia, riuscendo a proiettare all’esterno la nostra realtà<br />

interna.<br />

Il proposito di fare qualcosa è una motivazione assai più forte dell’obiettivo che<br />

perseguiamo. Le ragioni per fare qualcosa costituiscono la differenza tra essere<br />

semplicemente interessati e impegnarsi concretamente nel raggiungimento di una meta. Molte<br />

sono le cose che diciamo di volere, mentre in realtà ci limitiamo a nutrire per esse un interesse<br />

passeggero. Per ottenere dei risultati, dobbiamo essere totalmente impegnati in quel senso. Se<br />

332


per esempio ci limitiamo a dirci che vogliamo diventare <strong>eu</strong>ropei uniti, sia pure nella diversità,<br />

ciò rappresenta una meta, che però non dice molto al nostro cervello. Se invece<br />

comprendiamo che cosa vuol dire essere “<strong>eu</strong>ropei uniti”, che cosa significa per noi diventarlo,<br />

saremo molto più motivati a realizzarlo, dal momento che il perché si fa qualcosa è assai più<br />

importante del come lo si fa. Se abbiamo un perché sufficientemente forte, riusciamo anche e<br />

sempre ad immaginarci il come. Se abbiamo abbastanza ragioni, possiamo in pratica ottenere<br />

tutto.<br />

Talvolta, però, può succedere di immaginare lo scenario peggiore possibile,<br />

permettendo poi a quella rappresentazione interna di impedirci di intraprendere un’azione.<br />

Tutti noi abbiamo modalità di autolimitazione, abbiamo strategie di fallimento, ma il fatto di<br />

riconoscere le nostre trascorse strategie limitanti ci permette, a questo punto di cambiarle.<br />

Possiamo sapere ciò che vogliamo, perché lo vogliamo, chi ci aiuterà, e molte altre<br />

cose, ma l’ingrediente chiave, quello che in definitiva ci permetterà di raggiungere i nostri<br />

obiettivi, è costituito dalle nostre azioni. Per guidarle, dobbiamo elaborare un piano gradino<br />

per gradino. Per costruire una casa, abbiamo bisogno di un progetto, di una pianta, di una<br />

sequenza e di una struttura, in modo che le nostre azioni si rafforzino a vicenda. In caso<br />

contrario, avremo semplicemente una caterva disordinata di materiali. Lo stesso vale per la<br />

nostra esistenza. Occorre tracciare un piano in vista del conseguimento di un obiettivo. Quali<br />

sono le azioni da compiere con costanza per ottenere il risultato desiderato?<br />

Dobbiamo cominciare con l’obiettivo finale e quindi procedere all’indietro, passo<br />

dopo passo. Possiamo tracciare una mappa del sentiero da seguire, dal nostro obiettivo finale<br />

a ciò che possiamo fare oggi stesso. Che cosa dobbiamo fare innanzitutto per realizzarlo? E<br />

che cosa ci impedisce di raggiungerlo adesso? Che cosa possiamo fare per cambiare la<br />

situazione? La risposta alla domanda costituisce l’indicazione di qualcosa da compiere subito<br />

per cambiare. La soluzione di questo problema diventerà un obiettivo corollario, ossia un<br />

gradino verso il raggiungimento dei nostri obiettivi maggiori. I nostri programmi devono<br />

comprendere ciò che possiamo fare oggi. Dopo aver definito gli obiettivi a breve e a lungo<br />

termine, e anche gli aspetti che sono di aiuto o di ostacolo nella realizzazione, è necessario<br />

elaborare una strategia relativa al come arrivarci.<br />

Auspico che la prospettiva avanzata in questo volume sia coerente con i bisogni e le<br />

aspettative dei cittadini, essendomi impegnata a formularla in maniera chiara, comprensibile e<br />

al tempo stesso esauriente, in quanto l’estrema sintesi o concisione, pur essendo produttiva in<br />

fase riassuntiva, non si presta a snocciolare le argomentazioni, che devono risultare<br />

convincenti per un pubblico variegato, che va dagli storici ai filosofi, agli psicologi, ai<br />

333


politici, ai politologi, al semplice cittadino che vuole essere informato sui pro e contro di<br />

determinate scelte politiche, sociali, culturali, economiche ecc.<br />

La lettura acritica o carica di “filtri deformanti” dei libri di storia ha “generato” un<br />

orientamento politico “pregiudiziale”. Badare alle nostre reazioni senza affrontare le cause è<br />

un po’ come cambiarsi di camicia senza farsi la doccia: ci si illude di aver eliminato un<br />

inconveniente che in realtà rimane. Per questo è indispensabile rivisitare i fatti storici senza<br />

“lenti colorate” che alterino i colori reali e senza maquillage che coprano la realtà.<br />

Il piacere di comunicare passa anche attraverso le immagini, che in questo caso<br />

svelano una sintonia con il ruolo assunto in questo libro.<br />

Il buon giardiniere cura il terreno nel quale ha messo le sue piante di rose. Si può dire<br />

che comunica con esso e lo stato delle rose è il messaggio di risposta che il giardiniere riceve<br />

dal terreno. Dallo stato dei suoi boccioli egli cerca di capire se il terreno è troppo acido o<br />

troppo duro o troppo asciutto o privo del nutrimento necessario alle piante. Proverà a<br />

concimarlo: un fiore precocemente appassito lo porterà a concludere che forse qualcosa non<br />

va e ne cercherà la causa. Un fiore marcito dopo avere annaffiato le piante lo avvertirà che<br />

forse gli è stata data troppa acqua. Così, il giardiniere modificherà il suo comportamento in<br />

base alla reazione del terreno, resa evidente dallo stato delle rose.<br />

Il buon giardiniere è determinato nel far crescere le sue rose e verifica tutte le<br />

alternative a sua disposizione per far accettare dal terreno le nuove piante. Ogni suo intervento<br />

sarà originato dall’attenta valutazione delle risposte del terreno. Non appena otterrà la prima<br />

risposta positiva, un piccolo miglioramento della “salute” delle sue rose, sarà pronto a<br />

riconoscerla e a continuare con cautela sulla strada indicata da quel piccolo segnale positivo.<br />

Nel suo desiderio di veder crescere le sue piante, egli non personalizza il suo rapporto con il<br />

terreno, cioè non considera le reazioni del terreno come insulti alla sua persona né si<br />

considera vittima di un pezzo di terra refrattario a ogni intervento. Egli continua comunque a<br />

comunicare con questo finché non avrà ottenuto una risposta positiva.<br />

334


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ZASLAVSKY V., Lo stalinismo e la sinistra italiana, Mondadori, Milano, 2004<br />

336


337


Gigliola Zanetti, psicologa e psicoterap<strong>eu</strong>ta, con questo libro ha realizzato la<br />

continuazione dei precedenti volumi incentrati sul tema del pregiudizio e le sue conseguenze<br />

in vari ambiti: sociale, politico, culturale, pedagogico, individuale ecc.<br />

L’Unità dell’Europa presuppone uno spirito libero dagli schemi anchilosanti e una<br />

politica di condivisione.<br />

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