ESSERE EUROPEI SENZA BARRIERE - Gigliolazanetti.eu
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GIGLIOLA ZANETTI<br />
<strong>ESSERE</strong> <strong>EUROPEI</strong><br />
<strong>SENZA</strong><br />
<strong>BARRIERE</strong>
Riguardo a tutte le azioni di iniziativa e di creazione<br />
c’è una verità elementare:<br />
appena uno si impegna a fondo<br />
anche la Provvidenza si muove.<br />
Johann Wolfgang Goethe<br />
Non è necessario fare grandi cose.<br />
Basta fare le piccole cose con amore.<br />
MADRE TERESA DI CALCUTTA.<br />
1
Se non impariamo<br />
dalla storia saremo<br />
obbligati a riviverla,<br />
è vero! Ma se non<br />
cambiamo il futuro<br />
saremo costretti a<br />
subirlo, e questo<br />
potrebbe essere anche<br />
peggio!<br />
Alvin Toffler<br />
Se ho visto così<br />
lontano, è perché<br />
sono salito sulle<br />
spalle dei giganti.<br />
Isaac Newton<br />
2
L’idea di avviare una nuova cultura che salvaguardi l’identità <strong>eu</strong>ropea, sia pure nel<br />
contesto del dialogo interculturale e interreligioso, anima i temi presentati nel libro. In una<br />
società democratica “ordine” significa integrazione della diversità, recupero e valorizzazione<br />
della risorse, pari opportunità nella diversità, molteplicità nell’unità e unità nella molteplicità,<br />
pluriverso anziché universo, organizzazione. Le idee pregiudiziali sono una sorta di “filtro<br />
deformante” rigidamente inforcato dalle persone come se fosse una “lente colorata” inserita<br />
negli occhiali e mai tolta. A loro volta queste idee sono il frutto di esperienze di vita, di<br />
osservazioni, ma anche di una crescita personale che può essere incompleta o interrotta da<br />
eventi traumatici o disturbanti. Il pregiudizio è bidirezionale, rivolgendosi tanto alle<br />
minoranze quanto alle maggioranze da parte delle minoranze.<br />
L’unità e la coesione dell’Europa implicano l’abbattimento delle “barriere mentali”<br />
che dividono popoli e nazioni. Una pedagogia focalizzata sull’identità è finalizzata a dissipare<br />
i danni connessi all’omologazione, all’omogeneizzazione e all’uniformismo “a tutti i costi”.<br />
La delocalizzazione da una parte e l’immigrazione dall’altra hanno comportato una<br />
paura di perdita di identità, che può essere arginata ripristinando la conservazione dell’identità<br />
originaria, tenendo comunque presente che l’identità evolve e si arricchisce attraverso le<br />
pluriappartenenze. Mantenendo salde le radici, tuttavia, non corriamo il rischio angosciante di<br />
sentirci sradicati e depauperati del nostro patrimonio identitario.<br />
3
SOMMARIO<br />
PREMESSA………………………………………………………………………………….p.6<br />
CAPITOLO INTRODUTTIVO……………………………………………………………..p.7<br />
Capitolo I<br />
PREGIUDIZIO, DIDATTICA E PEDAGOGIA…………………………………………p.37<br />
- Anche gli scienziati hanno pregiudizi?……………………………………………………p.37<br />
- La didattica della storia nella formazione dell’individuo…………………………………p.44<br />
- Insegnare la storia in un’ottica evolutiva………………………………………………….p.61<br />
Capitolo II<br />
QUANDO GLI SCHEMI CULTURALI COSTITUISCONO UNA GABBIA………..p.71<br />
- La pedagogia come formazione dell’identità……………………………………………..p.71<br />
- Nuovi progetti educativi…………………………………………………………………..p.76<br />
- Il superamento del pregiudizio nell’educazione dei bambini………………………..……p.83<br />
- Individualismo o cooperazione?………………………………………………………..…p.90<br />
- La percezione comune e condivisa………………………………………………………p.118<br />
Capitolo III<br />
LA POLITICA SOCIALE DELL’EUROPA INCENTRATA SULL’IDENTITÀ……p.133<br />
- Il viaggio dell’Eroe o Eroina……………………………………………………………p.133<br />
- Dialogo o guerra?……………………………………………………………………….p.152<br />
Capitolo IV<br />
INVITO A SVILUPPARE UN PROGETTO…………………………………………..p.172<br />
- La funzione delle radici nell’espansione del progresso………………………………….p.172<br />
- Nuove strade da percorrere………………………………………………………………p.190<br />
- Fra tradizione innovazione: la donna di oggi e di domani………………………………p.212<br />
4
Capitolo V<br />
LE “LENTI” CHE METTIAMO TRA NOI E LA REALTÀ……………………….p.219<br />
- L’influenza delle mappe cognitive culturali di dominazione……………………………p.219<br />
- La memoria e la storia possono fondare l’Identità Nazionale?………………………….p.244<br />
Capitolo VI<br />
DOVE STIAMO ANDANDO…………………………………………………………...p.259<br />
- Il futuro dell’integrazione <strong>eu</strong>ropea………………………………………………………p.259<br />
- La nuova Costituzione e la nuova Europa……………………………………………….p.271<br />
- L’intesa USA-Europa si rafforza………………………………………………………...p.283<br />
- L’Europa dà il primo sì alla Turchia……………………………………………………..p.291<br />
RIFLESSIONI CONCLUSIVE ………………………………………………………….p.316<br />
BIBLIOGRAFIA………………………………………………………………………….p.335<br />
5
PREMESSA<br />
Il libro nasce dall’intento di portare ad una riflessione costruttiva e condurre alla<br />
formazione di una nuova consapevolezza. Oltre alla separazione tra laici e cristiani, tra<br />
sostenitori della destra e della sinistra, è possibile intravedere la ragionevolezza e la<br />
consistenza dei valori condivisi e delle radici comuni che hanno edificato l’Europa e possono<br />
ricostruirla.<br />
Proprio la multiculturalità ci chiama a rientrare nuovamente in noi stessi. La Carta dei<br />
diritti fondamentali può essere un primo passo, un segno che l’Europa cerca nuovamente in<br />
maniera cosciente la sua anima. Divisa sulla guerra in Iraq, sulle relazioni con gli USA, sulle<br />
organizzazioni t<strong>eu</strong>nistiche, sui confini in Medio Oriente, sulle politiche di difesa, di<br />
immigrazione e di sicurezza, sul seggio all’ONU, l’Europa è chiamata a definire la propria<br />
identità e a declinare le proprie radici culturali e religiose. Non può rifiutarsi di chiamare i<br />
problemi per nome, all’insegna del “linguaggio politicamente corretto”.<br />
L’idea relativistica ad oltranza, per cui le culture e le religioni sono tutte uguali e l’una<br />
vale l’altra non considera il livello evolutivo raggiunto da ciascuna sul piano della<br />
valorizzazione dell’individuo, dei diritti umani, ecc. Il relativismo dogmatico e arrogante,<br />
anziché essere portatore di tolleranza, si fa dunque fautore di una disgregazione della nostra<br />
coscienza identitaria e fa terra bruciata delle nostre radici comuni, preparando il terreno<br />
all’attecchimento di “identità forti”.<br />
É dunque necessario un rinnovamento spirituale prima che politico: un percorso<br />
evolutivo che dia senso allo sviluppo tecnologico, economico e sociale. Il libro è rivolto a tutti<br />
coloro che desiderano confrontarsi sui problemi epocali come l’Europa, l’Occidente, l’Islam,<br />
la guerra ecc.<br />
Il suggerimento di impostare una pedagogia e una didattica finalizzate a richiamare<br />
l’attenzione di ciascun cittadino <strong>eu</strong>ropeo di ogni fascia di età sul cammino evolutivo che può<br />
portare ad una nuova coscienza identitaria, fa da contorno ai temi sviluppati nel volume.<br />
d’Europa.<br />
Ho scritto questo libro tra il 2003 e il 2005 al servizio del mio Paese e degli Stati Uniti<br />
Ringrazio le mie valide collaboratrici, Roberta Morena e Vanna Mondin, che hanno<br />
contribuito alla realizzazione della parte grafica del libro.<br />
6
CAPITOLO INTRODUTTIVO<br />
Questo libro costituisce il terzo volume dedicato all’esplorazione del pregiudizio nelle<br />
sue componenti limitanti e nelle strategie applicabili sul piano culturale per smantellarlo. È<br />
nato come continuazione logica del volume “Barriere ideologiche e democrazia”, focalizzato<br />
sulla presentazione delle ideologie e in particolare del Comunismo, come esperienza storica,<br />
di trasformazione sociale, politica ed economica e come fase culturale e ideologica. Il<br />
Nazismo come periodo storico e culturale si contrappone dialetticamente al Comunismo,<br />
includendo le “aberrazioni” degli estremismi. Nella sezione successiva viene proposta una<br />
riflessione sulla struttura delle ideologie di vario genere e sulle conseguenze terribili che<br />
hanno in comune.<br />
Il presente volume si sofferma principalmente sul tema della politica sociale, culturale<br />
e scolastica, prendendo in considerazione in special modo le caratteristiche dell’individuo, il<br />
suo livello di evoluzione, la sua sensibilità, il suo stile cognitivo, le “intelligenze multiple” di<br />
cui i vari soggetti sono dotati.<br />
Una crescente consapevolezza dei modelli sociali imposti.<br />
Quando frequentavo le scuole elementari e medie, percepivo prima inconsciamente e<br />
poi sempre più coscientemente, man mano che i miei studi superiori mi portavano alla<br />
consapevolezza “scientifica”, che una sorta di indottrinamento ideologico veniva impartita<br />
comprimendo le potenzialità entro binari precostituiti dalla società, dalle istituzioni, dalla<br />
cultura. Mancava il “rispetto” dello studente in quanto “persona” che segue un percorso<br />
evolutivo da “supportare”, ma non da deviare o “correggere” in base a parametri prefissati.<br />
Soprattutto mi ha colpita la percezione che ho avvertito, retaggio di un post-fascismo ancora<br />
imperante, in relazione ai “ruoli” entro cui la società aveva incanalato rigidamente le donne e,<br />
specularmente, gli uomini. Ricordo che un giorno, a 16-17 anni, ad uno che si occupava della<br />
“supervisione delle studentesse”, una sorta di psicologo ante-litteram, ho detto: “Io ho<br />
interessi da intellettuale”. E lui mi ha risposto: “Tu devi essere una buona moglie e madre. E<br />
poi, le donne che hanno interessi da intellettuali sono antipatiche”. Allora non capivo perché,<br />
da uomo, mi avesse dato questa risposta. Poi, con il passare del tempo, ho compreso che<br />
l’assegnazione rigida di un ruolo alle donne costituisce una barriera pregiudiziale difensiva<br />
7
eretta dall’uomo per esercitare un predominio, in linea con la cultura del Guerriero Imperante,<br />
che divide il mondo in due categorie: dominanti e dominati, superiori e inferiori. Ho preso<br />
coscienza delle caratteristiche dell’interazione soprattutto attraverso la “terapia sistemico-<br />
relazionale”. In quell’ambito ho imparato a distinguere i rapporti simmetrici, su un piano<br />
paritario, da quelli complementari, fondati su un livello up (superiore) e uno down (inferiore)<br />
e le loro patologie.<br />
Ma è stata soprattutto l’esplorazione del Viaggio evolutivo che mi ha fatto<br />
comprendere come le persone, pur avendo uguale dignità, si trovano su piani evolutivi<br />
diversi, per cui costituirebbe una grave ingiustizia trattare le persone come se fossero tutte<br />
uguali. Di qui l’importanza di una politica scolastica mirante ad incoraggiare la crescita,<br />
partendo dalla considerazione del livello evolutivo in cui ciascuno si trova e lasciando ampi<br />
spazi di libertà per ciascuno di “scegliersi la sua strada”. Se una ragazza è una Atena “per<br />
natura”, con interessi da intellettuale, non è opportuno applicarle una politica di “incremento<br />
demografico” spingendola a fare dieci figli per onorare lo stato di una numerosa prole.<br />
Seguendo la sua “natura”, potrà onorare lo stato e la società diventando un’abile<br />
ambasciatrice di pace, una scienziata, una studiosa ecc.<br />
E uno stato calato nell’archetipo del Saggio, non penalizzerà queste donne,<br />
escludendole dal “posto giusto” solo perché, in quanto donne, non si conformano agli schemi<br />
del Guerriero che siamo abituati a conoscere e, spesso, infaustamente. Nella nostra società<br />
non si dà né spazio, né considerazione alle donne che non si comportano da Guerrieri,<br />
secondo gli schemi maschili. Invece, è proprio la modificazione di questi schemi attuata<br />
dall’introduzione del Femminile a fare della diversità della donna rispetto all’uomo<br />
l’elemento-chiave di correzione degli “errori” degli uomini. Le caratteristiche di un sistema<br />
democratico, rispetto ad uno autoritario, sono infatti costituite dalla flessibilità e dalla capacità<br />
di autocorreggersi.<br />
Ma le donne non potranno correggere gli “errori” degli uomini, finché non ne<br />
prenderanno coscienza, e non potranno prenderne coscienza se si limiteranno ad imitarli,<br />
accettandone le premesse e i comportamenti come “naturali” e “scontati”. In altre parole, le<br />
donne che “copiano” gli uomini e i loro “schemi mentali” non sono di aiuto alla società nel<br />
modificarne le premesse e gli esiti “negativi”. Allora, donne sì, ma evolute seguendo la<br />
propria “diversità”, che introduce “ricchezza” nella società, nel correggerne gli “errori”.<br />
I parametri di valutazione sulle donne, presenti quasi esclusivamente in base alla<br />
bellezza fisica e particolarmente in voga durante le epoche passate, sembrano orientati verso<br />
un ridimensionamento. Un giorno, non conoscendo il nome di una mamma e della figlia, che<br />
8
frequentavano la scuola di mio figlio, le descrissi fisicamente ed espressi “provocatoriamente”<br />
un commento sulla compagna di classe di mio figlio, appartenente a un’altra sezione: “Non è<br />
tanto bella!”. Ed egli esclamò: “Ma è una cervellona: ha tutti ‘ottimo’ in pagella!”. Con un po’<br />
di sorpresa e compiacimento, pensai che il giudizio di mio figlio fosse molto più evoluto<br />
rispetto a quello imperante durante il nazifascismo, che ha determinato il modo di vedere le<br />
donne della generazione del nonno. Oggi molti ragazzi preferiscono avere un rapporto<br />
simmetrico, alla pari, con le ragazze, in modo da avere nella compagna un’interlocutrice<br />
dialettica, una consigliera fidata. Il rapporto complementare con una donna, del tipo<br />
dominante/dominato, diffuso durante il nazifascismo, in cui la donna era considerata una<br />
proprietà da rilevare più che un soggetto dotato di pari dignità, risorse e diritti, sembra<br />
destinato ad entrare in una fase di decadenza nella nostra cultura, anche se sopravvive in altre<br />
culture, come quella islamica.<br />
Io sono cresciuta in una generazione in cui, se una donna era particolarmente<br />
intelligente e brillante negli studi, molti mormoravano alle spalle che “aveva successo<br />
mentalmente perché era brutta”, in una sorta di ipercompensazione. Viceversa, ci si aspettava<br />
che una donna bella non dovesse “faticare” per avere successo, all’insegna del detto: “Il bello<br />
non suda”. Poi un po’ alla volta il mondo universitario si è popolato di donne belle e al tempo<br />
stesso intelligenti, ma spesso vigeva il pregiudizio, secondo cui: “Se è intelligente, non voglio<br />
conoscerla”, come se la categoria dell’intelligenza comportasse una sorta di fatica o di sfida<br />
per gli uomini, che non avevano voglia di “armeggiare dialetticamente”.<br />
Francamente, è un po’ difficile capire l’affermazione di qualcuno: “La donna deve<br />
essere un po’ inferiore all’uomo”. Se contestualizziamo questa affermazione, che ho sentito<br />
pronunciare, da un punto di vista psicologico, possiamo cogliere un bisogno di controllo e di<br />
dominio che affonda le radici non solo in una cultura “primitiva” o “arretrata”, ma anche in<br />
radicati complessi di inferiorità o comunque in una palese insicurezza della personalità. Il<br />
dialogo, infatti, si regge su un rapporto paritario e chi si esprime in quel modo è cresciuto in<br />
una famiglia rigida, in cui manca un rapporto di vera comunicazione e ciascuno si fa la sua<br />
vita coabitando sotto lo stesso tetto. In tale contesto, manca lo scambio di punti di vista e<br />
ciascuno afferma o impone narcisisticamente il proprio, litigando con l’altro se non lo accetta<br />
tale e quale viene prospettato.<br />
Le carenze culturali, evolutive e individuali connesse ad una simile visione della<br />
donna sono lampanti.<br />
Se una donna osa contrastare una simile ottica, viene liquidata come “femminista”,<br />
con tono dispregiativo.<br />
9
Eppure, se non si riflette sull’inconsistenza del presupposto che sostiene una simile<br />
affermazione, si può finire per accondiscendere, persuasi che forse è proprio così: la donna<br />
deve essere inferiore all’uomo.<br />
La nostra cultura, d’altro lato, è carica di messaggi che orientano in questa direzione,<br />
tutte le volte che donne notoriamente non ai massimi livelli di intelligenza, cultura e<br />
“discrezione”, vengono saldamente ancorate, con la persuasione dei messaggi pubblicitari, a<br />
stati d’animo positivi, desiderabili.<br />
I pubblicitari propongono immagini che mettono chi le riceve in uno stato d’animo<br />
ricettivo, <strong>eu</strong>forico, e al culmine dell’esperienza “ancorano” il destinatario con il loro<br />
messaggio. E questo lo ripetono alla televisione, sui periodici, alla radio, in modo che<br />
l’“ancora” venga ad essere continuamente rafforzata e innescata.<br />
donne.<br />
Così si crea un’associazione tra uno stato d’animo e un certo modo di presentare le<br />
Per noi è importante osservare gli effetti che sulla cultura di massa hanno ripetuti<br />
impatti, avere consapevolezza di ciò che mettiamo nelle nostre menti, accertarci che favorisca<br />
la realizzazione dei nostri sforzi.<br />
Che cosa accadrebbe se si riuscisse a cambiare la rappresentazione interna della<br />
donna-oggetto e della donna-inferiore?<br />
Ci sono gli strumenti culturali per cambiare i pregiudizi che gravano sulle donne. I<br />
mass media possono imprimere una direzione che determinerà la destinazione. È importante<br />
scoprire la direzione della corrente, per evitare di trovarsi a bordo di un guscio di noce senza<br />
remi, sull’orlo delle cascate del Niagara. Il compito di un leader consiste nell’indicare la<br />
strada, cartografare il terreno, scoprire i sentieri che conducono a esiti migliori.<br />
Propongo di assumere maggiore consapevolezza di ciò che vediamo, udiamo e<br />
sperimentiamo in continuazione e di prestare attenzione al nostro modo di rappresentarci,<br />
individualmente e collettivamente, le relative esperienze. Se vogliamo ottenere, nell’ambito<br />
delle nostre famiglie, comunità, paesi e nel mondo intero i risultati che desideriamo,<br />
dobbiamo diventare molto più coscienti.<br />
Ciò che continuamente rappresentiamo a livello di massa tende ad essere interiorizzato<br />
da masse enormi, e si tratta di rappresentazioni che condizionano i futuri comportamenti di<br />
una società e del mondo intero. Se vogliamo creare un mondo accettabile, dobbiamo<br />
continuamente rivedere e riprogettare ciò che possiamo fare per dar vita a rappresentazioni<br />
produttive per tutti noi, su scala unitaria e globale.<br />
Possiamo imparare a servirci del nostro cervello in modo da scegliere i comportamenti<br />
10
e le rappresentazioni interne suscettibili di fare di noi individui migliori, e del nostro un<br />
mondo migliore. Si può assumere consapevolezza del quando e del come veniamo<br />
programmati e manipolati, e stabilire se i comportamenti e i modelli che ci vengono trasmessi<br />
dal piccolo schermo riflettono o meno i nostri reali valori.<br />
La pubblicità è stata definita “la scienza di bloccare l’umana intelligenza quanto basta<br />
per ricavarne denaro”, e non sono pochi quelli che vivono in un mondo di intelligenza<br />
perennemente bloccata. L’alternativa consiste nel far ricorso a qualcosa di meno rozzo.<br />
Anziché rispondere a tutte le tendenze e ai messaggi trasmessi come i cani di Pavlov - che<br />
furono condizionati a salivare al suono di un campanello, in precedenza associato alla carne -,<br />
potremmo diventare coscienti del quando e del come veniamo programmati a rispondere agli<br />
stimoli dei mass media.<br />
Adesso, è agli albori una generazione che si sente anche allettata dalle sfide mentali<br />
delle “donne alla pari” e mio figlio di 10 anni sembra lusingato dalla raccolta di queste sfide<br />
da parte delle sue compagne “cervellone”, che a scuola prendono anche voti migliori dei suoi<br />
soprattutto nelle materie letterarie.<br />
Ho letto su un periodico locale di informazione, cultura e tempo libero, il commento<br />
relativo alle elezioni amministrative del 2004 svoltesi in una cittadina vicina. Sottolineava che<br />
due candidate donne, in termini di preferenze, hanno sbaragliato i colleghi uomini,<br />
dimostrando che le donne in politica riescono ad ottenere più consensi degli uomini. Il<br />
segreto? Secondo le due candidate-avversarie, il loro successo è stato decretato dalle doti che<br />
hanno in comune: la passione (per la politica, ma non solo), l’energia, la determinazione, la<br />
forza, l’onestà, la schiettezza. Ma condividono altre cose ancora: un titolo di studio<br />
accademico, la passione per la letteratura, l’insegnamento, una famiglia, due figli, il disordine<br />
organizzato con cui portano avanti la loro esistenza divisa tra pubblico e privato.<br />
Alla domanda dell’intervistatrice: “E’ difficile conciliare vita professionale, famiglia e<br />
politica?”, una di esse risponde: “Si può fare rinunciando però ai propri tempi. E comunque la<br />
politica fa bene. Fa avvicinare ai giovani, permette di capire meglio le nuove generazioni”.<br />
Condivido questo punto di vista. E l’attività di psicoterap<strong>eu</strong>ta acuisce la sensibilità verso i<br />
problemi reali delle persone, e dei giovani in particolare, preparando il/la terap<strong>eu</strong>ta alla<br />
comprensione delle situazioni e ad uscire dall’impasse. Secondo l’altra vincitrice delle<br />
elezioni e ora assessore, a parte qualche ingiustificato senso di colpa nei confronti dei figli,<br />
impegnarsi professionalmente e in politica è un mezzo per realizzarsi perché “la politica è<br />
un’opportunità unica e insostituibile per concretizzare i propri ideali, per realizzare tutto ciò<br />
che avresti voluto che gli altri facessero”.<br />
11
Invece di subire pressoché passivamente le decisioni degli uomini, si impara dunque a<br />
realizzare con le proprie forze, aguzzando l’ingegno, ciò che si vorrebbe che gli altri<br />
facessero.<br />
È giunto il momento che le donne diventino consapevoli del contributo effettivo e<br />
indispensabile che possono offrire all’evoluzione della società. Il loro punto di vista non è<br />
meno importante di quello degli uomini e può rivelarsi di portata strategica per sbloccare<br />
situazioni che talvolta gli uomini non riescono né a contenere né a “sanare”.<br />
La donna che ha unito l’America.<br />
Forse non molti <strong>eu</strong>ropei sanno che la festa nazionale americana del Giorno del<br />
Ringraziamento è stata creata, non già da un uomo politico, bensì da una donna animata dal<br />
forte desiderio di unificare gli USA. Si chiamava Sarah Joseph Hale e riuscì in un’impresa in<br />
cui per oltre duecentocinquant’anni altri avevano fallito. Nella tradizione americana, da<br />
quando i Padri Pellegrini nell’ottobre del 1621 hanno “reso grazie” per essere approdati sani e<br />
salvi sulle coste del Nuovo Mondo, in quelle che erano allora le colonie inglesi d’America<br />
non si è tenuta nessuna celebrazione regolare o unitaria del Giorno del Ringraziamento. Solo<br />
la vittoria nella Guerra di Indipendenza fu celebrata per la prima volta da tutto il Paese, ma<br />
neppure questa tradizione si mantenne. Il terzo Giorno del Ringraziamento (il primo era stato<br />
quello dei Padri Pellegrini, il secondo quello per la vittoria sugli inglesi) fu festeggiato dopo<br />
la stesura della Costituzione, quando il presidente George Washington proclamò il 26<br />
novembre 1789 giornata nazionale di rendimento di grazie; ma neppure questa divenne<br />
un’occasione ricorrente.<br />
Poi, nel 1827, comparve sulla scena Sarah Joseph Hale, una donna impegnata e tenace.<br />
Madre di cinque figli, scelse di mantenere se stessa e la famiglia con i propri scritti, e questo<br />
in un periodo della storia americana in cui a ben poche donne era concesso di riuscire in una<br />
professione del genere. Direttrice di una rivista femminile, riuscì ad assicurarle grande<br />
diffusione con una tiratura di centocinquantamila copie. Divenne famosa per le sue campagne<br />
di stampa a favore dell’ammissione delle donne ai college, della creazione dei campi di gioco<br />
pubblici e di asili nido. Ma la causa a cui si dedicò con maggior fervore, fu l’istituzione di un<br />
Giorno del Ringraziamento nazionale e permanente, e a tale scopo si servì della sua rivista<br />
come di un potente strumento per influire su coloro che erano in grado di imporre una<br />
tendenza del genere alla nazione. E per quasi trentasei anni continuò a battersi per la<br />
realizzazione di questo suo sogno, indirizzando lettere personali a presidenti e governatori.<br />
Ogni anno sulla sua rivista pubblicava allettanti menu da Giorno del Ringraziamento, racconti<br />
12
e poesie sullo stesso tema, proponendo l’istituzione della festività con un’ininterrotta serie di<br />
editoriali.<br />
Fu la Guerra di secessione a fornire alla Hale il destino di esprimere il suo punto di<br />
vista in modo tale da far presa sull’intera nazione. Scrisse per esempio: “Non sarebbe forse un<br />
grande vantaggio dal punto di vista sociale, nazionale e religioso, il fatto che il<br />
Ringraziamento Americano fosse stabilito una volta per tutte?”. E nell’ottobre del 1863<br />
affermava nel suo editoriale mensile: “Accantonando i particolarismi e gli interessi locali che<br />
potrebbero essere invocati da ogni singolo stato o territorio che desideri scegliere un proprio<br />
momento per la celebrazione, non sarebbe più nobile, più veramente americano, essere una<br />
nazione unitaria allorché offriamo a Dio il nostro tributo di gioia e gratitudine per le<br />
benedizioni dell’anno?”. Indirizzò una lettera al segretario di Stato William Seward che a sua<br />
volta la fece leggere al presidente Abraham Lincoln, il quale si convinse dell’opportunità di<br />
un momento di fusione nazionale e quattro giorni dopo emanò un proclama in cui si<br />
dichiarava Giorno del Ringraziamento nazionale giovedì di novembre 1863. Fu un atto di<br />
importanza storica di cui va dato merito a una donna tenace e dotata della capacità di<br />
persuadere servendosi dei media esistenti.<br />
Una Guerriera evoluta sa combattere le sue battaglie per unire, anziché per dividere,<br />
por portare la pace, anziché la guerra.<br />
Il Guerriero negativo e il Guerriero evoluto.<br />
Fa parte del Guerriero involuto e primitivo la mentalità unilaterale e irritante che<br />
trasforma ogni incontro in una rissa o si sforza costantemente di attirare gli altri alla propria<br />
causa. Questa forma di violenza occulta o manifesta è tipica del Guerriero Ombra, negativo.<br />
Questo Guerriero non riesce a vedere il mondo da altre prospettive che la propria. Per lui il<br />
mondo è fatto di eroi, cattivi e vittime da salvare. Egli deve provare incessantemente che è<br />
meglio degli altri e, volendo essere il migliore, necessariamente finisce per “definire” gli altri<br />
come inferiori. Nelle sue espressioni più negative e più gravi, questo desiderio di essere<br />
superiore agli altri non è controllato da alcun valore superiore né da alcun sentimento umano.<br />
Il vandalismo culturale e la profanazione di luoghi sacri al culto, come chiese e<br />
cimiteri, sono sempre esistiti, soprattutto in periodi di guerra e tensioni sociali, non solo a<br />
danno delle Chiese cristiane, ma anche ebraiche e di altre religioni.<br />
Nel 2003 a Varese un crocifisso in legno, alto circa quattro metri, è andato in fiamme<br />
lungo la Via Sacra del Sacro Monte di Varese. Si tratterebbe di un atto doloso, secondo una<br />
prima ricostruzione: accanto è stata infatti ritrovata una bottiglietta contenente liquido<br />
13
infiammabile. “C’è amarezza - ha commentato l’arciprete, don Angelo Corno - ma credo si<br />
tratti del gesto di uno squilibrato: evitiamo di farne un caso più grande di quello che è”. Il<br />
Santuario di Santa Maria del Monte sopra Varese è uno dei simboli della spiritualità<br />
ambrosiana, meta di pellegrinaggi e raduni. Sull’episodio segnalato da alcuni fedeli che si<br />
recavano a messa, ha indagato la Digos.<br />
Il punto della questione, trattato nel corso del libro, non è il vandalismo, ma<br />
l’intolleranza culturale manifestata da individui come Mister Adel Smith, presidente di un<br />
piccolo gruppo di combattenti per l’Islam, che hanno fatto della rimozione del Crocifisso dai<br />
luoghi pubblici una battaglia legale, appellandosi al giudice dell’Aquila. Questo evento non<br />
può essere sottovalutato, anche se è di piccole proporzioni, perché è altamente indicativo di<br />
una mentalità che fino a questo momento non ha avuto la “spavalderia” di manifestarsi, ma si<br />
sta sempre più diffondendo con atteggiamenti impositivi. In altre parole, Smith ha deciso di<br />
acquistare potere e controllo sugli altri avvalendosi della battaglia per la rimozione del<br />
Crocifisso da scuole e ospedali. Coloro che ragionano come Smith dividono il mondo in due<br />
categorie sulla base del proprio egocentrismo. Quelli che si oppongono alle loro mire e ai loro<br />
desideri vanno distrutti, vinti o convertiti. Essi possono proteggere le vittime dagli altri, ma il<br />
prezzo che questi Guerrieri negativi pretendono per questo è che a quel punto le stesse vittime<br />
siano totalmente asservite al loro dominio. È questo il caso di ogni tipo di imperialismo e<br />
quello sbandierato da Smith è un vero e proprio genere di predominio imperialista. Questo<br />
atteggiamento si esplica anche verso le donne islamiche che pagano un prezzo altissimo per<br />
essere protette da questi “gerarchi nazisti”.<br />
La strategia messa in atto da Smith, tuttavia, può seguire varie “traiettorie”. Il fatto che<br />
guadagni terreno o decida di attuare una ritirata dipende tuttavia dalla politica dei governi, che<br />
può essere più o meno adatta a trattare questo delicato problema, tenendo presente che per<br />
l’integralista la debolezza equivale ad un invito ad aumentare l’aggressività e il desiderio di<br />
conquista territoriale, politica e strategica.<br />
Ed è significativo che il caso Smith sia scoppiato pochi giorni dopo la proposta di<br />
legge del vice presidente del Consiglio Fini sull’estensione del voto agli immigrati per le<br />
elezioni amministrative, come se questa “concessione” avesse sollecitato la “fase delle<br />
richieste” di ben altra portata, che coinvolgono il livello identitario dei cittadini italiani. Alla<br />
“debolezza” apparente del governo è subentrata la rivendicazione di “diritti immaginari” di<br />
Smith di veder “tutelati” i suoi figli dall’immagine del Crocifisso appesa alle pareti dell’aula.<br />
Le condizioni affinché possa esserci il dialogo sono costituite da un livello relazionale<br />
paritario i cui viene accettata la tesi dell’altro. A tutt’oggi nella nostra società multiculturale,<br />
14
non sembra che i valori condivisi e l’identità nazionale fondata su tali valori siano stati<br />
accettati quali radici fondanti e costitutive della nostra società. Per questa ragione, riteniamo<br />
opportuno mettere in rilievo quanto e come tali radici storico-culturali rappresentino per<br />
l’“inconscio collettivo” della nazione italiana e dell’Europa il fondamento basilare della<br />
propria identità.<br />
L’omogeneizzazione, il livellamento, l’appiattimento rappresentano la negazione della<br />
propria storia e l’annullamento della propria identità. In nome della tolleranza, non si può<br />
tollerare di essere calpestati nella propria identità e nella propria storia. Ma per ottenere<br />
rispetto dagli altri, bisogna innanzitutto essere consapevoli della propria identità, riconoscerne<br />
la matrice storico-culturale e i valori condivisi che supportano tale identità. Rispetto della<br />
diversità significa anche avere coscienza della propria diversità e chiederne il rispetto. Ciò<br />
non significa rinunciare a cercare un’intesa basata sui valori condivisi tra identità diverse, ma<br />
definire i confini tra ciò che può essere accettato sul piano storico-culturale e ciò che<br />
contraddistingue una diversità tra livelli evolutivi che non può essere ricondotta sullo stesso<br />
piano. In altre parole, il livello evolutivo di Mister Smith fissato sul lato Ombra del Guerriero<br />
non può essere messo sullo stesso piano di un Guerriero evoluto che cerca il dialogo<br />
paritetico. I due livelli sono troppi distanti evolutivamente per poter trovare un’intesa. In tal<br />
caso, il dialogo non sembra possibile, in quanto manca da una parte il riconoscimento della<br />
tesi dell’altro.<br />
Qualora sia possibile il dialogo, la definizione della propria identità storico-culturale è<br />
essenziale per poter chiedere all’altro il riconoscimento di tale identità. Come posso, infatti,<br />
chiedere all’altro di rispettare la mia identità, se non so nemmeno io quale sia? Dovrei<br />
chiedere all’altro di definirmi? Se non so chi sono, è facile che venga annullato e calpestato da<br />
chi sa quali sono le sue radici, la sua storia, la sua battaglia.<br />
Non basta manifestare per la pace; bisogna agire per rendere possibile la pace. E la<br />
presa di coscienza delle proprie radici storico-culturali, nel rispetto di quelle altrui,<br />
rappresenta un modo efficace di agire per rendere possibile la pace, chiedendo il rispetto della<br />
propria identità, della propria storia, dei propri valori condivisi, del proprio legame con il<br />
territorio.<br />
Solo se saremo in grado di proteggere la nostra identità storico-culturale dalla<br />
profanazione e dall’insulto di pregiudizi indotti da ideologie fondamentaliste - come l’idea<br />
che tutti gli occidentali sono crociati o colonialisti - potremo passare dal ruolo di pacifisti a<br />
quello di pacificatori, che investono le loro energie per salvaguardare la propria cultura e<br />
civiltà, e non solo l’ambiente. Gli ambientalisti si preoccupano della cattiva gestione dei<br />
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ifiuti tossici e nucleari, della concentrazione di onde elettromagnetiche in prossimità dei<br />
centri abitativi, della contaminazione chimica, degli OGM, dell’effetto serra, della<br />
deforestazione, dell’estinzione di specie animali e vegetali rare, ma non hanno messo in luce<br />
che il Crocifisso di Tor Vergata è finito, mutilato, in una discarica. Non valutano le “tossine<br />
psichiche” che vengono messe in circolo nella società, contaminando, non il paesaggio, ma le<br />
“menti”. Chi si prenderà cura della nostra cultura, delle nostre migliori tradizioni, delle nostre<br />
radici dagli assalti dei fondamentalisti, ma, più ancora, dell’inedia ammantata di tolleranza dei<br />
nostri connazionali ed <strong>eu</strong>ropei?<br />
La cultura degli ultimi duecento anni, in occidente, è anticristiana. Mentre l’Islam si è<br />
fermato al Medioevo e non si è cimentato con la filosofia post-medioevale, il cristianesimo si<br />
è cimentato con il pensiero laico.<br />
La cultura contemporanea laica è nemica tanto dell’Islam che del Cristianesimo e fa<br />
piazza pulita della tradizione occidentale: ciò va ben al di là di un ingenuo scetticismo. Sotto<br />
certi aspetti, c’è più congruenza tra cristianesimo e islamismo che si rifanno entrambi alla<br />
sapienza greca. Non dimentichiamo che Averroé e Avicenna mettono d’accordo il Corano e la<br />
filosofia greca. La critica radicale al cristianesimo condotta dalla cultura laica negli ultimi due<br />
secoli sembra aver escluso le componenti del cristianesimo dalla filosofia della scienza. La<br />
scienza, per la cultura moderna, è probabilistica e relativistica, in quanto ogni affermazione<br />
che implica “certezza” e “credo” è espressione di una religione, non di una scienza.<br />
Proseguendo su questa strada, tuttavia, per coerenza, il relativista non potrebbe<br />
nemmeno attraversare un incrocio con un semaforo, perché tutto è relativo nel valutare la<br />
destra e la sinistra e indicare con certezza di che colore è il semaforo.<br />
Si dice anche che la scienza è atea, senza Dio. Ma lo scienziato relativista ateo è una<br />
contraddizione in termini, perché l’ateismo è una professione di “fede nella non-esistenza di<br />
Dio”.<br />
Per difendersi dal fondamentalismo come pretesa di negare l’autonomia della legge<br />
umana rispetto a quella divina di cui i fondamentalisti sono portatori, dopo il 1789 i fautori<br />
della “rivoluzione laica” sono diventati i paladini del “laicismo fondamentalista”, assai vicino<br />
al relativismo radicale.<br />
Accanto al fondamentalismo religioso, che comprende il fondamentalismo<br />
musulmano, cattolico, induista, ebraico ecc., possiamo dunque annoverare anche il<br />
fondamentalismo laico ben espresso dalla Rivoluzione Francese e in particolare dal Regime<br />
del Terrore. Ma si potrebbe anche parlare del “fondamentalismo ateo” della Rivoluzione<br />
Russa e del regime di Stalin, che ha fatto fucilare un milione di persone senza processo e ne<br />
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ha fatto morire decine di milioni nel Gulag.<br />
Il relativismo culturale laico del nostro tempo, dietro la copertura di tolleranza, in<br />
realtà si rifiuta di affrontare i problemi e di trovare una soluzione efficace. Non sembra infatti<br />
“vero” che tutte le civiltà sono uguali o che una è superiore ad un’altra, secondo la famosa<br />
espressione di Berlusconi, che ha suscitato tante polemiche internazionali all’inizio del suo<br />
secondo mandato elettorale (il primo si è concluso rapidamente). Anche religioni<br />
apparentemente “inoffensive” come l’induismo hanno portato gravi problemi sul piano dei<br />
diritti umani.<br />
La filosofia relativista del nostro tempo indebolisce le difese: non posso parlare ad una<br />
forte identità se io stesso sono privo di identità e non so chi sono.<br />
L’Occidente non sa reagire e difendersi di fronte alla minaccia dell’Islam. La libertà di<br />
opinione appare il bene supremo, ma essa non può distruggere la libertà dell’altro.<br />
Il cardinale Ratzinger, Segretario di Stato del Vaticano, invitato al Senato italiano nel<br />
maggio 2004, ha parlato di “odio di sé dell’occidente strano e patologico. L’Occidente non<br />
ama più se stesso e vede solo ciò che è deprecabile della propria storia”. Pertanto, gli occorre<br />
una “critica e umile accettazione di sé, se vuole sopravvivere”. Inoltre, aggiunge il cardinale,<br />
“la multiculturalità è abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio”. Bisogna “nutrire<br />
rispetto per ciò che sono”, per il proprio bagaglio culturale e storico.<br />
I cristiani si lasciano vilipendere in nome della tolleranza. La loro debolezza inerme<br />
attizza lo spirito di conquista degli aspiranti invasori.<br />
L’avere una forte identità non è affatto incompatibile con il dialogo; anzi, lo agevola,<br />
perché suscita il rispetto dell’interlocutore che non diventa aggressivo e sprezzante. Noi<br />
crediamo di diventare aggressivi, se abbiamo una forte identità come consapevolezza dei<br />
nostri valori e delle nostre radici. Viceversa, proprio la sicurezza ci fa diventare meno ansiosi<br />
e, perciò, più disponibili al dialogo. Per dare una stretta di mano, occorrono le mani di due<br />
interlocutori sullo stesso piano. Con una sola mano, non si stringe nulla. È il “nulla<br />
identitario” che dovrebbe spaventarci, non l’energia della stretta.<br />
Il relativista è più intollerante di uno con una forte identità, come dimostra la storia<br />
recente delle prese di posizione nei confronti del velo islamico. Il relativismo affievolisce le<br />
nostre difese culturali e, perciò, attizza le velleità di espansione di conquista di altre culture<br />
più agguerrite e più “identitarie”. Il relativismo non ci dà più argomenti da dibattere né forza<br />
di combattere per la tutela delle nostre radici e dei nostri valori condivisi. Il relativismo<br />
laicista di stato spalanca le porte all’annichilimento della nostra cultura. Il relativismo<br />
culturale genera disorientamento e quel genere di ansia diffusa che deriva dal “tutto è vero,<br />
17
anche il suo contrario”. Non avendo più punti di riferimento, l’individuo si rifugia nel<br />
conformismo da automi, tipico delle democrazie moderne, oppure nelle ideologie totalitarie.<br />
Non è forse un caso che il fondamentalismo islamico si stia espandendo nella nostra società e<br />
in particolare in quelle democrazie <strong>eu</strong>ropee in cui una certa interpretazione della laicità dello<br />
stato favorisce di fatto l’attecchimento di ideologie politiche e religiose di ogni genere,<br />
proprio perché lo stato si presenta “vuoto” di identità. Per contenere l’irruenza di un’identità,<br />
non si può contrapporre il “vuoto”, ma un’altra identità. Il “vuoto” di identità, al contrario,<br />
sollecita a riempire questo vuoto con contenuti ideologici fondamentalisti.<br />
Negli anni ’70, Acquaviva parlava dell’“eclissi del sacro” e della religione come figlia<br />
dell’ignoranza, della paura e della povertà. Oggi sembra invece che la cultura religiosa sia<br />
connessa ad una raffinata e laicissima sensibilità ai valori storico-culturali della nostra civiltà.<br />
Ignorarla significherebbe sprofondare nell’abisso dell’ignoranza, dell’ottusità,<br />
dell’insensibilità, del degrado morale.<br />
Cristo appartiene alla nostra cultura e alla nostra civiltà e non al clero e al loro<br />
insegnamento. Non voglio essere fraintesa; occorre distinguere tra le due dimensioni: Cristo è<br />
la figura carismatica che ha improntato la nostra civiltà e il clero è una categoria in parte<br />
responsabile della Rivoluzione Francese e della decapitazione dello stesso clero; ma, ahimè,<br />
insieme ad esso la Rivoluzione ha ucciso anche Cristo e il cristianesimo, issando in sua vece<br />
una “religione laica, politica”. È giunto il momento di operare una distinzione tra Cristo e il<br />
clero, come a suo tempo la Rivoluzione Francese separò il potere politico da quello religioso,<br />
estromettendo indebitamente anche Cristo e il cristianesimo dal concetto di “laicità dello<br />
stato”.<br />
Ora invochiamo il ripristino di Cristo, del valore della persona che egli ha introdotto<br />
nella nostra cultura e civiltà, all’interno delle istituzioni <strong>eu</strong>ropee, quale parte integrante<br />
costitutiva della nostra Identità Europea.<br />
I diritti umani di cui oggi ci facciamo portatori hanno una matrice cristiana.<br />
Prescindere da Cristo significa amputare la nostra Identità della linfa vitale che egli ci ha<br />
trasmesso con il Vangelo.<br />
“Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Matteo 24, 35), dice<br />
Gesù, a conclusione della parabola del fico: “Quando ormai il suo ramo diventa tenero e<br />
spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete tutte queste<br />
cose, sappiate che Egli, è proprio alle porte” (Matteo, 24, 32-33).<br />
Alcune righe più avanti, Gesù espone una metafora: “Qual è dunque il servo fidato e<br />
prudente che il padrone ha preposto ai suoi domestici con l’incarico di dar loro il cibo al<br />
18
tempo dovuto? Beato quel servo che il padrone al ritorno troverà ad agire così! In verità vi<br />
dico: gli affiderà l’amministrazione di tutti i suoi beni. Ma se questo servo malvagio dicesse<br />
in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a bere<br />
e a mangiare con gli ubriaconi, arriverà il padrone quando il servo non se l’aspetta e nell’ora<br />
che non sa, lo punirà con rigore e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano; e là sarà<br />
pianto e stridore di denti” (Matteo 24, 45-50). Non è difficile cogliere nelle parole di Gesù<br />
una chiara allusione alle “percosse” che la Chiesa avrebbe inflitto ai fedeli e non, attraverso i<br />
Tribunali dell’Inquisizione, il Santo Uffizio, i roghi degli eretici e delle donne definite<br />
“streghe” dai misantropi ecc. Il fatto di bere e mangiare con gli ubriaconi potrebbe essere<br />
connesso con le “mollezze” denunciate da Lutero nei confronti della Chiesa del suo tempo.<br />
Non mi si fraintenda: la denuncia dei misfatti della Chiesa non coincide affatto con il distacco<br />
dalla Chiesa stessa, come in una Famiglia la critica al comportamento dei genitori non<br />
coincide affatto con il rinnegamento della propria appartenenza alla famiglia.<br />
L’uso che il “clero umano” ha fatto del Vangelo è una questione che riguarda la storia<br />
della Chiesa e delle sue aberrazioni, a cominciare dalle crociate, dall’Inquisizione, dai roghi<br />
degli eretici e delle donne, dall’Indice dei libri proibiti e si potrebbe prolungare l’elenco fino a<br />
riempire alcune pagine.<br />
Cristo è parte della nostra cultura, mentre la Chiesa rientra nella sfera di influenza<br />
politica e, a suo tempo, anche militare, di uno Stato a tutti gli effetti, con i suoi difetti e i suoi<br />
pregi, che può essere accettato o rifiutato a seconda del gradimento soggettivo.<br />
D’altro lato, il “laico” Gesù che ha detto espressamente “date a Cesare quel che è di<br />
Cesare e a Dio quello che è di Dio”, separando nettamente il potere politico da quello<br />
religioso, probabilmente non avrebbe gradito che lo Stato laico permettesse lo scempio che è<br />
stato fatto del Crocifisso di Tor Vergata, abbandonato in una discarica alla mercé di ogni<br />
vandalismo. Qui si pone il problema non tanto - e non solo - della tutela dei beni culturali, ma<br />
soprattutto dei significati storico-culturali e dei valori condivisi dalla nostra cultura e dalla<br />
nostra civiltà. La questione rimanda alla definizione della nostra Identità di Europei e non<br />
solo di cristiani.<br />
Il Crocifisso è un simbolo culturale che non fa riferimento ad una fede o ad una Chiesa<br />
specifica. Nelle interviste televisive fatte alla popolazione dopo la richiesta di Mister Smith di<br />
togliere il Crocifisso dall’aula del figlio, ho sentito un uomo dichiaratamente comunista che<br />
ha detto: “Il Crocifisso appartiene alla nostra cultura”.<br />
La pace comporta assunzione di responsabilità anche nella definizione della propria<br />
identità e nella difesa dei valori condivisi che la sostengono.<br />
19
Ricusare o ignorare le proprie radici e la propria identità storico-culturale significa<br />
lasciare libero campo all’affermazione incontrollata di altre identità che prenderanno il<br />
sopravvento imponendo la loro logica, spesso di matrice ideologica, con tutte le implicazioni<br />
già segnalate relative all’ideologia. Ciò non significa che la nostra cultura debba essere<br />
convinta della propria superiorità su tutte le altre, ma diventare consapevole della propria<br />
identità e affermarla, sia pure col rispetto per le altre identità, senza paura di essere accusata<br />
di “fascismo” da chi non ha compreso la differenza tra la cultura del dialogo e del rispetto per<br />
gli altri nella consapevolezza della propria identità e quell’ideologia repressiva che ha<br />
soppresso la libertà di stampa, di associazione e di opinione.<br />
Al Qaida costituisce un nuovo tipo di Islam che sta nascendo. Nel maggio 2004 il boia<br />
si stava accingendo a decapitare, in ripresa con la videocamera, il povero imprenditore<br />
americano colpevole di essere presente in Iraq al momento sbagliato, quando i terroristi<br />
volevano esibire un trofeo di barbarie come rappresaglia per le torture inflitte ai prigionieri<br />
iracheni. Si udiva in contemporanea un proclama rivolto agli “islamici donnicciole che non<br />
seguono la loro strada”. L’urlo “Allah è grande” ha coperto il grido di morte della vittima.<br />
L’associazione tra Allah e la barbarica uccisione resta impressa nel video che ha fatto il giro<br />
del mondo via Internet.<br />
Gli islamici che non seguono la strada della barbarie vengono raffigurati simili alle<br />
donne. Questa “equivalenza complessa” ci fa capire quanto importante sia il ruolo della donna<br />
nell’affermazione dei diritti umani e civili. Basti pensare che in Giordania, Paese islamico<br />
moderato, c’è il delitto d’onore e un terzo delle vittime ha meno di 28 anni. La violenza<br />
contro le donne è legalizzata e istituzionalizzata. Una donna stuprata viene uccisa dai<br />
familiari, fratelli o padre, perché ha infangato l’onore lasciandosi violentare. Ad Istanbul, nel<br />
2004, una giovane stuprata e segregata per tre giorni che ha denunciato il crimine alla polizia,<br />
è stata uccisa dal fratello, perché ha disonorato la famiglia. I matrimoni contrattati sono molto<br />
diffusi nell’ambiente islamico, e le ragazze sono costrette a sposare chi viene designato dalla<br />
famiglia come marito, come se la donna fosse una schiava che non può esercitare diritti e non<br />
può avere alcuna proprietà, nemmeno della sua persona.<br />
Il timore che le donne islamiche cambino ha portato una parte dell’Islam a chiudere i<br />
rapporti con l’Occidente e con gli USA. La “questione femminile”, pertanto, è di importanza<br />
cruciale nell’evoluzione della cultura e della civiltà. Battersi per il riconoscimento della<br />
dignità della donna equivale a far evolvere la cultura e la civiltà. È opportuno precisare che il<br />
tema della dignità della donna non evidenzia solo il suo ruolo di moglie e madre, ma anche le<br />
sue risorse umane e mentali, indispensabili nella costruzione della società e nella salvaguardia<br />
20
dei valori condivisi, che vengono trasmessi innanzitutto ai figli.<br />
Parallelamente all’“Islam molteplice”, che oggi comprende anche la terrificante<br />
ideologia di Al Qaida, codificabile come il peggiore nazislamismo, si fa strada una<br />
deislamizzazione del modello islamico, a cominciare dalle donne, che vedono le “colleghe”<br />
occidentali “diverse”.<br />
Anche se il mancato riconoscimento dei diritti fondamentali della donna ha bloccato il<br />
processo di avvicinamento all’Occidente, è tuttavia possibile il dialogo con l’Islam per<br />
favorire questo percorso. E l’evoluzione della Tunisia in questa direzione rappresenta una<br />
chiara testimonianza di questa possibilità. D’altro lato, è dal maggio 2004 che in Arabia<br />
Saudita è stato concesso alle donne il diritto di guidare l’auto. Su questo terreno, è ancora<br />
possibile fare altri passi avanti.<br />
Per combattere il nazislamismo, con la partecipazione dei Paesi islamici moderati e/o<br />
contrari al progetto imperialista di Al Qaida, occorre intervenire con una strenua resistenza,<br />
paragonabile a quella <strong>eu</strong>ropea contro il nazifascismo durante la seconda guerra mondiale, che<br />
non implica solo l’impiego delle forze militari. Il 29 maggio 2004, in prossimità della sua<br />
visita all’Italia, Bush parla della “guerra in Iraq come quella contro il nazismo. Al Qaida è il<br />
nuovo nemico come il nazifascismo”. Rilancia “una nuova strategia per combattere il<br />
nemico... Sconfiggeremo il nemico e manterremo l’Iraq come terreno di libertà”.<br />
Il nazislamismo va combattuto su vari fronti e a molteplici livelli di intervento, che<br />
non comprendono solo o principalmente quello militare, come vedremo nel corso<br />
dell’esposizione. È di importanza cruciale il dialogo con l’Islam, in cui gli islamici si<br />
impegnino a capire noi, mentre noi cerchiamo di capire loro. In Francia cresce l’ostilità verso<br />
i musulmani; un sondaggio reso noto in Italia il 21 maggio 2004 al TG2 serale indica che<br />
l’Islam non è considerato compatibile con i valori della Repubblica Francese.<br />
Non a caso i fondamentalisti e i terroristi ripudiano energicamente il dialogo,<br />
considerato il “nemico” della diffusione delle idee estremiste.<br />
L’altro fronte su cui combattere consiste nell’assertività, in cui non c’è la titubante<br />
ritrosia nel sostenere le nostre radici storico-culturali e i nostri valori condivisi, che<br />
supportano la nostra Identità Europea, nazionale, regionale, locale.<br />
In effetti, oggi, è diffusa una cultura del diritto di professare la propria fede, ma non la<br />
cultura del dovere di salvaguardare la nostra cultura.<br />
Il timore esitante di affermare la propria eredità cristiana e greco-romana getta benzina<br />
sul fuoco alle menti che intendono imporre le loro regole alla nostra società con la strategia<br />
del terrore, per conquistarci, ricalcando così le orme dei nazisti intenzionati a germanizzare<br />
21
l’Europa. Oggi i nazislamisti vogliono fare dell’Europa un califfato, islamizzandoci nella<br />
cultura e imponendo le loro regole e la loro politica con gli attentati.<br />
La Resistenza civile e culturale che le donne possono opporre con i loro valori e le<br />
loro risorse umane e intellettuali va ben al di là del ruolo di staffette che veniva loro<br />
assegnato durante la Resistenza nella seconda guerra mondiale.<br />
Sarà bene ricordare qui il determinismo culturale messo in evidenza dagli studi<br />
comparati degli antropologi. Le qualità femminili descritte da Helene D<strong>eu</strong>tsch, in particolare<br />
la “passività”, non dovrebbero pertanto essere viste come dati costituzionali, bensì in gran<br />
parte come emanazione della nostra cultura.<br />
Nel mondo protetto del bambino, la società non comprende che l’ambiente immediato<br />
familiare e scolastico, il quale fa sentire la sua presenza ed esercita la sua pressione. È fuori<br />
discussione che gli aspetti sociologici giocano un ruolo molto importante, in quanto la<br />
struttura della famiglia, gli atteggiamenti dei genitori, tutta l’educazione, sono determinati dal<br />
sistema socio-culturale in cui è inscritto il cerchio assai limitato che circonda il bambino. Se<br />
gli psicologi ne hanno spesso fatto astrazione, ciò è dovuto al fatto che abbiamo inteso la<br />
socializzazione dell’individuo limitatamente al quadro della nostra civiltà occidentale. Entro<br />
tale quadro, la socializzazione si realizza pressoché costantemente nella stessa maniera, cioè<br />
attraverso stadi ben determinati, simili nei diversi ambienti e paesi. Le variazioni, peraltro non<br />
molto importanti, riguardano soprattutto l’età in cui appaiono questi stadi, non l’ordine della<br />
loro successione.<br />
Da un tipo di cultura ad un altro, in compenso, e per quanto esistano delle costanti<br />
sicure, queste fasi saranno più o meno percettibili e non rivestiranno sempre lo stesso<br />
significato. Per fornire un esempio scelto fra tanti, Jean Piaget ha rilevato la forma animistica<br />
del pensiero infantile già verso i sette-otto anni. Nulla di simile accade, secondo Margaret<br />
Mead, per i bambini Manus, popolo primitivo di un’isola della Nuova Guinea, caratterizzato<br />
da un marcato realismo. I piccoli Manus non credono come i loro coetanei occidentali che la<br />
luna o il sole siano come delle persone; essi non attribuiscono né intenzioni né sentimenti alle<br />
cose inanimate e tutto questo perché i genitori Manus non hanno mai insegnato ai loro<br />
bambini a vedere il mondo se non in una prospettiva reale e naturalistica. L’estrema rarità del<br />
gioco simbolico - il “giocare a fingere di”, ossia ciò che una bambina definiva assai<br />
significativamente “giocare a mentire” - si spiega nello stesso modo. Secondo la Mead<br />
l’animismo infantile sarebbe favorito in buona parte, nella nostra cultura, da atteggiamenti<br />
ludici e compiacenti dell’adulto. Al contrario, l’animismo che si incontra in quasi tutte le<br />
civiltà primitive deriva da credenze tradizionali, trasmesse da una generazione all’altra.<br />
22
Studiando i vari aspetti dell’evoluzione sociale dell’essere umano, è dunque possibile<br />
scorgere analogie e differenze tra una cultura e l’altra.<br />
L’aspetto a mio avviso fin qui trascurato riguarda la consapevolezza “politica”<br />
dell’influenza del sistema socio-culturale sulla concezione del ruolo e delle risorse umane e<br />
mentali femminili. L’affossamento del femminile nella progettazione politica della nostra<br />
società è forse alla base di molte sciagure, tra cui la guerra.<br />
La posizione della donna nella società attuale.<br />
Ai nostri giorni i cambiamenti sociali, economici e politici hanno modificato o stanno<br />
modificando in maniera radicale la posizione della donna. La ragazza moderna è cresciuta<br />
nell’idea che dovrà diventare capace di arrangiarsi da sola. Sono rare le ragazze che non<br />
apprenderanno un mestiere. Sociologi e psicologi parlano volentieri di “virilizzazione” della<br />
donna e di “femminilizzazione” dell’uomo. Ed è vero che le differenze fra i sessi tendono ad<br />
attenuarsi, sia nel modo di vestire, sia nelle diverse professioni, nelle attività che sempre<br />
meno si dividono in esclusivamente femminili o esclusivamente maschili. La nostra società<br />
tecnologica sta forse dando vita ad un nuovo tipo di donna? Non è impossibile, ma<br />
un’evoluzione di quest’ordine è sempre estremamente lenta. La trasformazione che si viene<br />
profilando non sembra tuttavia essere accompagnata da un adeguamento “politico”, in quanto<br />
coloro che elaborano i programmi sono uomini. In effetti, sono ancora rare le donne che, nella<br />
loro professione o nelle loro attività sociali, politiche, ecc., occupano dei posti-chiave. I ruoli<br />
di subalterne - senza alcun senso peggiorativo - che la società continua a far loro svolgere<br />
mantiene la società a livello di “vino nuovo” in otri vecchi. Così le risorse umane, intellettuali<br />
e morali delle donne vengono sprecate, annullate e confinate a ruoli marginali, a tutela di una<br />
presuntuosa quanto anacronistica “superiorità maschile”, “dominazione maschile”, “direttività<br />
maschile”.<br />
La separazione dei sessi è stata a lungo attuata nelle scuole e sul lavoro, o addirittura è<br />
stato negato alle donne l’accesso a certi impieghi, come il lavoro in banca, fino a qualche<br />
decennio fa. È indubbio che quando oggi, un ragazzo e una ragazza, un uomo e una donna,<br />
condividono giornalmente determinate attività, sono esposti alla reciproca stimolazione<br />
sessuale, ma tale stimolazione non è estranea alla nostra civiltà, né potenzialmente distruttiva.<br />
È il genere di stimolazione che l’individuo deve imparare a dominare, e gli sarà certo più<br />
facile conseguire tale risultato attraverso le esperienze della vita reale, anziché con fantasie a<br />
vuoto, o con le sole attività ricreative. Il mondo è fatto di due sessi e qualsiasi separazione tra<br />
i sessi impedisce la condivisione del maggior numero di esperienze e il completamento<br />
23
vicendevole. Svolgere insieme un problema di algebra, avere in comune un insegnante<br />
antipatico, reagire in modo diverso a una poesia o a una crisi scolastica, sono tutte esperienze<br />
che preparano alla vita comune meglio di quanto possa fare una sala da ballo.<br />
Dare alle donne l’opportunità e lo spazio di cimentarsi accanto agli uomini nella<br />
scuola e nella vita significa arricchire la società di nuove risorse e non impoverirla, come<br />
temono alcuni.<br />
Berthe Reymond-Rivier scriveva nel 1965 (prima edizione in francese) nel libro “Lo<br />
sviluppo sociale del bambino e dell’adolescente” che “il giorno in cui le donne maneggeranno<br />
le leve del comando, le cose cambieranno sicuramente e non necessariamente nel senso più<br />
favorevole” 1 . Il radicamento della diffidenza verso le donne sembra dunque pervadere anche<br />
il mondo degli psicologi, i cui “pregiudizi culturali” contribuiscono a rallentare l’utilizzo delle<br />
migliori risorse femminili nella società. Le donne sono esseri complessi, al pari degli uomini,<br />
e in loro ci sono molti tratti che possono essere definiti femminili o maschili dalla cultura.<br />
Questa definizione, a sua volta, può rientrare in categorie pregiudiziali. Ad esempio,<br />
considerare la passività come femminile equivale a dire che una donna, per essere<br />
graziosamente femminile, deve essere necessariamente passiva.<br />
È ragionevole supporre, viceversa, che una donna dalla personalità equilibrata e ben<br />
formata, possa utilizzare caratteristiche femminili come la sensibilità, la dolcezza o maschili<br />
come la durezza o la competitività, a seconda delle esigenze imposte dalle situazioni. Come<br />
ho dimostrato in altri volumi, basandomi sulla mia esperienza di psicoterap<strong>eu</strong>ta, oggi le donne<br />
sono in grado di svolgere svariati ruoli con passione, competenza e tenacia: il ruolo di moglie,<br />
madre e lavoratrice in carriera. Ciò che manca è l’appoggio politico-sociale in questa impresa.<br />
E ritengo che solo altre donne possano interpretare bene i bisogni delle donne al riguardo.<br />
Nei sistemi totalitari l’individuo appartiene allo stato e, pertanto, viene “inquadrato”<br />
per vivere in funzione degli interessi dello stato.<br />
Sia il comunismo che il nazifascismo promuovono il livellamento e<br />
l’irreggimentazione di massa, in cui l’individuo è “un granello di polvere”, per usare<br />
un’espressione di Hitler.<br />
L’istituzione del pensiero unico, dell’unilogica, riduce la dialettica parlamentare ad un<br />
unico partito di stato riconosciuto legittimamente.<br />
Nei sistemi democratici, viceversa, l’individuo appartiene a se stesso e l’accento viene<br />
posto sulla responsabilizzazione individuale nelle scelte e nelle realizzazioni.<br />
1 Reymond-Rivier B., Lo sviluppo sociale del bambino e dell’adolescente, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 188<br />
24
Al posto dell’omogeneizzazione di massa c’è la valorizzazione della dignità,<br />
dell’unicità dell’individuo che fa di ciascuno un essere diverso dagli altri e al tempo stesso<br />
con pari diritti e doveri di fronte allo stato.<br />
La considerazione delle caratteristiche individuali porta anche ad individuare diversi<br />
livelli di crescita e a sollecitare l’evoluzione a livelli superiori man mano che l’individuo è<br />
pronto per tale passaggio. L’obiettivo è la realizzazione di una umanità compiuta, matura e,<br />
come tale, pronta ad elargire le proprie risorse ai fratelli, concittadini, connazionali e al<br />
mondo intero.<br />
La plurilogica, che esprime la possibilità di vedere il medesimo oggetto di<br />
osservazione da svariati punti di vista, girando attorno ad esso, è un altro tratto distintivo delle<br />
democrazie. Il rispetto della diversità dei punti di vista esprime la capacità del sistema di<br />
essere flessibile e di autocorreggersi in base all’effetto della molteplicità dei punti di vista.<br />
Il punto di vista delle donne è vitale e determinante nella cultura incentrata sulle<br />
risorse e le peculiarità individuali. Proprio la diversità della donna rispetto all’uomo, infatti,<br />
può correggere gli “errori” di valutazione e di attuazione pratica degli interventi da parte degli<br />
uomini. Una delle maestre di mio figlio, durante una cena conviviale di conclusione della<br />
quinta elementare, mi ha parlato a lungo della sua esperienza nella scuola elementare in cui<br />
insegna da oltre vent’anni. Ha espresso questa valutazione: “Nel grande numero osserviamo<br />
differenze tra maschi e femmine. Le bambine sono più riflessive, più moderate, più tenaci, più<br />
pratiche, e sviluppano prima la concettualizzazione, anche se i maschi sono più simpatici, con<br />
le loro battute”.<br />
fondamentali.<br />
Queste differenze potranno arricchire l’umanità di contributi sostanziali e<br />
Un obiettivo auspicabile.<br />
Essere <strong>eu</strong>ropei senza barriere pregiudiziali costituisce un obiettivo da raggiungere, una<br />
condizione desiderata e desiderabile. Ma per realizzare questa condizione occorre forse<br />
predisporre un “piano”. La leadership deve rispondere alla sfida di come seguire il percorso<br />
che porta allo stato desiderato.<br />
Il processo generale della creatività e della pianificazione efficace comporta<br />
innanzitutto la capacità di esplorare un oggetto da un gran numero di posizioni percettive<br />
diverse. L’osservazione di uno dei disegnatori che collaborano con Walt Disney illumina<br />
questo aspetto essenziale della strategia di Disney: “E’ come se ci fossero tre diversi Walt, il<br />
sognatore, il realista, e il critico. Non sapevi mai quale di queste personalità avresti<br />
25
incontrato”. L’individuazione di un qualunque piano degno di questo nome comporta la<br />
necessità di coordinare le tre componenti descritte dal processo o le tre personalità: il<br />
sognatore, il realista e il critico. Privo del sostegno del realista, il sognatore non è in grado di<br />
tradurre le sue idee in espressioni tangibili. Il critico e il sognatore da soli, senza il contributo<br />
del realista, non possono che restare prigionieri di un perenne conflitto. Il sognatore e il<br />
realista possono creare un’idea, che però senza il critico rischia di non essere davvero buona.<br />
Il critico, d’altro canto, senza il realista e il sognatore, non è che un predatore.<br />
La funzione costruttiva del critico è quella di favorire il processo di valutazione e di<br />
rifinitura dei prodotti del pensiero creativo. Chi ha capacità innovative, ma manca di realismo<br />
e di prospettiva critica, finisce per avere un’idea al minuto, ma non riesce a tradurla in pratica.<br />
Una pianificazione efficace comporta la capacità di sintetizzare processi e fasi diverse.<br />
La capacità di sognare (il sognatore) è necessaria per formare idee e obiettivi nuovi. La<br />
capacità realistica (il realista) è indispensabile per tramutare i concetti in espressioni concrete.<br />
La capacità critica (il critico) è essenziale per filtrare le idee e per affinarle. Ciascuna di<br />
queste fasi costituisce di per sé una strategia di pensiero complessiva che spesso tende ad<br />
entrare conflitto con le altre, invece di sostenerle. 2<br />
Il sognatore accede ad una “visione”, il realista sente, agisce, associa e si muove, il<br />
critico osserva a distanza con sufficiente distacco, per dare uno sguardo all’intero progetto,<br />
valutare persone e situazioni e i rapporti che li collegano, e le specifiche azioni. L’eccessiva<br />
vicinanza comporta il rischio di essere influenzati direttamente da altre posizioni percettive o<br />
di influenzarle. Se il critico è troppo vicino al sognatore e al realista, rischia di inibire la<br />
visione del primo e di interferire con la pianificazione del secondo.<br />
In quanto realisti, bisogna avere la capacità di spezzare i sogni in unità di dimensioni<br />
gestibili e di porle in sequenza.<br />
“Il sognatore presta attenzione al ‘quadro d’insieme’ con l’atteggiamento di chi ritiene<br />
che tutto sia possibile - scrive Dilts -. In generale, la fase di sogno è tendenzialmente orientata<br />
a una dimensione futura a lungo termine. Il pensiero qui si concentra su un quadro più ampio<br />
e sugli elementi più vari in modo da generare nuove scelte e alternative. L’oggetto primario di<br />
attenzione è costituito dalla generazione del contenuto del piano o dell’idea (il ‘che cosa’)”. 3<br />
2 Cfr. Dilts R. B., Leadership e visione creativa, Guerini e Associati, Milano, 1998, pp. 89-93<br />
3 Ibidem p. 94<br />
26
Un modello evoluto e innovativo<br />
Ma per realizzare i suoi sogni, “il realista agisce ‘come se’ il sogno fosse possibile e si<br />
concentra sulla formulazione di una serie successiva di approssimazioni alle azioni richieste<br />
per attuare davvero il sogno. La fase realistica muove verso il futuro in modo più orientato<br />
all’azione e opera in un quadro temporale più ristretto della fase del sogno. Il realista è spesso<br />
più concentrato su procedure e operazioni. Il suo oggetto principale di attenzione è ‘come’<br />
implementare il piano o l’idea”. 4<br />
La concentrazione su procedure e operazioni mette in moto l’apparato organizzativo<br />
intorno al piano o all’idea. Il processo di valutazione critica implica un distanziamento dal<br />
progetto con un “secondo sguardo” che si mette ad osservare dal punto di vista del pubblico,<br />
del destinatario del “messaggio” o del “cliente finale”. “Il critico cerca di evitare i problemi -<br />
scrive Dilts - e garantire la qualità del progetto applicando tutta una serie di criteri e valutando<br />
la tenuta dell’idea o del piano in vari scenari ipotetici. La fase critica comporta un’analisi<br />
logica del percorso diretta a individuare cosa potrebbe andare male e cosa può essere evitato.<br />
La fase critica deve incentrarsi su questioni a breve e a lungo termine e andare in cerca di<br />
possibili fonti di problemi nel passato come nel futuro. L’oggetto primario di attenzione è qui<br />
costituito dal ‘perché’ del piano”. 5<br />
In sintesi, se rivolgiamo l’attenzione a coloro che vogliono, sanno e si concedono<br />
l’opportunità di agire secondo un modello evoluto e innovativo, possiamo verificare che essi<br />
hanno la capacità di sintetizzare in sé tre caratteristiche:<br />
a) di vedere oltre l’ovvio, costruendo nuove idee e obiettivi (il sognatore);<br />
b) di approcciare le situazioni in modo realistico (il realista);<br />
c) di filtrare le idee per ridefinirle (il critico).<br />
Sono supportati da valori e da convinzioni che li portano a considerare possibile “un<br />
mondo a cui le persone desiderano appartenere”. 6<br />
Nel loro mondo la paura, quando c’è, assume la forma di tensione costruttiva, che<br />
genera curiosità, coraggio, desiderio di realizzazione e li porta a tenere presenti le<br />
conseguenze delle loro azioni, ma non genera profezie autoavverantisi e non impedisce<br />
loro l’azione.<br />
4 Ibidem p. 94<br />
5 Ibidem p. 94<br />
6 Dilts R., Leadership e visione creativa, op. cit. p. 94<br />
27
La visione del cambiamento è la visione di un cambiamento generativo, che crea<br />
nuove possibilità e li arricchisce.<br />
Uno dei principali obiettivi di questo libro consiste pertanto nell’identificare problemi<br />
potenziali: scoprire alcuni problemi potenziali e suggerire azioni preventive. Una delle<br />
situazioni più drammatiche da constatare si verifica quando i problemi assumono dimensioni<br />
così mastodontiche da risultare ormai al di fuori del controllo. Allora si fanno avanti e<br />
vengono votati personaggi come Adolf Hitler o Benito Mussolini, in linea con la logica che<br />
suggerisce: a mali estremi, estremi rimedi. Per evitare questo impatto così crudo con i<br />
problemi, quando ormai è troppo tardi per porvi rimedio con metodi “democratici”, bisogna<br />
riconoscerli in tempo, come si fa con l’azione preventiva nei confronti del cancro. Un’azione<br />
di monitoraggio continuo della “salute” dei cittadini evita l’avanzata del “male” in sordina,<br />
per poi accorgersene quando è in uno stadio così avanzato che non è più possibile arrestarlo.<br />
Coloro che non riescono ad agire una leadership evoluta ed innovativa, sono ancorati a<br />
convinzioni e pregiudizi limitanti su di sé, sugli altri e sul mondo.<br />
Talvolta, ai leader manca la coerenza tra contenuti compresi, condivisi e dichiarati e<br />
contenuti impliciti nei loro comportamenti e nelle loro azioni.<br />
Ci sono leader che proclamano l’importanza di uno spirito di collaborazione, di<br />
partecipazione e di condivisione di responsabilità da parte dei collaboratori e poi li<br />
disorientano usando uno stile di natura autoritaria che li squalifica o li disorienta.<br />
E ci sono altri leader che proclamano l’importanza di costruire e condividere uno<br />
sguardo verso l’orizzonte, l’identità e i valori dell’organizzazione, e poi si preoccupano solo<br />
di raggiungere risultati immediati che riconfermino prima di ogni cosa la loro immagine.<br />
Quando la leadership assume comportamenti schizofrenici e paradossali, diventa poco<br />
credibile, confusa, demotivante, inefficace e non consente la costruzione di situazioni che<br />
favoriscano e facilitino l’innovazione, l’evoluzione, il cambiamento e la realizzazione di<br />
risultati positivi.<br />
Da cosa dipende quel divario, a volte molto evidente, tra quanto dichiarato da molti<br />
leader, in accettazione di modelli di leadership evoluta e innovativa e quanto effettivamente<br />
operato nella pratica? Quali stati mentali ed emozionali conducono a generare comportamenti<br />
in contrasto con i modelli compresi, condivisi e dichiarati?<br />
Si innescano emozioni e si determinano comportamenti attivati da automatismi<br />
acquisiti nel passato e spesso obsoleti e/o inadeguati. Il loro sistema di archiviazione del<br />
mondo, mancando di reazioni di scelta, non permette all’individuo di provare emozioni e<br />
agire comportamenti diversi dai soliti archiviati.<br />
28
Krishnamurti descrive questo stato con queste parole:<br />
Conduco un certo tipo di vita; penso secondo certi schemi; ho certe credenze e certi dogmi e<br />
non voglio che questi schemi vengano turbati, perché in essi ho le mie radici. Non voglio che vengano<br />
turbati perché i turbamenti producono uno stato di ignoranza che io non gradisco. Se vengo strappato a<br />
tutto ciò che conosco e in cui credo, voglio essere ragionevolmente sicuro dello stato di cose a cui<br />
vado incontro. Così, le cellule cerebrali hanno creato uno schema e quelle cellule cerebrali si rifiutano<br />
di creare un altro schema, che potrebbe essere incerto.<br />
Il movimento dalla certezza all’incertezza è ciò che chiamo paura ... non ho paura nel<br />
momento presente, niente mi sta accadendo, nessuno mi sta minacciando o mi sta portando via<br />
qualcosa. Ma al di là del momento presente c’è uno strato più profondo della mente che<br />
inconsciamente o consciamente sta pensando a cosa potrebbe accadere nel futuro o si sta<br />
preoccupando che qualcosa del passato possa raggiungermi. Dunque, ho paura del passato e del<br />
futuro. 7<br />
I nostri comportamenti stanno in un rapporto forte, ma non esplicito, con le nostre<br />
emozioni e le nostre convinzioni. Per cambiare comportamento, dobbiamo occuparci di<br />
convinzioni, emozioni, valori che, certo, sono riferiti al contesto professionale, ma riguardano<br />
profondamente la persona.<br />
Attraverso la paura, si realizza un orientamento negativo che è parte del problema e<br />
impedisce di svolgere al meglio il ruolo di leader. E “l’orientamento negativo è un grosso<br />
ostacolo alla volontà di portare nella propria vita uno spirito di innovazione” 8 .<br />
La paura può avere varie accezioni e significati: sospetto, diffidenza, sfiducia,<br />
preoccupazione, ansia, angoscia. E si esprime in collera, disprezzo, risentimento, rancore,<br />
irritazione, insofferenza, presunzione, rabbia, invidia, indifferenza, senso di superiorità ecc.<br />
La paura di ciò che potrà accadere è connessa alla resistenza al cambiamento del leader. I<br />
contenuti della paura possono essere svariati: paura di perdere il controllo della situazione, di<br />
7 Krishnamurti J., Sulla paura, Astrolabio , Roma, 1998<br />
8 Bandler R., Il tempo per cambiare, NLP Italy, Alessio Roberti Editore, Urgnano, Bergamo, 2003<br />
29
perdere uno status, di non farcela a sostenere il peso del cambiamento o di saperne gestire le<br />
conseguenze, di non essere adeguati a cambiare le cose, di non essere più considerati come<br />
prima, di perdere prestigio e potere, di fallire, di essere smascherati. Al di là di questi possibili<br />
contenuti, si tratta comunque di una paura legata all’aspettativa di un possibile pericolo<br />
futuro. È una proiezione negativa nel futuro di esperienze passate, spesso infantili, vissute in<br />
assenza di risorse.<br />
La persona dominata dalla paura non è consapevole che nel suo presente ha acquisito<br />
tali risorse o può facilmente acquisirle, mettendosi così in condizione di disfarsi della paura.<br />
La persona che prova questa paura e coloro che appartengono al suo sistema rimangono<br />
prigionieri delle proprie convinzioni, percezioni e aspettative negative che ne minano la<br />
creatività e la capacità di affrontare positivamente il cambiamento. Spesso si tenta di ignorare<br />
o rimuovere questa paura, ma essa rimane e, non essendo riconosciuta e affrontata, miete<br />
vittime: il soggetto che la vive e chi lo circonda.<br />
Occorre dunque agire sull’emozione all’origine del comportamento, intervenendo e<br />
modificando i processi interni alla persona, che influenzano e condizionano questa emozione.<br />
Bisogna costruire un percorso definendo la propria emozione, riconoscere le convinzioni<br />
limitanti e i comportamenti conseguenti e capire da dove provengono, liberare l’emozione e<br />
cercare alternative al comportamento, ricercando e attivando le risorse.<br />
Se la paura blocca l’innovazione, come possiamo associare il cambiamento ad un<br />
arricchimento e sciogliere la paura, per sostituirla con l’anticipazione positiva, la curiosità, la<br />
determinazione?<br />
Perché un leader riesca ad applicare concretamente un modello di leadership evoluta e<br />
innovativa non è sufficiente che lo comprenda e lo condivida cognitivamente, ma è<br />
indispensabile che il suo mondo entri in contatto con le risorse che aprono le porte alle scelte<br />
e alle possibilità e ne attivi il potenziale.<br />
Dove domina la paura, nasce il bisogno di dominare gli altri con gli strumenti che si<br />
hanno a disposizione: il proprio ruolo, il controllo, le parole, l’imposizione. Viceversa, quei<br />
leader che riescono ad applicare nuovi modelli, non agiscono sotto l’azione di una minaccia o<br />
di una ferita interiore che crea lo stato di difesa e di fuga.<br />
Abitiamo in un mondo caratterizzato da continui mutamenti ed incertezze, dove le<br />
organizzazioni sono sempre più impegnate a ripensare e ridisegnare la propria cultura e le<br />
proprie azioni. In questo contesto, la figura del leader è chiamata a percorrere strade inusuali,<br />
a volte anche piene di buche, giocando un ruolo primario come catalizzatore di nuovi modi di<br />
vivere nell’organizzazione e come attivatore e facilitatore del cambiamento.<br />
30
Ridisegnare la propria cultura e le proprie azioni<br />
Se per esempio al computer si forniscono informazioni inesatte o incomplete, anche i<br />
risultati che se ne otterranno saranno dello stesso tipo. E oggi sono molti, nella nostra società,<br />
quelli che si preoccupano o meno della qualità delle informazioni ed esperienze che toccano<br />
loro quotidianamente. L’<strong>eu</strong>ropeo medio passa un po’ di tempo al giorno davanti al televisore.<br />
È di importanza decisiva vigilare sull’alimento che viene fornito alle nostre menti, se<br />
vogliamo che i giovani crescano e se vogliamo aumentare la nostra capacità di sperimentare a<br />
fondo e goderci la vita.<br />
Se ci formiamo rappresentazioni interne relative alla distruzione di città convincendoci<br />
che è un bene che questo accada, saranno quelle rappresentazioni a governare il nostro<br />
comportamento.<br />
La creazione di tendenze è uno dei compiti principali di una leadership.<br />
Per fare del mondo un luogo in cui si viva meglio, dobbiamo trasmettere messaggi<br />
produttivi che possano trasformare il mondo e farne quello che vorremmo che fosse.<br />
Il mondo è governato dai persuasori. Quali sentimenti in merito alla guerra fa sorgere<br />
in noi un film come Rambo? Fa apparire le stragi, i bombardamenti al napalm come un grande<br />
spasso, una furibonda allegria. E questo può renderci più o meno recettivi all’idea di andare a<br />
combattere in guerra. Ma un solo film non basterebbe a cambiare i comportamenti di<br />
un’intera nazione ed è anche doveroso sottolineare che probabilmente Sylvester Stallone non<br />
mira a promuovere stragi. I suoi film si incentrano sulla possibilità di superare forti<br />
limitazioni mediante duro lavoro e disciplina. Costituiscono modelli della possibilità di<br />
vincere contro ogni probabilità del contrario. Ma dobbiamo osservare gli effetti che sulla<br />
cultura di massa hanno ripetuti impatti, acquistare consapevolezza di ciò che mettiamo nelle<br />
nostre menti.<br />
Anziché lasciarci influenzare da immagini di Rambo che, in preda a una sorta di<br />
delirio, uccide altri esseri umani, non sarebbe meglio dedicare la nostra esistenza a trasmettere<br />
i messaggi produttivi che possono trasformare il mondo e farne quello che vorremmo che<br />
fosse?<br />
Che cosa accadrebbe se si riuscisse a cambiare la rappresentazione interna della guerra<br />
in tutto il mondo? E se lo stesso potere e la stessa tecnologia capaci di indurre grandi masse a<br />
combattere potessero venire impiegati per superare differenze di valori e celebrare la<br />
fratellanza di tutti i popoli? Ma questa tecnologia esiste? Certamente. Forse non basterà<br />
produrre qualche film, mostrarlo a tutti, per far cambiare il mondo. Gli strumenti, comunque,<br />
ci sono.<br />
31
Bisogna tuttavia partire da un punto: assumere consapevolezza di ciò che vediamo,<br />
udiamo e sperimentiamo in continuazione e prestare attenzione al nostro modo di<br />
rappresentarci, individualmente e collettivamente, le relative esperienze. Dobbiamo diventare<br />
più coscienti di ciò che succede intorno a noi.<br />
Se siamo in grado di proiettare su scala di massa le nostre rappresentazioni interne<br />
circa i comportamenti umani, circa ciò che è armonioso, efficace, positivo, possiamo avviare i<br />
nostri figli, la nostra città, il nostro stato, il nostro mondo, verso altre direzioni.<br />
Ciò che rappresentiamo ininterrottamente a livello di massa tende ad essere<br />
interiorizzato da masse enormi, e si tratta di rappresentazioni che condizionano la società e il<br />
mondo. Per creare un mondo accettabile, dobbiamo continuamente revisionare e riprogettare<br />
ciò che possiamo fare per dare vita a rappresentazioni feconde su scala unitaria e globale.<br />
Oggi si parla di aumento del potere personale, del modo di apprendere a ottenere<br />
successo nel rispettivo campo di attività. Ma che senso ha essere il sovrano di un pianeta<br />
moribondo?<br />
Tutto ciò di cui parleremo avrà la massima efficacia, se ce ne serviremo in modo<br />
positivo, tale da assicurare successo agli altri, oltre che a noi stessi.<br />
Il potere supremo ha carattere sinergico: deriva dal fatto che gli individui cooperino,<br />
anziché lavorare ognuno per contro proprio. Oggi possediamo la tecnologia necessaria per<br />
mutare le nostre percezioni e quelle degli altri, ed è suonata l’ora di servircene in maniera<br />
efficace per migliorare noi stessi e, quindi, il mondo che ci circonda.<br />
È indispensabile uno stile di leadership capace di proiettare una visione chiara delle<br />
direzioni da seguire, di tenere un atteggiamento aperto e costruttivo, di trasformare qualsiasi<br />
tipo di problema in un’opportunità di crescita, di mobilitare in ogni individuo tutta l’energia<br />
che può esprimere, di costituire un fondamentale punto di riferimento per gli altri componenti<br />
dell’organizzazione.<br />
In un’epoca dove l’unica costante è il cambiamento, la differenza che fa la differenza<br />
nella leadership è la spinta evolutiva che riesce a realizzare.<br />
In breve, un leader deve essere in grado di padroneggiare abilità relative a quattro<br />
aree: la guida di se stesso, la relazione con i collaboratori, la capacità di gestire strategie atte<br />
al raggiungimento degli obiettivi, il governo del sistema nel quale opera. Deve guidare il<br />
cambiamento e motivare profondamente i collaboratori, costruire quella visione comune e<br />
quel gioco di squadra necessari per realizzare in modo eccellente gli obiettivi<br />
dell’organizzazione.<br />
Questo modello di leadership evoluta e innovativa, tuttavia, si trova spesso di fronte<br />
32
alla discrepanza tra quanto dichiarato e/o condiviso cognitivamente e quanto effettivamente<br />
agito nel quotidiano. In effetti, comprendere e condividere cognitivamente un modello non<br />
significa necessariamente avere la capacità e l’effettiva volontà di applicarlo.<br />
C’è una prassi che viene definita “politica aikido”: si serve del principio del contesto<br />
di consenso per dirigere il comportamento in modo da minimizzare i conflitti.<br />
Trovando un terreno comune e proponendo un’alternativa valida, si può giungere a un<br />
accordo vantaggioso per entrambe le posizioni.<br />
La situazione che si crea, lungi dal costituire una sconfitta per qualcuno, rappresenta<br />
un’ottima chance. Gli effetti benefici ci sono per tutte le parti interessate perché si riesce a<br />
trovare una soluzione senza vincitori né vinti, e la gente è in grado di imparare a intraprendere<br />
un’azione concreta per raggiungere un certo risultato, scoprendo in sé nuove potenzialità, una<br />
nuova fiducia.<br />
Lo spirito comunitario che deriva dalla collaborazione e dall’aver intrapreso iniziative<br />
concrete è assai più costruttivo della contesa o competizione tra due duellanti.<br />
Nel Colorado e New Messico, gli agricoltori della San Luis Valley per tradizione<br />
facevano ricorso alla legna da ardere come principale fonte di energia, ma i grandi proprietari<br />
terrieri avevano recintato i terreni sui quali i contadini raccoglievano la legna. Si trattava di<br />
gente poverissima. Ma ci fu chi si mise alla loro testa persuadendoli che la nuova situazione,<br />
lungi dal costituire una sconfitta, era anzi un’ottima chance. Si procedette alla costruzione di<br />
uno degli impianti a energia solare più redditizia al mondo, e i contadini ne ricavarono un<br />
sentimento di forza collettiva e cooperazione che mai avevano avuto prima.<br />
costruttive.<br />
Tutte le parti interessate riuscirono a trovare una soluzione senza vinti né vincitori.<br />
Pochi persuasori impegnati e capaci possono quindi avviare tendenze positive e<br />
Spetta dunque ai singoli leader superare convinzioni e pregiudizi limitanti che<br />
impediscono di realizzare un modello evoluto e innovativo, tenendo presente che una cosa è<br />
applicare tecniche e stili di leadership e un’altra è essere leader. La differenza è determinata<br />
dalla naturalezza, dai tempi di reazione, dall’auto-percezione dell’impegno e del dispendio di<br />
risorse dedicate, dalla coerenza con il proprio sistema di valori, dal senso di appartenenza ad<br />
una certa configurazione identificativa. Chi fa, agisce artificialmente un ruolo, anche con<br />
competenza ed efficacia; chi è, esprime la propria identità ed i propri valori naturalmente con<br />
quel ruolo.<br />
33
Scenari futuri.<br />
Durante un’intervista del 22 giugno 2004 condotta da Tim Sebastian, alla trasmissione<br />
Hard Talk della BBC, e rivolta al ministro degli Esteri italiano Franco Frattini, l’attenzione<br />
dell’intervistatore veniva concentrata sugli errori del passato, ma il ministro ha<br />
opportunamente rilevato che bisogna guardare al futuro, non al passato. La fase critica che<br />
comporta un’analisi logica del percorso diretta ad individuare cosa potrebbe andare male e<br />
cosa può essere evitato va orientata in modo costruttivo a sondare la tenuta del progetto o<br />
dell’idea in vari scenari ipotetici futuri. Non ci si concentra sul passato e sulla critica di esso<br />
se ciò costituisce semplicemente una “diversione” rispetto alla nuova strategia adottata per<br />
conseguire l’obiettivo. Tradotto in soldoni, se l’oggetto primario di attenzione è costituito dal<br />
“perché” del piano, non ci si sofferma inutilmente a guardare indietro. Se l’obiettivo è quello<br />
di fronteggiare nel modo migliore il terrorismo, valutiamo le strategie politiche possibili, oltre<br />
a quelle militari. Una strategia politica efficace, a mio avviso, consiste nel consolidare la<br />
struttura politica dell’Europa, in modo che non possa offrire ai terroristi l’immagine di un<br />
facile terreno di conquista, perché è debole, insicura e politicamente scompaginata. Le<br />
strategie anti<strong>eu</strong>ropeiste di sbarramento della crescita dell’Europa sul piano politico, della<br />
difesa e della sicurezza, pertanto, fanno il gioco dei terroristi e del loro piano di<br />
attecchimento. E anche la politica estera e sociale ha un peso enorme per quanto riguarda<br />
l’immagine che l’Europa offre di sé: può apparire un colosso inespugnabile o una casetta di<br />
paglia. Gli USA possono offrire un aiuto prezioso all’Europa nel rafforzarne l’immagine di<br />
fortezza inespugnabile attraverso un’alleanza nelle strategie e negli obiettivi.<br />
La politica culturale è estremamente importante nel profilare le linee guida che<br />
possono consentire la tutela del nostro patrimonio di civiltà. La soluzione culturale e politica<br />
al problema del terrorismo va attentamente valutata, perché quella poliziesca e militare ha già<br />
rivelato le sue falle.<br />
Il ministro degli Esteri Frattini ha parlato nell’intervista citata di cultural patrimony da<br />
tutelare, riferendosi alla costruzione del nuovo Iraq. Ma noi siamo altrettanto attenti a<br />
presidiare la nostra identità culturale, le nostre risorse di civiltà o siamo disposti a svenderle<br />
al primo acquirente che ci assicuri l’“oro nero?” Siamo orgogliosi del nostro patrimonio di<br />
tradizioni culturali e religiose o tendiamo a nasconderlo per non apparire “provinciali”,<br />
“arretrati”, “retrogradi”? Il bisogno di radicamento e di appartenenza ad un territorio, ad una<br />
cultura, ad una civiltà, ad un’etnia, ad una religione, ad un gruppo sociale ecc. è uno dei<br />
bisogni più potenti dell’individuo, su cui si innesta il senso di identità.<br />
Ogni società è organizzata in modo differente dalle altre e ha una sua cultura. La<br />
34
cultura di un popolo è tutto ciò che gli esseri umani scelgono di fare per soddisfare i propri<br />
bisogni: il modo di coltivare i campi, di cucinare i cibi, di costruire gli oggetti, di vestirsi, di<br />
danzare, di scrivere ecc.<br />
La lingua è uno degli elementi culturali più importanti di una società e tra le persone<br />
che parlano la stessa lingua si crea un forte senso di unione e di appartenenza alla stessa<br />
cultura. Alcune lingue <strong>eu</strong>ropee come l’inglese, lo spagnolo e il francese sono arrivate in ogni<br />
luogo della Terra in seguito alle migrazioni e alle conquiste territoriali.<br />
Un altro elemento che rende diverse le culture dei popoli è la religione. Esistono<br />
religioni monoteiste, che affermano l’esistenza di un solo Dio, religioni politeiste, secondo le<br />
quali esistono molti dei, e religioni animiste, per cui piante e animali hanno in sé spiriti buoni<br />
e cattivi. Secondo gli scienziati che studiano i popoli e le loro culture, ogni società porta con<br />
sé l’esperienza delle generazioni precedenti. Le abitudini e i comportamenti di ogni società<br />
sono però anche il risultato degli scambi culturali avvenuti in passato tra i vari popoli della<br />
terra. Per questo motivo lo studio di società diverse dalla nostra ci aiuta a capire meglio anche<br />
noi stessi.<br />
Uno Stato nazionale comprende un territorio abitato da persone con la stessa lingua e<br />
le stesse tradizioni. Nel 2004 l’Europa ha “compreso” politicamente 25 territori. Ora occorre<br />
creare una unità che vada oltre le diversità culturali.<br />
Le tre repubbliche che si affacciano sul Mar Baltico, Estonia, Lettonia e Lituania,<br />
entrate in Europa nel 2004, si sono rese indipendenti negli anni 1990-1991, tramite<br />
referendum popolare, dalla Comunità di Stati Indipendenti sorta nel 1991 dopo il crollo<br />
dell’Unione Sovietica. Gli aiuti economici dei paesi <strong>eu</strong>ropei, soprattutto scandinavi, hanno<br />
messo in moto un processo di modernizzazione dell’agricoltura e dell’industria delle tre<br />
repubbliche, che hanno un’economia in via di crescita e sviluppo. Le capitali Tallinn<br />
(Estonia), Riga (Lettonia) e Vilnius (Lituania) sono sedi della maggior parte delle attività<br />
industriali e commerciali dei tre paesi. L’intensificazione degli scambi economici e culturali<br />
dell’Europa con altri paesi richiede un breve accenno introduttivo, per contestualizzarli<br />
soprattutto in riferimento al tema dell’immigrazione e della politica sociale <strong>eu</strong>ropea.<br />
Le scuole sono sempre più gremite di studenti provenienti dalle più diverse parti<br />
dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e dell’America e il tema dell’integrazione non può<br />
misconoscere la coscienza identitaria, anche se è auspicabile un’educazione focalizzata sul<br />
rispetto delle reciproche identità, della legalità, delle istituzioni del Paese in cui si vive e si<br />
lavora.<br />
Nell’ultimo anno di scuola elementare di mio figlio ho assistito ad una presa di<br />
35
coscienza sempre maggiore della scuola di tale bisogno. Nel discorso introduttivo della festa<br />
di fine anno di una delle maestre compariva questa consapevolezza: c’è stato un preciso<br />
riferimento alla riscoperta dei giochi tradizionali che facevano i genitori e i nonni all’aria<br />
aperta: mosca cieca, palla avvelenata, guardie e ladri ecc. Inoltre, in una classe è stata allestita<br />
un’aula come si presentava nella generazione dei nonni e bisnonni. Ho saputo anche che<br />
durante l’arco della scuola elementare sono state invitate alcune nonne ultraottantenni, per<br />
raccontare ai bambini com’era la vita ai loro tempi. Questa modalità di collegamento con le<br />
radici storiche e territoriali è tutt’altro che antiquata. È un modo sano di fondare la propria<br />
identità e di dissipare le “ansie da sradicamento”.<br />
Vergognarsi delle proprie radici è un modo rozzo e provinciale di negare la propria<br />
identità. Ho conosciuto una colta signora siciliana, che mi ha comunicato il suo imbarazzo,<br />
quando il figlio nato al Nord l’ha rimproverata perché ha seguito una splendida usanza basata<br />
sulla solidarietà, che porta gli abitanti del centro-sud d’Italia, a portare cibo in abbondanza<br />
alla famiglia che vive un lutto, in concomitanza del funerale. Questa usanza interpreta il<br />
disagio in cui vivrebbe la donna oberata dell’impegno di cucinare per i parenti che vengono a<br />
trovarla per farle le condoglianze, alleviandola di una fatica in più, in occasione della<br />
cerimonia funebre.<br />
Queste riflessioni a sfondo culturale ci introducono alla presentazione della struttura<br />
del libro, che si articola in sei capitoli. Il primo è focalizzato sulla didattica della storia nella<br />
formazione dell’individuo e sui “filtri” pregiudiziali che ne alterano la visione. Il secondo è<br />
incentrato sulla pedagogia come formazione dell’identità. Il terzo si occupa della politica<br />
sociale dell’Europa incentrata sull’identità. Il quarto invita a sviluppare un progetto che<br />
prende in considerazione sia tradizione che innovazione. Il quinto si snoda intorno alle mappe<br />
cognitive che organizzano il nostro pensiero. Il sesto è rivolto alla riflessione sul futuro<br />
dell’Europa.<br />
36
CAPITOLO I<br />
PREGIUDIZIO, DIDATTICA E PEDAGOGIA<br />
ANCHE GLI SCIENZIATI HANNO PREGIUDIZI?<br />
La conoscenza scientifica è condizionata da presupposti impliciti ed elementi arbitrari,<br />
che possono essere assimilati al pregiudizio nella misura in cui sfuggono al controllo<br />
consapevole e razionale, e dirottano l’attenzione verso binari obbligati e ripetitivi. Scrive<br />
Whitehead: “La difficoltà non si trova tanto in ciò che l’autore dice quanto in ciò che non<br />
dice, e non tanto in ciò che sa di aver postulato, quanto in ciò che ha postulato<br />
inconsapevolmente”. 1<br />
Kuhn sostiene che le strutture e i contenuti delle teorie scientifiche sono<br />
invariabilmente influenzati dalle credenze degli scienziati. Naturalmente le credenze<br />
scientifiche ammissibili sono limitate dall’osservazione e dall’esperienza che però, da sole,<br />
non sono in grado di determinare completamente un particolare insieme di tali credenze.<br />
Conseguentemente, ogni teoria scientifica contiene alcuni elementi arbitrari: “Un elemento<br />
arbitrario, composto di accidentalità storiche e personali, è sempre presente, come elemento<br />
costitutivo, nelle convinzioni manifestate da una data comunità scientifica in un dato<br />
momento”. “La scienza ... è affermata sulla base della assunzione che la comunità scientifica<br />
sa che cosa è il mondo”. 2<br />
Gli elementi arbitrari sono quindi, consapevolmente o no, introdotti da coloro che<br />
fanno scienza in base alle proprie credenze. Il meccanicismo ottocentesco è un caso in cui è<br />
particolarmente evidente l’influenza di alcune convinzioni presenti in alcuni settori della<br />
comunità scientifica sui contenuti delle teorie scientifiche. Dapprima si ha un progressivo<br />
1 Citato da Keeney Bradford P., L’estetica del cambiamento, Astrolabio, Roma, 1983, p. 34<br />
2 Kuhn Thomas S., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1962, p. 23<br />
37
trionfo della meccanica entro la scienza: vengono “ridotti” alla meccanica alcuni fondamentali<br />
capitoli della fisica, nati indipendenti (termologia, ottica, acustica); quindi si comincia a<br />
pensare che tutti i fenomeni fisici siano spiegabili in termini meccanici, che massa, forza e<br />
movimento siano la chiave di lettura della completa intelligibilità della natura. A questo punto<br />
la meccanica, più che come una “scienza”, si presenta come una “concezione scientifica del<br />
mondo”, che propone se stessa come quadro generale entro cui ogni scienza particolare deve<br />
potersi riconoscere e che, così facendo, esporta in altre discipline il proprio apparato di<br />
convinzioni sulla realtà. 3<br />
Il pensiero scientifico esige quindi una contestualizzazione in un preciso contesto<br />
psico-antropo-sociologico, ossia va posto in relazione al contesto in cui sono nate alcune<br />
convinzioni presenti in alcuni settori della comunità scientifica sui contenuti delle teorie<br />
scientifiche.<br />
La storia delle matematiche ci fornisce un altro esempio, che evidenzia l’arbitrarietà di<br />
alcuni presupposti scientifici e l’accidentalità delle circostanze che conducono alla<br />
consapevolezza di tale arbitrarietà. Per circa duemila anni, la geometria <strong>eu</strong>clidea fu<br />
considerata la “vera” geometria, ossia la rigorosa e oggettiva ricostruzione delle proprietà e<br />
delle relazioni dello spazio. A cavallo della metà dell’ottocento nacquero le ben note<br />
geometrie rivali (le geometrie non - <strong>eu</strong>clidee) fondate, su una forma di negazione del<br />
postulato della parallela. Dopo i primi momenti di incertezza, di scetticismo e di<br />
sbandamento, questo fatto provocò una riflessione approfondita sui fondamenti di questa<br />
scienza, da cui derivò un mutamento di prospettiva circa la sua stessa natura: in breve volgere<br />
di tempo, essa non fu più considerata come la scienza dello spazio, ma come una collezione di<br />
vari sistemi di postulati fra loro diversi, ma ugualmente legittimi. 4<br />
Ogni disciplina, o branca, o orientamento scientifico, o griglia di osservazione agevola<br />
i suoi cultori nel notare alcune cose, ma al tempo stesso impedisce loro di notarne altre.<br />
Keeney ammette: “Io sono convinto che qualsiasi posizione, prospettiva, quadro di<br />
riferimento concettuale o idea, sia l’espressione parziale di un tutto che non riusciamo mai a<br />
cogliere completamente”. 5<br />
3 Cfr. Agazzi E., Temi e problemi di filosofia della fisica, Ed. Abete, Roma, 1974, pp. 23-26<br />
4 Cfr. Agazzi E., Temi e problemi di filosofia della fisica. op. cit. pp. 62-67<br />
5 Keeney Bradford P., L’estetica del cambiamento, op. cit. p. 15<br />
38
E Gordon, Meyers-Anderson scrivono: “Le nostre convinzioni/metri di paragone,<br />
regole personali e professionali non racchiudono tutto ciò che è possibile: al contrario,<br />
limitano ciò che è possibile”. 6<br />
In conclusione, ogni apparato di idee determina il rifiuto o l’ignoranza di quanto<br />
sembra sprovvisto di senso o di realtà alla luce dei suoi assiomi e dei suoi principi; implica<br />
quindi una sua opacità ed un suo acciecamento, dovuti alla parzialità del punto di vista di<br />
ogni singola scienza e agli “elementi arbitrari”immessi nella teoria scientifica stessa dalla<br />
soggettività dei membri della comunità scientifica.<br />
D’altronde, la conoscenza - anche la conoscenza scientifica - è inseparabile dal<br />
soggetto che conosce. Heisenberg, premio Nobel per la fisica, sostiene che noi non<br />
conosciamo mai il mondo: “L’oggetto della ricerca scientifica non è più la natura in sé, ma la<br />
natura sottoposta alle interrogazioni dell’uomo ... Le leggi naturali, che noi formuliamo<br />
matematicamente nella teoria quantistica, non trattano più delle particelle elementari in sé, ma<br />
della nostra conoscenza delle particelle elementari”. In altre parole: non vi è di fronte a noi<br />
l’oggetto, ma la struttura complessa e inscindibile osservatore – oggetto”. 7<br />
Ma come? Possibile che proprio uno scienziato metta in dubbio l’oggettività della<br />
scienza, che di solito viene data per scontata? Il problema nasce dal fatto che il termine<br />
“oggettività” è di significato abbastanza ambiguo, poiché si presta a due diverse<br />
interpretazioni. È possibile significare che una caratteristica è oggettiva in quanto inerente<br />
all’oggetto percepito; oppure che è oggettiva in quanto indipendente dal soggetto che<br />
percepisce. Ed è in questo secondo senso che (senza addentrarci troppo nelle dispute<br />
filosofiche) le proposizioni scientifiche vengono considerate oggettive; quando, cioè,<br />
osservatori diversi danno luogo alla medesima osservazione. Più che di oggettività in senso<br />
forte, quindi, si può parlare di intersoggettività. Occorre inoltre aggiungere che, affinché<br />
soggetti diversi possano compiere le stesse osservazioni con identici risultati, necessitano di<br />
un addestramento, di una socializzazione in tal senso.<br />
E ciò porta alla creazione di una realtà consensuale, su cui sono d’accordo, in quanto<br />
sono stati addestrati, in un certo quadro culturale, ad avere una certa visione di determinati<br />
fenomeni in conformità con le esigenze e le aspettative di un determinato modello cognitivo.<br />
6 Gordon D., Meyers-Anderson M., La psicoterapia ericksoniana. Phoenix, Astrolabio, Roma, 1984, p. 17<br />
7 Cfr. Agazzi E., Temi e problemi di filosofia della fisica, op. cit. p. 34<br />
39
Un sapere di tipo scientifico consiste nel rifondare la psicologia con le stesse regole<br />
della fisica: osservabilità e ripetibilità dei fenomeni, ricerca delle costanti, della differenza che<br />
fa la differenza, di modelli e paradigmi. 8<br />
Ogni teoria, ogni forma di sapere, compreso il sapere scientifico, è condizionata e<br />
limitata dalla sua “mappa” cognitiva, che rinvia al territorio, ma non coincide con il territorio.<br />
La nostra rappresentazione della realtà non è la realtà stessa, la mappa non è il<br />
territorio. Questa considerazione vale per ogni tipo di rappresentazione di realtà, anche per<br />
quelle strutturate in una qualche forma di sapere e per le stesse teorie scientifiche, per motivi<br />
tra loro logicamente interconnessi, che abbiamo sopra esposto: la conoscenza scientifica è<br />
condizionata da presupposti impliciti ed elementi arbitrari; la conoscenza, anche la<br />
conoscenza scientifica, è inseparabile dal soggetto che conosce. Un altro motivo ci porta ad<br />
ipotizzare che ci siano limiti insiti nella conoscenza scientifica: il punto di vista di ogni<br />
scienza è limitato e parziale. Scrive Laing: “Quelli che nella scienza empirica sono chiamati<br />
‘dati’ (data), essendo in realtà scelti arbitrariamente dalla natura dell’ipotesi già formulata,<br />
potrebbero più onestamente essere chiamati ‘presi’ (capta)” 9 .<br />
La scienza occidentale nasce con Galileo, quando, nel “Dialogo sui massimi sistemi”,<br />
afferma: “Perché, o noi vogliamo specolando tentar di penetrare l’essenza vera ed intrinseca<br />
delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni.<br />
Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle<br />
prossime sustanze naturali che nelle remotissime e celesti ... Ma se volessimo fermarci<br />
nell’apprensione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco<br />
ne i corpi lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi”.<br />
Lo spartiacque, ciò che caratterizza la scienza moderna come sapere non filosofico, è<br />
la rinuncia all’indagine sull’essenza e alle aspirazioni metafisiche. Il fisico costruisce l’ottica<br />
senza sapere il preciso “che cosa è” la luce; l’elettrologia senza sapere bene “che cosa è”<br />
l’elettricità; la termologia senza sapere bene “che cosa è” il calore; la fisica atomica senza<br />
avere una nozione del tutto soddisfacente di “che cosa è” l’atomo e così via. 10<br />
8 Si veda al riguardo: Zanetti G., Il linguaggio dell’analogia, SOMSE, Torino, 1984<br />
9 Laing citato in: Keeney Bradford P., L’estetica del cambiamento, op. cit. p. 33<br />
10 Cfr. Agazzi E., Temi e problemi di filosofia della fisica, op. cit. pp. 10-11<br />
40
Dal fatto di limitare il proprio interesse ad “alcune affezioni”, deriva l’esigenza di<br />
distinguere tra aspetti diversi inerenti agli oggetti e di scegliere quelli che saranno oggetto<br />
della teoria. Uno stesso oggetto d’esperienza può essere oggetto di indagine di varie scienze, e<br />
come oggetto di indagine viene “costruito” in modo diverso da ogni scienza. Ad esempio, è<br />
possibile studiare una penna dal punto di vista della fisica (studiandone il peso, la resistenza<br />
alla torsione, ecc.), dal punto di vista della chimica (studiando la composizione chimica dei<br />
materiali di cui la penna è costituita, ecc.), dal punto di vista dell’economia 8studiando la<br />
penna come oggetto di acquisto/vendita, ecc.)<br />
Tutti questi punti di vista ci dicono molte cose, ma nessuno di loro, e nemmeno la loro<br />
sommatoria, sono esaustivi; si limitano a studiare alcune caratteristiche dal proprio specifico<br />
punto di vista, trascurandone altre.<br />
L’esperienza personale di ognuno di noi può aiutarci a comprendere questo “limite”<br />
del sapere scientifico: la nostra focalizzazione su qualcosa implica la nostra non-<br />
focalizzazione su tutto il resto del mondo, e dalla focalizzazione su alcuni elementi piuttosto<br />
che su altri dipendono i diversi punti di vista. “... sempre e inevitabilmente, ha luogo una<br />
selezione dei dati, poiché la totalità dell’universo, passato e presente, non può essere osservata<br />
da alcun punto d’osservazione assegnato”. 11<br />
Il punto di vista dell’osservatore, a sua volta, è connesso a presupposti più o meno<br />
consapevoli, a credenze in interazione con presupposti culturali più ampi, a valori e relativi<br />
criteri, che portano a focalizzarsi su alcuni elementi piuttosto che su altri. Nella misura in cui<br />
si è consapevoli del condizionamento esercitato dai propri presupposti o “filtri”, si può<br />
mettersi in posizione “meta”, al di là e al di fuori del condizionamento stesso o perlomeno<br />
riducendone la portata coercitiva sulla nostra sfera cognitiva.<br />
La consapevolezza dei presupposti impliciti.<br />
La posizione “meta” assunta nell’analizzare le due principali ideologie del XX secolo<br />
implica la consapevolezza dei presupposti impliciti in esse, e anche la consapevolezza dei<br />
presupposti che mi hanno guidata nell’esame del modello che ha orientato l’esplorazione.<br />
Se i valori e i relativi criteri adottati nello scrutare le due culture descritte fossero stati<br />
diversi dai miei, avrei potuto magari prendere in considerazione altre culture. Nell’impegno<br />
ad indagare i presupposti impliciti del modello che ha guidato l’indagine, occorre la<br />
consapevolezza che tale impegno riguarda un processo senza fine: non si arriverà mai a<br />
11 Cfr. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976, p. 23<br />
41
conoscere tutti i propri presupposti. “Nessuno può diventare pienamente consapevole delle<br />
proprie premesse. Per molti versi, le premesse sono come le piante dei piedi; siccome ci si<br />
poggia sopra, è impossibile guardarle”. 12 La precisa consapevolezza dei limiti causati dai<br />
presupposti impliciti fornirebbe indicazioni utili allo scopo di trascenderli. Alcuni presupposti<br />
impliciti della cultura occidentale sono difficili da cogliere perché molto profondi e, come<br />
osserva Keeney, “una premessa, quanto più e fondamentale, tanto meno è accessibile alla<br />
coscienza” 13 .<br />
L’abilità e la naturale predisposizione ad indagare i presupposti, espliciti e non, può<br />
essere applicata a se stessi? Si può suggerire la domanda: “Che cosa, adesso, non sto<br />
notando?” Ma questa domanda non ha una griglia analitica di riferimento, sembra<br />
un’aspirazione, una direzione di crescita, più che una competenza esplicitata, formalizzata e<br />
trasferibile.<br />
Ho conosciuto un affermato professionista siriano nato in Italia e abituato alle<br />
relazioni internazionali, che mi ha detto: “Io sono arabo, per cui posso parlare male degli<br />
arabi. Non è razzismo”.<br />
Vorrei far notare che ogni concezione o atteggiamento pregiudiziale che riguarda un<br />
gruppo etnico, religioso, nazionale, regionale ecc, - e quindi prescinde dalla valutazione<br />
diretta principalmente all’individuo considerato nelle sue caratteristiche peculiari -, è razzista,<br />
sia che riguardi altre razze o la propria.<br />
In altri termini, è vero che è possibile estrarre, sia pure in via cautelativa, alcune<br />
caratteristiche che accomunano un popolo, fino a parlare di dimensione archetipica collettiva,<br />
ma è anche vero che i tratti individuali e soprattutto il livello evolutivo raggiunto<br />
contrassegnano la personalità di ciascuno assai di più di una generica designazione collettiva<br />
che rischia di essere pregiudiziale. In effetti il pre-giudizio è un giudizio affibbiato ad un<br />
individuo in quanto appartenente ad una categoria di persone, che non tiene conto dei veri<br />
tratti distintivi della persona.<br />
Pertanto, si può avere un pregiudizio anche sulla propria gente, non appena ci si<br />
esprime in questi termini: “Gli italiani sono dei simpatici inconcludenti. Gli arabi sono ...”.<br />
Gli attributi generici e non personalizzati, in definitiva, sono quasi sempre<br />
12 Boscolo L. Bertrando P., Terapia sistemica individuale, Cortina, Milano, 1996, p. 68<br />
13 Keeney Bradford P., L’estetica del cambiamento, op. cit. p. 174<br />
42
pregiudiziali e riduttivi, perché pretendono di incasellare dentro etichette stereotipate il flusso<br />
dinamico dei processi psichici, delle motivazioni, delle aspettative, degli obiettivi, che sono<br />
assolutamente individuali.<br />
Forse non ci soffermiamo abbastanza a riflettere sull’arbitrarietà di alcune<br />
categorizzazioni affrettate o sommarie con cui cataloghiamo gli esseri umani, smistandoli<br />
come facciamo con gli abiti invernali da sostituire con quelli estivi o viceversa.<br />
È da questo punto di partenza che possiamo rivisitare i vari temi sviluppati nel corso<br />
del libro “Barriere ideologiche e democrazia”.<br />
43
LA DIDATTICA DELLA STORIA NELLA FORMAZIONE DELL’INDIVIDUO<br />
Un nuovo approccio all’analisi della storia.<br />
La teoria della trasformazione culturale introduce un nuovo approccio nell’analisi<br />
della storia. Esso si basa su uno studio multidisciplinare che attinge a molteplici e disparati<br />
settori: sociologia, antropologia, archeologia, storia, economia, linguistica, scienze politiche,<br />
biologia, lo studio della mitologia e del folklore, la teoria dell’auto-organizzazione dei<br />
sistemi, la teoria del caos e la dinamica non-lineare. Forse il punto essenziale è che, a<br />
differenza di approcci convenzionali che si concentrano quasi esclusivamente su ciò che è<br />
stata giustamente chiamata “la storia dell’uomo”, attinge ad una serie di dati che comprende<br />
l’umanità in entrambe le sue componenti, femminile e maschile. Inoltre, questo nuovo<br />
approccio attinge ad una serie di dati che comprende non solo la storia, ma anche la preistoria.<br />
Qualcuno ha osservato che “noi siamo ciò che ricordiamo”. La memoria storica fa<br />
parte della nostra identità. Ma dobbiamo comprendere il significato degli eventi prendendo le<br />
distanze da essi. Affinché la memoria storica si traduca in “lezione della storia”, dobbiamo<br />
“guardarla” da una dimensione evolutiva diversa, rispetto a quella del periodo storico<br />
esaminato. In altri termini, per comprendere il vero significato storico delle dittature,<br />
dobbiamo vivere in un autentico spirito democratico. Analogamente, se portiamo occhiali con<br />
lenti colorate di rosso, non distinguiamo il vero colore degli oggetti: quelli bianchi ci<br />
sembrano rossi e quelli della stessa tonalità di rosso delle lenti vengono percepiti come gli<br />
altri oggetti bianchi. Pertanto, dobbiamo toglierci gli occhiali per vedere i veri colori reali o,<br />
fuori metafora, “uscire” dal periodo storico in esame, per osservare senza “filtri deformanti”.<br />
Per fornire un esempio circa la possibilità di fare “autocritica”, togliendosi le “lenti<br />
deformanti”, il 15 giugno 2004 Giovanni Paolo II ha ribadito il “mea culpa” pronunciato nel<br />
Giubileo, con la richiesta di perdono della Chiesa per i peccati di intolleranza e per le violenze<br />
compiute nel corso della storia e, in particolare, per gli abusi contro la persona umana<br />
commessi dall’ Inquisizione ed ha invitato a proseguire la ricerca storica. L’occasione al Papa,<br />
per questo nuovo pronunciamento, è offerta dalla pubblicazione degli Atti del convegno sulla<br />
Inquisizione, da lui voluto nel 1998, con la partecipazione di 29 storici ed esperti della<br />
materia. I loro studi, ora pubblicati in un volume dalla Biblioteca Apostolica Vaticana,<br />
servirono come base fondamentale per il gesto penitenziale della Chiesa durante l’Anno Santo<br />
2000. Il libro, di oltre 700 pagine, è accompagnato da una lettera del Pontefice al cardinale<br />
Roger Etchegaray, che fu presidente del Comitato centrale per l’Anno Santo. Nella missiva<br />
Giovanni Paolo II spiega perché prese quella iniziativa: “Nell’opinione pubblica - scrive -<br />
44
l’immagine della Inquisizione rappresenta quasi il simbolo di antitestimonianza e scandalo. In<br />
quale misura questa immagine è fedele alla realtà? Prima di chiedere perdono è necessario<br />
avere conoscenza esatta dei fatti e collocare le mancanze rispetto alle esigenze evangeliche, là<br />
dove esse effettivamente si trovano”. Presentando il volume, il cardinale George Cottier,<br />
presidente della Commissione storica che organizzò il convegno, ha sottolineato la perplessità<br />
di alcuni prelati che temevano si offrissero argomenti ai detrattori della Chiesa.<br />
Tuttavia, è opportuno sottolineare che la Chiesa non può che beneficiare di una<br />
coraggiosa autocritica, soprattutto presso gli intellettuali sensibili ai valori umani. Errare è<br />
umano e la Chiesa è fatta di uomini, di cui alcuni sono più illuminati e ispirati dallo spirito<br />
evangelico di altri. Comprendere questo significa salvaguardare l’autentico messaggio di<br />
Cristo, unica garanzia di “purezza spirituale”.<br />
Il cardinale Louis Tauran , “bibliotecario di Santa Romana Chiesa”, ha dato notizia di<br />
“cinque sacchi di libri proibiti” scomparsi in circostanze misteriose dal Sant’Uffizio nel 1559:<br />
ritrovati, furono restituiti alla Congregazione, sede dell’Inquisizione, dopo tre secoli: si stanno<br />
ancora studiando ed è probabile che tra essi ci siano anche opere di Erasmo da Rotterdam.<br />
Altre curiosità sono emerse. Secondo il dottor Agostino Borromeo, curatore del<br />
volume, “la ricchezza dei dati forniti consente di rivedere alcuni luoghi comuni assai diffusi<br />
tra i non specialisti: il ricorso alla tortura e la condanna alla pena di morte non furono così<br />
frequenti come si è per molto tempo creduto”, ed oggi “è possibile fare una storia della<br />
Inquisizione, prescindendo dai luoghi comuni”. Alcuni dati: su 150 mila processi<br />
dell’Inquisizione spagnola, tredici furono “le streghe” finite sul rogo; quella portoghese ha<br />
bruciato 4 persone, quella italiana 36. Il numero di imputati al rogo dell’Inquisizione si<br />
calcola in un centinaio contro i centomila dei tribunali civili. E sembra che le cosiddette<br />
“streghe” bruciate nell’ambiente protestante fossero in numero assai superiore che in ambito<br />
cattolico.<br />
L’osservazione secondo cui noi siamo ciò che ricordiamo va quindi ritoccata<br />
aggiungendo che il significato di ciò che ricordiamo cambia, a seconda del nostro stadio<br />
evolutivo. Perciò, nella misura in cui prendiamo le distanze da un passato che è servito come<br />
esperienza di vita per evolvere ad un livello superiore, ma che non ci appartiene in quanto non<br />
rifaremmo mai le stesse esperienze di allora con la visione del mondo - o mappa cognitiva -<br />
che abbiamo oggi, possiamo dire che la nostra identità attuale è diversa da quella di allora. In<br />
breve, non è utile tagliare i ponti con il passato, perché possiamo trarne utili insegnamenti per<br />
il futuro, ma al tempo stesso è possibile, e spesso auspicabile, che non ci riconosciamo più in<br />
quel passato, sotto la spinta evolutiva che ci ha portato ad elevarci a nuovi e più progrediti<br />
45
livelli.<br />
Per inciso, è utile ricordare che la didattica del percorso storico dell’umanità ha a che<br />
fare con lo scorrere del tempo, per cui la collocazione temporale degli eventi e dei periodi<br />
storici non è possibile prima di una certa fascia di età.<br />
Scrive Brenner al riguardo: “Debbono passare diversi anni prima che un bambino<br />
sviluppi un senso del tempo, prima che vi sia per lui qualcosa di comprensibile fuori dal ‘qui<br />
ed ora’, così che questa caratteristica del pensiero del processo primario non è che un tratto<br />
familiare dei primi anni di vita” 14 .<br />
D’altro lato, questa caratteristica permane nelle persone con gravi disturbi mentali, in<br />
cui predomina il pensiero del processo primario: “Il senso del tempo, o l’aver a che fare con il<br />
tempo, non esiste nel pensiero del processo primario; non vi è nulla del tipo di ‘prima’ o<br />
‘dopo’, di ‘ora’ ed ‘allora’, di ‘iniziale’, ‘successivo’ ed ‘ultimo’. Passato, presente e futuro<br />
sono una cosa sola nel processo primario” 15 .<br />
Peraltro, la distorsione del tempo è un fenomeno caratteristico della trance e uno dei<br />
più validi indizi di risveglio dalla trance è costituito dagli sforzi che le persone fanno per<br />
riorientare il proprio corpo 16 .<br />
Il 27 gennaio 2004 manifestazioni e celebrazioni sono state organizzate per non<br />
dimenticare la Shoah, lo sterminio degli ebrei. La memoria impegna tutti: istituzioni, società,<br />
cittadini. La televisione ha trasmesso La partita della memoria, in cui il calcio ha riunito i<br />
giocatori provenienti dal mondo televisivo e due giocatrici professioniste, nel tentativo di<br />
uscire dalle cerimonie di Palazzo. Nel calcio si verificano fenomeni di antisemitismo e<br />
razzismo, che vanno rivisitati all’interno di una partita emblematica. Il ricavato della partita<br />
sarà interamente devoluto per costruire a Roma il Museo dell’Olocausto, dedicato al dolore<br />
della comunità ebraica romana, che il 16 ottobre 1943 subì la deportazione nei campi di<br />
sterminio nazisti. Il premier Berlusconi ha annunciato l’istituzione di un comitato contro<br />
l’antisemitismo. L’Italia fu responsabile dell’uccisione di 4.000 persone nella Risiera di S.<br />
Sabba a Trieste, munita di forno crematorio.<br />
14 Brenner C., Breve corso di psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1967, pp. 63-64<br />
15 Brenner C., Breve corso di psicoanalisi, op. cit. p. 63<br />
16 Cfr. Erickson M. H., Rossi E. L., Rossi S. I., Tecniche di suggestione ipnotica, Astrolabio, Roma, 1979, p. 345<br />
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Elie Wiesel, ebreo deportato a 15 anni a Buchenwald e vincitore del premio Nobel per<br />
la Pace nel 1986, presentandosi come “figlio di genitori ebrei con tradizione ebraica”, ha fatto<br />
un discorso introduttivo in cui ha parlato dell’“uso della memoria per scongiurare altri atti di<br />
brutalità”. E ha aggiunto: “Quando le minoranze soffrono, dobbiamo aiutarle. Ho imparato<br />
che sono libero solo quando anche gli altri sono liberi. Tutte le volte che gli altri non sono<br />
liberi, la mia libertà non è libertà”.<br />
Rispetto e tolleranza per le minoranze vanno di pari passo con la cultura della<br />
memoria, in quanto il pericolo della demonizzazione del diverso viene esteso agli immigrati e<br />
a tutte le minoranze.<br />
Le iniziative che implicano il ricordo di tragedie come lo sterminio vanno estese nelle<br />
scuole, per coltivare la sensibilità. Wiesel dichiara: “Noi ebrei morimmo perché il mondo fu<br />
indifferente”. La sconfitta dell’indifferenza segna un passo avanti nel cammino della civiltà.<br />
Wiesel ha ricordato tutti i Paesi e popoli che soffrono, soprattutto in Africa, continente<br />
dimenticato. Qui 40 milioni di persone sono state prese e portate altrove: non si sa dove.<br />
L’epurazione di popoli e persone in Ruanda e Kurdistan fa parte di una triste storia recente.<br />
Finché ci saranno uomini assetati di potere che possono decidere di sradicare dalla<br />
propria terra intere famiglie, questi crimini si ripeteranno tragicamente. Ricordare serve<br />
dunque per agire, innanzitutto attraverso la prevenzione. Secondo un sondaggio trasmesso<br />
durante la partita, pare che il 40% degli italiani dica di farla finita con l’Olocausto. All’interno<br />
dello stesso sondaggio, per 9 paesi <strong>eu</strong>ropei il 15% della popolazione è ostile agli ebrei. Ma<br />
l’Olocausto rappresenta solo la fase estrema di un atteggiamento di odio razziale che è<br />
presente anche oggi e si manifesta in tante forme di discriminazione e avversione più o meno<br />
larvate verso le minoranze etniche e religiose. Ad Auschwitz è morto un milione di ebrei e a<br />
Treblinka 850.000. E dopo la liberazione molti non ce l’hanno fatta a sopravvivere<br />
psicologicamente e si sono suicidati, come Primo Levi, che ha raccontato la sua storia nel<br />
libro: “Se questo è un uomo”.<br />
Nella nostra società attuale il seme velenoso che può far crescere la mala pianta va<br />
distrutto nel nostro animo, prima che si traduca in altre tragiche realtà. In quel periodo moti<br />
sapevano, anche se ritenevano di non sapere e capire e quindi non si fece nulla.<br />
Nel 1941 una Dichiarazione si oppose allo sterminio degli ebrei. Nel 1944 fu<br />
distribuito un rapporto dalla Svizzera al Vaticano. Il 25 agosto 1944 le fotografie scattate<br />
dall’alto dagli inglesi riprendevano la realtà dei forni crematori con il pennacchio di fumo e le<br />
pire di cadaveri bruciati a cielo aperto, perché i forni crematori erano insufficienti.<br />
Nel marzo 1944 il governo ungherese si rifiutò di consegnare gli ebrei riuniti nei<br />
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ghetti, nei campi e nelle case ebraiche. In pochi giorni Eichmann, capo delle SS in Ungheria<br />
organizzò la deportazione ad Auschwitz di 475 mila persone, dicendo loro che sarebbero stati<br />
portati in Germania a lavorare. Oggi ci si chiede se questa massiccia operazione realizzata in<br />
così breve tempo sarebbe stata possibile senza la connivenza o l’indifferenza della<br />
popolazione.<br />
Il problema dell’indifferenza tocca la coscienza civile, che va educata fin dalla scuola<br />
materna e non riguarda solo la maggioranza della popolazione, ma anche le minoranze, in<br />
quanto il pregiudizio è bidirezionale, rivolgendosi tanto alle minoranze quanto alle<br />
maggioranze da parte delle minoranze. Bisogna togliersi le “lenti deformanti” del pregiudizio,<br />
per imparare a muoversi adeguatamente nella realtà e non sprofondare nel degrado culturale.<br />
In effetti, si può verificare anche una regressione a stadi inferiori tutte le volte che si instaura<br />
un imbarbarimento dei costumi, come è successo durante il nazifascismo, quando l’esigenza<br />
di ordine e controllo sociale ha creato un clima di intimidazione, violenze e terrore,<br />
impoverendo le menti e gli animi.<br />
Il nazifascismo propagandava una concezione dell’ordine come irreggimentazione,<br />
gerarchizzazione, secondo lo schema dominante/dominato, e annientamento della diversità<br />
considerata come disturbo e minaccia. La Shoah, che significa “sterminio”, riguardava<br />
specialmente gli ebrei, ma anche zingari, prostitute, omosessuali, oppositori politici, testimoni<br />
di Geova, il clero cattolico polacco, prigionieri sovietici che affollarono i campi di<br />
concentramento e, in particolare, il grande, quello di Auschwitz.<br />
Tuttavia, non esiste solo una concezione nazifascista dell’ordine. In una società<br />
democratica “ordine” significa integrazione della diversità, recupero e valorizzazione delle<br />
risorse, pari opportunità nella diversità, molteplicità nell’unità e unità nella molteplicità,<br />
pluriverso anziché universo, organizzazione.<br />
Partendo dall’idea di esplorare le barriere del pregiudizio, sembra quasi che ci siamo<br />
persi nei meandri della storia, lasciando parlare i fatti, i personaggi, gli eventi. In realtà, dietro<br />
i fatti, i personaggi e gli eventi, ci sono le idee che fanno camminare la storia. Alla fine, ci<br />
siamo soffermati a controllare il contenuto delle idee pregiudiziali o dei “filtri deformanti”<br />
rigidamente inforcati dalle persone come se fossero “lenti colorate” inserite negli occhiali e<br />
mai tolte.<br />
A loro volta, queste idee sono il frutto di esperienze di vita, di osservazioni, ma anche<br />
di una crescita personale che può essere incompleta o interrotta da eventi traumatici o<br />
disturbanti.<br />
Non bastano le idee-informazione; occorrono le idee-guida e le idee-forza. Esplorando<br />
48
il libro scolastico di storia di Vª elementare di mio figlio, ho constatato con piacere che non<br />
dispensa più solo una massa di informazioni, come succedeva quando io frequentavo le<br />
elementari. Finalmente i libri educano al senso critico fin dalle elementari, presentando<br />
documenti e testimonianze, e ponendo domande che formano la mente del bambino al<br />
confronto critico, all’osservazione, all’esplorazione personale. Le risposte scritte dei bambini<br />
alle domande del libro sondano la loro capacità di penetrazione critica degli eventi. Così, ho<br />
verificato che questa prassi ha inoculato in mio figlio la passione per la storia. In libreria, si<br />
sofferma sui libri di storia e si fa regalare libri di approfondimento delle varie epoche storiche.<br />
Mi chiede insistentemente di riportarlo ad Auschwitz per rivedere meglio ciò che non ha<br />
avuto il tempo di esaminare con accuratezza.<br />
Qualcuno ha affermato che “l’Europa è nata nel lager nazista”, nella Babele di lingue<br />
ed etnie diverse. Tuttavia, ad un esame più approfondito, l’assembramento coatto all’insegna<br />
dell’ideologia del predominio e della gerarchizzazione a qualunque livello sociale, anche nel<br />
lager, rendeva impossibile o estremamente difficile proprio quella solidarietà che è il motore<br />
dell’unione e mobilita le risorse e la forza dell’alleanza. Lo studio dei resoconti dei<br />
sopravvissuti, che hanno raccontato la loro esperienza disumana nel lager, ci porta a<br />
concludere che la gerarchizzazione messa in atto anche nel lager, per cui i vari detenuti<br />
“contavano” in modo diverso ed erano trattati a seconda della scala gerarchica in cui erano<br />
collocati, azionava uno spirito competitivo per la sopravvivenza che annullava l’“umanità”.<br />
Questo schema rese spesso le vittime carnefici dei loro simili. Per portare un semplice<br />
esempio, il cappello del detenuto era fondamentale per sopravvivere. Chi era trovato senza<br />
cappello al momento degli appelli, veniva fucilato. E c’era chi di notte rubava il cappello a<br />
qualcuno che nemmeno conosceva, sapendo che il giorno dopo sarebbe stato fucilato.<br />
L’Europa non può essere costruita per semplice assembramento o comunanza di<br />
interessi commerciali. Occorre un“anima <strong>eu</strong>ropea”, che non può nascere in una situazione<br />
coatta di lotta per la sopravvivenza o di semplice interesse commerciale per sopravvivere<br />
come nazione all’interno di un super-stato che protegga gli interessi di tutti.<br />
La BCE può provvedere ai bisogni di un super-stato, ma è l’“anima” di ciascun<br />
cittadino <strong>eu</strong>ropeo che è chiamata a mettersi in gioco per costruire l’Europa Unita.<br />
Quando il 27 gennaio 1945 i russi hanno aperto i cancelli di Auschwitz e gli anglo-<br />
americani quelli di altri campi di concentramento sparsi in Europa, si è pensato a cercare i<br />
responsabili di questa triste realtà nelle gerarchie naziste. Non si è andati più in là,<br />
chiedendosi in quale misura l“anima” degli <strong>eu</strong>ropei era stata contagiata da un “morbo” che<br />
attacca periodicamente l’umanità, come le famigerate influenze che hanno fatto milioni di<br />
49
morti.<br />
Questa malattia, che si chiama “razzismo” e “pregiudizio razziale”, sta contagiando di<br />
nuovo l’Europa e crea una barriera al suo ricompattamento unitario e alla formazione di una<br />
coscienza civile matura nei giovani, nelle future classi dirigenti. Occorre seminare<br />
preventivamente nelle coscienze dei giovani, per raccogliere frutti “salutari” in futuro. Al<br />
riguardo, è indicativo che solo all’inizio del 2004 siano state diffuse via Internet le foto<br />
scattate dagli aerei britannici che hanno sorvolato Auschwitz nel 1944, vari mesi prima che<br />
venissero aperti i cancelli liberando sette mila superstiti.<br />
Come si può rilevare dalla presentazione del nazismo, Hitler, Rosenberg e gli altri<br />
esponenti del “vertice” nazista non eccellevano per quanto concerne la “crescita” umana. Si<br />
può notare che in essi predominano il bisogno di vincere amorale e ossessivo, la crudeltà,<br />
l’uso del potere a fini di conquista, la concezione delle differenze come di una minaccia,<br />
tipiche del livello negativo del Guerriero Ombra. Cosa si intende per Guerriero negativo?<br />
Certi Guerrieri non riescono semplicemente a vedere il mondo da altre prospettive che la<br />
propria. Mister Adel Smith, di cui abbiamo parlato a lungo nel precedente volume, ne è un<br />
esempio eclatante. Per loro il mondo è fatto di eroi, cattivi e vittime da salvare. Per Mister<br />
Smith, in effetti, il mondo è fatto dagli eroi dell’Islam, primo fra tutti Maometto, dai cattivi,<br />
costituiti dagli infedeli, che seguono Cristo anziché Maometto o dai musulmani moderati, non<br />
fondamentalisti, e dalle vittime da salvare, ossia i seguaci di Smith, peraltro pochi, che lui<br />
spera forse di infoltire con le sue apparizioni televisive e le sue prese di posizione da<br />
Guerriero.<br />
Lo schema eroe, cattivo, vittima.<br />
Questa mentalità unilaterale può costituire un fatto grave. “In effetti l’affidarsi troppo<br />
all’intreccio eroe/cattivo/vittima - scrive Pearson - finisce in pratica con un’autoconvalida, per<br />
cui ci sono sempre cattivi e vittime (e quindi guerra, povertà e oppressione) solo perché l’eroe<br />
ne ha bisogno per sentirsi eroe. L’aspetto negativo dell’archetipo è la convinzione che non va<br />
bene essere semplicemente umani. Dobbiamo provare che siamo meglio degli altri. Il<br />
Guerriero vuol essere migliore - e necessariamente questo lascia gli altri in condizioni di<br />
inferiorità, il che, secondo l’etica del Guerriero, non dev’essere” 17 .<br />
Nelle sue manifestazioni più negative e più gravi, questo desiderio di essere superiori<br />
agli altri non è controllato da alcun valore superiore né da alcun sentimento umano.<br />
17 Pearson S. C., Risvegliare l’eroe dentro di noi, Astrolabio, Roma, 1992 op. cit. p. 113<br />
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D’altronde, la configurazione del pregiudizio quale “filtro deformante”, che avalla la<br />
posizione di predominio rispetto ad altri considerati inferiori, è ben descritta da Gesù, quando<br />
parla dei farisei:<br />
Allora Gesù, volgendosi alle torbe e ai discepoli, disse: “Sulla cattedra di Mosè si sono assisi<br />
gli scribi e i farisei. Fate dunque e osservate tutto ciò che vi dicono; ma non agite secondo le opere<br />
loro, perché dicono e non fanno. Legano, infatti, pesi gravi e insopportabili e li caricano sulle spalle<br />
degli uomini; ma essi non li vogliono muovere neppure con un dito. Fanno poi tutte le loro azioni per<br />
essere veduti dagli uomini: portano infatti, larghe le loro filatterie, e mettono lunghe frange sui<br />
mantelli; amano i primi posti nei conviti e i primi seggi nelle sinagoghe; vogliono essere salutati nelle<br />
pubbliche piazze, ed essere dalla gente chiamati: Maestri. Ma voi non vogliate essere chiamati maestri,<br />
perché uno solo è il vostro Maestro, e voi siete tutti fratelli. [...] Chi è il maggiore tra voi, sarà vostro<br />
servo. Chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia, sarà esaltato. [...] Guai a voi, scribi e farisei ipocriti<br />
che percorrete il mare e la terra per fare un proselito, e quando lo è diventato, ne fate un figlio della<br />
Guerra, il doppio di voi”.<br />
“Guai a voi, guide cieche, che dite: Se uno giura per il tempio, non è niente; ma se uno giura<br />
per l’oro del tempio, resta obbligato. Insensati e ciechi! Che cosa è più importante, l’oro o il tempio<br />
che santifica l’oro? [...] Guai a voi, scribi e farisei ipocriti! Che pagate la decina della menta,<br />
dell’aneto e del cimino, ma trascurate le cose più essenziali della legge: la giustizia, la misericordia e<br />
la fedeltà. Queste sono le cose che bisogna fare, senza trascurare quelle.<br />
Guide cieche, scolate il moscerino e inghiottite il cammello! Guai a voi, scribi e farisei<br />
ipocriti! Che pulite il di fuori del bicchiere e del piatto, mentre il di dentro è pieno di rapina e di<br />
mondezza. Fariseo cieco! Lava prima il didentro del bicchiere e del piatto; sicché anche il di fuori<br />
diventi pulito”. (Matteo, 23, 1-26)<br />
Al versetto 14, la Volgata dice: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti! Che divorate le case delle<br />
vedove, col pretesto di lunghe orazioni: per questo sarete giudicati più severamente”.<br />
Queste affermazioni di Gesù, che mettono in luce la colossale mistificazione di un<br />
sistema di potere-prevaricazione, sono sempre attuali. I parametri di valutazione e di azione di<br />
chi ha potere sono spesso pregiudiziali in quanto tutelano esclusivamente gli interessi di una<br />
categoria di persone a scapito delle altre e fissano delle categorie di “superiorità” e di<br />
“inferiorità”, perché il Guerriero vuole essere migliore.<br />
E il Guerriero negativo struttura un apparato di potere finalizzato ad enfatizzare la sua<br />
collocazione di superiorità basata sulla forza delle armi e sullo spirito di gruppo o di massa.<br />
Una delle caratteristiche della cultura nazista è l’irreggimentazione anche per quanto<br />
riguarda l’assunzione di coreografie di massa e di modelli comportamentali da Guerriero. Nei<br />
51
egimi dittatoriali, in effetti, non si dà spazio all’espressione individuale, perché tutto deve<br />
essere controllato dall’alto.<br />
Come si è accennato nel capitolo sul nazismo, inserito nel volume “Barriere<br />
ideologiche e democrazia”,Baldur von Schirach, il capo della Gioventù hitleriana, fece largo<br />
uso di rituali e coreografie di massa, già presenti nel bagaglio storico dei movimenti giovanili<br />
tedeschi degli anni Venti, per inculcare i postulati ideologici del regime. La Gioventù<br />
hitleriana maschile comprendeva due fasce di età: dai 10 ai 14 ani e dai 15 ai 18.<br />
Il desiderio di essere superiori più essere espresso anche in ambito nazionale come<br />
volontà di una nazione di prevalere sulle altre secondo lo schema superiore/inferiore. Al<br />
riguardo, la presidenza italiana nel secondo semestre del 2003 si è manifestata contraria ad<br />
un’Europa a due velocità, ritenuta “arrogante e inaccettabile” da Berlusconi, secondo<br />
un’affermazione del 10 dicembre 2003. In effetti, separare i più dotati dai meno dotati,<br />
incoraggiando i primi a dominare gli altri in base ad un parametro di produzione, non tiene<br />
conto di altri parametri evolutivi come la solidarietà e la crescita sociale e civile.<br />
Il Guerriero negativo e il Guerriero evoluto.<br />
Poiché si può usare il proprio potere per migliorare il mondo o solo per acquistare<br />
potere e controllo sugli altri, per seguire la strada del Guerriero è essenziale una scelta tra il<br />
bene e il male. Il Guerriero che mina le istituzioni e la stabilità democratica di un Paese non<br />
può essere annoverato tra i Guerrieri evoluti. Il 2 febbraio 2004 a Milano sono stati<br />
condannati cinque islamici, ritenuti fiancheggiatori di Bin Laden, a pene detentive da 4 a 8<br />
anni per associazione a delinquere. D’altro lato a Guantanamo si sta consumando il suicidio<br />
della democrazia occidentale. Questa prigione USA a Cuba rappresenta per l’occidente<br />
l’accettazione dell’imbarbarimento dello scontro.<br />
Il Guerriero che è passato fino in fondo dalla parte del male, come Hitler, divide il<br />
mondo in due categorie sulla base del proprio egocentrismo. Quelli che si oppongono alle sue<br />
mire e ai suoi desideri vanno distrutti, vinti o convertiti. Si possono proteggere le vittime dagli<br />
altri, ma il prezzo che il Guerriero negativo pretende per questo è che a quel punto le stesse<br />
vittime siano totalmente asservite al suo dominio. È il caso di ogni tipo di imperialismo, sia<br />
che si tratti di una nazione che ne conquista un’altra, sia che si tratti del padrone che opprime<br />
gli operai o del marito che schiaccia la moglie.<br />
Le conquiste civili, tuttavia, hanno reso la guerra indesiderabile alla coscienza di una<br />
gran numero di individui e hanno reso la libera espressione e l’espansione dei diritti umani<br />
l’orizzonte irrinunciabile di una civiltà planetaria. L’espressione della Bibbia “Il Signore<br />
52
degli eserciti è il re della gloria” va quindi contestualizzata in relazione al periodo storico, per<br />
non assumere in maniera unilaterale la guerra come un bene, quando viene dichiarata in nome<br />
del Dio degli eserciti.<br />
Il problema dell’archetipo del Guerriero oggi è che tanti cosiddetti Guerrieri non sono<br />
affatto tali. Sono orfani, che placano il loro senso di mancanza di potere cercando di<br />
surclassare o controllare gli altri. Sono ps<strong>eu</strong>do-Guerrieri, non Guerrieri. 18<br />
Viceversa, per il Guerriero arrivato al livello più evoluto, la vera guerra è sempre<br />
contro i nemici interiori: l’accidia, il cinismo, la disperazione, l’irresponsabilità. È il coraggio<br />
di affrontare i draghi interiori quello che in ultima analisi ci permette di affrontare quelli<br />
esteriori con intelligenza, autodisciplina e saggezza.<br />
Mio figlio sceglie i momenti più insoliti per farmi domande “impegnative”. Una delle<br />
circostanze preferite è la partenza mattutina per la scuola, nel corridoio di casa, mentre mi sto<br />
infilando le scarpe e la giacca per uscire. Il 27 gennaio 2004, all’improvviso, mi chiede: “I<br />
cinesi e i russi sono pericolosi?”. Imbarazzata dall’attributo usato, gli chiedo “perché<br />
sarebbero pericolosi”. E lui risponde: “Perché sono mafiosi”. Gli faccio notare che si potrebbe<br />
dire la stessa cosa degli italiani, solo perché qualcuno è stato identificato come “mafioso”. Il<br />
discorso è proseguito precisando che non si può attribuire ad un intero gruppo una qualifica<br />
solo perché qualcuno si è fatto notare per certe caratteristiche. Il pregiudizio nasce spesso con<br />
domande e risposte avute dai genitori o da figure importanti per il bambino, come gli<br />
insegnanti o i nonni. L’assunzione di atteggiamenti radicali verso determinati gruppi etnici o<br />
religiosi nasce nella rigidità delle posizioni assunte dalle figure significative che circondano il<br />
bambino.<br />
Il costo della lotta contro i draghi interiori, che vengono proiettati e visti all’esterno<br />
nei cosiddetti “nemici”, può essere elevatissimo, perché il mondo è spesso un posto difficile.<br />
È importante essere abbastanza duri non solo per resistere, ma anche per scegliersi le battaglie<br />
giuste. I Guerrieri maturi, specialmente quelli che si fidano delle proprie capacità, non devono<br />
combattere per ogni cosa. Si scelgono con cure le cause per cui battersi. 19<br />
Del resto sulla scia delle precedenti riflessioni, si può anche rilevare che un malinteso<br />
senso del rispetto verso altre credenze religiose può portare a rinnegare il credo della propria<br />
18 Cfr. op. cit. p. 113<br />
19 Cfr. op. cit. p. 119<br />
53
collettività di appartenenza. Il 29 febbraio 2004 il Telegiornale trasmette la notizia che il<br />
direttore di una scuola elementare dice “no” alla visita di un vescovo per non imbarazzare<br />
sette bambini di religione diversa. In questa decisione permane un dubbio: il “no” era rivolto<br />
ad un rappresentante del clero cattolico o ad un rappresentante della religione di Cristo? Si<br />
tratta di un “no” rivolto all’istituzione o alla religione, al contenente o al contenuto? Riguardo<br />
alla repulsione manifestata da Mister Smith verso il Crocifisso, è chiaro che si tratta di una<br />
posizione contro una religione. Ma nel caso del direttore didattico il dubbio resta.<br />
Il seguente brano di Carol S. Pearson merita di essere presentato come promemoria per<br />
chiunque decida di cimentarsi in una battaglia o voglia interpretare i differenti periodi storici<br />
in una prospettiva che non contempli solo lotte, conquiste e perdite territoriali, prese del<br />
potere, domino e soggiogamento di popoli:<br />
Il Guerriero si pone un traguardo ed escogita strategie per raggiungerlo. Individua le sfide e gli<br />
ostacoli che presumibilmente incontrerà e come superarli uno per uno. Insieme, individua gli avversari<br />
che possono provare a mettergli il bastone tra le ruote per non farlo arrivare al traguardo. Il Guerriero<br />
di livello inferiore semplifica la situazione riducendo l’avversario a nemico e utilizzando ogni mezzo<br />
per sconfiggerlo - nel caso della guerra - arrivando a ucciderlo senza alcun rimorso.<br />
I Guerrieri evoluti cercano di convincere gli altri a sostenere le loro battaglie. Comprendono la<br />
politica di un’organizzazione e in che modo assicurarsi il sostegno alla propria causa. Riescono a<br />
evitare il voto o la decisione definitiva finché non sono certi di poter contare sul consenso di cui hanno<br />
bisogno. Arrivano al combattimento vero e proprio solo come ultima risorsa, dopo aver valutato ogni<br />
altra possibilità. 20<br />
I Guerrieri evoluti comprendono la politica di un’organizzazione e trovano il modo di<br />
assicurarsi l’appoggio alla propria causa integrandosi nella dimensione sociale del luogo in<br />
cui operano.<br />
In base al presupposto che il cittadino immigrato lavora e vive in un paese che non è<br />
quello di origine, si pone la questione del livello di integrazione sul piano umano, sociale e<br />
politico, che gli è consentito dall’attuale ordinamento. Se si sente escluso sul piano politico in<br />
quanto non ha accesso al voto, il malessere provocato non giova il suo senso di integrazione.<br />
Va trattato come una “parte scissa”, di cui va esplorata l’origine della scissione, per poi farla<br />
20 Ibidem pp. 119-120<br />
54
crescere fino all’età attuale del soggetto. In altri termini, vanno esaminate le situazioni che<br />
hanno condotto all’immigrazione e va esaminata la modalità più idonea per integrare<br />
l’immigrato nel tessuto sociale in modo che non si senta e non operi in veste di “parte scissa”.<br />
Solidarietà e cooperazione internazionale.<br />
A Venezia l’esperienza dei campi profughi ha funzionato: dopo 8 anni i due campi che<br />
c’erano in terraferma sono stati smantellati e dei 500 ospiti che nel tempo sono stati accolti<br />
nelle due strutture ben 475 si sono inseriti nel tessuto abitativo, lavorativo e sociale del<br />
Veneto.<br />
La strategia con la quale è stata gestita l’emergenza profughi e i successivi interventi<br />
d’accoglienza fin da subito è stata nell’ottica della continuità e della progettualità. Scopo<br />
dell’intervento infatti era quello dell’inserimento nel tessuto sociale di queste persone che<br />
scappavano da una guerra nella ex Jugoslavia, e pensare solo ad interventi di tipo assistenziale<br />
non sarebbe bastato.<br />
Attraverso progetti mirati che hanno accompagnato passo dopo passo il percorso<br />
d’integrazione dei profughi e delle loro famiglie, infatti, i più piccoli hanno potuto frequentare<br />
la scuola mentre per i più grandi c’è stata la possibilità di un inserimento nel mondo del<br />
lavoro che, ad esperienza campi terminata, ha consentito a tanti nuclei familiari di acquistarsi<br />
una casa.<br />
Il Comune ha dato loro solo un piccolo contributo, per il resto ogni famiglia s’è fatta<br />
carico delle spese ed ha comprato casa un po’ in tutto il Veneto orientale; in qualche<br />
occasione, visto che si trattava di famiglie rom composte anche da una ventina di persone,<br />
sono stati comprati dei vecchi rustici che poi sono stati ristrutturati. Si è voluto evitare in<br />
quest’ultima fase di definitiva integrazione sociale con il territorio che si creassero dei ghetti<br />
etnici, e così l’acquisto delle case è stato indirizzato guardando ad un ampio settore di<br />
territorio.<br />
Alcune famiglie, meno di dieci, sono state invece ospitate in alloggi del comune o<br />
dell’Ater. In quei casi si trattava di persone già in graduatoria.<br />
L’uscita da un’ottica puramente assistenziale, dunque, si è rivelata la chiave vincente<br />
di questa esperienza.<br />
Il Veneto nel 2004 ha dato il via ad un piano di cooperazione internazionale.<br />
Per gli interventi di cooperazione decentrata allo sviluppo e di solidarietà<br />
internazionale la Regione del Veneto spenderà, per il 2004, 2 milioni 700mila <strong>eu</strong>ro. La Giunta<br />
regionale, infatti, su proposta dell’assessore regionale per i diritti umani, ha approvato il piano<br />
55
annuale 2004 degli interventi di cooperazione decentrata allo sviluppo (2.300.000) e<br />
solidarietà internazionale (400.000).<br />
“In questi anni - spiega l’assessore Isi Coppola - si è venuto moltiplicando il numero<br />
dei soggetti delle relazioni internazionali, con ruoli, natura giuridica e poteri estremamente<br />
diversi. Per noi il termine ‘globalizzazione’ sta a significare che ci sono interessi ‘alti’ la cui<br />
tutela non può essere affidata alla mera gestione di un club esclusivo di Stati ma richiedono<br />
invece la compartecipazione, dal basso. Con una parte dello stanziamento di 400.000 <strong>eu</strong>ro per<br />
la solidarietà internazione, saranno finanziate iniziative regionali dirette (125.000), mentre i<br />
rimanenti 275.000 <strong>eu</strong>ro saranno destinati a interventi di carattere emergenziale; dei 2 milioni<br />
300mila <strong>eu</strong>ro dello stanziamento per interventi di cooperazione decentrata allo sviluppo, la<br />
metà sarò destinata a finanziare iniziative regionali dirette e l’altra metà a finanziare iniziative<br />
a contributo. Le aree di intervento ritenute geopoliticamente più importanti sono: l’Africa<br />
subsahariana, l’America Centrale e Meridionale, l’Europa Orientale, il Mediterraneo<br />
meridionale e il Medio Oriente”.<br />
Emergenza immigrazione.<br />
Servono massicci investimenti <strong>eu</strong>ropei in Africa per arginare il fenomeno<br />
dell’immigrazione clandestina dando lavoro a milioni di africani nella loro terra. Mirko<br />
Tremaglia, ministro per gli Italiani nel mondo, torna ad avanzare la sua proposta. Bisogna<br />
pensare alle esigenze immediate “dell’umanità, dell’accoglienza e della convivenza civile”,<br />
dice l’esponente di AN. E anche, come ha segnalato il ministro dell’Interno Pisanu- nella<br />
prima metà di agosto 2004, di fronte all’intensificarsi degli sbarchi clandestini provenienti<br />
dall’Africa - alla necessità che l’Europa assuma le sue responsabilità. “Ma se questo è vero -<br />
aggiunge Tremaglia - è anche vero che non si deve ignorare che occorre affrontare questa<br />
realtà spaventosa anche in termini diversi per fermare quella che, ormai va considerata una<br />
vera e propria ‘invasione’ dall’Africa verso l’Europa”. Il ministro di AN ricorda a questo<br />
proposito di aver presentato nel 1995 a Bucarest a nome dell’Italia una risoluzione, poi<br />
approvata da 127 Paesi e anche dal Parlamento italiano, “che chiedeva all’Europa un piano<br />
trentennale di investimenti a favore dell’Africa settentrionale per dare lavoro a 20 milioni di<br />
africani nella loro terra”. “Soltanto così - aggiunge ora Tremaglia - si può fermare l’invasione<br />
e si può compiere un atto di vera umanità e giustizia”. Il ministro conferma inoltre la sua<br />
richiesta di una “Conferenza Internazionale da tenersi a Malta tra tutti i paesi rivieraschi del<br />
Mediterraneo ed i Paesi dell’UE per concordare quella che ritengo – afferma – un’operazione<br />
indispensabile”.<br />
56
“Per affrontare l’emergenza immigrazione serve un intervento forte dell’Unione<br />
Europea che deve assumersi la responsabilità perché sette mila chilometri di coste sono la<br />
frontiera meridionale dell’UE”. Lo ha affermato l’<strong>eu</strong>roparlamentare di Forza Italia Antonio<br />
Tajani. “Quello dell’immigrazione - ha aggiunto - non è solo un problema di ordine pubblico,<br />
ma è questione molto più complessa”. Secondo l’<strong>eu</strong>roparlamentare azzurro, “va sostenuta<br />
l’azione del ministro dell’Interno Pisanu e continueremo a lavorare perché si senta partecipe<br />
di questo problema. Ci sono già una serie di interventi che vanno in questa direzione con<br />
programmi di investimento per la formazione nei Paesi da dove arrivano di immigrati”.<br />
“L’Unione Europea - ha proseguito - deve risolvere i problemi per dare risposte ai<br />
cittadini e l’immigrazione non è più un’emergenza nazionale. Tra l’altro, molti immigrati<br />
usano l’Italia come ‘territorio-ponte’ per raggiungere altri paesi <strong>eu</strong>ropei”.<br />
Per Tajani, “occorre, a questo punto, coinvolgere i Paesi ricchi per fare in modo che<br />
l’immigrazione si risolva da dove parte. Ma per raggiungere questo obiettivo - ha concluso -<br />
serve un intervento sovranazionale”.<br />
“Se per voi italiani l’immigrazione clandestina è un problema, per noi è molto di più: è<br />
un’invasione. E di fronte a questo abbiamo paura della reazione del popolo libico”. Il ministro<br />
degli Esteri della Libia, Abdulharam Shalgham, chiede al governo italiano di fare di più sul<br />
tema dell’immigrazione clandestina. Da circa un anno è in vigore l’accordo di cooperazione<br />
tra Italia e Libia. “Il bilancio è positivo, anche se la cooperazione va molto al rilento. L’Italia<br />
finanzia i voli charter di rimpatrio degli immigrati illegali, e questo è positivo. Ma non basta.<br />
Gli altri punti dell’intesa, come per esempio l’invio delle tende, l’allestimento di centri di<br />
raccolta, ancora devono essere soddisfatti. Dobbiamo agire in fretta anche perché temiamo<br />
che si apra un nuovo fronte di invasione dal Darfur. Per questo abbiamo deciso di chiudere la<br />
frontiera con il Sudan”. A proposito del Darfur, Shalgham ricorda che “ci sono tanti problemi<br />
urgenti: innanzitutto quello della sicurezza, di garantire l’incolumità delle persone, e poi<br />
quello di far arrivare cibo. Creando però un compromesso politico. Se in quella regione si<br />
insediassero soldati americani, inglesi o <strong>eu</strong>ropei, i fondamentalisti islamici arriverebbero<br />
come gli orsi attratti dal mieli. Avremmo un altro Afghanistan, un altro Iraq. Gli integralisti<br />
inciterebbero alla ‘guerra santa’. Bisogna evitare assolutamente che si arrivi a questo. Che gli<br />
aiuti quindi - conclude il ministro libico - si limitino a cibo e mezzi logistici”.<br />
Il Commissario UE alla Giustizia e gli Affari Interni, Antonio Vittorino, ha d’altra<br />
parte ricordato la proposta presentata dall’Italia durante la presidenza di turno UE, “per<br />
studiare un meccanismo di quote”, anche quale “incentivo al fine di accelerare i negoziati per<br />
la riammissione dei clandestini” con un gruppo di paesi. “La proposta italiana fu giudicata un<br />
57
meccanismo valido e utile da parte della Commissione UE”, ha precisato il portavoce, Pietro<br />
Petrucci, sottolineando che Bruxelles ha “sempre sostenuto che, per essere credibile, la<br />
politica della lotta all’immigrazione clandestina dovrebbe essere controbilanciata<br />
dall’armonizzazione delle scelte riguardanti invece l’immigrazione legale”. “Purtroppo la<br />
quasi totalità degli stati membri dell’UE non ha finora ritenuto di dover andare in questa<br />
direzione, e allo stato attuale esiste infatti - ha precisato Petrucci - una situazione di squilibrio<br />
fra le misure comunitarie adottate per combattere l’immigrazione clandestina e l’azione<br />
legislativa in materia invece di immigrazione legale”.<br />
Per gli immigrati che già risiedono legalmente sul territorio nazionale si discute se<br />
l’accesso al voto nelle amministrative possa rappresentare uno stimolo a sentirsi parte<br />
costitutiva della realtà politica del Paese ospitante. Secondo alcuni, il voto politico può<br />
costituire una valida modalità di integrazione. D’altronde, dobbiamo ricordare che i molti<br />
italiani immigrati all’estero hanno a loro volta sofferto di discriminazioni e non si sono sentiti<br />
accettati nel Paese ospitante. Saremmo antistorici, oltre che crudeli, se facessimo subire lo<br />
stesso destino a coloro sono giunti in Italia per lavorare e - perché no? - per amare il nostro<br />
Paese.<br />
Tuttavia, occorre valutare attentamente se il voto debba essere accompagnato o meno<br />
dalla cittadinanza italiana e appare ragionevole considerare se quest’ultima debba essere<br />
concessa solo in presenza di una “idoneità” simile a quella della patente di guida, in cui<br />
occorre dimostrare di essere in possesso di conoscenze fondamentali per orientasi sul<br />
territorio italiano: conoscenza della lingua italiana parlata e scritta, della storia d’Italia e<br />
d’Europa, delle istituzioni e leggi italiane, assieme ad un giuramene di fedeltà all’Italia e<br />
all’Europa, come avviene negli USA.<br />
L’11 novembre 2003 la CEI (Conferenza Episcopale Italiana) ha sollecitato l’impegno<br />
del governo per il diritto di asilo e di voto agli immigrati per le amministrative, purché<br />
rispettino le leggi. Ha chiesto anche più celerità per le naturalizzazioni.<br />
Per raggiungere l’obiettivo dell’integrazione lavorativa, sociale, umana e culturale,<br />
occorre una strategia adeguata. Ecco cosa suggerisce Pearson in proposito, per far sì che il<br />
Guerriero si evolva e offra il suo contributo positivo alla società:<br />
Ciò che distingue il Guerriero non è il persistere comunque nella battaglia, ma il raggiungere<br />
l’obiettivo. Il Guerriero abile può scegliere di ritirarsi per un certo periodo, di sviluppare una strategia,<br />
quindi di raccogliere e mobilitare le forze, e muovere all’attacco solo quando è pronto.<br />
In realtà, i Guerrieri più abili possono addirittura non essere affatto riconosciuti come<br />
58
Guerrieri, perché non ci sono scontri aperti ma solo una lotta d’intelligenza, condotta totalmente dietro<br />
le quinte. Ai livelli più alti, la vittoria si raggiunge non solo senza spargimento di sangue, ma anche<br />
senza l’umiliazione di nessuno; è solo quando tutti si sentono trattati equamente che la pace può esser<br />
mantenuta.<br />
Un vero Guerriero incute sempre rispetto per la sua forza e per la sua acuta valutazione di<br />
persone e situazioni, che lo porta a combattere quando occorre combattere e a cercare un<br />
compromesso creativo quando questo è possibile. Il vero Guerriero può preferire la pace, ma non ha<br />
paura della guerra. In realtà a un certo livello tende a provarci gusto, anche quando ha la meglio un<br />
giudizio più avveduto e il confronto diretto viene evitato.<br />
Se è uomo di pensiero, o uno studioso, il Guerriero cristallizza le sue idee in opposizione a<br />
quelle degli altri, che gli piace screditare come sbagliate (o anche pericolosamente sbagliate), fragili,<br />
ingenue e così via. Questo processo all’inizio predispone il Guerriero che è in ognuno di noi a<br />
dimostrare che lui ha “ragione” e gli altri “torto”, una posizione che implica la presunzione della<br />
propria superiorità.<br />
Il Guerriero si trova generalmente più a suo agio in un universo in cui le regole del bene e del<br />
male sono semplici e chiare, ed è facile sapere chi e che cosa è giusto. Sennonché il mondo in cui oggi<br />
viviamo non è fatto così. Essere Guerrieri oggi richiede integrità all’interno di un universo moralmente<br />
complesso e ambiguo.<br />
Il nostro mondo oggi richiede Guerrieri che sappiamo prendere, e impegnarsi in, decisioni e<br />
azioni quando niente è assolutamente giusto o sbagliato. La domanda, a questo punto, diventa, non<br />
semplicemente: “Qual è la cosa giusta da pensare o da fare?”, ma “Che cosa è giusto per me?” (che in<br />
seguito sarà armonizzato con cosa è giusto per noi) e infine “Qual è la soluzione migliore per tutti gli<br />
interessati?”.<br />
In questo contesto, la considerazione che ognuno di noi vede il mondo da una prospettiva<br />
diversa e che nessuno possiede la verità in assoluto aiuta il Guerriero a sentirsi a suo agio nel momento<br />
in cui passa da un modello di decisionalità e soluzione di conflitti basato su vittoria/sconfitta a un<br />
modello vittoria/vittoria. Se io ho “ragione” e tu differisci da me, ciò vuol dire che tu hai “torto”. Ma<br />
se io faccio o penso ciò che è giusto per me, e tu pensi o fai ciò che è giusto per te, non c’è<br />
necessariamente contrasto, anche se le cose che noi facciamo o pensiamo sono fortemente in contrasto<br />
fra loro.<br />
I Guerrieri hanno anche diversi modelli di combattimento, basati sul diverso livello di<br />
sviluppo. Il primo livello è quello di chi lotta nella giungla. Il combattimento è scorretto, e l’obiettivo<br />
è quello di annientare, e non soltanto battere, l’altra parte (interiore o esteriore). Il nemico viene visto<br />
come realmente maligno, e magari anche inumano. Via via che il Guerriero diventa più civilizzato e<br />
raffinato, il combattimento si assoggetta a principi e regole di gioco leale, e il fine diventa quello di<br />
battere l’avversario, ma possibilmente senza fargli del male. In campo religioso, ad esempio, si passa<br />
dall’uccisione alla conversione degli infedeli.<br />
59
Al terzo livello, l’unico interesse del Guerriero è quello di raggiungere un fine di più vasta<br />
portata sociale. Quando i traguardi del Guerriero sono definiti solo in base all’Io, la tendenza è di<br />
raggiungerli in competizione con gli altri, dato che, come vuole Jung, l’Io consiste nel dimostrarci in<br />
contrasto con gli altri. Vorremo quindi raggiungere i nostri scopi e trionfare su quanti hanno altre<br />
vedute.<br />
Infine, quando la volontà è informata dallo Spirito e il Guerriero agisce al servizio del<br />
richiamo dello Spirito sulla persona, non c’è generalmente alcun conflitto fra quello che la persona<br />
vuole e quello che contribuisce al bene generale. La lezione che i grandi Guerrieri alla fine imparano è<br />
che non c’è modo di vincere realmente se non si dà il contributo che siamo qui per dare.<br />
Quando facciamo questo, vincono tutti. I Guerrieri che hanno raggiunto il loro grado più alto,<br />
di conseguenza, cercano quel tipo di soluzione vittoria/vittoria, sapendo che è interesse di tutti che<br />
ciascuno ottenga ciò che lo realizza e gli porta gioia al livello più profondo. 21<br />
Questa eccellente pagina di Carol Pearson contiene idee-guida e idee-forza, quelle<br />
stesse idee che è opportuno usare per formare i nostri giovani Guerrieri fin dalla scuola<br />
materna ed elementare, commentando i libri di storia, di studi sociali, di antropologia,<br />
di letteratura ecc. ed educandoli al rispetto degli altri e allo spirito critico nei confronti delle<br />
informazioni e dei personaggi che si ispirano al Guerriero negativo.<br />
21 Ibidem pp. 120-121<br />
60
INSEGNARE LA STORIA IN UN’OTTICA EVOLUTIVA<br />
Senza demonizzare popoli o nazioni, ma usando un parametro valutativo improntato<br />
unicamente all’esame dei diversi livelli evolutivi del Guerriero che portano a comportamenti<br />
“caratteristici”, possiamo considerare alcuni fatti storici del XX secolo. A titolo<br />
esemplificativo, il 22 giugno 1941 iniziò l’aggressione all’Unione Sovietica. La Germania<br />
attaccò con 153 divisioni, l’Italia mandò un corpo di spedizione male armato e impreparato e<br />
la Romania inviò la maggioranza delle sue truppe. Hitler intendeva conseguire la vittoria nel<br />
giro di pochi mesi e inizialmente tutto si svolse più o meno secondo le previsioni.<br />
A partire dall’aggressione all’Unione Sovietica, si realizzò uno stravolgimento<br />
profondo della condotta bellica, in quanto si dispiegò la logica della guerra nazionalsocialista<br />
che allo scontro tra le potenze aggiunse lo scontro frontale di ideologie e razze. L’obiettivo a<br />
cui mirava l’ideologia nazista consisteva nella conquista di uno sterminato “spazio vitale” tale<br />
da garantire al Reich immense risorse e la creazione di un “nuovo ordine <strong>eu</strong>ropeo”, cioè di un<br />
sistema di stati satelliti soggetti alla Germania. Questo obiettivo comportò un’occupazione<br />
che si intendeva come definitiva in vista della futura dominazione nazista. Infatti, nelle aree<br />
destinate all’insediamento dei tedeschi si realizzò quel processo di germanizzazione<br />
indissociabile dall’obiettivo razzista: immissione di tedeschi, portatori di valori razziali<br />
superiori, ed espulsione di masse ingenti di popolazioni locali per lasciare lavoro e beni agli<br />
occupanti.<br />
Questo procedimento di immissione-espulsione nei territori occupati fu attuato<br />
innanzitutto in Polonia. I massicci trasferimenti di popolazione costituirono nell’economia<br />
della guerra nazista uno strumento di decimazione e di selezione di gruppi etnici e sociali, in<br />
un contesto in cui disgregazione di stati e del tessuto sociale, spostamenti di confini e<br />
gerarchizzazione di nazionalità furono parte di un unico progetto di trasformazione<br />
dell’Europa. Ciò significò soprattutto lo sfruttamento della forza lavoro nelle forme più<br />
diverse: dall’asservimento nei luoghi di produzione originari, all’utilizzazione nei servizi<br />
dell’amministrazione bellica tedesca, alla deportazione nei complessi produttivi,<br />
nell’agricoltura e nei campi di concentramento del Reich. Un’altra caratteristica di questo<br />
progetto di germanizzazione fu lo sfruttamento degli apparati produttivi e delle risorse<br />
naturali per realizzare un gigantesco processo di “integrazione continentale” a senso unico: un<br />
sistema di subordinazione totale delle esigenze della periferia al centro dell’impero,<br />
rappresentato dalla Germania. Questo sistema fortemente centralizzato era anche<br />
estremamente gerarchico, con la Germania dominante sui satelliti.<br />
61
Durante la seconda guerra mondiale furono deportati in Germania quasi 8 milioni di<br />
civili stranieri e di prigionieri di guerra per essere impiegati nell’industria tedesca soprattutto<br />
nei settori della produzione di armamenti e nell’agricoltura. Nel complesso i lavoratori<br />
stranieri fornirono circa un terzo della manodopera delle industrie belliche, raggiungendo<br />
talvolta anche il 50%, come nel caso delle fabbriche di carri armati Krupp a Essen. Essi<br />
giunsero nel Reich da tutti i paesi compresi nel progetto di “nuovo ordine <strong>eu</strong>ropeo”. Il<br />
reclutamento iniziò nel 1939 in Polonia e, poiché le campagne per le assunzioni non ebbero il<br />
successo auspicato, i nazisti procedettero alla precettazione coatta con razzie nel corso delle<br />
quali vennero rastrellati tutti gli abili al lavoro. Fino al 1944 furono deportati in Germania più<br />
di un milione e mezzo di polacchi. Dal 1942 cominciò un massiccio trasferimento di civili<br />
sovietici (circa due milioni e mezzo) poiché i prigionieri di guerra, a causa del brutale<br />
trattamento cui furono sottoposti, non furono quasi mai in condizioni di svolgere i lavori<br />
massacranti cui venivano costretti. Nel marzo 1942Hitler nominò Fritz Sauckel, Gauleiter<br />
della Turingia, per il reclutamento dei lavoratori; questi procedette a massicci rastrellamenti<br />
nell’Europa nazista e stabilì una rigida gerarchia razziale nel trattamento delle vittime al cui<br />
vertice vi erano i lavoratori di stirpe germanica, mentre i sovietici e i polacchi furono<br />
confinati nel punto più basso. Le condizioni di vita e i salari variarono a seconda della<br />
posizione occupata. Tali gerarchie furono mantenute e acuite dal regime anche allo scopo di<br />
accentuare le differenze fra gli stessi lavoratori stranieri, rendendo in tal modo ancor più<br />
difficile ogni alleanza e fraternizzazione.<br />
Per far fronte alle urgenti spese militari, i tedeschi organizzarono un sistema<br />
complesso e capillare che Göring comunicò ai commissari del Reich e ai comandanti militari<br />
il 10 agosto 1942: “Saccheggio allevamenti e organizzo vere e proprie battute di caccia”. In<br />
tutti i paesi in cui entrarono da vincitori, i reparti tedeschi saccheggiarono, espropriarono e<br />
requisirono. Le autorità occupanti si astennero poi, nei mesi successivi, da misure così brutali<br />
e scelsero vie molto più subdole ma assai efficaci. Un primo provvedimento consistette nel<br />
rivalutare arbitrariamente il marco - diventata una moneta <strong>eu</strong>ropea - rispetto alle monete dei<br />
Paesi conquistati. Ciò ridusse il potere d’acquisto dei prodotti tedeschi diventati più cari e<br />
aumentò viceversa la possibilità per i tedeschi di maggiori acquisti nei Paesi occupati. I primi<br />
a beneficiarne furono i soldati. Le spese di mantenimento delle truppe di occupazione erano a<br />
carico dei Paesi vinti e l’ammontare non fu stabilito in base al numero dei soldati, ma alla<br />
supposta ricchezza di ciascun Paese. Le ingenti somme eccedenti erano utilizzate dal Reich<br />
per pagare con le rispettive monete la manodopera straniera impiegata sul proprio territorio e<br />
per intervenire nei vari sistemi economici nazionali acquistando quote di partecipazione.<br />
62
Ebbero inizio rapporti economici caratterizzati da un’apparente regolarità. Transazioni<br />
commerciali convogliarono verso la Germania masse enormi di prodotti. Tutti gli scambi<br />
economici dell’Europa occupata furono diretti verso il Reich e verso i suoi satelliti.<br />
Nell’Europa centrale il dominio effettivo che la Germania aveva conquistato prima della<br />
guerra si trasformò in un monopolio. Il progetto del “nuovo ordine <strong>eu</strong>ropeo” prevedeva fra<br />
l’altro che dopo la guerra la Germania si sarebbe riservata una sorta di monopolio<br />
dell’industria <strong>eu</strong>ropea, in particolare nel settore della metallurgia e della chimica. Berlino<br />
sarebbe diventata al centro delle arti, delle lettere, della moda, dello spettacolo.<br />
La barbarizzazione del conflitto.<br />
La condotta bellica tedesca assunse in alcune parti d’Europa il carattere di vera e<br />
propria guerra di sterminio: ciò emerse nell’attacco alla Polonia e fu programmato fin<br />
dall’inizio dell’aggressione all’Unione Sovietica. Non si intendeva infatti soltanto sconfiggere<br />
il nemico, come a Ovest, ma annientarlo per avere un territorio da asservire alle esigenze del<br />
Reich. Basti pensare che su tre milioni di prigionieri sovietici 600.000 furono uccisi,<br />
contravvenendo alle norme che regolano la condotta bellica.<br />
La guerra di sterminio generò a sua volta fenomeni caratteristici di questo conflitto<br />
quali la Resistenza e i movimenti clandestini, che si svilupparono nei paesi occupati dalle<br />
potenze del patto tripartito, dove si contrapposero schieramenti e regimi collaborazionisti e<br />
movimenti di resistenza agli occupanti.<br />
La conduzione della guerra e l’amministrazione delle zone occupate seguirono i<br />
dettami dell’ideologia nazista ben più che non le regole dei diritti dei popoli. A Est i soldati<br />
tedeschi combatterono una guerra ideologica e di sterminio le cui regole, tranne poche<br />
eccezioni, furono condivise da tutta la Wehrmacht.<br />
Il 22 agosto 1939, pochi giorni prima dell’aggressione alla Polonia, rivolgendosi ai più<br />
alti capi militari, Hitler dichiarò: “In primo piano sta l’annientamento della Polonia. Obiettivo<br />
è l’eliminazione delle forze vitali, non il raggiungimento di una determinata linea. Anche se<br />
dovesse scoppiare la guerra a Occidente, l’annientamento della Polonia rimane al primo<br />
posto. Data la stagione, decisione rapida. Darò il pretesto propagandistico per lo scatenamento<br />
della guerra, non importa se credibile o meno. Al vincitore non si chiederà più tardi se ha<br />
detto o no la verità. Nel dare inizio e nel condurre la guerra ciò che importa non è il diritto,<br />
ma la vittoria. Chiudere i cuori alla compassione, procedere in modo brutale. Bisogna dare<br />
giustizia a ottanta milioni di uomini. Bisogna garantire la loro esistenza. Sarà il più forte ad<br />
avere ragione. La massima durezza”.<br />
63
Il 6 giugno 1941, poco prima dell’attacco all’URSS, venne diramato l’ordine del<br />
comando supremo della Wehrmacht sul trattamento da riservare ai commissari politici: “La<br />
truppa deve essere cosciente di quanto segue: 1. In questa lotta è errato un atteggiamento di<br />
indulgenza e di rispetto del diritto internazionale nei confronti di questi elementi. Essi sono<br />
pericolosi per la sua sicurezza e per una rapida pacificazione dei territori conquistati. 2. I<br />
commissari politici sono promotori di barbari e asiatici metodi di lotta. Bisogna quindi<br />
procedere contro di loro immediatamente, e senz’altro, con ogni asprezza. Di conseguenza,<br />
essi dovranno essere immediatamente passati per le armi quando fossero catturati in<br />
combattimento o in azioni di resistenza”.<br />
I fini di guerra delle grandi potenze furono determinati in primo luogo dalla necessità<br />
di contrastare l’espansione della Germania nazista. Questo fu l’elemento che accomunò in fasi<br />
e con tempi diversi Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica e altre potenze minori,<br />
anche se poi ciascun paese coltivava obiettivi particolari. La Gran Bretagna tentò i difendere<br />
la sua egemonia nel Mediterraneo e nel sub-continente indiano. Gli Stati Uniti da arsenale<br />
militare diventarono sempre più potenza mondiale. L’intreccio fra guerra difensiva e<br />
conquista di nuovi spazi fu particolarmente chiaro nel caso dell’Unione Sovietica. L’Italia,<br />
come alleata, fu in realtà un satellite della Germania e sperò di ritagliarsi uno spazio di<br />
autonomia; ma anziché rafforzare la sua posizione, fu soffocata da questa scelta strategica.<br />
Ciò emerse sempre più chiaramente nello svolgimento della guerra. E Mussolini, protagonista<br />
dell’Asse Roma-Berlino faticò parecchio per “farsi sentire” in Germania, anche se in Italia la<br />
sua politica era tutt’altro che “timida”.<br />
Una pedagogia per i Guerrieri.<br />
Mussolini, maestro elementare, utilizzò una pedagogia della popolazione ispirata al<br />
risveglio della dimensione archetipica del Guerriero di livello inferiore. Uno dei leitmotiv<br />
dell’Italia fascista fu quello della “patria in armi”. Irreggimentare gli italiani secondo il<br />
modello della disciplina militare significò controllo capillare della società, ma fu anche la<br />
facciata aggressiva e militaresca di un regime che si affidava all’apparenza e alla propaganda<br />
per compensare l’evidente impreparazione del suo apparato bellico. Secondo Mussolini, la<br />
scuola doveva educare i giovani ai principi del fascismo e dell’obbedienza. Gli insegnanti<br />
dovevano giurare fedeltà al Duce e impegnarsi a formare dei cittadini devoti al regime<br />
fascista. I libri di testo erano uguali in tutta Italia e contenevano molte letture e immagini che<br />
inneggiavano al Duce e al fascismo. Invece di educare alla capacità critica attraverso l’analisi<br />
di fenomeni del passato, si insegnava: “Obbedite perché dovete obbedire”. Durante il<br />
64
fascismo i bambini e i ragazzi erano iscritti all’Opera Nazionale Balilla e ricevevano un<br />
addestramento di tipo militare. In molte occasioni dovevano indossare la divisa e fare il saluto<br />
romano.<br />
Il fascismo esaltava la forza fisica e la violenza. Lo spirito di avventura dei ragazzi<br />
veniva indirizzato verso la guerra. Nel 1922 Mussolini organizzò una marcia su Roma per<br />
occupare la capitale. Il re Vittorio Emanuele III non volle fermare i fascisti; anzi, affidò a<br />
Mussolini l’incarico di governare il Paese. In pochi anni Mussolini, chiamato “duce,” instaurò<br />
una dittatura e abolì tutte le libertà sopprimendo i partiti politici e i sindacati, la libertà di<br />
stampa, di parola e di associazione. Chi si opponeva al fascismo era arrestato o esiliato. Nel<br />
1924 avvenne l’assassinio di Giacomo Matteotti, un deputato socialista che aveva denunciato<br />
apertamente le violenze dei fascisti.<br />
Dopo aver conquistato il potere politico con le armi e la violenza, i fascisti cercarono<br />
l’approvazione della gente con una martellante propaganda attraverso la radio, i manifesti, i<br />
giornali, gli spettacoli. Sui muri delle case si vedevano scritte gigantesche inneggianti al duce.<br />
Il suo volto era usato per la propaganda e appariva ovunque. Mussolini radunava i suoi<br />
seguaci nelle piazze e li incitava con discorsi esaltati, nei quali si presentava come un eroe<br />
forte e invincibile a cui bisognava obbedire ciecamente, secondo il principio del “credere,<br />
obbedire, combattere”. In questa descrizione si concretizza il significato della dittatura come<br />
imposizione anche violenta del potere di una sola persona e/o di un solo partito politico, a un<br />
popolo o a una nazione.<br />
La dittatura nel corso della storia, si instaura nei periodi di forte instabilità. In effetti,<br />
dopo la prima guerra mondiale in Italia c’erano povertà e disoccupazione e la gente protestava<br />
con manifestazioni e scioperi. Molti lavoratori si iscrissero al sindacato e, in alcune zone, i<br />
contadini occuparono le terre e gli operai occuparono le fabbriche. Alcuni ricchi industriali e<br />
proprietari terrieri temevano che scoppiasse una rivoluzione come era successo in Russia e<br />
finanziarono il partito fascista fondato da Benito Mussolini, che prometteva di riportare<br />
l’ordine nella società. Gli iscritti a questo partito, i fascisti, usavano le armi e la violenza per<br />
impedire scioperi e proteste. Erano organizzati in squadre e, senza rispettare le leggi,<br />
distruggevano le sedi dei sindacati, dei giornali e degli altri partiti politici.<br />
Tuttavia, la popolarità di Mussolini presso gli italiani di ogni ceto, ma non tra gli<br />
intellettuali, fu un dato incontestabile del regime. Nel culto del suo nome, della sua figura e<br />
del suo carisma si condensavano, sublimate, le frustrazioni di una nazione e le banalità del<br />
vivere quotidiano.<br />
Mio figlio, in 5ª elementare, a dieci anni appena compiuti in dicembre, ha già un’idea<br />
65
chiara di come sarà da grande. Alla domanda scritta, ha risposto sul quaderno di scuola: “Sarò<br />
alto, intelligente e preciso e farò il pilota di C130”. Quando gli ho chiesto perché ha messo<br />
questo tipo di aereo, mi ha risposto che la maestra gli avrebbe fatto rifare il testo se avesse<br />
scritto “Tornado”, o “Caccia”, “perché non vuole i militari”.<br />
Il fervore della maestra nel contrastare le predisposizioni militaristiche dei suoi allievi<br />
Guerrieri si traduce dunque nella “bocciatura” dei testi che evidenzino tendenze e fasi del<br />
Guerriero che usa le armi per combattere e uccidere. Se riflettiamo sul fatto che<br />
l’insegnamento della scuola materna ed elementare è affidato quasi esclusivamente alle<br />
donne, possiamo comprendere quale importanza rivesta la donna nel formare i futuri<br />
Guerrieri, orientandone le pulsioni verso ideali costruttivi e non distruttivi, sollecitandone la<br />
crescita verso stadi evolutivi più maturi rispetto all’etica barbara e amorale del “credere,<br />
obbedire e combattere”. Nel periodo del nazifascismo gli ordini non si potevano discutere,<br />
nemmeno quando cozzavano palesemente con i diritti umani internazionali. Non è mai stato<br />
fucilato nessuno perché si è rifiutato di uccidere un ebreo. In Ucraina, come in altri paesi<br />
occupati dai nazisti, il compito di uccidere tutti gli ebrei - uomini, donne e bambini -<br />
allineandoli davanti ad una fossa, in modo che vi cadessero dentro dopo lo sparo, era affidato<br />
a milizie locali. Intervistati in un filmato televisivo trasmesso il 20 gennaio 2004, questi<br />
militari ucraini hanno detto che lo facevano perché gli ordini non si potevano discutere: “Era<br />
come andare in un bosco a raccogliere la legna, perché sai che senza questa raccolta il fuoco<br />
si spegne”. Alla richiesta sul perché uccideva i bambini ebrei, Himmler rispose che, dopo aver<br />
riflettuto a lungo, ha capito che il “cattivo seme” si sarebbe vendicato sui figli e nipoti degli<br />
uccisori dei genitori e parenti.<br />
L’educazione della coscienza civile in tempo di pace ha una valenza educativa anche<br />
preventiva nei confronti di una sempre possibile guerra.<br />
In particolare, gli allievi che, nel rispetto della libertà di coscienza e della<br />
responsabilità educativa dei genitori, non si avvalgono dell’insegnamento della religione<br />
cattolica e, quindi, di quei principi del cattolicesimo che fanno parte del patrimonio storico del<br />
popolo italiano, nel quadro delle finalità della scuola, possono attingere al patrimonio dei<br />
valori formativi che distinguono il Guerriero negativo dal Guerriero evoluto. In effetti, agli<br />
allievi degli Istituti di istruzione secondaria di 1° grado che non si avvalgono<br />
dell’insegnamento della religione cattolica, la scuola assicura attività scolastiche integrative<br />
da realizzarsi nel quadro di quanto previsto dall’art. 7 della legge 4 agosto 1977, n. 517, il<br />
quale stabilisce che “al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la piena<br />
formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere<br />
66
attività scolastiche di integrazione anche a carattere interdisciplinare, organizzate per gruppi<br />
di alunni della stessa classe o classi diverse”.<br />
Lo svolgimento di tali attività è programmato dal collegio dei docenti entro il primo<br />
mese dall’inizio delle lezioni, sentiti, nell’esercizio della responsabilità educativa, i genitori o<br />
chi esercita la potestà. Fermo restando il carattere di libera programmazione, queste attività<br />
integrative devono concorrere al processo formativo della personalità degli allievi e saranno<br />
particolarmente rivolte all’approfondimento di quelle parti dei programmi di storia e di<br />
educazione civica più strettamente attinenti alle tematiche relative ai valori fondamentali della<br />
vita e della convivenza civile.<br />
In riferimento ai programmi di storia che presentino un valore formativo, può essere<br />
utile insegnare agli allievi ad individuare i personaggi che meglio rappresentano la Saggezza,<br />
rispetto a quelli che personificano il Guerriero negativo.<br />
descritta.<br />
Per presentare criticamente il fascismo italiano, pertanto, si può usare l’ottica appena<br />
La crescita dal Guerriero al Saggio<br />
Ho constatato che nella scuola elementare di mio figlio vengono prospettati alcuni<br />
progetti, tra cui quello alimentare per educare ad un’alimentazione corretta.<br />
I ragazzi delle classi quinte sono stati protagonisti di un divertentissimo e coinvolgente<br />
corso teorico e pratico di cucina quali ospiti della Ristorazione che rifornisce la mensa<br />
scolastica. La regia è stata affidata al cuoco della Ristorazione, in collaborazione con la<br />
dietista. L’attività faceva parte del progetto scolastico di educazione alimentare “Metti in<br />
tavola gusto e salute”, avviato nel 1999. Il progetto ha compreso anche uno spettacolo teatrale<br />
dal titolo “Metti a teatro frutta e verdura” nel 2002, la partecipazione con un carro mascherato<br />
al Carnevale di Marca nel 2003 e la realizzazione di due Giochi dell’Oca su prodotti tipici<br />
(Prosecco e Radicchio) che nel 2004 si sono classificati ai primi posti nel concorso regionale<br />
“Che gusto c’è”. Il traguardo raggiunto più soddisfacente è stato il cambiamento delle<br />
abitudini alimentari degli alunni per quello che riguarda la merenda a scuola con la scomparsa<br />
definitiva delle merendine confezionate ed un notevole incremento di consumo di frutta,<br />
verdura, yogurt, derivati del latte e prodotti freschi.<br />
Anche i pasti consumati in mensa hanno permesso di modificare non solo le abitudini<br />
dei ragazzi, ma anche quelle familiari. Scuola e famiglie si sono alleate a veicolare i contenuti<br />
dell’educazione alimentare fattibile grazie a un menu ricco e vario che la Ristorazione ha<br />
appositamente predisposto.<br />
67
Come questo “progetto alimentare” ha generato nuove abitudini, più salutari per il<br />
corpo, così è auspicabile che l’educazione orientata alla crescita dell’individuo attraverso il<br />
Viaggio evolutivo venga opportunamente avviata e assistita. Non mi risulta che attualmente<br />
esistano progetti del genere, anche se sono stati fatti dei tentativi di preparare al “ruolo<br />
sessuale”, come specificherò più avanti.<br />
Si può auspicare un progetto analogo per un’educazione orientata alla crescita<br />
dell’individuo dai livelli inferiori a quelli superiori, dal Guerriero al Saggio.<br />
Nell’animata polemica che ha fatto seguito alla richiesta di Adel Smith di togliere il<br />
Crocifisso dalle aule, è stato sollecitato a livello nazionale anche il bisogno di orientamento e<br />
di devozione, attraverso la minaccia di privare le aule di punti di riferimento simbolici con<br />
valenze identitarie. Sta scritto nel Vangelo: “Il Figlio dell’Uomo è venuto e ha dato la vita per<br />
il riscatto di tutti gli uomini”. Questo significato del Crocifisso, bistrattato con la designazione<br />
di “cadaverino” affibbiatagli da Mister Smith, costituisce una valenza di identificazione<br />
culturale non solo del mondo cristiano, ma anche di quello laico che rispetta il valore della<br />
solidarietà verso tutti gli esseri umani presente in chi offre la vita per loro.<br />
D’altro lato la protesta avviata in Francia e in tutto il mondo islamico il 17 gennaio<br />
2004 contro l’abolizione del velo nelle scuole pubbliche in nome della laicità dello stato<br />
sembra indicare che la radicalità nella concezione della laicità dello stato alimenta<br />
l’estremismo. Le donne islamiche affermano che non portano il velo per volere degli uomini,<br />
ma per la legge di Dio e alcune che hanno preso parte alla manifestazione di protesta<br />
annunciano di voler coprire tutto il volto con il chador per esprimere il loro dissenso.<br />
Il 10 febbraio 2004, in Francia, l’Assemblea Nazionale approva a stragrande<br />
maggioranza la legge contro il velo islamico e altri simboli religiosi. “La laicità dello stato<br />
non è negoziabile”, ha dichiarato Chirac nel 2003, annunciando il progetto di legge. Il<br />
laicismo della Francia e il relativismo della Gran Bretagna lasciano aperta un’altra strada, in<br />
cui i valori fondanti e condivisi di una nazione richiedono il riconoscimento da parte degli<br />
immigrati.<br />
Il cardinale di Bologna Giacomo Biffi si è congedato per pensionamento. Intervistato<br />
in televisione il 18 gennaio 2004, Biffi, notoriamente franco, ha focalizzato la sua attenzione<br />
sui rischi del fondamentalismo islamico. “Religione e politica sono la stessa cosa per l’Islam.<br />
Da una parte c’è una fede e dall’altra, in Europa, c’è il niente. L’Europa propone il niente: è<br />
vietato vietare”. L’Europa non ha dunque né identità, né storia, né radici.<br />
Premesso che l’identità non si acquista vietando, è utile riflettere sui modi non<br />
ideologici di affermare l’identità dell’Europa.<br />
68
Laicità e rispetto della sensibilità religiosa.<br />
Il richiamo dalla moschea alle tre del mattino, risveglia in me la trascendenza e un<br />
senso di elevazione che mi mette in contatto con il divino, anche se l’espressione usata<br />
appartiene ad un’altra lingua e ad un’altra religione. Sento che si tratta di un messaggio<br />
religioso in cui quel Dio che è Amore ed ovunque si serve delle parole di un musulmano per<br />
risvegliare anche in me il senso del Sublime. Un ateo che ascolta lo stesso richiamo può<br />
infastidirsi, ritenendo che non è giusto disturbare la quieta pubblica alle tre del mattino. Ma<br />
credo che il buon senso suggerisca ai miei connazionali di non andare a protestare presso<br />
l’autorità tunisina o egiziana o di altre nazioni, perché considera questo “richiamo” un<br />
“insulto” alla sua concezione del mondo e dell’ordine pubblico. Nello stesso modo, il<br />
Crocifisso ci ricorda una religione, in cui Gesù ha distinto ciò che va dato a Cesare e ciò che<br />
spetta a Dio. “Il mio regno non è di questo mondo”, ha predicato nel Vangelo. Egli attira con<br />
il potere della verità che convince e dell’amore che attrae. La lealtà critica verso lo stato ci<br />
suggerisce di distinguere laicità da laicismo. L’affissione del Crocifisso interpretata come<br />
abuso di una presenza religiosa in un locale pubblico è indicativa di intolleranza verso il<br />
simbolo di valori condivisi da molti cittadini, anche laici, che vedono nel Cristo colui che ha<br />
dato la vita per i suoi amici e quindi non ha potuto avere amore più grande per essi.<br />
All’inizio di dicembre 2003 ho constatato che nell’ingresso della scuola statale<br />
elementare di mio figlio, frequentata da vari bambini musulmani, installato su un tavolino, è<br />
comparso un bel presepio. La celebrazione della nascita di Gesù non sconvolge, quindi, le<br />
coscienze di quei musulmani che, in modo intelligente, hanno accettato le tradizioni cristiane<br />
connesse all’evento che ha cambiato il corso della storia. E, in modo altrettanto intelligente, i<br />
cristiani che lavorano in una scuola statale, non hanno ritenuto di essere lesivi nei confronti<br />
dei diritti dei musulmani, esibendo in un luogo pubblico un simbolo cristiano. Secondo un<br />
sondaggio svolto dalla Doxa - TG2 e comunicato il 21 dicembre 2003, l’80% degli italiani<br />
preferisce l’albero di Natale al presepe. Comunque, il presepe resta pur sempre il simbolo<br />
figurativo più pregnante della nascita di Gesù.<br />
Quando l’intelligenza si unisce al rispetto reciproco tipico delle civiltà più evolute,<br />
non c’è scontro offensivo né per le minoranze né per la maggioranza. Con la stessa strategia<br />
intelligente, d’altro lato, la direzione ha ritenuto superfluo introdurre o imporre carne di<br />
maiale nel pasticcio di carne della mensa scolastica, che prevede il menu fisso, per rispetto<br />
verso la minoranza musulmana. La carne di maiale si può anche togliere, ma fortunatamente il<br />
presepio si può aggiungere in occasione del Natale, in un saggio “compromesso storico”, che<br />
ho voluto immortalare in una foto che ritrae il presepio scolastico.<br />
69
Possiamo chiederci cosa possa fare la scuola per favorire non solo una corretta<br />
alimentazione, ma anche la crescita psicologia, affettiva e sessuale dei bambini e dei ragazzi e<br />
quella religiosa, dando informazioni corrette e comprensibili anche per le età inferiori.<br />
In base alle statistiche, il 70% degli adulti che frequenta i maghi è costituito da<br />
diplomati e laureati. C’è da chiedersi in quale misura il bisogno di contattare quelli che<br />
predicono il futuro e rassicurano sull’andamento del presente derivi da una frustrazione del<br />
bisogno di orientamento e di devozione, che non è stato soddisfatto da una adeguata<br />
formazione religiosa. Il catechismo appreso a scuola con le risposte imparate a memoria sulla<br />
base di domande prefissate - come veniva insegnato fino a poco tempo fa - sicuramente non<br />
orienta verso una devozione “corretta”.<br />
70
CAPITOLO II<br />
QUANDO GLI SCHEMI CULTURALI<br />
COSTITUISCONO UNA GABBIA<br />
LA PEDAGOGIA COME FORMAZIONE DELL’IDENTITA’<br />
Rispettare l’individualità e le differenze.<br />
È il Guerriero interiore che ci aiuta a trovare un senso di individualità all’interno<br />
dell’unità, che non è semplicemente programmato a livello sociale. Senza l’archetipo del<br />
Guerriero, è difficile sviluppare un senso di identità che sia il proprio e non di un altro. È il<br />
Guerriero che custodisce i confini e protegge il primo sbocciare del sé (Io) dall’abuso delle<br />
pretese e dei desideri altrui. Né l’Innocente né l’Orfano hanno alcun senso effettivo dei propri<br />
confini. L’Innocente prova un senso di unità con l’universo e con gli altri. L’Orfano intende la<br />
separatezza solo come una mancanza e una ferita. L’Orfano si sente separato, ma indebolito<br />
piuttosto che rafforzato da quella separatezza. Il Guerriero è l’archetipo che ci aiuta a trovare<br />
o creare i nostri confini e a difenderli contro gli attacchi.<br />
Quale esempio illustrativo di quanto esposto, posso descrivere un episodio accaduto il<br />
9 marzo 2004. Mentre mi trovavo in studio, ricevetti una telefonata dalla maestra del<br />
doposcuola, la quale mi spiegò che mio figlio si comportò in modo “irriverente” verso di lei,<br />
quando seppe che la maestra aveva concesso ad una bambina di copiare una cornicetta da un<br />
libro di mio figlio, mentre lui era andato al catechismo. Non riuscendo a comprendere come<br />
mai mio figlio andò su tutte le furie per una cosa che tutto sommato mi sembrava irrilevante,<br />
all’ora di chiusura andai a parlare con le maestre del doposcuola. Venni a conoscenza del fatto<br />
che la maestra elementare aveva lanciato una competizione tra i bambini, dicendo che avrebbe<br />
esposto le cornicette migliori. La reazione infuriata di mio figlio era stata scatenata dalla<br />
violazione dei suoi confini - una bambina era andata a “curiosare” nella sua cartella,<br />
autorizzata dalla maestra - in una sorta di “spionaggio industriale”. Era scattato il Guerriero<br />
primitivo, che si lancia sull’invasore. Mio figlio precisò che non era intenzionato ad agevolare<br />
quella bambina perché, quando lui le chiedeva qualcosa, lei gli rispondeva: “Arrangiati!”.<br />
Così, parlai a lungo con la maestra, laureata in Pedagogia, sulla competizione che<br />
71
veniva sollecitata a scuola, presumibilmente per stimolare lo sviluppo di un senso di identità<br />
nei bambini. Tuttavia, occorre notare che è importante orientare la spinta al miglioramento,<br />
non soltanto nel confronto competitivo con gli altri, per non rendere il bambino dipendente<br />
dal giudizio degli altri. Il miglioramento va cercato in funzione di una crescita personale.<br />
Altrimenti, subentra l’autosvalutazione e la sensazione di non valere nulla in quanto persone,<br />
se non si vince la gara. Il bambino non va portato ad identificarsi con la gara e con la vittoria,<br />
altrimenti rischia di entrare in una spirale pericolosa, affine alla “sindrome di Pantani”. Non si<br />
può dare un senso alla propria vita solo se si arriva primi in una gara.<br />
Gli educatori che sostengono la competizione come l’unico modo per ottenere che gli<br />
allievi studino, sollecitano il Guerriero negativo per il quale il mondo è fatto di eroi, cattivi e<br />
vittime da salvare. Questa mentalità unilaterale crea grossi problemi, in quanto l’affidarsi<br />
troppo all’intreccio eroe/cattivo/vittima finisce in pratica con un’autoconvalida, per cui ci<br />
sono sempre cattivi e vittime, vincenti e perdenti, forti e bisognosi, solo perché l’eroe ne ha<br />
bisogno per sentirsi eroe. Bisogna quindi provare sempre che si è meglio degli altri, perché si<br />
è convinti che non va bene essere semplicemente umani.<br />
La stessa maestra del doposcuola mi rivelò che durante gli anni del liceo classico era<br />
“angariata” da un’insegnante che la interrogava sempre assieme agli stessi allievi. Quando le<br />
chiese il motivo di questo modo di interrogare “in coppia”, rispose che sceglieva gli allievi<br />
che ottenevano gli stessi voti, in modo da metterli in competizione per aumentarne il<br />
rendimento. La stessa insegnante rivelò che, ai tempi del liceo, nelle materie in cui eccelleva<br />
dava suggerimenti sbagliati ai migliori ed esatti agli allievi dai risultati scarsi. In breve, il<br />
virus della competizione veniva tramandato come una nevrosi ossessiva. E la maestra<br />
commentò: “Non ho mai capito perché quando prendi sette ti dicono che puoi dare di più,<br />
quando prendo otto, nove o dieci ti rispondono sempre che puoi dare ancora di più”.<br />
Per comprendere questo diffusissimo fenomeno, basta ricordare lo schema<br />
eroe/cattivo/vittima che attanaglia la nostra cultura e spinge il Guerriero a voler essere il<br />
migliore, lasciando necessariamente gli altri in condizione di inferiorità. Questo desiderio di<br />
essere superiore agli altri, se non è controllato da alcun valore superiore né da alcun<br />
sentimento umano, porta a manifestazioni negative e gravi, sulla base di un egocentrismo<br />
sfrenato, che calpesta tutto e tutti pur di arrivare primo. Così, si perde totalmente l’aspetto<br />
eroico e positivo del Guerriero.<br />
Questo tema dell’affermazione dell’individualità e della sollecitazione delle<br />
potenzialità soggettive attraverso la competizione ci connette alle riforme scolastiche in corso<br />
di progettazione in Europa.<br />
72
In Gran Bretagna una riforma scolastica choc prevede di raggruppare i bambini per<br />
intelligenza e non per età. Questa disposizione potrebbe costituire un segnale del riaffiorare di<br />
un modello culturale di dominazione, che privilegia alcuni in modo selettivo e lascia andare<br />
alla deriva gli altri meno fortunati?<br />
“Non sono il tuo insegnante, stiamo nella stessa classe” spiega tra lo spazientito e il<br />
seccato un ragazzotto al bambino che lo guada interrogativamente mentre si siede accanto a<br />
lui, nello stesso banco di scuola.<br />
Con questa pungente vignetta, il 18 febbraio 2004 il quotidiano Times ha voluto<br />
commentare la notizia della riforma della scuola secondaria, in Gran Bretagna, che si<br />
annuncia come la più importante degli ultimi sessant’anni. I cambiamenti in effetti non sono<br />
da poco e la battuta dell’autorevole quotidiano inglese spiega tutto. Nei prossimi anni le classi<br />
delle scuole superiori saranno infatti composte non in base all’età, come sempre è stato anche<br />
nel resto del mondo, ma in base alle capacità degli allievi. Questo significa che un ragazzino<br />
di prima superiore potrebbe trovarsi fianco a fianco con uno di quinta semplicemente perché è<br />
più bravo. Gli storici esami finali per il conseguimento di quello che in Gran Bretagna è<br />
considerato l’equivalente del nostro diploma di maturità e che adesso è riservato a tutti i<br />
ragazzi di 16 anni, sono destinati a scomparire entro il 2011, per lasciare il posto ad un<br />
diploma nuovo di zecca che terrà conto delle specifiche capacità dello studente piuttosto che<br />
del suo curriculum anagrafico.<br />
Nella stessa classe, fianco a fianco, potranno ritrovarsi dunque allievi tra i 14 e i 19 ani<br />
e quelli più giovani di maggior talento saranno incoraggiati a lavorare insieme ai compagni<br />
più anziani. Al contrario, agli studenti che non saranno riusciti a raggiungere gli obiettivi<br />
fissati per la loro età, verrà concesso più tempo per ottenerli. Insomma, a prima vista, questa<br />
riforma, proposta da Mike Tomlinson, ex capo dell’Ispettorato Scolastico, sembra voler<br />
abolire le barriere anagrafiche e le bocciature, favorendo le capacità del singolo ed evitando di<br />
penalizzare i ragazzi meno brillanti. L’ipotesi di Tomlinson ha ricevuto il pieno appoggio di<br />
David Millband, ministro per gli standard scolastici, che l’ha definita in linea “con la nostra<br />
idea di creare un’istruzione personalizzata in base alle esigenze dei giovani studenti”.<br />
In realtà, sulla riforma di Tomlinson sono in molti a sollevare dubbi e timori. Gli stessi<br />
quotidiani si sono dichiarati molto critici riguardo al nuovo sistema scolastico. Il Daily Mail<br />
ritiene che si poteva fare molto meglio per migliorare quello attuale e il Times è ancora più<br />
tagliente nell’analisi che segue l’articolo principale sull’argomento. “Ciò che più colpisce in<br />
questa bozza di riforma - commenta l’editorialista specializzato Tony Halpin - è la sua<br />
vaghezza. In un periodo compreso tra i cinque e i dieci anni, la nostra scuola superiore<br />
73
dovrebbe passare dal vecchio al nuovo sistema che prevede l’insegnamento delle cosiddette<br />
materie ‘funzionali’ come matematica, comunicazione e informatica insieme ad una serie<br />
sempre più ampia di attività comuni quali il lavoro di gruppo, i servizi di volontariato<br />
nell’ambito della comunità civile, l’impegno artistico e sportivo esterno all’istituzione<br />
scolastica. Ci si aspetta - prosegue il commento - che un simile sistema stimoli lo sviluppo nei<br />
ragazzi di maggiore consapevolezza, capacità interpersonale e conoscenza della realtà<br />
internazionale”.<br />
Molti aspetti della riforma rimangono però poco chiari e lo stesso suo ideatore ha<br />
ammesso che non sarà facile ottenere il consenso delle famiglie e degli insegnanti. “Non si<br />
capisce ad esempio - spiega meglio il Times - qual è il livello di preparazione che ci si aspetta<br />
dai ragazzi nel nucleo di materie principali e quale debba essere il volume di studio necessario<br />
per ottenere il diploma in ognuno dei nuovi quattro livelli del sistema riformato. Quanto del<br />
vecchio sistema secondario verrà poi inserito nella nuova struttura d’insegnamento e quanto<br />
verrà creato ex novo? E soprattutto, quali saranno i costi reali di questa riforma?”.<br />
Non si tratta di interrogativi da poco, che hanno bisogno di risposte chiare alle quali va<br />
peraltro aggiunto il timore che la coesistenza tra età così diverse non sia poi così semplice<br />
come si può pensare. Le necessità, gli stili di vita, gli interessi e le aspirazioni di un<br />
adolescente di 14 anni e di un giovane di 19 possono creare vuoti d’incomprensione anziché<br />
integrarsi armoniosamente. Le medesime capacità in campo scolastico potrebbero non bastare<br />
a colmare l’abisso.<br />
Spezzare l’unità della classe per reinventare nuovi gruppi di interesse non è un’idea<br />
nuova ed è contemplata, anche se in forma diversa, dalla riforma messa a punto dal ministro<br />
dell’istruzione, Letizia Moratti.<br />
Flessibilità è la parola d’ordine della riforma. Ed in questa flessibilità rientra anche il<br />
concetto di superamento della rigidità delle classi. Va specificato però che nella legge Moratti<br />
non si parla mai di divisioni in base all’intelligenza degli studenti. Il principio seguito è quello<br />
di rispondere alle esigenze individuali dell’alunno dando risposte differenziate. E a questo<br />
principio corrispondono tutte le principali novità della riforma. A cominciare dall’ingresso<br />
anticipato in prima elementare a 5 anni e mezzo. In questo modo nella stessa classe si<br />
troveranno bambini con quasi un anno e mezzo di differenza. La riforma poi promuove i piani<br />
di studio personalizzati, mirati sul singolo studente.<br />
Rispetto a quella inglese, la proposta lascia alle singole scuole la possibilità di<br />
pianificare l’organizzazione dell’attività didattica.<br />
Come si spezza la rigidità della classe? Nella riforma si prevede all’interno<br />
74
dell’attività curriculare la diversificazione dell’impegno dei ragazzi che frequentano la stessa<br />
classe.<br />
Sarà possibile seguire attività di apprendimento, di laboratorio, di recupero e di<br />
sviluppo svincolate dall’organizzazione della classe. E in questo modo si corrisponde<br />
all’esigenza dei piani di studio personalizzati. Insomma siamo di fronte ad una<br />
liberalizzazione delle attività per ottenere unità di apprendimento personalizzate.<br />
Dunque, per esempio, un ragazzo più “debole” in italiano potrà approfondire quella<br />
materia insieme ad altri con la sua stessa esigenza.<br />
L’aspetto diversificante rispetto ad altre prospettive della riforma italiana sta nel fatto<br />
che non viene imposto un modello rigido uguale per tutti, in conformità con la presenza di<br />
intelligenze multiple e stili cognitivi diversi.<br />
Qui non si tratta di stabilire chi è più o meno intelligente. Si tratta di rispettare le linee<br />
individuali di apprendimento e di sviluppo di ciascun bambino. Del resto è negli intenti del<br />
Consiglio d’Europa rispettare le individualità, e quindi rispettare le differenze. Va bene<br />
dunque considerare l’handicappato, ma anche quello più dotato degli altri dev’essere<br />
valorizzato. Ora sono i più penalizzati.<br />
Per capire quando un bambino è più o meno intelligente, basta avere insegnanti attenti<br />
e un esperto che compaia regolarmente in classe. E poi questo controllo non significa<br />
mandare all’università un dodicenne. Permette invece di costituire gruppi di bambini in<br />
sintonia a seconda delle diverse aree di apprendimento. Sarebbe un modo per rendere<br />
piacevole e meno noioso il momento scolastico sia per i ragazzi meno dotati che per quelli più<br />
dotati.<br />
La scuola si è massificata e offre pochissimi stimoli. Secondo alcuni, costringe i<br />
superdotati a marcire dietro a un banco, a far passeggiare gli handicappati nel corridoio con<br />
insegnanti di sostegno che spesso non sono qualificati. Non parliamo poi dei bambini che non<br />
sanno l’italiano e costringono le maestre a ripetere le cose in modo più lento a scapito di<br />
quelli che hanno capito e vorrebbero passare ad altro.<br />
Secondo alcune obiezioni, quelli meno intelligenti, però, non sono più stimolati a<br />
raggiungere i migliori. In realtà, la competitività non si ottiene mostrando dei modelli<br />
irraggiungibili. Al contrario in questo modo si offre la possibilità al ragazzo di seguire la sua<br />
velocità di apprendimento. È un modo di rispettare un suo sacrosanto diritto.<br />
Secondo altri contrari a questa prospettiva, invece, se si mescola il patrimonio<br />
culturale di ognuno se ne crea uno comune. Si creano stimoli. È importante affiancare un<br />
ragazzo che ha un modo di apprendere più lento ad uno che ne ha uno più veloce. Le persone<br />
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intelligenti devono poter entrare in contatto anche con la noia e con le persone con<br />
intelligenza più lenta. L’educazione non deve rendere come bene immediato. I ragazzini, per<br />
essere cittadini del mondo, devono poter seguire la mente del cuore, avere tempo di crescere,<br />
quando sono in formazione.<br />
Se si lascia indietro un ragazzo, gli si dice cha la sua crescita è anomala. Gli si dà il<br />
segnale sbagliato. I giovani che hanno difficoltà devono comunque misurarsi. Quello che<br />
serve invece è più competenza da parte degli insegnanti. Bisogna spostare il problema della<br />
formazione sui formatori e non sui ragazzi.<br />
In base a questa visione, i meno dotati, gli esclusi potrebbero rischiare anche un vero e<br />
proprio blocco del processo di crescita. È un tempo di sviluppo che non va forzato né facendo<br />
fare ai ragazzi un passo indietro né un passo avanti. Bisogna valorizzare le differenze e le<br />
diversità perché sono risorse collettive.<br />
NUOVI PROGETTI EDUCATIVI<br />
Il 10 novembre 2003 sono state presentate ai genitori della scuola di mio figlio le<br />
linee-guida del progetto “Alla scoperta di me” e il materiale usato dalle insegnanti negli<br />
interventi con i bambini. Il progetto è stato presentato nell’assemblea dei genitori ed è un<br />
intervento che affronta le tematiche della crescita e dello sviluppo affettivo, sentimentale e<br />
sessuale nei ragazzi e nelle ragazze.<br />
L’educazione sessuata.<br />
Il progetto educativo è stato avviato nello stesso plesso scolastico nel 2002, all’interno<br />
della 5ª elementare. Parallelamente, alle medie e superiori è iniziato un progetto di educazione<br />
emotiva e sentimentale sul problema del disagio giovanile, che è stato esteso alle elementari<br />
in base al concetto che un’azione preventiva è migliore di quella curativa e agire già al livello<br />
di scuola elementare può costituire un buon presidio contro la formazione di futuri disagi.<br />
Il piano di “conoscenza e gestione dell’emotività come azione preventiva”, nel 2003 è<br />
stato allargato alla sessualità. Partendo dall’idea che è condizionante parlare di “educazione<br />
sessuale” o di “educazione alla sessualità”, si è preferito usare l’espressione”educazione<br />
sessuata”, in quanto il bambino è già dotato di sessualità e di sesso e il programma è svolto<br />
dalle stesse insegnanti all’interno della disciplina svolta.<br />
In un libro incentrato sul pregiudizio, è essenziale fare alcune riflessioni sulla<br />
76
sessualità, che un tempo costituiva un tabù di cui non si poteva parlare né in classe né in<br />
famiglia. Oggi, finalmente, si parla di sessualità in 5ª elementare, prendendo in<br />
considerazione il corpo umano nella sua componente sessuale. Si è constatato che<br />
“costringere” la sessualità al programma di scienze è riduttivo, in quanto si tratta di una<br />
componente trasversale che riguarda vari aspetti della persona e dei valori a cui si ispira, in<br />
svariati momenti della vita. Ci sono istanze all’interno del percorso evolutivo che diventano<br />
presenti nella quotidianità a partire dalla 4ª elementare. Bisogna cogliere i segnali e dare<br />
risposte a domande “indirette”.<br />
In Italia non esiste una legislazione specifica che regoli questa tematica, anche se da<br />
decenni si discute dell’argomento. L’ultima proposta del 1995 è caduta assieme al governo ed<br />
è stata ripresentata nel 2001. Se ne parlava sull’onda dell’emotività, a seconda dell’emergenza<br />
AIDS o pedofilia, rischiando così di comunicare ai bambini un’idea della sessualità in chiave<br />
patologica.<br />
C’è da chiedersi: perché si può dare un’“educazione sessuata” già in 4ª e 5ª<br />
elementare? Perché il bambino è più attivo, consapevole, rispetto agli anni precedenti e si apre<br />
ad esperienze nuove. Si accorge del cambiamento fisico e sappiamo che in varie bambine in<br />
questo periodo compare la prima mestruazione.<br />
Il progetto non pretende di essere esaustivo, ma va ampliato e integrato nel corso degli<br />
anni successivi della scuola media. È strutturato intorno a obiettivi e alla scelta delle attività<br />
più opportune per adeguarsi alle esigenze della classe. Le insegnanti lavorano insieme e si<br />
confrontano sui problemi, su come intervenire.<br />
Riassumo a grandi linee il procedimento, che si articola in un “questionario di<br />
vicinanza sociale”, e nel “monitoraggio sul gradimento delle attività”, con gli obiettivi di: 1.<br />
conoscere il proprio corpo; 2. riconoscere la propria identità; 3. conoscere la riproduzione<br />
umana; 4. conoscere la propria identità di genere; 5. conoscere i sentimenti.<br />
Le attività, inserite all’interno della disciplina insegnata, sono caratterizzate da<br />
un’ottica integrata, che prevede il riconoscimento del ruolo e del genere.<br />
Ad esempio, l’attività di “gioco delle parti”, ha l’obiettivo di riconoscere la propria<br />
identità di genere e si articola in tre gruppi di bambini che compongono un testo che contenga<br />
10 parole-stimolo, che facciano riferimento ai ruoli, ad esempio motocicletta, cena,<br />
lavastoviglie, capoufficio, amici, figli, scuola ecc.<br />
Il primo gruppo racconta una vicenda che fa riferimento ai ruoli tradizionali. Il<br />
secondo gruppo fa riferimento a ruoli scambiati, per cui quello che di solito fa l’uomo lo fa la<br />
donna e viceversa e compone una vicenda con ruoli scambiati.<br />
77
Il terzo gruppo si occupa delle conclusioni: condizioni ambientali hanno imposto<br />
cambiamenti. È utile un ruolo interscambiato e non rigido, nel caso che entrambi i genitori<br />
lavorino. Ad esempio, occuparsi dei bambini rappresenta un compito anche dei maschi,<br />
mentre fino a qualche anno fa si pensava diversamente.<br />
Nel role-playing sarebbe opportuno inserire l’intercambiabilità anche per quanto<br />
concerne il ruolo di “capo”, affinché i bambini si abituino all’idea che la gerarchia non è<br />
prefissata sulla base del sesso, della nazionalità, dell’etnia o di un altro genere di<br />
classificazione pregiudiziale. In effetti, la mentalità che considera il ruolo di “capo” legato al<br />
sesso maschile e alla razza ariana è un retaggio della cultura del nazismo e del fascismo.<br />
Ricordo che alle scuole elementari e medie, ci veniva fornita una spiegazione “sessista”<br />
riguardante l’uso del genere maschile dell’aggettivo nel caso ci fosse una successione di nomi<br />
maschili e femminili. Ad esempio, se si presenta una frase del tipo “Le bottiglie e i vasi che si<br />
trovano sul tavolo sono belli”, l’aggettivo “bello” deve prendere il genere maschile nella<br />
lingua italiana, “perché il maschile è più importante del femminile” secondo la spiegazione<br />
che mi veniva fornita quando frequentavo le scuole elementari. Nella lingua inglese il<br />
problema non sussiste perché l’aggettivo è invariabile. È ragionevole supporre che una<br />
bambina italiana che sente fornire dalle insegnanti questo tipo di spiegazioni si senta<br />
quantomeno ferita nella sua identità e discriminata perché è nata di sesso femminile. Sarebbe<br />
utile che gli/le insegnanti prestassero attenzione a certe spiegazioni e le elaborassero in<br />
funzione dello smantellamento dei pregiudizi presenti nella nostra società, come il fatto che<br />
l’uomo vale più della donna.<br />
Il 30 novembre 2003 il TG2 serale ha trasmesso i risultati di un sondaggio sulle<br />
preferenze degli italiani per un capo uomo o donna. Ne è emerso che solo uno su sei<br />
preferisce un capo donna. Ma la notizia più rilevante riguarda il fatto che la maggior parte<br />
delle donne preferisce un capo uomo, apparentemente a conferma della constatazione che la<br />
rivalità tra donne è dura a morire. Ma, ad un’analisi più approfondita dei risultati sembra<br />
tuttavia emergere il maschilismo imperante nella nostra cultura che ha portato le stesse donne<br />
ad accettare passivamente un ruolo subordinato, per cui hanno difficoltà ad identificarsi con<br />
una donna “capo”. È la difficoltà di identificazione causata dalla scarsità di modelli da imitare<br />
che porta una buona parte delle donne a preferire un capo uomo. Ecco perché risulterebbe<br />
utile addestrare i bambini fin dalle elementari al role-playing in cui anche le bambine<br />
assumono un ruolo da capo.<br />
Ben diversamente si profila la realtà in Svezia, Norvegia e nei paesi nordici, dove le<br />
donne in carriera sono molto più numerose che in Italia e, pertanto, si è già instaurata<br />
78
l’abitudine a trattare con un capo-donna.<br />
Nel bel film “Soldato Jane”, la protagonista si è offerta di sostenere un programma di<br />
addestramento sperimentale nella marina militare statunitense, per verificare la concreta<br />
capacità di resistenza di una donna in condizioni di fatica e rischio considerate<br />
tradizionalmente sopportabili soltanto dagli uomini. Il trattamento discriminatorio a cui fu<br />
sottoposta in quanto unica donna in una squadra di uomini è assai significativo. Un nero che<br />
stava sostenendo il suo stesso programma, mentre stava raggiungendo la riva dopo essere<br />
stato catapultato in mare assieme ai colleghi, le raccontò quanto accadde al nonno: “Mio<br />
nonno voleva entrare in marina, sparare con i pezzi di artiglieria sopra quelle navi enormi. Gli<br />
è stato detto: ‘Tu sulle corazzate puoi fare solo il cuoco’. Sto parlando della marina USA a<br />
metà della seconda guerra mondiale. Gli hanno detto che il motivo era perché di notte i neri<br />
non ci vedono: cattiva visione notturna. Tu sei come un nero per loro. Forse sei solo arrivata<br />
un po’ troppo presto”. Jane era come un nero sul piano del pregiudizio sessista. Il suo “guaio”<br />
era di essere arrivata troppo presto nell’esercito. Il fatto di aver superato molti uomini nelle<br />
prove di addestramento contava poco per la politica del senatore-donna, membro anziano<br />
della Commissione armamenti del Senato, a cui interessava solo essere popolare e ottenere<br />
consensi. Ma Jane voleva arrivare fino alla fine delle prove e ci arrivò, perfino con l’onore di<br />
aver salvato la vita ad un soldato maschio. Jane resiste meglio di molti suoi colleghi maschi a<br />
questo programma dei corpi scelti della marina, uno dei più duri del mondo. La volontà di<br />
vincere e di raggiungere l’obiettivo non viene compresa dagli uomini, quando ad averla è una<br />
donna. Viene definita “incomprensibile ambizione”, non “vocazione”. Alla stessa stregua, se<br />
un uomo salva un altro viene definito “un eroe”. Se salva una donna, viene definito “un<br />
rammollito”. Questa è la discriminazione che colpisce le donne di ogni Paese, e in particolare<br />
l’Italia, dove una cultura patriarcale e arretrata persevera tenacemente nel precludere alle<br />
donne l’accesso alle carriere e ai vertici del potere.<br />
Con l’espressione “le donne devono stare al loro posto”, si intende in un ruolo<br />
subordinato, sottomesso, come succedeva al tempo del nazifascismo. I tempi sono<br />
apparentemente cambiati, ma non ci accorgiamo di essere ancora immersi in quella cultura<br />
tutte le volte che diamo per scontato che gli uomini devono essere uno o più gradini al di<br />
sopra nella scala gerarchica, rispetto alle donne, in qualsiasi ambito lavorativo.<br />
Nel film cui ho accennato, il fidanzato ricorda a Jane: “Quando si è soli, si diventa<br />
facilmente un bersaglio. Sono molti a sperare che tu fallisca”. Ma Jane ce la farà a superare<br />
tutte le prove, come Giovanna d’Arco che guida un esercito alla vittoria sul campo di<br />
battaglia. Per avere l’indole del condottiero - guida che indica con determinazione la via da<br />
79
seguire - non è necessario, né sufficiente, nascere uomini.<br />
Il vero leader non si limita a gestire, ma progetta e realizza le sue idee. Lo spazio<br />
ristretto, striminzito che gli uomini hanno concesso alle donne nella rappresentanza politica,<br />
in realtà, indica che gli uomini hanno da sempre considerato la cultura un appannaggio<br />
pressoché esclusivo degli uomini, salvo qualche piccolo spiraglio riservato alle donne, quel<br />
tanto che basta perché si possa dire che siamo in un regime democratico. A ben vedere,<br />
invece, gli uomini hanno esercitato una dittatura occulta in cui, pur essendo in minoranza - in<br />
Italia rappresentano il 47% dell’elettorato - hanno continuato imperterriti a decidere anche per<br />
le donne, sostituendosi a loro come se (esse) non avessero né l’intelligenza né il carattere per<br />
decidere da sole. Gli uomini hanno sempre preso le decisioni e poi hanno chiesto alle donne<br />
di votarle. Ma non le hanno coinvolte nel processo decisionale, se non in casi sporadici o<br />
“ambigui” in cui poteva sorgere il dubbio che il processo decisionale femminile fosse in realtà<br />
guidato da pressioni o “convinzioni” maschili, come nel caso di Gertrud Scholtz-Klink, le cui<br />
responsabilità all’interno delle strutture di partito furono effettivamente notevoli nel corso<br />
degli anni Trenta, ma fu sempre sottoposta alle élites maschili a conferma del ruolo subalterno<br />
della donna nel Terzo Reich. Come si ricorderà dall’esposizione del volume “Barriere<br />
ideologiche e democrazia”, proprio perché la Scholtz-Klink accettò questo stato di cose, le fu<br />
possibile fare una brillante carriera a scapito di altre colleghe meno disposte a rimanere in<br />
posizione di inferiorità. La Scholtz-Klink accettò di operare in una cultura dualistica e<br />
fortemente gerarchica, mentre l’emergente cultura delle donne propone l’abbattimento del<br />
pregiudizio sessista, che contrappone le donne agli uomini e le colloca in un gradino inferiore<br />
nella gerarchia sociale. Le donne di oggi vivono nella stessa cultura degli uomini e<br />
partecipano allo scambio dei ruoli, pur introducendo una modalità femminile di affrontare i<br />
problemi e risolverli, da cui forse gli uomini hanno ancora molto da imparare, perché in<br />
definitiva, molto spesso, si rivela più efficiente ed efficace. Le donne di oggi non vogliono<br />
solo gestire le situazioni problematiche, ma anche progettare soluzioni originali e realizzare i<br />
progetti. Se guardiamo la realtà politica contemporanea, invece, salvo qualche caso isolato<br />
come Margaret Thatcher, il ruolo delle donne in politica si è ridotto all’esecuzione dei<br />
“compitini” che venivano loro affidati dagli uomini. Un partito che esprima veramente la<br />
“migliore” cultura delle donne non è mai esistito, in quanto le donne sono sempre state<br />
pilotate da uomini che dettavano le “regole” del gioco e i contenuti. Anche la Scholtz-Klink<br />
accettò e sottolineò sempre con forza la necessità che la donna fosse sottomessa all’uomo nei<br />
rapporti familiari e interpersonali e al Führer in ogni momento della sua vita.<br />
La caratteristica gestionale e non progettuale della dirigenza della Scholtz-Klink, alla<br />
80
testa di una colossale organizzazione di massa che presiedeva a tutti gli aspetti della vita delle<br />
donne tedesche, ne fa un’interprete passiva del mondo femminile, in uno stato di sudditanza<br />
rispetto alla visione della realtà degli uomini. La Scholtz-Klink non è stata una protagonista<br />
consapevole del ruolo di protagonista delle donne nella società. La sua carente<br />
consapevolezza critica e autocritica, oltre che culturale, emerge anche dal fatto che dopo il<br />
crollo del Terzo Reich rimase una delle più fanatiche e ingenue sostenitrici del nazismo,<br />
secondo la testimonianza emersa nel suo libro pubblicato nel 1978 La donna nel Terzo Reich.<br />
La cultura autoritaria e fortemente gerarchica di cui si è imbevuta le ha procurato un “filtro<br />
deformante” inamovibile, che le ha impedito di cogliere tutti i risvolti negativi del nazismo e<br />
il ruolo strumentale di procreatrice di figli svolto dalla donna nel regime nazista.<br />
Il mito della sottomissione all’uomo, e non della collaborazione paritetica con lui, ha<br />
incrementato la passività mentale delle donne, che non si sono mai date veramente da fare per<br />
governare il mondo in un modo che non seguisse pedissequamente la modalità tipicamente<br />
maschile di trattare i problemi.<br />
Dove c’è un rapporto da subalterno a superiore non ci può essere dialogo, ma solo<br />
un’esecuzione di ordini, all’insegna del “signorsì”. Non c’è stimolazione della creatività e<br />
dell’autonomia di giudizio, ma solo svolgimento di compitini da allievi da irreggimentare in<br />
un ordine astratto tanto arido quanto improduttivo. In effetti, l’ordine deve essere finalizzato<br />
ad incrementare contemporaneamente la dimensione della creatività, della diversificazione,<br />
come un insieme di strumenti musicali che, pur offrendo suoni diversi, seguono uno spartito<br />
in modo armonico e coordinato dal direttore d’orchestra. Il livellamento tipico delle dittature,<br />
che abbattono le diversità, non può trovare posto nella democrazia di destra.<br />
L’antifascismo c’è, se c’è il fascismo. Se i valori della libertà e dell’opposizione alla<br />
dittatura fossero ormai così acquisiti, non ci sarebbe ancora tanta animosità nel definire<br />
“fascista” chiunque affermi con coraggio l’esigenza di ordine. Occorre tuttavia intendere a<br />
quale tipo di ordine ci si riferisce. C’è l’ordine “orchestrale”, rispettoso della diversità, e<br />
stimolatore della creatività e c’è l’ordine militaresco, da quadri militari, che ingabbia<br />
inesorabilmente lo spirito innovativo. Il nuovo ordine proposto dalle donne è quello creativo<br />
degli orchestrali e dei direttori d’orchestra che, pur rispettosi dell’originalità individuale,<br />
richiedono coordinamento e armonizzazione.<br />
Credo che sia giunto il momento di dare spazio alla cultura delle donne nell’affrontare<br />
il grande tema dell’integrazione dell’Europa Unita, abbattendo le barriere del pregiudizio in<br />
una dimensione di ordine rispettoso della diversità. Altre tematiche chiedono il contributo<br />
originale delle donne e nei prossimi volumi le esporrò più dettagliatamente.<br />
81
La crescita<br />
Nel progetto scolastico precedentemente descritto viene inserito un fascicolo che<br />
riguarda la crescita, in cui il bambino viene invitato a raccogliere ciò che lo riguarda.<br />
Periodicamente, le insegnanti invitano il bambino a portare a casa il fascicolo, in modo che i<br />
genitori possano intervenire, discutendo con lui e ascoltandolo, mettendosi in gioco. Il fatto<br />
che qualcuno dei familiari osservi quello che il bambino sta facendo e lo ascolti educa il<br />
bambini e la famiglia al dialogo, essenziale per una armonica evoluzione della personalità e<br />
per la formazione di un’identità evoluta e completa.<br />
Per quanto concerne il materiale utilizzato, le immagini sono rappresentate da disegni,<br />
in quanto si è constatato che le immagini reali hanno un impatto emotivo molto forte che può<br />
risultare disturbante. Le immagini realistiche e dettagliate non sono necessarie sul piano<br />
psicologico ed emotivo. Il bambino ha l’esigenza di conoscere le immagini del proprio corpo<br />
e del percorso evolutivo, non dei minuti dettagli riguardanti lo svolgimento di un rapporto<br />
sessuale. Se chiede insistentemente come si svolge, invece di dare una risposta immediata, è<br />
opportuno farlo parlare e ascoltarlo, in modo che sappia che c’è qualcuno che lo ascolta e non<br />
lo sgrida. Se domanda i particolari, significa che “sa” già perché ha visto qualcosa in un film,<br />
nella pubblicità o in altri contesti e la risposta va pilotata cercando di capire non quello che<br />
chiede, ma qual è il problema che lo ha portato a formulare la domanda.<br />
In breve, non è necessario far vedere tutto e dire tutto, anche in base alla constatazione<br />
che l’eccessiva esplicitazione alla fine produce un danno rispetto al desiderio. La patologia<br />
del desiderio è determinata dall’eccessiva esposizione agli stimoli sessuali, mentre un tempo<br />
la patologia dell’inibizione era determinata dal tabù, dalla proibizione. Sia il pregiudizio<br />
“inibitorio” sia quello “esibizionistico” sono dunque deleteri per un armonico sviluppo della<br />
sessualità.<br />
Per quanto concerne l’illustrazione dell’anatomia dell’apparato genitale, serve a<br />
mostrare l’evoluzione del loro organo genitale, da come è a come sarà al momento dello<br />
sviluppo completo. Per fornire ai bambini una immagine metaforica degli organi genitali, è<br />
stata disegnata una casetta con le porte per indicare le grandi labbra e due porticine, per le<br />
piccole labbra che si aprono davanti ad una tenda fine, per indicare l’imene. Sopra la porta<br />
d’entrata c’è un campanello, il clitoride, quale elemento che dà un segnale: stimolato, dà<br />
piacere. Il posto d’entrata della cameretta è la vagina. L’organo maschile è stato disegnato<br />
come un piccolo missile interplanetario, il pene, un grande elmo, un forellino per l’uretra, che<br />
è riparata dietro un velo di pelle, il prepuzio.<br />
82
IL SUPERAMENTO DEL PREGIUDIZIO NELL’EDUCAZIONE DEI BAMBINI<br />
Si parla finalmente di potenza generativa femminile e di potenza maschile diversa, che<br />
va verso l’esterno. Si tratta di due forme diverse di potenza, non di un soggetto che ha la<br />
potenza, mentre l’altro ne è privo.<br />
Il patriarcato sotto accusa.<br />
In una cultura patriarcale improntata al predominio del maschio, la connotazione<br />
attribuita alla potenza è orientata al “possesso di qualcosa” di cui l’altro è privo. Uno ha<br />
qualcosa e l’altro non ha niente, per cui è inferiore. Non c’è rapporto dialogico e paritetico in<br />
cui l’altro ha qualcosa di diverso e un “potere diverso”. In una cultura in cui imperava una<br />
relazione dominante/dominato, e le donne venivano educate alla sottomissione nelle relazioni<br />
sociali, non ci poteva essere che un “vincente” e un “perdente” già nei “presupposti<br />
anatomici”. Ricordiamo, infatti, che per Sigmund Fr<strong>eu</strong>d, vissuto nell’800, la donna è “un<br />
uomo castrato”, che ha “invidia del pene maschile”.<br />
Il 9 o 10 febbraio - non ricordo la data esatta - andando a fare visita ai miei genitori<br />
all’ora di pranzo, casualmente ascoltai un’intervista su Rai Tre ad Antonio De Angelis, che,<br />
“pur non avendo più l’età della ribellione” - secondo la sua dichiarazione - ha scritto il libro<br />
“Un prete sposato. Testimonianza di una sofferta ribellione”.<br />
L’intervista era inserita in un tema intitolato “La Chiesa e le donne”. Mi colpì la<br />
dichiarazione di De Angelis: “Non sono mai stato tentato da una donna in vita mia”. In effetti,<br />
nella Bibbia sta scritto: “Ognuno è attratto dalla propria concupiscenza”. Quando si sente<br />
parlare di “seduzione” femminile, negli ambienti ecclesiastici si tende ad identificare la donna<br />
con la tentazione del demonio. Il passaggio dalla similitudine “la donna è come il demonio<br />
che tenta la virtù” alla metafora “la donna è il demonio” è molto breve. La separazione<br />
dell’ambiente ecclesiastico dal mondo femminile, originata, secondo la percezione di molti,<br />
dalla sessuo-fobia, e la costituzione di una cultura esclusivamente maschile e gerarchica ha<br />
conferito alla Chiesa un’impronta patriarcale e autoritaria, dominata dalla diffidenza nei<br />
confronti della donna.<br />
Ciò non significa “diventare protestanti”, secondo una mentalità dualistica e<br />
assolutistica per cui “chi non è con me è contro di me”. Ben lungi dall’assumere questo<br />
atteggiamento e apprezzando il ruolo assunto dalla Chiesa nel far conoscere il Vangelo di<br />
Cristo, constatiamo che il pregiudizio imperante nella gerarchia ecclesiastica nei confronti<br />
delle donne e del mondo femminile presumibilmente è originato dal fatto che le donne sono<br />
83
percepite come outgroup e non come ingroup. Padre Pio, un grande estimatore delle donne e<br />
delle loro risorse interiori, non a caso fu “perseguitato” dalle istituzioni ecclesiastiche che<br />
diffidavano del corteo di donne di cui si circondava. Il Papa Giovanni XXIII ebbe parole dure<br />
nei suoi confronti, alludendo anche a questo fatto. Queste due grandi figure di uomini e di<br />
santi si differenziavano nettamente nella loro visione del mondo e delle donne. Non è forse<br />
giunto il momento che la percezione delle donne da parte della Chiesa sia meno difensiva e<br />
più proiettata verso la loro inclusione nell’ingroup? Perché le donne non vengono percepite<br />
sullo steso piano e allo stesso livello degli uomini, senza barriere gerarchiche di dominazione<br />
in cui il maschio è dominante e la femmina è dominata e deve obbedire agli ordini? Questa è<br />
la struttura tipica del patriarcato e va rivista alla luce di un dialogo costruttivo tra cultura<br />
maschile e cultura femminile.<br />
Questo dialogo rappresenta un invito non solo nei confronti della Chiesa e all’interno<br />
della Chiesa stessa, ma anche negli ambienti della cultura cosiddetta laica, in cui la donna<br />
spesso è stata vista in modo più svilito e repressivo che negli ambienti religiosi cristiani.<br />
L’Italia è al penultimo posto in Europa per la presenza delle donne in politica, con il<br />
9,6%, contro il 45% della Svezia. Il problema è a monte, con un numero bassissimo di<br />
candidati? Oppure è frutto di una cultura maschile in cui le candidature sono fatte dai partiti,<br />
che in Italia sono notoriamente maschilisti?<br />
La ridotta percentuale di donne in politica non riflette forse la scarsa considerazione di<br />
cui godono le donne in Italia, per cui i problemi delle donne che lavorano, con l’utilizzo di<br />
servizi e di orari che consentano di accudire la famiglia, sono stati estromessi dalla sfera di<br />
interessi dei maschi? L’Ulivo, quando era al governo, non ha affrontato questa questione,<br />
preferendo le tematiche assistenziali a quelle per lo sviluppo, attinenti alla politica per la<br />
famiglia.<br />
Non dimentichiamo che colui che ha veramente riscattato la donna dalla sua<br />
condizione di “oggetto sessuale” e di servitù nei confronti dell’uomo è stato Gesù. Una lettura<br />
attenta del Vangelo può farci scoprire che l’Uomo giusto era anche uno privo di barriere<br />
pregiudiziali, che considerava le persone in quanto individui e non in quanto appartenenti a<br />
gruppi o a sessi diversi.<br />
Viceversa, un bell’esempio di visione pregiudiziale delle donne è costituito proprio da<br />
Sigmund Fr<strong>eu</strong>d. In tutti i miei libri ho messo sotto esame critico l’ottica di Fr<strong>eu</strong>d,<br />
estremamente pregiudiziale e frutto del “filtro deformante” con cui egli guardava la realtà.<br />
Non essendo entrato in contatto diretto con altre culture e civiltà, come ad esempio Carl<br />
Gustav Jung, è rimasto intrappolato negli schemi culturali della Vienna del suo tempo e ha<br />
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elaborato le sue teorie in conformità con tali schemi prefissati e pregiudiziali.<br />
Tutto ciò che è detto, è detto da un osservatore, ci spiegano Maturana e Varela (1985)<br />
e ogni storia, sia planetaria sia personale, o entrambe, è detta da un narratore. La conoscenza<br />
del sistema di osservazione appare in un dato tempo e in un dato spazio. Noi ci creiamo<br />
insieme al nostro ambiente dando vita a ciò che Morin (1994) chiama auto-eco-<br />
organizzazione, un riconoscimento dell’unitas multiplex (unità molteplice) dialogica dell’Io e<br />
dell’ambiente che interagiscono nel tempo. Noi stiamo creando un mondo che ci crea.<br />
Camminando, tracciamo un sentiero.<br />
Gli esseri umani diventano tali in relazione, piuttosto che restare essenze statiche, e<br />
quindi il nostro atteggiamento verso gli altri può assumere una sfumatura molto diversa. Gli<br />
studiosi hanno esplorato il fenomeno dello choc culturale e la destrutturazione dei normali<br />
schemi di riferimento che ne consegue. L’impatto con una nuova cultura equivale ad uno choc<br />
comunicazionale, utilizzato dagli ipnologi per accedere alle risorse dell’emisfero destro del<br />
cervello. Lo choc culturale, l’incontro con ciò che è diverso, è potenzialmente creativo, in<br />
quanto conduce ad una nuova comprensione di noi stessi, della nostra cultura e del modo in<br />
cui siamo modellati dalla nostra cultura. Comprendiamo noi stessi in relazione e diventiamo<br />
noi stessi in relazione. Il problema diventa allora il tipo di relazione.<br />
Possiamo mettere da parte i presupposti di superiorità o inferiorità e rivalutare le<br />
azioni e gli avvenimenti lungo la storia. Si delineano allora due sistemi fondamentalmente<br />
diversi: uno chiuso, dai confini netti, statico, semplice e , tuttavia, timorosamente determinato<br />
a controllare e dominare il proprio ambiente. Questo sistema non accetterebbe mai la<br />
possibilità di una crescita personale in seguito alla sperimentazione della scossa culturale.<br />
L’altro sistema è aperto, complesso, dai confini permeabili, flessibile e in mutamento, in una<br />
mutua relazione con il proprio ambiente. Questo sistema cercherebbe attivamente le<br />
opportunità di esplorare gli effetti destabilizzanti e stimolanti sulle nostre potenzialità creative<br />
che le altre culture hanno nell’impatto con il nostro senso dell’Io. Barron (1958, 1968, 1995)<br />
ha sviluppato l’importante concetto di “forza dell’Ego”. Paradossalmente, egli suggerisce che<br />
l’ego forte può essere così sicuro di sé da sfaldarsi, forte abbastanza da diventare vulnerabile,<br />
chiuso abbastanza da essere aperto, in continuo sviluppo e crescita attraverso un inarrestabile<br />
processo di dialogo con il mondo, interpretandolo in continuazione, corteggiando attivamente<br />
il disordine per destabilizzare l’ordine esistente in modo da stabilire attraverso<br />
quell’interazione una nuova forma di organizzazione. Il dialogo e il paradosso sembrano<br />
essere al centro di questo processo creativo, un intrecciarsi di dualità che è possibile non<br />
venga risolto concettualmente, ma solo messo in atto al momento della scelta. L’incontro con<br />
85
altre culture può quindi essere visto come un incontro creativo, in cui noi creiamo la nostra<br />
esperienza, mentre le nostre mappe cognitive sono disorganizzate e ri-organizzate. Questa è<br />
un’opportunità per scartare gli stereotipi di quello che le possibilità umane sono o non sono.<br />
Per connetterci al nuovo modo di presentare la sessualità maschile, di cui si è parlato<br />
in precedenza, si può constatare il passaggio da un’idea di sopraffazione e aggressione ad<br />
un’idea di “potenza condivisa”, in cui entrambi i partner possiedono un genere diverso di<br />
espressione della potenza.<br />
Esiste un modo alternativo di relazionarsi, oltre il dominio. La possibilità di spostarsi<br />
oltre la dialettica di dominazione va proposta innanzitutto nell’ambito della scuola<br />
elementare. Una mamma presente alla riunione dei genitori ha posto l’obiezione: “Ma mio<br />
figlio davanti a queste metafore si mette a ridere!”. Magari ci sono bambini che hanno visto<br />
disegni dettagliati o fotografie realistiche, per cui potrebbero ridere di un materiale da<br />
“cartone animato”. La risposta dello psicologo-insegnante è stata adeguata: in tutti i casi in<br />
cui i bambini ridono dei disegni o di ciò che viene detto, il gruppo funge da contenitore di<br />
questo tipo di emotività, che va accolta e non “rimproverata”.<br />
La presentazione della riproduzione è orientata verso le fasi della gravidanza. La<br />
fecondazione va contestualizzata, magari partendo da ciò che succede nel mondo animale e<br />
vegetale, che i bambini hanno già osservato in natura, come l’accoppiamento tra insetti o<br />
mammiferi, o in documentari televisivi. Si può raccontare, senza profondersi nei particolari e<br />
senza equipaggiarsi di raffigurazioni “documentatissime”, che l’organo genitale femminile<br />
entra in quello maschile. In altri casi basta parlare dell’incontro dello spermatozoo con<br />
l’ovulo, tenendo presente che nella maggior parte dei casi la richiesta effettiva del bambino<br />
domanda su come avviene il rapporto sessuale.<br />
Quando il bambino pone delle domande in proposito, bisogna individuare i dubbi e<br />
rispondere basandosi sui suoi dubbi. Spesso il bambino vuole sapere come la pensa il genitore<br />
o l’insegnante al riguardo. Chiede “un orecchio che ascolta”, non una risposta immediata e<br />
tantomeno precisa e dettagliata. È utile chiedersi: come mai lo sta chiedendo ora? Vuole solo<br />
osservare l’impatto emotivo del genitore? Sta studiando il genitore o la materia su cui<br />
interroga? Molte volte i nostri figli ci pongono domande del tutto al di fuori del contesto in<br />
cui stanno vivendo. Ricordo che mio figlio, soprattutto nei primi anni delle elementari, mi<br />
poneva “domande ad effetto” nei momenti più impensabili, poco prima di uscire dalla porta di<br />
casa alla mattina, in corridoio, nella fretta di infilarmi il cappotto controllando l’orologio per<br />
accompagnarlo in tempo a scuola. Capivo che non potevo dirgli: “Te lo spiegherò un’altra<br />
volta”. Raccoglievo tutte le mie idee e magari mi veniva una risposta “creativa”, proprio<br />
86
perché non avevo tempo di prepararla razionalmente.<br />
Purtroppo, il progetto, pur essendo partito con le migliori “intenzioni”, si è arenato<br />
nell’attuazione pratica, come mi ha spiegato una maestra durante la serata conclusiva della<br />
quinta elementare, perché avrebbe dovuto essere inserito in un programma più ampio di<br />
educazione relazionale che coinvolgesse i genitori nella gestione dell’iniziativa. Parlare ad<br />
un’intera scolaresca di argomenti ritenuti imbarazzanti, una o due generazioni fa, può<br />
incontrare difficoltà di ricezione da parte degli allievi, degli insegnanti o dei genitori.<br />
L’approccio più adeguato al problema, che è stato adottato in un’altra scuola fin dalla prima<br />
elementare, sembra essere quello dell’educazione relazionale, in cui si possa inserire anche il<br />
capitolo della sessualità, parlando dell’argomenti a piccoli gruppi selezionati in base alla<br />
sensibilità e al livello di maturazione.<br />
In definitiva, la pedagogia come formazione dell’identità sottolinea chi si è in<br />
relazione a ciò che si fa, con quelle capacità (mappe e strategie mentali) e convinzioni, in quel<br />
certo ambiente. L’identità rappresenta il senso di sé, del proprio ruolo in relazione ai sistemi<br />
più ampi dei quali siamo parte (coppia, famiglia, comunità, ecc.) e del proprio scopo o<br />
“missione”. I valori e convinzioni costituiscono giudizi e valutazioni su di sé, sugli altri e sul<br />
mondo che motivano ad agire incoraggiando o inibendo le capacità e i comportamenti.<br />
Dai livelli dell’apprendimento ai livelli dell’esperienza e della comunicazione.<br />
Dal modello dei livelli logici dell’apprendimento di Bateson, Dilts deriva il modello<br />
dei livelli logici dell’esperienza e della comunicazione a cui si è accennato nel corso<br />
dell’esposizione. Il modello non nasce al tavolino, ma dall’osservazione empirica di ciò che le<br />
persone sperimentano e dal modo in cui comunicano. Intuitivamente, comprendiamo che vi è<br />
una differenza tra le azioni fisiche e le rappresentazioni mentali: un conto è immaginare di<br />
dare uno schiaffo a qualcuno, un altro è darglielo per davvero. Altrettanto intuitivo è il fatto<br />
che le proprie convinzioni possono facilitare od inibire lo sviluppo o l’utilizzo delle proprie<br />
abilità: si dice infatti comunemente che “volere è potere”.<br />
La strada che percorro la mattina con la bicicletta fa parte dell’ambiente.<br />
Gli specifici movimenti che seguo mentre pedalo, osservo ecc., sono i miei<br />
comportamenti.<br />
Coordinare e integrare l’osservazione della strada con la posizione del corpo, i<br />
movimenti, l’equilibrio, l’udito ecc. (il “programma” che guida i comportamenti) costituisce<br />
la capacità di guidare la bicicletta.<br />
Andare in bicicletta perché è piacevole, salutare o ecologico è un aspetto delle mie<br />
87
convinzioni e dei miei valori.<br />
Considerarmi uno sportivo, un salutista o un ecologista è un aspetto della mia identità<br />
e implica una combinazione di tutti i precedenti livelli.<br />
La relazione gerarchica tra i livelli (il modello va letto capovolto, cioè con l’Ambiente<br />
in basso e l’Identità in alto) implica che il cambiamento ad un dato livello sia reso possibile<br />
dall’attivazione del livello sovraordinato. Ad esempio, agire diversamente, cioè cambiare<br />
comportamento, richiede l’intervento del livello delle capacità, poiché occorre selezionare o<br />
modificare il comportamento in funzione non solo del risultato che si vuole ottenere, ma<br />
anche del contesto in cui si agisce.<br />
La relazione tra i livelli è a due vie: se i livelli superiori “informano” e “controllano”<br />
l’attività dei livelli sottostanti, questi “supportano” e “concretizzano” i livelli sovrastanti.<br />
Un’immagine fornita da Dilts è quella di un albero i cui rami si estendono verso l’alto, ma<br />
sono sostenuti e “resi possibili” dalle radici che affondano nel terreno.<br />
Alcuni discutono se vi sia una o più identità. La parola identità è solo un’etichetta<br />
verbale per indicare un tipo di esperienza che consiste in una percezione globale di sé, del<br />
proprio ruolo e scopo, e che le persone spesso rappresentano in modo metaforico. È tipico che<br />
l’identità venga rappresentata con sfaccettature differenti, anche in relazione ai ruoli sociali<br />
che ognuno riveste (ad esempio: figlio, professionista, genitore ecc.), come pure che vi sia un<br />
senso di sé complessivo, quasi un “filo rosso” capace di integrare tutti questi aspetti in una<br />
mappa di tipo olistico.<br />
A proposito del livello “spirituale”, che trascende i livelli in precedenza elencati, si<br />
tratta del riconoscimento del fatto che le persone hanno, in certi momenti, l’esperienza di<br />
essere parte di qualcosa che va oltre loro stessi e che abbraccia il sistema più ampio. In questo<br />
senso, secondo il modello di Dilts, anche sentirsi parte integrante di una famiglia o di una<br />
collettività è un’esperienza di tipo “spirituale”.<br />
Un esempio può aiutare a chiarire questi concetti. In un’intervista, madre Teresa di<br />
Calcutta definisce se stessa “una piccola matita nella mano di Dio”. È facile intuire che una<br />
simile affermazione esprime il senso profondo di sé (chi sono?) che va oltre le semplici<br />
convinzioni (il livello logico sottostante) e che riassume lo scopo di tutta una vita. La frase di<br />
Madre Teresa comunica anche qualcosa della sua “visione” (il livello logico sovraordinato): è<br />
la “mano di Dio” che conferisce il mandato alla “matita”, che è dunque solo il mezzo per un<br />
fine più grande.<br />
In altri casi, il senso dell’identità può semplicemente coincidere con la percezione del<br />
proprio ruolo in relazione al sistema del quale si è parte. Ad esempio, un manager d’impresa<br />
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potrebbe assimilare il proprio ruolo a quello di un “direttore d’orchestra”, un altro potrebbe<br />
invece vedersi come un “condottiero”. È evidente che i due saranno ispirati da una “visione”<br />
differente del sistema in cui operano, tenderanno ad agire in base a convinzioni e valori<br />
differenti e attribuiranno importanza a capacità differenti.<br />
Il modello dei livelli logici di Dilts rende conto del fatto che le persone,<br />
intuitivamente, distinguono - ma spesso anche confondono, il che può essere causa non solo<br />
di malintesi, ma anche di disturbi e patologie - aspetti diversi della propria esperienza. Un<br />
ulteriore contributo del modello sta nel descrivere le relazioni n<strong>eu</strong>ro-linguistiche tra questi<br />
diversi aspetti, permettendo di capire come meglio intervenire per facilitare interventi di<br />
cambiamento efficaci e durevoli.<br />
In ambito scolastico, l’apprendimento va sostenuto anche sul piano della cooperazione<br />
tra allievi, tra insegnanti e tra insegnanti e genitori, in vista della formazione di un’identità<br />
solida ed equilibrata.<br />
89
INDIVIDUALISMO O COOPERAZIONE?<br />
I terap<strong>eu</strong>ti scoprono che molti adulti non conoscono la propria anatomia genitale, in<br />
quanto non si sono costruiti un’immagine mentale dei propri organi. In assenza di una<br />
legislazione che sorregga questo tipo di intervento, la scuola ha ritenuto opportuno sopperire<br />
alle carenze legislative, con l’appoggio dei genitori. È auspicabile che questa iniziativa venga<br />
estesa su tutto il territorio nazionale , sempre richiedendo la cooperazione attiva dei genitori,<br />
che nel dialogo con gli insegnanti e con il bambino costituiscono preziosi stimolatori di una<br />
crescita sana e armonica. Il patrimonio di una nazione è rappresentato da individui con una<br />
solida identità e dotati di autonomia di giudizio, spirito critico e solidarietà verso gli altri.<br />
Occorre tuttavia precisare che, focalizzandoci quasi esclusivamente sulle singole<br />
realizzazioni dell’individuo, possiamo perdere la capacità di riconoscere e di ricompensare<br />
quelle di squadra, di associazioni e di gruppi creativi. Oggi non siamo forse più in grado di<br />
riconoscere il trionfo della collaborazione e nemmeno la possibilità di una collaborazione<br />
umana creativa in cui riuscire a trascendere la dicotomia di parte/tutto, individuale/collettivo,<br />
capo/seguace, ma anche di squilibrio/equilibrio, armonia/conflitto, ordine/disordine.<br />
Lo studio delle dimensioni sociali della creatività richiede un’attenzione verso il<br />
contesto e l’interazione, invece dell’isolamento delle singole variabili e suggerisce anche la<br />
necessità di una ricerca interdisciplinare di collaborazione indirizzata verso fattori sociali,<br />
politici, economici, ecc. Il problema non è solo quello di opporre l’individualismo al<br />
comunitarismo, ma di opporre la partnership alla dominazione o androcrazia. Le donne<br />
sembrano più predisposte a sostenere la collaborazione creativa in un progetto comune, anche<br />
se la creatività sociale non viene incoraggiata dal contesto sociale.<br />
Sia che si tratti di realizzazioni dell’individuo o di squadra, nella formazione<br />
dell’identità, i valori non hanno prezzo e l’attenzione esclusiva per il Prodotto Interno Lordo,<br />
il guadagno e l’economia sarà fonte di grande malessere individuale e sociale.<br />
Le iniziative di “scoperta di se stessi” che aiutano a crescere fin dalle scuole<br />
elementari e materne, utilizzando il patrimonio di conoscenze della moderna Psicologia e<br />
insegnando ai bambini a distinguere tra i vari livelli evolutivi del Guerriero, da quello<br />
negativo a quello più elevato, costituiscono la migliore azione preventiva contro il radicarsi<br />
del pregiudizio. È auspicabile che la legislazione italiana e quella <strong>eu</strong>ropea diventino sensibili<br />
a questo orientamento di prevenzione del malessere delle future generazioni.<br />
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Viaggio evolutivo e pregiudizio.<br />
Nell’ambito del rispetto dell’individualità e delle differenze in ambito scolastico, fa<br />
riflettere anche il caso, già riferito in altra sede, di Fatima Mouayche, 40 anni, divorziata e<br />
mamma di due bambini, che dopo aver seguito un corso per educatrici di prima infanzia<br />
avrebbe dovuto fare il tirocinio nell’asilo nido di Samone (Ivrea). Tuttavia le è stato negato il<br />
permesso perché la donna, di origine marocchina, indossava il velo e secondo i genitori dei<br />
bambini avrebbe potuto spaventare i piccoli.<br />
riguardo.<br />
D’altro lato, in Francia è già in vigore una legge che detta precise normative al<br />
La legge sul velo islamico - approvata dal Parlamento francese nel marzo 2004 -<br />
proibisce l’esibizione ostentata di simboli religiosi - non solo il velo islamico, ma anche<br />
grandi croci, kippa ebree, turbanti - nelle scuole pubbliche del Paese, in nome del principio<br />
della laicità. L’approvazione definitiva è stata votata a larga maggioranza dal Senato di Parigi<br />
- che non ha modificato in nulla il testo già votato nella Camera dei deputati - contando<br />
sull’appoggio tanto dell’Unione per un Movimento Popolare (UMP, la formazione di<br />
centrodestra del presidente Jacques Chirac) come del Partito Socialista, principale forza<br />
dell’opposizione. Difendendo la legge - che è applicata a partire dall’inizio dell’anno<br />
scolastico 2004-2005 in Francia, in settembre - davanti al Senato, il ministro dell’istruzione<br />
nazionale, Luc Ferry, ha sottolineato che “la nostra visione della laicità non è contro le<br />
religioni: ognuno ha diritto all’espressione della propria fede, a condizione che all’interno<br />
delle scuole della Repubblica rispetti le leggi della Repubblica stessa”.<br />
Le reazioni alla vicenda di Fatima Mouayche, riportate dal Corriere della Sera del 25<br />
marzo 2004, richiamano l’attenzione sulle molteplici sfaccettature da cui può essere vista la<br />
questione dell’inserimento degli immigrati in una realtà diversa da quella in cui sono<br />
cresciuti.<br />
Il ministro dell’Istruzione Letizia Moratti osserva: “Non concedere a un’insegnante di<br />
prestare la sua opera per motivi formali non aiuta i bambini a crescere in una società sempre<br />
più multiculturale e multietnica”. Il vice-premier Gianfranco Fini rileva: “Chi ha preso la<br />
decisione di allontanate quella maestra perché portava il velo appartiene alla categoria dei<br />
fessi”. Il vescovo di Ivrea monsignor Arrivo Miglio puntualizza: “Il cammino di<br />
secolarizzazione compiuto dalla nostra società occidentale ha segnato indubbiamente una<br />
crescita umana e culturale a vantaggio della dignità della persona umana e sarebbe grave<br />
provocare involuzioni che non gioverebbero a nessuno”.<br />
Il giorno successivo all’episodio era intervenuto anche il ministro dell’Interno<br />
91
Giuseppe Pisanu dicendo che “il velo islamico, portato dignitosamente e senza alcuna<br />
ostentazione, è soltanto il simbolo innocuo di una identità culturale e religiosa che merita tutto<br />
il nostro rispetto”. Il ministro invitava i responsabili dell’asilo di Samone, che avevano negato<br />
il tirocinio alla donna, a rendersi conto dell’errore e a porvi rimedio. Le sue dichiarazioni<br />
hanno trovato dissenso solo nell’<strong>eu</strong>roparlamentare leghista Mario Borghezio, che ha parlato di<br />
presa di posizione “fortemente stonata. Si tratta di un’ingerenza centralista in merito a una<br />
decisione che arriva dal territorio. Stupisce che il ministro intervenga su valutazioni legittime<br />
delle istituzioni scolastiche e dei genitori dell’asilo: l’ultima parola spetta sempre ai genitori”.<br />
Fatima, comunque, riprenderà a lavorare. Non al nido di Samone, ma in quello Olivetti<br />
di Ivrea. Lo ha deciso il sindaco, che ha preferito concludere con queste parole la vicenda:<br />
“Credo che si sia trattato soprattutto di un’incomprensione”.<br />
Fatima Mouayche, musulmana praticante, indossa un velo chiaro, el higiab, in quanto<br />
il Corano vieta alle donne di stare a capo scoperto davanti a maschi adulti che non siano il<br />
marito o parenti. Nell’intervista riportata dallo stesso quotidiano la donna esclama: “Ma non<br />
lo portavano anche le vostre nonne?” Certo! Altri tempi! - osserverebbe qualcuno -. Le nostre<br />
nonne dicevano che la donna è nata per il piacere dell’uomo e per servirlo, perché così era<br />
stato insegnato loro. Oggi riteniamo che i rapporti di dominanza/sottomissione siano tipici di<br />
una cultura nazista ed è facile rinvenire molte analogie tra il fondamentalismo islamico che<br />
copre le donne e le asservisce all’uomo e la cultura del nazismo, che sottomette le donne e le<br />
relega in cucina e a fare figli, come abbiamo messo in luce nel capitolo sul nazismo presente<br />
nel volume: “Barriere ideologiche e democrazia”.<br />
La donna è stata annullata nella sua identità dal nazismo, cha la considerava in<br />
funzione dell’uomo. Il velo è simbolo dell’annullamento della sua identità in quanto donna,<br />
per essere considerata solo come moglie. Nel nazismo, sullo stesso piano, veniva chiesto alle<br />
donne di non usare cosmetici per il viso e di portare un abbigliamento semplice,<br />
regolamentando anche il loro modo di presentarsi, reprimendone la libera espressione e la<br />
libera scelta.<br />
Pertanto, il velo islamico non è tanto il simbolo di un’identità culturale e religiosa,<br />
quanto il simbolo dell’annullamento dell’identità femminile, per affermarne solo il suo essere<br />
in funzione dell’uomo.<br />
Possiamo dunque essere “tolleranti” nei confronti del velo, comprendendo quel<br />
significato che va al di là di un simbolo religioso, perché ci dà indicazioni sulla concezione<br />
della donna nell’islamismo.<br />
Ho conosciuto donne nate in Europa, figlie di madri islamiche, che non hanno mai<br />
92
portato il velo. Dovremo attendere che le future generazioni “<strong>eu</strong>ropee” comprendano il vero<br />
significato del velo che dicono di mettere per “libera scelta”. Come la donna nella nostra<br />
società si è affrancata almeno in parte dal “giogo nazifascista”, così è auspicabile che le nuove<br />
generazioni di musulmane che vivono in Europa si sintonizzino con una società che ha<br />
iniziato a considerare la donna per se stessa, e non solo in funzione del servizio e del piacere<br />
che può dare all’uomo.<br />
La signora marocchina pare anche favorevole alla poligamia in quanto “il Corano dice<br />
che se un uomo è in grado di mantenere più donne, dando a ognuna di loro lo stesso affetto, le<br />
può avere. Penso sia giusto: meglio quattro mogli piuttosto che una moglie e quattro amanti”.<br />
La libertà di opinione è sacrosanta anche in materia di poligamia. Tuttavia, l’adesione<br />
incondizionata ad un “credo” in base al “così vuole la mia religione”, “così dice il Corano”,<br />
“così vieta il Corano” è indicativa di un “io infantile” che si affida all’ipse dixit e all’autorità<br />
indiscussa di figure paterne. Ciascuno, naturalmente, è libero di restare nel livello evolutivo<br />
che reputa più consono alle sue esigenze. Il fatto di trasferire un modello culturale e religioso,<br />
senza alcun “filtro critico”, in una cultura diversa da quella di appartenenza, può dare<br />
sicurezza all’interessata, in quanto porta con sé il cosiddetto simbolo di una identità culturale<br />
e religiosa e delle proprie radici, ma può essere vissuto dalle persone circostanti come<br />
l’imposizione o irruzione di un mondo che per certi aspetti ci ricorda l’arretratezza culturale e<br />
la condizione femminile in cui vivevano le nostre nonne.<br />
Sentendo i vari commenti, la dicitura “fondamentalismo islamico” accosta<br />
implacabilmente il velo all’assunzione di una mentalità radicale. Il confronto è vitale ed<br />
essenziale e l’ansia collettiva non va liquidata sommariamente come xenofobia locale. Se è<br />
vero che la tolleranza è un antidoto al veleno della paura, dobbiamo anche chiederci se è<br />
possibile configurare un adattamento flessibile alla nostra realtà da parte di chi è vissuto in<br />
un’altra cultura, oltre ad un orientamento più duttile nell’accogliere l’immigrato.<br />
L’unilateralità delle posizioni non è mai produttiva ai fini di un dialogo costruttivo e ciò vale<br />
tanto per gli italiani quanto per gli immigrati.<br />
Ho conosciuto una giovane donna di 26 anni di origine algerina, nata e vissuta in<br />
Francia e trasferitasi in Italia da qualche anno. In relazione al fatto di Samone, ha<br />
commentato: “La signora marocchina non è stata discriminata. Si è sentita rifiutata, perché gli<br />
immigrati si sentono così. Avrebbe dovuto adattarsi a questa realtà, in cui si indossano<br />
grembiuli negli asili, e non si porta il velo. Le persone, da ambedue i lati, dovrebbero venirsi<br />
incontro reciprocamente e non esigere da un lato l’imposizione di un’usanza che qui è fuori<br />
dalla nostra realtà”.<br />
93
Laureata in lingue in Francia, la signora algerina ha esercitato il lavoro di segretaria in<br />
un’azienda, traendo soddisfazione e sicurezza dal lavoro, dopo essere stata indotta dalla<br />
madre divorziata a sposare un parente algerino del compagno con cui viveva. Sposatasi in<br />
Algeria con il rito tradizionale, si è trasferita in una grande città francese, dovendo mantenere<br />
il marito disoccupato, geloso, oppressivo e violento. Stanca di condurre questa vita infelice, si<br />
è separata da lui. In seguito si è innamorata di un francese di origine italiana, attraverso il<br />
quale ha conosciuto il Belpaese.<br />
Questa giovane donna ha intrapreso un percorso di affrancamento dalla tirannide<br />
culturale e familiare, diventando consapevole della sua dignità e delle sue risorse interiori, che<br />
ha espresso attraverso scelte autonome in campo lavorativo e sentimentale. Questa algerina ha<br />
frequentato l’ambiente di origine in Algeria quando andava a trovare i nonni e conosce le<br />
usanze e i significati. Nella città di sua madre, la seconda per grandezza in Algeria,<br />
generalmente non si usa il velo. E mi ha confessato che, dopo gli attentati di Madrid, in cui<br />
sono morti anche dei musulmani, non si ritiene più musulmana, pur credendo in Dio.<br />
Un esperimento, non un modello.<br />
Il progetto del liceo “Agnesi” di Milano per una classe di soli ragazzi islamici apre il<br />
dibattito a considerazioni sulla sua efficacia come reale strumento di integrazione.<br />
Secondo Giovanni Reale, pensatore di formazione cattolica, il rischio è la perdita della<br />
nostra identità. In un’intervista apparsa sul Corriere della Sera dell’11 luglio 2004, dichiara:<br />
“Innanzi tutto, una premessa: la mia opinione in merito alla proposta del liceo milanese è un<br />
po’ complessa. La riassumerei così: come esperimento potrebbe essere accettato, se il problema è che i<br />
genitori altrimenti non manderebbero a scuola i ragazzi. Ma c’è un pericolo molto forte: la perdita<br />
della nostra identità”. Non usa mezzi termini Giovanni Reale, docente di Storia della filosofia antica<br />
alla Cattolica di Milano.<br />
Da dove le deriva questa preoccupazione?<br />
“Il pericolo che intravedo è che si legga la questione sotto un profilo meramente politico, del<br />
politically correct, senza risalire alle radici culturale e spirituale. Una scuola chiusa per islamici, dove<br />
si insegna la cultura italiana, rischia di diventare un monstrum non costruttivo, il caos. T.S. Eliot lo ha<br />
spiegato molto bene: dobbiamo crescere accogliendo il diverso, ma possiamo farlo in modo positivo<br />
solo se torniamo alle nostre radici. Oggi mi preoccupa il nichilismo di fondo, non si crede a nulla e<br />
quindi tutto è uguale. Non è così”.<br />
Ma i ragazzi dell’Agnesi affronteranno i programmi ministeriali, come tutti. Dalle aule<br />
94
verrà solo tolto il crocifisso.<br />
“Appunto. Togliamo il crocifisso, ma poi che faremo con la Divina Commedia? Come faremo<br />
a spiegare loro Bach, Giotto? La nostra è una cultura con fortissime radici cristiane. Anche nelle sue<br />
manifestazioni anticristiane, essa è appunto anticristiana. Come potremo far capire questi aspetti se<br />
neghiamo il valore delle radici da cui sono nati?”.<br />
Quale può essere la soluzione?<br />
“Innanzitutto dovrebbero esserci professori molto preparati, che conoscono bene la nostra<br />
cultura ma anche quella d’origine dei ragazzi. Instaurare un colloquio costruttivo significa questo: io<br />
ho una mia identità, tu hai la tua, cerchiamo di comprenderci. Il diverso si capisce solo se c’è<br />
l’identico, il sé; che diverso è se come punto di partenza c’è il nulla? Solo così c’è il dialogo. Perché la<br />
cultura non si può imporre, ma va proposta; nel momento in cui si impone, perde la sua capacità di<br />
relazionare le identità. Ma in questo caso c’è una contraddizione di fondo”.<br />
Quale sarebbe?<br />
“La domanda è: come mai venite da noi e non volete accettare nulla che riguarda la nostra<br />
cultura? Se davvero questa è l’unica strada verso l’integrazione, si faccia l’esperimento, con la<br />
consapevolezza che in quanto tale è chiuso. Del resto, sarebbe assurdo trasformarlo in modello:<br />
quando questi ragazzi andranno all’università, che faremo? Creeremo facoltà distinte?”.<br />
Il dubbio, quindi, è forte.<br />
“Mi sembra fuori discussione che il progetto nasca in maniera ambigua. Altra questione è che,<br />
data la situazione, sia un esempio da provare (ad alcune condizioni, come l’obbligo di avere rapporti<br />
con i coetanei italiani, perché l’aula non diventi un ghetto). Ma vedo già a priori una serie di<br />
contraddizioni. Per questo lancerei un avvertimento a chi vuole cominciare: avete pensato a tutto<br />
questo? Chi insegnerà, cosa sa della cultura dell’altro? Quali sono i parametri del colloquio? Forse,<br />
prima di diffondere un esperimento così impegnativo, andrebbero trovate altre vie”.<br />
Riflettendo sull’opinione espressa dal docente intervistato, possiamo argomentare che<br />
“se il problema è che i genitori altrimenti non manderebbero a scuola i ragazzi” c’è da<br />
chiedersi se è “davvero colpa di quel povero crocifisso o siamo davanti a un altro esempio di<br />
razzismo al contrario”. Se la scuola deve essere un momento di aggregazione per tutti, a<br />
prescindere dalla razza e dalla religione, come mai questi ragazzi non possono frequentare le<br />
lezioni insieme con studenti italiani? Forse non possono accettare l’identità culturale italiana<br />
o milanese? E che cosa impedisce loro di accettarla? Cosa succederebbe se la accettassero? Si<br />
sentono minacciati nelle loro convinzioni, se si aprono a quelle degli altri? L’idea del preside<br />
di Milano forse intendeva creare un piccolo punto di partenza verso l’integrazione, visto che<br />
se non avesse creato una classe per soli musulmani, questi non avrebbero potuto o voluto<br />
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studiare.<br />
D’altro lato, il Patriarca di Venezia Angelo Scola che si è presentato ai 5mila giovani<br />
riuniti al Meeting di Rimini Comunione e Liberazione, ha parlato per due ore dell’attuale<br />
nostra civiltà. In un’intervista rilasciata a Il Gazzettino del 28 agosto 2004 il cardinale ha<br />
parlato di Nordest ed esposto il suo punto di vista in materia di integrazione. Alla domanda:<br />
“Nel suo intervento parla della necessità di trovare un critico equilibrio nell’inevitabile<br />
processo del ‘meticciato di civiltà’, ovvero in una società sempre più multietnica. Nel<br />
Nordest questo equilibrio è stato raggiunto?”, egli risponde: “Il ‘meticciato culturale’ è un<br />
fatto, piaccia o non piaccia. E i fatti generano processi: nel solo Veneto sono 100mila i<br />
ragazzi stranieri nelle scuole. Vuol dire che lì avviene una fusione inevitabile; questa deve<br />
però avvenire in un equilibrio critico, anzitutto grazie al popolo che ha un forte senso critico,<br />
poi le autorità istituzionali a vario livello devono considerare passo per passo cosa rispetta<br />
un’identità e cosa la frantuma, cosa le fa fare un passo verso un’accoglienza autentica”.<br />
“Allora ci sono dei limiti, a questa accoglienza?”. “E’ chiaro: è un processo storico che<br />
quindi dipende anche dall’uomo e dalla comunità degli uomini, non è ineluttabile”.<br />
La classe composta esclusivamente da studenti musulmani, dove le ragazze<br />
indosseranno il velo e dove non ci sarà il crocifisso sulla parete, non piace a nessuno.<br />
L’esperimento della classe islamica curato dalle autorità scolastiche locali e che partirà a<br />
settembre 2004 a Milano nel liceo di scienze sociali “Agnesi” è stato concordemente bocciato<br />
da forze politiche che in tema di istruzione si trovano da sempre su posizioni antitetiche.<br />
È un vero e proprio coro di no ad accogliere la decisione, mentre la Lega annuncia per<br />
il 12 luglio un’iniziativa di protesta durante la seduta del consiglio comunale. “O si cambia -<br />
minaccia il capogruppo della Lega al Comune, Matteo Salvini, che ha scritto una lettera al<br />
sindaco Gabriele Albertini e al ministro dell’Istruzione Letizia Moratti - oppure preside e<br />
provveditore sarà meglio che si dimettano”.<br />
Mario Giacomo Dutto, direttore scolastico regionale, spiega che si tratta solo di un<br />
primo risultato: l’obiettivo è l’integrazione, e non la creazione di un’enclave dell’islam in<br />
ogni istituto. Ma per tutti si tratta comunque di una partenza sbagliata. “Questa decisione -<br />
tuona Borghezio - rappresenta un passo avanti pericolosissimo verso l’islamizzazione della<br />
nostra società e un pesante vulnus nei confronti della nostra identità culturale e religiosa<br />
collettiva di società dalle radici profondamente cristiane”.<br />
Contraria alla divisione per religione dei ragazzi Alba Sasso: “La separatezza è sempre<br />
sbagliata perché in quel modo finiamo per consolidare le diversità”. “Mi domando se questo<br />
era l’unico modo di affrontare il problema - aggiunge la parlamentare DS -. Capisco tutta la<br />
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difficoltà dell’esperimento, ma che senso ha tenere in classe dei ragazzi diversi? Torniamo<br />
alle classi differenziali? La scuola italiana è molto più avanti”.<br />
Per il segretario lombardo di Rifondazione, Ezio Locatelli, la proposta della classe<br />
islamica è un modo sbagliato di intendere la multiculturalità: “Ci batteremo affinché questa<br />
sperimentazione di apartheid scolastico venga prontamente bloccata”.<br />
“L’educazione dei ragazzi deve puntare, in senso laico, all’integrazione e al dialogo tra<br />
culture e religioni diverse - spiega la senatrice Albertina Soliani, della Margherita -. Come<br />
farlo resta alla valutazione delle scuole. Personalmente sono perplessa di fronte a questa<br />
classe formatasi intorno alla religione islamica. Spetta tuttavia alla scuola andare avanti e dirci<br />
come portare i ragazzi a incontrarsi”.<br />
Anche gli psicologi sembrano divisi su questa iniziativa e il Corriere della Sera<br />
riporta alcuni autorevoli pareri.<br />
Il n<strong>eu</strong>ropsichiatra infantile Giovanni Bollea contesta la decisione, che ha accolto la<br />
richiesta di un gruppo di genitori radicali che frequentano il centro di via Quaranta: “E’ un<br />
attacco al principio della scuola pubblica, che è innanzitutto quello di creare integrazione. Le<br />
amicizie nate sui banchi servono proprio a superare le differenze sociali e religiose”. Silvia<br />
Vegetti Finzi, docente di Psicologia Dinamica all’Università di Pavia, è su tutt’altra linea: “La<br />
classe distinta è un compromesso, d’accordo. Però centra un obiettivo fondamentale: accoglie<br />
anche le famiglie islamiche nella scuola pubblica”. Ma una scuola con simili emendamenti<br />
sarà ancora in grado di amalgamare le diversità? “Credo di sì - continua Vegetti Finzi -. I<br />
ragazzi islamici e quelli italiani si ritroveranno insieme nei corridoi, durante l’intervallo, nei<br />
dintorni dell’istituto. E credo sapranno essere migliori dei loro genitori. Pian piano<br />
prenderanno a frequentarsi. Magari cominciando da una partita di pallone, da qualche disco<br />
prestato, da un invito nei rispettivi locali preferiti”.<br />
Lo psicoterap<strong>eu</strong>ta Fulvio Scaparro è molto meno fiducioso: “E’ una sconfitta per tutti -<br />
afferma -, anche per quei genitori islamici che hanno imposto le condizioni del progetto”. La<br />
vera questione, dice Scaparro, sta a monte: “Sebbene la scuola statale non dovrebbe avere<br />
nessun indirizzo confessionale, in Italia non è così. La presenza del crocifisso in aula è già<br />
un’implicita richiesta di accettazione o di rifiuto della confessione cattolica. Molti problemi<br />
nascono da qui”.<br />
La scrittrice e psicoterap<strong>eu</strong>ta Maria Rita Parsi non condivide l’idea di far sparire i<br />
crocifissi dai muri, anzi. “I simboli religiosi non vanno rimossi - spiega -, bisogna<br />
semplicemente aggiungere anche quelli degli altri”. A quanto pare, però, questo non interessa<br />
ai genitori islamici di Milano, che hanno chiesto sì di frequentare la scuola, ma senza<br />
97
compromettersi con i colleghi cristiani. “Le minoranze, quando si sentono minacciate,<br />
tendono a chiudersi a riccio - spiega Parsi -. Tali processi di autoghettizzazione - e in questo<br />
caso il rischio c’è, eccome - non vanno assecondati. Dobbiamo dimostrare ai genitori islamici<br />
che comprendiamo le loro paure: l’iniziativa di Milano può essere la via giusta”.<br />
Allora, si tratta di un atto di solidarietà nei confronti di una minoranza religiosa o di un<br />
passo indietro sulla via dell’integrazione? L’annuncio del liceo milanese Agnesi<br />
dell’istituzione dall’anno 2004 di una sezione riservata a soli studenti islamici, prima ancora<br />
di separare gli studenti già divide gli esperti.<br />
Sviluppo separato?<br />
Non meno perplesso appare il “fronte laico” dei filosofi della scienza, di cui il<br />
Corriere della Sera ci fornisce un “assaggio” attraverso un’intervista:<br />
“Il problema dell’integrazione degli studenti islamici, o comunque delle diversità culturali o<br />
religiose, va risolto in termini di common sense. Come quello applicato, mi pare, dai genitori dei<br />
ragazzi che frequenteranno il liceo milanese. È uno spiraglio di apertura che va valorizzato, anche se si<br />
staglia sullo sfondo di una radicale esigenza identitaria. In questo senso l’esperimento della ‘sezione<br />
riservata’ può essere il male minore”. Giulio Giorello, filosofo della scienza alla Statale di Milano, è<br />
possibilista verso il progetto del Liceo Agnesi.<br />
In che senso, professore, parla di “male minore”?<br />
“Premesso che le vie dell’integrazione sono infinite, sarei più portato a vedere una scuola laica<br />
frequentata da musulmani come da ebrei, cattolici, protestanti, atei, dove si è liberi di seguire a casa<br />
un’educazione religiosa, e incontrarsi tra i banchi con gente che la pensa diversamente. Cosa che, tra<br />
l’altro, non va affatto contro i dettami islamici: la sura 16 afferma che se Allah avesse voluto che<br />
facessimo parte tutti della stessa umma (comunità, ndr), questo avrebbe fatto, ma evidentemente non<br />
ha agito così. Poi si aggiunge: quando sarete davanti a Dio, Lui vi spiegherà il perché delle vostre<br />
differenze. Ma questo è un discorso di principio che può valere solo, appunto, in una scuola laica”.<br />
Il liceo milanese è una scuola pubblica, non confessionale.<br />
“Ma il problema è proprio quello di una scuola laica che in Italia, purtroppo, laica non è. Nei<br />
nostri istituti viene ancora oggi data preponderanza a una confessione, quella cattolica, che non<br />
rappresenta neppure tutti i cristiani. Allora il male minore è fare una classe di soli musulmani: una<br />
‘zona protetta’ da cui poi magari, come gli indiani nelle loro riserve, avranno voglia di uscire in<br />
esplorazione”.<br />
Francia?<br />
Non sarebbe meglio sviluppare un laicismo più profondo, come accade ad esempio in<br />
98
“Non confondiamo quel laicismo completo che manca nel nostro Paese con forme aggressive<br />
di laicismo che trovo disdicevoli. Non si deve trasformare il laicismo in un atteggiamento arrogante, di<br />
intromissione: quello esagerato, à la française, e conseguenza di un’idolatria dello Stato che con il<br />
laicismo genuino non ha nulla a che fare. Sono contro qualunque forma di imposizione, anche<br />
nell’emancipazione”.<br />
L’integrazione, dunque, non va imposta?<br />
“Non vedo perché si debba imporre un’emancipazione forzata a chi non si sente pronto e la<br />
vivrebbe come una violenza. Se il rispetto passa anche attraverso forme di ‘sviluppo protetto’, va bene.<br />
Poi chissà se i ragazzi si integreranno, bisognerà chiederlo a loro quando i genitori non ci sono... Ma<br />
mi piacerebbe che in questo Paese ci fosse un modo meno emotivo di affrontare il problema. Si<br />
sperimenta, e gli esperimenti sono costosi; cerchiamo di farli muovendoci con prudenza e umanità,<br />
senza isterismo. Detto questo, io non credo all’apartheid, agli sviluppi separati. E se pure questo è il<br />
male minore, attenti però a non farlo diventare la regola invece di una situazione contingente”.<br />
Il docente laico Giorello parla di “forme aggressive di laicismo” che trova disdicevoli.<br />
Il laicismo francese, “conseguenza di un’idolatria dello Stato” rappresenterebbe una forma di<br />
imposizione anche nell’emancipazione, secondo Giorello. L’“emancipazione forzata” rivolta<br />
a chi “non si sente pronto e la vivrebbe come una violenza” non sarebbe espressione di quel<br />
rispetto che passa anche attraverso forme di “sviluppo protetto”. Tuttavia, c’è da notare che,<br />
quando il personale dell’asilo privato in cui Fatima intendeva svolgere il tirocinio, hanno<br />
detto che i bambini si sarebbero spaventati all’idea di avere un’insegnante con il velo, c’è<br />
stata una “reazione politica” di condanna del “pregiudizio provinciale” di questa gente. Se il<br />
rispetto passa anche attraverso forme di “sviluppo protetto”, non è ben chiaro perché ciò<br />
debba valere per i musulmani, ma non per gli italiani.<br />
Perché noi siamo pronti a bollare come retriva la mentalità di chi non accetta che una<br />
donna marocchina si presenti in un asilo privato con il suo costume tradizionale chiedendo di<br />
poter avere una stanza personale per poter pregare quando lo decide lei, e ci facciamo in<br />
quattro per giustificare in mille modi come un passo verso l’integrazione la richiesta di avere<br />
una classe di soli musulmani in cui non compaia il crocifisso e che portano in aula tutte le loro<br />
tradizioni e i loro costumi? Cosa sta dietro questa incongruenza che non viene riconosciuta<br />
come tale?<br />
Integrazione vuol dire imparare a vivere insieme rispettando e accettando gli usi e le<br />
tradizioni degli altri. L’ipotesi di classi riservate agli alunni musulmani appare contro ogni<br />
possibilità di integrazione. Qualcuno ha osservato che questo deve essere capito anche dalle<br />
99
famiglie dei ragazzi e delle ragazze, affinché possano accettare di mandare i figli in una<br />
scuola “normale”. Ma come si può raggiungere questo obiettivo? È a questo punto che<br />
emerge la linea di incontro o di rifiuto della cultura in cui le famiglie hanno trovato lavoro e<br />
ospitalità. E qui salta fuori il livello archetipico in cui è immerso l’individuo e la collettività a<br />
cui appartiene. Se il livello evolutivo è quello del Guerriero Ombra allo stadio più basso, la<br />
diversità viene vissuta come una minaccia, per cui è improponibile qualsiasi prospettiva di<br />
accettazione della cultura dell’altro. Occorre allora imprimere una spinta evolutiva all’interno<br />
del percorso individuale e collettivo o, in un’altra ottica, ampliare le “mappe”, introducendo<br />
altri punti di vista della realtà, altre posizioni percettive, “educando” a calarsi nei panni degli<br />
altri, per estendere i propri orizzonti.<br />
Chi siamo?<br />
Il docente Giovanni Reale, di cui abbiamo riportato l’intervista, si chiede anche: come<br />
mai venite da noi e non volete accettare nulla che riguarda la nostra cultura? Non si parte<br />
forse dal presupposto che i musulmani abbiano un’identità che va tutelata e “alimentata”,<br />
mentre noi non abbiamo niente a monte e possiamo accettare tutto, perché siamo senza<br />
identità? Se loro hanno un’identità da proporre e noi non abbiamo nulla da prospettare come<br />
contrappeso, il loro atteggiamento di imposizione della loro identità come precondizione di<br />
accesso nella scuola pubblica, diventa comprensibile. Se come punto di partenza noi abbiamo<br />
il nulla, non si può proporre una diversità con cui confrontarsi. E se non c’è diversità con cui<br />
dialogare, non ci può essere dialogo. Il nodo da sciogliere è la nostra perdita di identità: non<br />
sappiamo chi siamo sulla base dei valori condivisi e delle radici storiche comuni,<br />
cristianesimo compreso.<br />
Ci sono criteri che ci danno il senso di chi siamo. Identifichiamo questi criteri<br />
rispondendo alle domande: “Perché qualcosa è importante per me? Cosa desidero da un<br />
lavoro, un movimento, una religione, una scuola, un hobby, un’associazione, un partito,<br />
ecc.?”. I criteri e i valori, che in Programmazione N<strong>eu</strong>rolinguistica si riferiscono allo stesso<br />
concetto, costituiscono una categoria speciale di convinzioni, molto potenti e individuali,<br />
relative al perché qualcosa sia ritenuto importante o degno. La risposta alla domanda: “Cosa<br />
desidero da un Lavoro?” rappresenta i criteri relativi al lavoro. La soddisfazione è presente<br />
quando vengono soddisfatti i criteri che sono vicini all’identità. Ciascuno di noi, comunque,<br />
vale per ciò che è, non per ciò che fa. Se si fa dipendere il proprio valore, il proprio essere da<br />
ciò che si fa, dai risultati conseguiti, una diminuzione del livello di efficienza provoca crisi di<br />
depressione e angoscia. Marco Pantani e altri come lui hanno vissuto il senso di valere, di<br />
100
essere, nella misura in cui mantenevano un alto standard di prestazione, e il crollo dell’Io,<br />
quando non potevano più esibire lo stesso livello precedente.<br />
L’identità va alimentata rafforzando il senso di chi siamo attraverso la connessione<br />
con i criteri e valori. Se stabiliamo degli obiettivi in linea con la cornice di criteri che ci<br />
contraddistinguono, siamo contenti. Ogni passo, per quanto faticoso, comporterà la<br />
soddisfazione di avvicinarsi all’obiettivo conforme ai nostri criteri.<br />
Il criterio determina quali obiettivi vogliamo raggiungere, ossia ciò che per noi è<br />
importante incide sulla scelta dell’obiettivo. C’è anche un obiettivo dell’obiettivo<br />
(metaobiettivo) che risponde alla domanda: a cosa mi serve raggiungere questo obiettivo? A<br />
quale scopo voglio ciò? Raggiungere questo obiettivo mi farà raggiungere questo scopo? Il<br />
metaobiettivo deve essere correlato all’obiettivo e occorre verificarne la congruenza<br />
reciproca, oltre che la soddisfazione dei criteri di buona formazione: definito in positivo,<br />
sensorialmente basato, iniziato e mantenuto sotto la responsabilità del soggetto, ecologico.<br />
Riguardo a quest’ultimo punto, ci si chiede quali sono i vantaggi nel non raggiungerlo. Cosa<br />
succederebbe se si ottenesse ciò che si vuole?<br />
Queste precisazioni sull’identità, sui criteri, sugli obiettivi e metaobiettivi, ci<br />
introducono alle riflessioni che seguono.<br />
La mancanza di consapevolezza della propria identità può apparire allarmante, quando<br />
viene confrontata con il fervore, per alcuni aspetti lodevole, con cui gli insegnanti italiani<br />
dell’“Agnesi” si preparano a fare lezione ai 20 studenti egiziani studiando innanzitutto la loro<br />
cultura.<br />
Hanno meno di due mesi per approfondire le loro conoscenze sulle tradizioni<br />
islamiche, per documentarsi su veli, costumi familiari, cultura egiziana. Ma i professori<br />
dell’Agnesi non hanno dubbi: “Siamo pronti ad accettare la sfida”. Perché “è un’occasione<br />
unica per contribuire a una reale integrazione”.<br />
Gli insegnanti del liceo che a settembre aprirà una classe riservata a venti ragazzi<br />
islamici sono convinti della validità del progetto. Soprattutto quelli che hanno deciso di<br />
mettere a disposizione la loro esperienza per insegnare nella nuova classe. Tra entusiasmi e<br />
qualche paura.<br />
Lo conferma Maurizia Franzini, docente di italiano e storia: “Il rapporto con l’islam è<br />
difficile, ma non potevamo non cogliere questa opportunità. Eppure sono un po’ preoccupata.<br />
Per il rapporto con le famiglie, soprattutto. Speriamo che non siano una presenza<br />
condizionante. Anche l’atteggiamento degli altri ragazzi mi preoccupa. Ai miei colleghi, agli<br />
studenti, ai genitori chiediamo aiuto: ne avremo bisogno”.<br />
101
E mentre qualcuno già immagina, non senza qualche timore, i primi innamoramenti<br />
tra ragazze con il velo e compagni italiani, Carmelita Cavallucci, insegnante di educazione<br />
fisica, commenta: “Sono adolescenti come tutti gli altri, hanno bisogno degli adulti che li<br />
accompagnino nella crescita. Ragazze impacciate durante l’ora di ginnastica? Ma anche le<br />
italiane lo sono. Qui si tratta di un gesto d’amore della nostra scuola. Un segnale di pace,<br />
soprattutto in questo momento”.<br />
Il professor Nanni Tessitore insegnerà “linguaggi non verbali”, una via di mezzo tra<br />
l’educazione artistica e l’informatica. Ai colleghi che gli chiedono se mostrerà agli studenti<br />
nudi greci o ritratti discinti risponde: “Non ci saranno censure, anche se io mi orienterò più<br />
verso l’architettura e l’arte non sacra. Ma non stravolgerò il programma”. Ermanno Nazzi,<br />
insegnante di scienze, è ottimista: “Sono molto interessato a quello che succederà. I problemi<br />
ci saranno, ma è inevitabile in una comunità di novecento studenti”.<br />
Il 12 luglio 2004 i docenti coinvolti nel progetto incontreranno gli esperti della<br />
Provincia che hanno seguito i ragazzi provenienti dalla scuola islamica di via Quaranta. “Una<br />
prima riunione per capire la loro preparazione”. Poi in vacanza. “Leggerò molti libri - spiega<br />
la professoressa Franzini - e metterò a frutto i miei trent’anni di insegnamento. Cercherò di<br />
capire la storia scolastica di questi ragazzi, il loro approccio didattico. Ma presenterò fino in<br />
fondo i valori della nostra cultura. Senza censure. Dando tante voci a chi, altrimenti, ne<br />
avrebbe sentita solo una”.<br />
Nei commenti degli insegnanti riportati dal Corriere della Sera si può cogliere una<br />
grande disponibilità definita come “gesto d’amore della nostra scuola” e un “segnale di pace”<br />
e la decisione di presentare “fino in fondo i valori della nostra cultura, senza censure, dando<br />
tante voci a chi, altrimenti, ne avrebbe sentita solo una”.<br />
Ma è proprio questo il punto cruciale della questione: come mai hanno deciso di venire<br />
da noi e non hanno voluto accettare la “voce” della nostra cultura? Sono partiti dal<br />
presupposto pregiudiziale che la loro cultura è superiore o migliore? In effetti, se nella loro<br />
“mappa del mondo” la nostra cultura fosse solo “diversa” e basta, potrebbe nascere la<br />
spontanea curiosità di conoscerla, come sembra trasparire dalle dichiarazioni dei docenti pieni<br />
di slancio e spirito esplorativo verso la cultura egiziana e musulmana.<br />
Non stiamo forse assistendo ad una sorta di “razzismo alla rovescia”, in cui sono i<br />
musulmani a dettare condizioni, premesse, regole e contenuti alla nostra società? È azzardato<br />
avanzare un’ipotesi di questo genere? Chi non ha studiato le “realtà ideologiche” può forse<br />
pensare che stiamo vaneggiando o abbiamo preso un “abbaglio”.<br />
D’altro lato, il livello evolutivo della cultura islamica è chiaramente indicato dal modo<br />
102
in cui viene trattata la donna. Nella moderna civiltà dei consumi, la Sharia colpisce tramite il<br />
cellulare.<br />
Vuoi divorziare? Manda un SMS. Già lo fanno in molti Paesi come Malaysia, Emirati<br />
Arabi, Kuwait. Ma anche in India sono già decine i casi di musulmani che “scaricano” la<br />
consorte via SMS, con un ripudio in pochi istanti. La legge musulmana (Sharia) consente il<br />
divorzio unilaterale: basta che il marito pronunci per tre volte la parola “talaq” (divorzio) alla<br />
moglie, ed è fatto. Il matrimonio è annullato e la consorte non può farci niente. Il verificarsi di<br />
casi di “divorzio istantaneo” per telefono o con “messaggini”, suscita in India veementi<br />
proteste soprattutto delle attiviste della comunità musulmana che chiedono con forza che sia<br />
messo un divieto.<br />
In India la comunità musulmana negli Stati del Nord è assai numerosa (è la seconda<br />
del Paese dopo quella induista); il ripudio è molto diffuso e difficile da eliminare. “E’ una<br />
barbarie - commenta Renana, musulmana di Delhi, di cui Il Gazzettino del 10 agosto 2004<br />
diffonde le dichiarazioni - vivo sempre nella paura di una telefonata di mio marito che mi dice<br />
quella parola terribile, ‘talaq’. Il peggio è che io non potrei fare niente. Neppure ribattere o<br />
tentare di convincerlo. Dovrei solo accettarlo. Quando lui telefona sul mio cellulare io<br />
riconosco il suo numero e non rispondo, ho paura”. La questione divide la comunità<br />
musulmana. Sono i più integralisti a sostenere che la pratica deve restare, perché prevista dal<br />
Corano anche se discrimina pesantemente fra uomo e donna.<br />
Il relativismo culturale<br />
Il relativismo culturale per cui le culture e le religioni sono tutte uguali non tiene conto<br />
del grado in cui rispondono alle richieste dei diritti umani, del rispetto della persona. Il rigetto<br />
del “libello del ripudio” da parte di Gesù nel Vangelo, rappresenta il grande salto culturale<br />
della nostra civiltà. È stato Gesù ad introdurre il rispetto della donna in quanto persona e il<br />
Vangelo è pieno di segnali in questa direzione.<br />
Il livello evolutivo delle religioni e delle culture che praticano le religioni non può<br />
dunque subire un processo di livellamento, omogeneizzazione e appiattimento, in nome della<br />
globalizzazione o del dialogo interreligioso. Il modo in cui la cultura islamica tratta le donne,<br />
liquidandole su due piedi senza dare loro nemmeno la possibilità di difendersi, si ripete tale e<br />
quale come un pattern comportamentale nei rapporti con altre culture: “loro” impongono<br />
regole, condizioni e decisioni e gli “altri” non possono fare altro che accettarle, se vogliono<br />
“convivere”. La rigidità di questa mentalità è tipica del Guerriero negativo che non riesce a<br />
vedere il mondo da altre prospettive che la propria e intende cambiare il proprio ambiente per<br />
103
adattarlo ai propri bisogni e adeguarlo ai propri valori. Continua a insistere sul mito<br />
dell’uccisione del drago, ma sarà un mito senza significato.<br />
Questi Guerrieri devono prima confrontarsi con la propria identità, rispondendo alla<br />
domanda “Chi sono io?”, intraprendendo il Viaggio da Cercatori. Altrimenti, o non sapranno<br />
per cosa combattono o combatteranno soprattutto per dimostrare la propria superiorità, un<br />
meccanismo che mira allo sviluppo dell’autofiducia e che non sostituisce mai realmente la<br />
conoscenza di se stessi. Chi non risponde alla domanda sulla propria identità, si impegna in<br />
una ps<strong>eu</strong>do-guerra in cui il mito viene vissuto come qualcosa di fine a se stesso, ma è<br />
costretto ad accorgersi che il rituale in sé non riesce a trasformare né l’Eroe né il regno.<br />
“Ironicamente - scrive Pearson - coloro che rappresentano i vecchi valori culturali sono meno<br />
combattuti di quelli impegnati più a fondo nella ricerca della propria identità sotto la spinta<br />
dei tempi che cambiano. I conservatori, ad esempio, sono ammazza-draghi con meno<br />
problemi dei progressisti, per i quali la battaglia è complicata da questioni di identità irrisolte<br />
e dal desiderio di conciliare i propri valori e interessi con i bisogni degli altri” 22 .<br />
In questa prospettiva, lo schema eroe-cattivo-vittima da salvare informa una visione<br />
ideologica che da secoli è alla base di molte culture. La cultura islamica rinforza così<br />
profondamente questo archetipo di fondo del Guerriero, che il modello dell’uccisione del<br />
drago sembra l’unica realtà: i Guerrieri devono cambiare il mondo uccidendo il drago.<br />
E gli esseri umani che non si sono ancora seriamente confrontati col problema della<br />
propria identità trovano il senso dell’autostima essenzialmente attraverso l’affermazione della<br />
propria superiorità. Di conseguenza, le loro attività di Guerrieri sono caratterizzate soprattutto<br />
dallo sforzo di vincere: nello studio, nel lavoro, nello svago, perfino nei rapporti con gli amici<br />
e gli intimi.<br />
La domanda del docente di filosofia Giovanni Reale è dunque legittima e<br />
lungimirante: “quando questi ragazzi andranno all’università, che faremo? Creeremo facoltà<br />
distinte?”.<br />
E come faremo a “spiegare” loro gli artefici della nostra cultura e civiltà impregnati di<br />
cristianesimo anche nelle loro manifestazioni anticristiane? Come potremo far capire questi<br />
aspetti, se li manterremo in una “bolla” culturale separata senza accedere ad un dialogo<br />
costante con la nostra identità radicata nel Vangelo e nel valore della persona trasmesso da<br />
esso da duemila anni?<br />
22 Pearson C. S., L’eroe dentro di noi, Astrolabio, Roma 1990, p. 95<br />
104
Il fatto che il proseguimento degli studi in una scuola pubblica sia stato preceduto da<br />
una specifica richiesta di apartheid con l’istituzione di una classe monoculturale può anche<br />
essere letto come volontà di conservare la propria identità, ritenendo che qualunque contatto<br />
con altre culture possa indebolirla. Una idea analoga circolava negli ambienti ebraici, ma non<br />
ha certo favorito l’integrazione degli ebrei nella società. Durante il mio viaggio in Germania<br />
nel 2002, tuttavia, appresi che nella scuola ebraica di Berlino erano stati accolti giovani non<br />
ebrei, quale segnale di apertura e integrazione nei confronti del “diverso”. Instaurare un<br />
dialogo costruttivo significa precisamente riconoscere la propria identità e quella dell’altro e<br />
porsi sullo stesso piano, per cercare di comprendersi. Il “diverso” si capisce solo se c’è<br />
l’identico, il sé, e ciò presuppone sia la consapevolezza della propria identità, sia la volontà di<br />
accettare e comprendere l’identità dell’altro. Il rapporto va gestito in modo bidirezionale,da<br />
me a te, e da te a me, non in modo unidirezionale, in cui io parto dal presupposto che la mia<br />
identità sia superiore o migliore della tua, per cui ti escludo dalla relazione con me e ti<br />
controllo “a distanza” per farti sentire il mio potere. Riuscendo a ritagliarsi uno “spazio<br />
separato”, infatti, questi musulmani hanno dimostrato di saper gestire una notevole fetta di<br />
potere e controllo sulle istituzioni, ponendo condizioni ben precise: “prendere o lasciare”.<br />
Andando avanti di questo passo, c’è da chiedersi come gestiranno gli altri spazi di potere.<br />
Non dimentichiamo che, mentre avanzano le loro richieste, studiano il “terreno di coltura”, e<br />
il grado di “inconsistenza” delle nostre istituzioni e della nostra Identità. Sondano la nostra<br />
“fragilità identitaria e dialettica”. Non meravigliamoci se, al prossimo round, ci torchieranno.<br />
L’“apartheid ribaltata”, poi, investirà noi, quando saremo messi da parte come “cultura<br />
inferiore”, sulla scia di un processo analogo che invase l’Europa nel XX secolo: la<br />
germanizzazione. Adesso è l’islamizzazione che comincia a fare da padrone, e i suoi<br />
“ministri”, come le SS di Hitler, ripetono noti schemi comportamentali simili ad un rito che si<br />
rinnova diverso nelle apparenze, ma identico nella sostanza. È il classico “mito” delle “realtà<br />
ideologiche”: creare un nuovo ordine imponendo le proprie credenze e i propri valori agli<br />
“inferiori”. Noi siamo gli “inferiori” da islamizzare. Loro sono i “superiori” che hanno il<br />
diritto-dovere di asservirci. Hitler era animato da analoghi propositi di germanizzazione: la<br />
superiore razza ariana doveva portare la propria “civiltà” in tutta Europa, estirpando la<br />
“barbarie” delle culture preesistenti. Nel volume che ho quasi completato, intitolato “Il<br />
pensiero adolescente di Hitler”, metterò a fuoco proprio questa dinamica intrisa di narcisismo<br />
e onnipotenza, che caratterizza le ideologie di vario genere, diverse nei contenuti, ma<br />
analoghe nella struttura e nelle terribili conseguenze.<br />
105
I Guerrieri vogliono cambiare gli altri<br />
Come ho già detto in precedenza, ci sono Guerrieri che semplicemente non riescono a<br />
vedere il mondo da altre prospettive che la propria. Per loro il mondo è fatto di eroi, cattivi e<br />
vittime da salvare. Dettano agli altri le premesse, le condizioni, le regole della relazione,<br />
senza chiedere all’altro che cosa ne pensa, perché ciò non gli interessa affatto. Questa<br />
mentalità unilaterale, se viene assecondata con l’accettazione passiva, crea un rapporto di<br />
dominazione/sudditanza. L’Eroe “primitivo” di questo tipo deve provare che è meglio degli<br />
altri. Vuole essere il migliore, e necessariamente questo lascia gli altri in condizione di<br />
inferiorità. L’intreccio eroe/cattivo/vittima da salvare, finisce per autoconvalidarsi solo perché<br />
l’Eroe ne ha bisogno per sentirsi eroe. La richiesta di una classe esclusiva monoculturale<br />
potrebbe essere vissuta come la richiesta dell’Eroe che intende salvare dai “cattivi” le<br />
“fanciulle in pericolo”, intendendo questo termine in senso lato: cultura di appartenenza,<br />
ragazze da conservare “velate”, ideali, convinzioni, valori, religione, ecc.<br />
L’aspetto negativo dell’archetipo è la convinzione che non va bene essere<br />
semplicemente umani, ossia porsi su un piano paritario, dialogico, fatto di scambio dialettico<br />
di punti di vista. Occorre dimostrare la propria superiorità. Ma se questo desiderio di essere<br />
superiori agli altri non è controllato da alcun valore superiore né da alcun sentimento umano,<br />
il proprio potere viene usato per acquistare potere e controllo sugli altri, magari con l’idea di<br />
migliorare il mondo imponendo i propri valori e le proprie credenze. In qualunque “realtà<br />
ideologica”, infatti, il punto di vista, le convinzioni e i valori degli altri non contano. Ciò che<br />
importa è la “mappa del mondo” degli associati, in nome della “grande causa”. È il caso di<br />
ogni tipo di imperialismo.<br />
I Guerrieri vogliono cambiare gli altri. Il senso di essere rinnovato e rigenerato dalla<br />
comunità religiosa di appartenenza spesso è seguito dalla predicazione e dal proselitismo. La<br />
tentazione di regredire al dogmatismo e di cercare di imporre agli altri le proprie vedute<br />
attraverso la legge o la pressione sociale, può diventare invasiva. Il punto è che quando la<br />
conversione non trasforma la propria vita, si sente l’esigenza di una vera disciplina e<br />
obbedienza militare. Il tipo di religione dominante nella nostra cultura proviene dall’ideologia<br />
e dalla prassi del Guerriero, a partire dalle Crociate fino alla guerra dei moderni<br />
fondamentalisti contro il peccato, il male e il demonio. L’approccio del Guerriero alla<br />
spiritualità consiste nell’individuare il male ed eliminarlo o dichiararlo illegale. A un gradino<br />
superiore c’è la conversione del peccatore. Costui non deve più essere eliminato, se può<br />
essere trasformato in modo che non sia più cattivo. Può essere salvato se adotta le stesse<br />
convinzioni religiose dell’Eroe. Ma lo stesso Gesù ha rispetto per il percorso di crescita degli<br />
106
esseri umani e non ne forza le scelte. Un tratto del Vangelo in cui si parla del regno di Dio<br />
rivela questo aspetto:<br />
Quando poi fu solo, quelli che erano intorno a lui insieme ai Dodici lo interrogavano sulle<br />
parabole. Ed egli disse loro: “A noi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a quelli di fuori<br />
invece tutto viene esposto in parabola; perché:<br />
guardino, ma non vedano,<br />
ascoltino, ma non intendano,<br />
perché non si convertano e venga loro perdonato. (Marco, 4, 10-12)<br />
Gesù non chiede la conversione di chi non è disposto ad ascoltare la parola di Dio. Il<br />
vero nemico da combattere è la tirannia della mente ottusa. Dobbiamo esplorare nuovi modi<br />
di formulare i problemi e di cercare soluzioni. Abbiamo bisogno di sufficiente immaginazione<br />
per affrontare la differenza senza etichettarla con le nozioni di bene e di male, di migliore e di<br />
peggiore. Né la violenza né la conversione, né l’imposizione dei nostri punti di vista valgono<br />
a risolvere i problemi.<br />
Ci occorre un livello più alto dell’archetipo del Guerriero, per poter parlare di<br />
possibilità di integrazione. A questo punto viene richiesto di “lottare” in un modo che sia di<br />
più vasto interesse sociale, e in questa generazione ciò può comportare una ridefinizione<br />
d’identità, per cui non si guarda soltanto alla propria compagnia o nazione come alla “nostra<br />
squadra”, ma a tutta la gente del mondo. In questo contesto, il “cattivo”, il nemico da<br />
combattere non è più una persona, un gruppo o un paese, ma l’ignoranza, la povertà, l’avidità,<br />
la grettezza mentale.<br />
Ma nessuno di noi può partire di là. Si inizia imparando i rudimenti dell’autodifesa o<br />
del soddisfacimento dei propri bisogni. Per la maggior parte delle persone, l’archetipo del<br />
Guerriero e dell’Angelo custode sono i primi archetipi adulti da vivere e integrare nella<br />
coscienza. Se non si sviluppano, si resta di regola a uno stadio di evoluzione psichica<br />
infantile. Per diventare Guerrieri evoluti, bisogna uscire fuori dagli schemi delle ideologie,<br />
imparando a vedere nell’altro non un nemico cattivo da sconfiggere o una vittima da salvare,<br />
ma semplicemente un altro essere umano in evoluzione, un Eroe in Viaggio.<br />
A questo punto, la persona che sostiene una verità in apparenza antitetica potrà essere<br />
vista non come un nemico, ma come un potenziale amico: “Questa è la mia verità, te la<br />
spiegherò come meglio posso, e tu puoi spiegarmi la tua”. Il compito a questo punto è<br />
107
conciliare, non uccidere o “convertire” al proprio punto di vista.<br />
Da due individui che si massacrano a vicenda, siamo passati a due persone che<br />
dibattono e chiedono un verdetto, e infine abbiamo due persone che hanno acquisito<br />
sufficiente sicurezza in se stesse da usare le proprie differenze per trovare verità più adeguate<br />
e complete. Si affrontano a livello dialettico e quindi condividono quello che hanno imparato<br />
dallo scambio.<br />
Il 13 luglio 2004, nello scorrimento delle notizie del TG2, appare l’informazione che a<br />
Milano il provveditorato boccia la classe per soli studenti islamici: è incostituzionale. La<br />
vicenda, qualunque possa essere il suo epilogo, è comunque destinata a suscitare perplessità,<br />
discussioni, polemiche e a risvegliare una consapevolezza critica e autocritica forse sopita,<br />
attraverso le scintille lanciate, che potranno generare nuovi spunti di riflessione sulle modalità<br />
di attuare l’integrazione e sul ruolo della nostra identità <strong>eu</strong>ropea, nazionale e locale,<br />
rapportata a quella di altri continenti e nazioni.<br />
La delocalizzazione da una parte e l’immigrazione dall’altra hanno comportato una<br />
paura di perdita di identità, che può essere arginata ripristinando la conservazione dell’identità<br />
originaria, tenendo comunque presente che l’identità evolve e si arricchisce attraverso le<br />
pluriappartenenze. Mantenendo salde le radici, tuttavia, non corriamo il rischio angosciante di<br />
sentirci sradicati e depauperati del nostro patrimonio identitario.<br />
Correlazione tra politica e cultura.<br />
Il 4 agosto 2004 il presidente della Camera Pierferdinando Casini ha rilevato al<br />
telegiornale la “fusione tra politica e cultura” e ha sottolineato che, malgrado le ideologie non<br />
esistano più, paradossalmente si è accentuato il “furore ideologico”. Perché? Una spiegazione<br />
plausibile può essere ricondotta proprio alla matrice culturale delle ideologie e allo stadio di<br />
evoluzione all’interno di ciascun archetipo in cui si trova la cultura in esame. Per portare un<br />
esempio, la cultura dell’orfano di cui il marxismo-leninismo ha portato avanti le motivazioni,<br />
le istanze e i valori e criteri - ossia ciò che è importante per tale cultura - si è costituita in<br />
ideologia del comunismo. Dopo aver constatato che la sua applicazione ha portato<br />
all’estremismo dello stalinismo, la politica ha cominciato a fare marcia indietro, a cominciare<br />
dalle critiche mosse da Kruscev nel celebre congresso del PCUS. Evidenziando le terribili<br />
conseguenze dei Gulag, delle fucilazioni dei dissidenti politici e di tutto ciò che fa parte<br />
dell’eredità del “pensiero unico”, la politica più critica e avveduta si è evoluta verso sponde<br />
più rispettose dei diritti umani, della libertà e del valore della persona. Ma il “furore<br />
ideologico” imperversa ancora. Perché? La matrice archetipica e culturale della politica<br />
108
alimenta l’“atteggiamento ideologico”, anche quando l’ideologia viene svuotata di senso e di<br />
efficacia operativa. La ragione di ciò va ricercata nell’assetto unilogico di una frangia di<br />
questa cultura, nelle posizioni estremistiche connesse al livello evolutivo inferiore. La “fonte<br />
archetipica” che alimenta il percorso evolutivo fornisce l’energia e l’impronta agli<br />
atteggiamenti connessi alla fase del Viaggio.<br />
L’incapacità di assumere punti di vista diversi dal proprio porta al “furore ideologico”<br />
tipico delle posizioni assolutistiche e/o improntate alla megalomania degli adolescenti. Anche<br />
il percorso spirituale risente del livello archetipico in cui è calato un individuo o una cultura.<br />
Lo “spirito crociato” è tipico della cultura del Guerriero. Ciò non significa che non si debba<br />
difendere i confini minacciati, ma semplicemente che il ricorso alla “guerra” va attentamente<br />
valutato, perché spesso non rappresenta una soluzione dei problemi, bensì una complicazione<br />
di quelli già esistenti. Le “soluzioni politiche” incisive e decisive costituiscono un’alternativa<br />
molto più efficace della guerra e vanno perseguite con coraggio e lungimiranza.<br />
Ma lo “spirito crociato” non compare solo in guerra. L’archetipo del Guerriero allo<br />
stadio inferiore può sopravvivere anche nei “militanti dello spirito”. Il soldato romano Paolo<br />
di Tarso stava andando a Damasco a perseguitare i cristiani, quando è stato scaraventato giù<br />
da cavallo e gli è apparso Gesù, dicendogli: “Paolo, perché mi perseguiti?”.<br />
Paolo convertito al cristianesimo, che si spostava da una parte all’altra dell’Impero<br />
Romano per convertire al cristianesimo diffondendo l’insegnamento di Gesù, ha conservato<br />
l’atteggiamento del Guerriero, sia pure nella trasformazione operata dalla fede in Cristo. La<br />
dimensione archetipica in cui era calato da Guerriero non è stata distrutta dalla fede e trapela<br />
nei suoi scritti anche quando parla delle donne e della gerarchia dei rapporti. La visione del<br />
mondo dualistica e gerarchica, che contrassegna la cultura del Guerriero e il patriarcato della<br />
nostra società, che si alimenta di questo archetipo, ha portato Paolo ad un’espressione radicale<br />
e repressiva verso le donne: “Le donne tacciano!”. Ma una cultura fatta di soli uomini, in cui<br />
la voce femminile non trova né spazio, né fiducia, è destinata a produrre mostruosità, come<br />
viene tragicamente documentato dalla storia. La cultura del Guerriero della Germania di<br />
Hitler e dell’Iraq del fondamentalismo islamico, per fornire qualche esempio, hanno in<br />
comune la repressione della voce femminile, sia pure in modi diversi.<br />
La cultura del Guerriero della destra ideologica, che è ben rappresentata dal Mein<br />
Kampf di Hitler, è degenerata nel degrado politico dei campi di sterminio nazisti. Oggi il<br />
“furore ideologico” di questa cultura si esprime nel fondamentalismo islamico, che si avvale<br />
del terrorismo quale strumento di destabilizzazione politica e di conquista militare e<br />
territoriale.<br />
109
Data la fusione tra politica e cultura, non possiamo abbassare la guardia di fronte al<br />
“furore ideologico”, ritenendolo meno pericoloso perché non si presenta più sotto le vesti<br />
dello stalinismo duro e puro o dell’Islam “vecchia maniera”. Il nazislamismo diffuso dai<br />
“falchi” dell’Islam, che operano come le SS miravano a radicare la germanizzazione,<br />
costituisce la minaccia del XXI secolo.<br />
Il nazionalsocialismo di Hitler è sorto per fronteggiare il dilagare della rivoluzione<br />
russa dell’ottobre 1917 e l’ideologia comunista. Oggi c’è il rischio che l’avanzata del<br />
nazislamismo faccia sorgere reazioni estremistiche, sulla scia del movimento di Haider.<br />
L’estremismo del nazislamismo va contenuto senza alcun bisogno di ricorrere alla politica del<br />
Mein Kampf, che verrà presentata nel libro “Il pensiero adolescente di Hitler” proprio per<br />
arginare gli “scivoloni radicali” di destra.<br />
L’Islam e le sue insidie<br />
Il livello primitivo e grezzo della cultura del Guerriero ha prodotto le aberrazioni<br />
connesse al considerare la diversità come una minaccia, al bisogno amorale e ossessivo di<br />
vincere, all’impulso imperialistico di conquistare militarmente il mondo. Le mire<br />
espansionistiche di Al Qaida sono strettamente collegate con questo livello archetipico e<br />
trovano la manovalanza militare e terroristica in gran parte là dove c’è miseria e scontento. La<br />
creazione di aree di sviluppo economico in Pakistan e in altre zone dove si annida<br />
maggiormente il pericolo costituisce quindi un antidoto naturale all’espansione del fenomeno.<br />
All’inizio di agosto 2004 il ministro per le Politiche Agricole Alemanno si è recato in<br />
Pakistan per promuovere una politica in questa direzione.<br />
Subito dopo aver steso queste riflessioni, il 5 agosto 2004, sulla scia delle<br />
dichiarazioni di Casini, in un caldo pomeriggio estivo afferrai Il Gazzettino, il quotidiano del<br />
nord-est che circolava per casa e vi trovai in prima pagina un articolo che collimava con<br />
quanto avevo appena scritto, in una sorta di sincronicità, un fenomeno già descritto da Carl<br />
Gustav Jung, il fondatore della Psicologia Analitica che ha esplorato l’inconscio collettivo e<br />
gli archetipi. L’articolo in questione, scritto da Carlo Sgorlon, si intitola: “Conoscere l’islam e<br />
le sue insidie”. Lo riporto integralmente, per evitare interruzioni arbitrarie:<br />
In Italia, e spesso anche in Europa, chi non spalanca le braccia ai maomettani, arabi o non,<br />
rischia subito di passare per un razzista. E invece per parecchie motivazioni è vero il contrario; ossia<br />
sono razzisti alla rovescia proprio coloro che per il mondo e la cultura musulmani hanno tutta la<br />
possibile tolleranza, mentre tengono gli strali pronti, come Giove Pluvio, da scagliare contro i<br />
110
connazionali che non condividono i loro giudizi e atteggiamenti sull’Islam. E razzismo e intolleranza<br />
si trovano in settori molto vasti della cultura maomettana.<br />
Io non sono di quelli che scendono in piazza a fare sceneggiate, ma sono un uomo di<br />
buonsenso. Con le modeste conoscenze che possiedo cerco di far chiarezza su una questione delicata e<br />
importante, che un giorno potrebbe diventare pericolosamente esplosiva sia per l’italia che per<br />
l’Europa. Né io né la stragrande maggioranza degli italiani e degli <strong>eu</strong>ropei vogliamo contese, attriti o<br />
guerre di religione. Ma per evitare tutto questo sarebbe molto meglio che i musulmani restassero nei<br />
loro Paesi, dove possono realizzare per intero il loro credo, i loro rituali e i loro costumi, in troppe cose<br />
radicalmente diversi dai nostri.<br />
Se gli serve il nostro aiuto, la nostra tecnologia, le conoscenze scientifiche e qualche risorsa<br />
economica per entrare nel mondo dello sviluppo, saremmo lieti di fornirgliele. Sempre che si degnino<br />
di accettarle, perché in Iraq, ad esempio, avviene esattamente il contrario. Del resto i paesi musulmani<br />
che dispongono di grandi riserve petrolifere, e da cui l’Occidente acquista l’oro nero per le sue<br />
industrie, possiedono cifre da capogiro di petroldollari.<br />
Non è affatto vero, come si sente dire, che li derubiamo delle loro risorse. Il prezzo del<br />
petrolio è fissato dall’OPEC, ossia dall’associazione dei ministri del petrolio dei Paesi produttori. Se il<br />
prezzo salisse troppo in alto, l’economia occidentale entrerebbe in crisi, e non sarebbe più in grado di<br />
acquistare il combustibile che le serve. In altre parole i Paesi petroliferi ucciderebbero la gallina dalle<br />
uova d’oro. La verità è piuttosto un’altra; ossia che i petroldollari per lo più non vengono utilizzati per<br />
lo sviluppo dei Paesi che possiedono giacimenti, pensando che un giorno l’oro nero finirà, ed essi<br />
potranno contare soltanto sulla propria tecnologia e la propria capacità di produrre. Invece accade che<br />
re, principi, sceicchi, emiri, vizir, capi politici si servano troppo spesso dei petroldollari per acquistare<br />
azioni di grandi industrie occidentali, o grandi magazzini, o alberghi famosi, o villaggi turistici, o<br />
negozi di lusso, o squadre di calcio, e via di questo passo.<br />
Le ragioni principali di questo fenomeno sono due, e si legano tra loro. La prima è che i<br />
potenti musulmani, gestori di regimi autoritari, non si fidano dei loro sudditi; così si formano imperi<br />
economici all’estero, nel timore di dovere un giorno utilizzare un jet per la fuga.<br />
La seconda è che agisce in loro il desiderio di mettere le mani sui beni dell’Occidente, per<br />
impadronirsene progressivamente. Da noi si pensa che solo l’Islam dei fondamentalisti, dei<br />
guerriglieri, dei terroristi e dei kamikaze sia pericoloso, e magari si possa eliminare la sua pericolosità<br />
cedendo alle sue richieste, per arroganti, ricattatorie, barbariche e crudeli che siano. Che esista poi<br />
l’Islam dei moderati, con i quali ci si può intendere, e che si possa integrare nei nostri Paesi. Questo è<br />
vero soltanto in parte. Gli uomini sono formati e determinati da fatti genetici e culturali. Dal punto di<br />
vista del DNA e dei cromosomi i maomettani sono, probabilmente, uomini come gli altri. Ma la loro<br />
cultura è fondamentalmente coranica.<br />
Il Corano è un libro poetico, pieno di immagini affascinanti. Ma contiene anche delle “sure”<br />
che dovrebbero farci meditare parecchio. Esso non prevede integrazioni con altre religioni, anche se<br />
111
iconosce i Profeti e i Patriarchi della Bibbia e lo stesso Gesù (rifiuta però l’idea che egli sia stato<br />
crocifisso perché innocente, profeta e uomo di Dio). Ma Bibbia e cristianesimo vengono visti con<br />
occhiali islamici, e in qualche modo islamizzati.<br />
Ci sono i “fedeli di Maometto” e gli “infedeli”, ossia tutti gli altri. La terra è divisa in due<br />
parti: quella che appartiene ai musulmani, e tutto il resto, che è da conquistare.<br />
La guerra contro gli infedeli è sempre “jihad”, ossia guerra santa. Non è previsto che sia una<br />
guerra eterna e ininterrotta. Ci vogliono anche delle pause di pace, decennali, ma soltanto per<br />
riprendere fiato e poi ricominciare le conquiste.<br />
Chi muore per la guerra santa va subito in paradiso, dove troverà un harem personale di<br />
settantadue vergini giovanissime, pronte al suo cenno. Sono le Urì. I maomettani che sdegnano la<br />
guerra santa, invece, in paradiso ci andranno soltanto dopo che ne saranno stati giudicati degni nel<br />
Giudizio Universale, che verrà chissà quando. I non maomettani, gli “infedeli”, sono tutti condannati<br />
all’inferno. Il fine ultimo del vero musulmano, credente e coranico, è dunque la conquista del mondo<br />
intero, che prima o poi si verificherà. Certo è probabile che molti musulmani moderati credano a tutto<br />
questo in modi piuttosto sbiaditi, o che non ci credano per niente.<br />
Ma è certo che l’inconscio di tutti coloro che appartengono alla cultura islamica è stato<br />
modellato almeno un poco da queste dottrine infantili, orgogliose e bellicose. Certe dottrine di Mein<br />
Kampf non erano molto diverse, e tutti sappiamo i guai che hanno sviluppato in Europa e nel mondo.<br />
Quando il terrorismo musulmano distrusse le Torri Gemelle, moltissimi islamici scesero in piazza a<br />
festeggiare. Era una grande vittoria dell’Islam sopra l’Occidente, odiato o poco amato.<br />
Essi vengono da noi a cercare lavoro, ma nel loro inconscio, o nel retropensiero, temo vi sia<br />
ancora traccia di sogni di conquista e di islamizzazione universale. All’integrazione e all’assimilazione<br />
della nostra cultura, dei nostri costumi e delle nostre leggi non ci pensano nemmeno. Perciò l’Italia,<br />
l’Europa e l’Occidente dovrebbero sì rispettare le leggi dell’ospitalità, nei confronti dei musulmani,<br />
ma tenendo gli occhi bene aperti, e usando l’attenzione più vigile per difendere la loro cultura, la loro<br />
identità e la stessa integrità dei loro Stati.<br />
L’avere diffuso da vari anni l’idea di connettere strettamente la cultura alla politica<br />
perseguita ha orientato l’interpretazione giornalistica utilizzando concetti psicologici.<br />
E credo che la comprensione psicologica “scientifica” apra la strada a politiche<br />
lungimiranti e condivise, che vadano oltre le miopi polemiche di partito. Il giornalista di cui<br />
ho riportato l’articolo ha tradotto in soldoni, in termini politico-economici quanto avevo<br />
esposto con linguaggio psicologico-culturale in alcuni scritti precedenti e particolarmente in<br />
questo libro.<br />
Il fino ultimo del vero musulmano è la conquista del mondo intero, che prima o poi si<br />
112
verificherà, secondo un progetto imperialistico che ha segnato la disfatta di molti imperi,<br />
compreso quello germanico. Vorrei comunque precisare che i musulmani moderati, che<br />
appartengono alla cultura islamica e sono stati forgiati da una dottrina bellicosa, possono<br />
avanzare sul piano evolutivo, passando da un livello primitivo ad uno più elevato all’interno<br />
dell’archetipo del Guerriero. Nella fase più matura compare il dialogo, il confronto,<br />
l’accettazione dell’altro e del suo punto di vista, nel riconoscimento della propria e dell’altrui<br />
identità.<br />
Giordano Bruno Guerri, storico, giornalista con idee non accomodanti, anzi spesso<br />
urticanti, ha definito il mestiere di giornalista “una forma di prostituzione della verità” in<br />
un’intervista comparsa su Il Gazzettino del 28 agosto 2004 e aggiunge: “A dire il vero c’è un<br />
modo per renderlo meno ignobile, il giornalismo in Italia come ovunque. È di avere idee<br />
originali, quali che siano, di dichiararle onestamente e limpidamente in pubblico, non<br />
usandole in modo strumentale e credendoci fino in fondo”.<br />
Con franchezza, egli constata la “ferinitudine” e la “ferocia che costituisce il DNA del<br />
fanatismo islamico, con cui non si può parlare. Sono bestie assetate di sangue, altro che<br />
politica e diplomazia”. Egli fa un ritratto pungente di Enzo Baldoni: “Ingegno pubblicitario,<br />
pallino del giornalismo col brivido, culto dei Paesi esotici, bernoccolo umanitario, attitudine<br />
al volontariato, miraggi guerriglieri, Fede in qualsiasi Causa fuorché quella della propria<br />
civiltà. Assoluta incapacità di farsi i fatti propri e attitudine a credere in tutte le balle della<br />
sinistra chic, tra cui quella che il terrorismo islamico sia una reazione all’arroganza<br />
dell’Occidente”. Del giornalista italiano dice: “Fa più schifo del solito. Dà il massimo di<br />
cinismo, di ipocrisia, di retorica melensa. È che ha la coscienza sporca. È che ormai si fa tutto<br />
con le veline, i comunicati, le soffiate interessate. Il giornalismo di ricerca, di investigazione è<br />
andato a farsi fottere, mi scusi il termine”.<br />
Che cosa si può dire, per non usare in modo strumentale le idee? Il terrorismo islamico<br />
può essere interpretato semplicemente come una reazione all’arroganza dell’Occidente? La<br />
ferocia del fanatismo islamico come può essere interpretata? Sono sufficienti le ragioni<br />
economiche o politiche per spiegare questo comportamento? O la barbarie affonda le radici in<br />
una cultura sostenuta dal livello archetipico in cui si trovano individui e collettività? Il<br />
relativismo culturale per cui tutte le culture sono uguali non può spiegare l’orrore che noi<br />
proviamo davanti allo sgozzamento e alla decapitazione filmati dai terroristi, per essere visti<br />
dai “nemici” occidentali e dagli “infedeli” islamici. O, meglio, la spiegazione fornita - che si<br />
tratta di semplice diversità di sensibilità della nostra cultura o quant’altro - non tiene conto dei<br />
differenti livelli evolutivi dell’archetipo o degli archetipi in cui è immersa una cultura. Al<br />
113
livello evolutivo più basso, che si tratti di nazifascismo, di stalinismo, o di nazislamismo, le<br />
“reazioni” o, meglio, le conseguenze sono tutte terribilmente uguali: intimidazione, ferocia,<br />
sterminio dei “diversi” o dei dissidenti. Baldoni è stato ammazzato perché italiano, punto e<br />
basta, come durante il nazismo uno veniva braccato e ucciso perché ebreo, o zingaro, o<br />
omosessuale ecc.<br />
La ferocia non può essere giustificata come “reazione” all’arroganza di chicchessia. Il<br />
mondo islamico rappresenta una cultura imperiale che ha dominato nel bacino del<br />
Mediterraneo e ora è animato da una strategia di potere e conquista, di fronte alle sfide della<br />
globalizzazione. Secondo alcuni, la frustrazione identitaria che vive in quanto si sente<br />
emarginato dal centro del mondo, porta una parte dell’Islam a strumentalizzare la religione<br />
per finalità di potere. Il terrorismo persegue e vuole lo scontro tra civiltà come modalità di<br />
affermazione di una presunta supremazia del mondo islamico su quello occidentale. Ma ciò<br />
non spiega ancora la brutalità cieca e sorda di fronte a qualunque richiamo umanitario.<br />
Altrimenti, sulla stessa linea, dovremmo giustificare l’operato del nazifascismo come reazione<br />
al caos bolscevico. La “sete di sangue”, la “ferinitudine” parte dall’interno, dal livello<br />
archetipico del Guerriero negativo o Guerriero Ombra, non da uno stimolo esterno, che<br />
secondo alcuni può essere ravvisato nella “scellerata politica delle alleanze” degli USA o<br />
nella loro volontà di esercitare il potere in Medio Oriente.<br />
Per i sedicenti movimenti della guerriglia irachena il nemico è chi cerca di creare<br />
un’isola di pace nel fragore della guerra. Non c’è dunque terrorismo cattivo e guerriglia<br />
buona. I sequestratori hanno scelto le ragazze italiane dell’OGN “Un ponte per...” Simona<br />
Torretta e Simona Pari con una lista di nomi in mano e facendosi indicate i soggetti. “Se<br />
hanno colpito le due Simona possono colpire chiunque” ha osservato qualcuno. Questi<br />
terroristi considerano l’Europa una nemica comunque.<br />
Se un individuo è calato in una dimensione diversa e di livello superiore, prova<br />
ribrezzo per un simile comportamento e non c’è angheria subita che lo conduca a simili<br />
nefandezze. Il giornalismo cinico e melenso di cui parla Guerri, viceversa, sfrutta questi<br />
episodi terrificanti per fare politica, presentando i “mostri” della situazione a seconda del<br />
colore delle “lenti” con cui guarda la realtà. In questo caso, chi gioca con la vita delle persone<br />
per tenere alta l’angoscia occidentale è il vero “mostro”, al di là del colore politico di chi<br />
interpreta i fatti.<br />
I tentacoli della piovra Al Qaida si allungano impietosi. Secondo i servizi segreti russi<br />
Al Qaida si nasconde dietro l’assalto alla scuola di Beslam in Ossezia, mentre i bambini, di<br />
età compre tra i 5 e i 12 anni, festeggiavano l’inizio dell’anno scolastico alla fine di agosto<br />
114
2004. Sono stati uccisi 26 terroristi, tra cui una decina erano arabi. Sono morti anche 10<br />
componenti delle forze speciali. Il blitz delle forze speciali, dopo tre giorni tragici, tuttavia ha<br />
provocato la morte di 394 persone, tra cui molti bambini. Queste persone hanno un nome,<br />
mentre restano 93 corpi non identificati e 112 dispersi; 646 persone sono state ricoverate in<br />
ospedale, tra cui circa 250 bambini. “Non avevano altra scelta - ha detto Putin - perché i<br />
terroristi avevano già cominciato ad ammazzare”. I terroristi chiedevano la scarcerazione dei<br />
guerriglieri ceceni in carcere e il ritiro delle truppe russe in cambio della liberazione degli<br />
ostaggi. Si sospettano presunti basisti locali, perché i terroristi hanno eluso i controlli. E la<br />
presenza di arabi e componenti di varie nazionalità nel gruppo di oltre 30 terroristi rinvia ad<br />
un’internazionale del terrore che organizza attentati su larga scala. Un camion pieno di<br />
esplosivo è entrato in città e si è avvicinato alla scuola senza trovare ostacoli nel giorno di<br />
massima affluenza scolastica.<br />
Nessuna causa politica può giustificare atti come questo.<br />
D’altro lato, il sequestro di due giornalisti francesi il 29 agosto 2004 e la minaccia di<br />
ucciderli se entro 48 ore non verrà abolita la legge sul velo islamico di imminente attuazione<br />
conferma che l’intero Occidente è bersaglio del terrorismo senza distinzione di nazionalità e<br />
appartenenza ad uno schieramento di destra o sinistra. Il totalitarismo del XXI secolo colpisce<br />
in massa, senza distinzione. La Francia, infatti, non ha inviato in Iraq alcun contingente<br />
militare e Baldoni era una “pacifista”. I terroristi combattono un mondo libero, democratico e<br />
civile. L’Europa è solidale con Chirac che ribadisce: “Con i terroristi non si tratta”. Una<br />
manifestazione organizzata da rappresentanti di più religioni, cristiana, ebraica e musulmana,<br />
ha espresso unità nel protestare contro il fondamentalismo e i ricatti. E l’opposizione politica<br />
francese si schiera unitariamente contro gli stessi terroristi che usano l’arma del ricatto per<br />
piegare alla loro volontà le istituzioni francesi. In quanto cittadini francesi, i musulmani che<br />
hanno partecipato alla manifestazione non accettano il sovvertimento della legge della<br />
Repubblica sotto la pressione di una minaccia.<br />
Il terrorismo è contro il tentativo dell’Islam di integrarsi in Europa. Secondo le<br />
dichiarazioni televisive di alcuni esponenti musulmani francesi, la legge sulla laicità non è<br />
contro i musulmani. E secondo il ministro dell’istruzione francese, con l’attuazione della<br />
legge a partire dal 2 settembre 2004, tutti i giovani sono accolti senza distinzioni etniche,<br />
religiose e di origine; sono trattati in maniera giusta, uguale sui banchi di scuola. Le<br />
studentesse musulmane si tolgono il velo prima di entrare a scuola. Quelle che non si sono<br />
adeguate alla legge hanno quindici giorni di tempo per entrare nell’ordine di idee che in<br />
Francia si fa così. ma non possono entrare a scuola, anche se non viene attuato il<br />
115
provvedimento di espulsione in questo lasso di tempo iniziale di “rodaggio”.<br />
Il presidente del Senato Marcello Pera, in visita a Berlino il 31 agosto 2004 per<br />
ricordare i padri fondatori dell’Europa, De Gasperi, Adenauer e Schumann sollecita “un patto<br />
comune solidale di tutto l’Occidente”. I padri fondatori volevano un’Europa unita<br />
militarmente, politicamente dalle radici cristiane e amica degli USA. In questa situazione di<br />
minaccia alla stabilità istituzionale delle singole nazioni e dell’Europa unita è particolarmente<br />
urgente impugnare l’“arma” dell’unità per difendersi dagli assalti dei fondamentalisti.<br />
Sul versante americano, il 31 agosto 2004 Bush parla di “coraggio della nazione” e di<br />
“determinazione” nella lotta al terrorismo alla convention per le elezioni presidenziali. La<br />
guerra al terrorismo non può tuttavia essere vinta con mezzi tradizionali. Baldoni, che amava<br />
le “vacanze da brivido”, in Iraq ha voluto sfidare la morte e, secondo qualcuno, non per<br />
coraggio ma per quella che Goethe definiva “presuntuosa incoscienza” ha perso la vita.<br />
Secondo altri è stato un eroe che ha pagato con la vita un idealismo che lo ha spinto anche ad<br />
indossare i panni del “guerrigliero”.<br />
Vera Slepoj, psicoterap<strong>eu</strong>ta, commenta l’assassinio di Baldoni su Il Gazzettino del 29<br />
agosto sottolineando “la nostra ottusità di occidentali un po’ infantili e privi di memoria sulle<br />
differenze di vedere, sentire e valutare i valori, i contenuti e i presupposti”.<br />
Non tenendo conto dei vari livelli evolutivi, in effetti, si finisce per fare una gran<br />
confusione o, meglio, per mettere tutte le culture sullo stesso piano. La Slepoj prosegue la sua<br />
analisi mettendo in relazione un idealista con la crudeltà della sua esecuzione: “Baghdad è<br />
ben altra cosa dai miti rivoluzionari del passato ed è triste che a farcene vedere la verità sia<br />
l’esecuzione crudele di un idealista che con la sua bandiera di pace confusa con quella<br />
altrettanto simbolica dell’umanitarismo credeva di placare, convertire, mutare, rendere<br />
possibile un percorso dialettico sugli estremismi che solo l’animo umano sa generare. Il<br />
sorriso non basta e le parole sono un’idea che solo noi e questa civiltà, sudario di idee, crede<br />
possano convertire e addirittura mutare il corso e il percorso della storia”.<br />
Baldoni, con il suo sacrificio, “dovrebbe aiutarci a capire che le illusioni, il buonismo<br />
usa e getta, la nostra cultura sono lontane oramai un millennio dal mondo che costruisce<br />
eroismi diversi, terroristici, crudeli, con regole diverse, ma intatte. Siamo noi, Occidente<br />
moralmente pagano, moralmente frantumato nel niente, a dover smettere di pensare e credere<br />
al valore della razionalità. Per altre civiltà, e dobbiamo capire che esistono, il valore è nella<br />
morte, è nel dare la morte senza preoccuparsi di riceverla. Si sgozza, si mostra, si uccide<br />
perché per altre civiltà l’individualismo, il valore di un singolo è nulla di fronte al grande<br />
delirio in atto di occupare il mondo e la sua storia”.<br />
116
I sogni di conquista e di islamizzazione universale, nell’ipotesi che la propria cultura<br />
sia superiore alle altre, vanno inseriti nell’ambito del nazislamismo,- che non ha nulla da<br />
invidiare al nazismo germanico responsabile della seconda guerra mondiale -, e come tali<br />
vanno trattati.<br />
117
LA PERCEZIONE COMUNE E CONDIVISA<br />
Una nuova cultura.<br />
Il 14 giugno 2004 una notizia apparsa al TG2 nello scorrimento in fondo allo schermo<br />
segnalava la decisione presa dal Tribunale di Londra di abolire il velo islamico nelle scuole.<br />
Questa decisione sembra inserirsi in un’ottica di derelativizzazione culturale a cui la nostra<br />
società va avviata, per evitare di essere fagocitata dalla dittatura delle minoranze in cui il<br />
fondamentalismo sembra radicarsi sempre più profondamente nella misura in cui trova un<br />
terreno fertile di diffusione dove manca una coscienza identitaria fondata su valori condivisi e<br />
radici storiche comuni. Il lasciar fare tipico di un certo permissivismo in cui mancano a<br />
monte punti di riferimento identitari finisce infatti per generare caos e confusione e per<br />
distruggere la propria cultura e civiltà. Il masochismo culturale è espressione di patologia,<br />
non di salute di una società, e va corretto non certo con il sadismo, ma con una visione<br />
equilibrata delle nostre risorse identitarie, che vanno salvaguardate dagli attacchi<br />
dell’imposizione di regole ad una società che va avanti da secoli con le proprie regole. Il velo<br />
islamico non è solo il simbolo di un certo modo di interpretare e vivere la religione islamica,<br />
ma anche uno strumento simbolico per condurre, più o meno consapevolmente, una battaglia<br />
culturale o religiosa. La richiesta di adeguarsi alla nostra tradizione culturale fa dunque parte<br />
della strategia di far rispettare la nostra identità e le nostre tradizioni, che affondano le radici<br />
nella storia di una civiltà.<br />
Se nella nostra cultura persistesse il “vuoto di identità”, ci sarebbe un richiamo<br />
irresistibile a riempire questo vuoto da parte dei più radicali e orgogliosi sostenitori della<br />
propria identità, diversa da quella del Vecchio Continente. Per poter dialogare con altre<br />
identità diverse dalla nostra, dobbiamo prima diventare consapevoli dei nostri valori condivisi<br />
e delle nostre radici storiche. Solo sulla scia di questa lucida consapevolezza, possiamo<br />
sederci ad un tavolo e dialogare alla pari. In effetti, con che cosa si potrà relazionare un<br />
musulmano, se dall’altra parte troverà il “vuoto identitario” che viene sbandierato con<br />
l’<strong>eu</strong>femismo di “relativismo culturale”? In alternativa, di cosa potremmo parlare, se non del<br />
PIL, della BCE, della competitività economica ecc.?<br />
Ma il PIL non dice nulla sulla nostra identità ed è proprio per questo “vuoto” che<br />
alcuni Paesi che non condividono la nostra identità, come ad esempio la Turchia, hanno<br />
avanzato richiesta di appartenenza a pieno titolo all’Europa. Come i Paesi musulmani sono<br />
orgogliosi della loro identità, così noi dobbiamo diventarlo della nostra. E le radici cristiane,<br />
lungi dal sancire un ipotetico legame con il clero, non fanno che confermare un retaggio<br />
118
culturale diverso da quello islamico. Cristo è parte integrante della nostra cultura e civiltà, che<br />
comprende credenti e non credenti, protestanti o “riformati”, ortodossi o laici, mangiapreti,<br />
baciapile, atei, agnostici, ecc. Tutti noi partecipiamo dell’eredità del Vangelo e attraverso il<br />
Vangelo cresciamo, anche quando ne prendiamo difensivamente le distanze.<br />
Jan Ardui, trainer Belga di PNL, che ho conosciuto in Italia in un corso di<br />
Programmazione n<strong>eu</strong>rolinguistica alla fine degli anni ’90, intervistato sulla rivista Strategie<br />
(N. 1, 2003) , ha esposto il tema dell’integrazione culturale nell’insegnamento di concetti<br />
partoriti nel mondo occidentale. Alla domanda “A proposito di Marocco, come si concilia la<br />
PNL con la religione islamica”, risponde:<br />
In Marocco alcuni modelli sono talmente nuovi e altri così incoerenti e persino paradossali<br />
rispetto alla loro religione e ai loro costumi che per me insegnare in quella terra significa portare<br />
qualcosa di veramente nuovo e importante.<br />
Prendiamo ad esempio gli obiettivi. Se tu dici loro “Che cosa vuoi?”, ti rispondono<br />
“Insciallah” (nelle mani di Allah). E tu gli indichi come raggiungere gli obiettivi, parli del TOTE e<br />
presenti un concetto che è profondamente diverso dal loro.<br />
È molto importante tenere un comportamento di rispetto per la loro religione e cultura e, al<br />
tempo stesso, insegnare con l’intento di aggiungere qualcosa. A proposito di obiettivo e di Insciallah<br />
qualcuno ha trovato questa frase nel Corano: “Dio aiuterà per le cose che tu desideri, solo se le hai già<br />
iniziate e ti sei dato da fare”. Così parti dal loro modello di offrire a Dio qualunque cosa (quindi anche<br />
un obiettivo) e piano piano, delicatamente, puoi aggiungere altri concetti.<br />
Fino ad oggi in Marocco abbiamo realizzato soltanto il percorso formativo di Pratictioner che<br />
ha funzionato grazie alla loro mente matematica e alla cultura di derivazione araba.<br />
Affronteremo grosse sfide con il percorso di Master, quando parleremo loro di credenze,<br />
valori e identità”.<br />
L’idea di integrare due modelli culturali partendo da punti condivisi dal Corano per<br />
aggiungere altri concetti appare affascinante e produttiva. Questo procedimento basato sul<br />
ricalco-guida può conseguire un ponte di dialogo anche con quei musulmani che risiedono sul<br />
territorio <strong>eu</strong>ropeo e sono intenzionati ad integrarsi nella nostra cultura, accettandone il livello<br />
identitario, che affonda le proprie radici nei valori condivisi e nella matrice storica e religiosa<br />
comune.<br />
Nelle leadership occorre prestare attenzione alla “creazione di cultura” quale livello<br />
119
attraverso il quale si può generare il terreno su cui seminare e produrre frutto. Raggiungere<br />
un’intesa sui valori condivisi e sulle radici storiche comuni, quale fondamento dell’identità<br />
comune, è quindi essenziale per dare vita ad un organismo funzionante.<br />
Nella Grande Famiglia Europea è importante creare una nuova cultura improntata al<br />
superamento del pregiudizio e, al tempo stesso, all’affermazione dell’Identità Europea.<br />
Questo progetto mi entusiasma e mi impegna da vario tempo, e spero che possa portare frutti<br />
maturi, buoni da distribuire a ciascun cittadino <strong>eu</strong>ropeo, che spero possa accedere ai miei<br />
scritti e alla realizzazione di una visione non solo “sognata”.<br />
Al summit di Bruxelles del 17-18 giugno 2004 sulla Costituzione Europea e la nomina<br />
del nuovo presidente della Commissione UE si delinea un accordo che la presidenza irlandese<br />
sembra poter cogliere nella giornata finale del vertice dei leader UE.<br />
L’ottimismo è a 360 gradi: anche se l’Irlanda non può ancora dire di avere l’accordo in<br />
tasca, l’atmosfera che si è respirata per tutta la giornata è stata improntata all’ottimismo.<br />
“pronti a chiudere” è la parola d’ordine che per tutto il giorno è corsa in bocca nelle sale del<br />
palazzo Justus Lispsius. Le necessità di giungere ad un accordo sono state ribadite da tutti, e a<br />
renderle più urgenti hanno contribuito le ultime elezioni <strong>eu</strong>ropee - le più disertate della storia<br />
dell’UE - sancendo l’enorme distacco tra la gente e l’Europa.<br />
“C’è un sostanziale accordo sul testo preparato dalla presidenza irlandese - ha detto il<br />
ministro degli Esteri Franco Frattini - accompagnato dalla volontà diffusa di concludere oggi<br />
il lavoro sulla Costituzione e di varare il nuovo trattato”. Il “compromesso finale ancora non<br />
c’è - ha concluso Frattini - ma il testo è una ottima base di lavoro” anche se fino “all’ultima<br />
ora”, l’Italia cercherà di “migliorare un progetto che è oggettivamente migliorabile”.<br />
Tra i nodi rimasti, l’Italia chiede radici cristiane: un gruppo di Paesi guidato dall’Italia<br />
- che comprende anche Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Malta e Lituania - ha ribadito<br />
la propria richiesta di introdurre un riferimento alle radici cristiane dell’Europa nel preambolo<br />
della Costituzione Europea. Si tratta di un “elemento essenziale”, ha spiegato il ministro degli<br />
Esteri Frattini e l’Italia ha in questo senso fatto una “domanda forte di modifica” del Trattato.<br />
I più decisi a bocciare la proposta di inserire le radici giudaico-cristiane nel preambolo sono<br />
Francia, Belgio, Finlandia e Svezia.<br />
Quando i membri di un gruppo hanno una percezione comune e condivisa della<br />
visione, della missione, dei valori e delle capacità, possono anche lavorare insieme con molta<br />
maggiore efficacia. La percezione comune e condivisa di questi aspetti costituisce<br />
indubbiamente il fondamento del cosiddetto “spirito” di gruppo. Se il gruppo è stato costituito<br />
in precedenza per raggiungere una missione o un obiettivo comune, lo sforzo dei membri si<br />
120
incentrerà sull’identificazione dei valori e della capacità del gruppo.<br />
L’identità consiste nel ruolo assolto da una persona, nella missione che la ispira e nel<br />
suo senso di sé. Concerne pertanto il chi della leadership. Il livello dell’identità riguarda il<br />
senso che un gruppo o i membri di un gruppo hanno di sé. “E’ un costrutto di difficile<br />
definizione - scrive Robert Dilts -. È qualcosa di più astratto della credenza e ha a che fare con<br />
i livelli più profondi del processo di incorporazione dell’informazione, quando la persona si<br />
senta responsabile di ciò che ha appreso e avverte l’impegno a tradurlo in azione. L’identità<br />
ha a che vedere principalmente con la missione” 23 .<br />
La definizione dell’identità di un dato sistema è quindi importante. E l’efficacia di un<br />
dato sistema dipende in larga misura dall’equilibrio tra i suoi elementi costitutivi. Per poter<br />
integrare e coordinare adeguatamente le differenze nei presupposti culturali, nei valori e nei<br />
contesti di azione dei membri dell’organizzazione, i dirigenti devono saper riconoscere e<br />
concettualizzare vari livelli: identità-missione, cultura-valori, strategie-obiettivi, azione-<br />
implementazione. Senza soffermarci su questi concetti, già presentati nel volume “Una paura<br />
per crescere”, mi limito a sottolineare che dopo aver identificato il percorso complessivo,<br />
occorre concentrarsi su quell’aspetto della leadership, che viene indicato come “costruzione<br />
della cultura” organizzativa. Sviluppando una cultura organizzativa solida e chiara, condivisa<br />
da tutti i suoi membri, l’organizzazione trova una delle strategie più efficaci per evitare le<br />
incongruenze e i conflitti che tanto facilmente sorgono nei contesti di lavoro.<br />
La “cultura” è il prodotto del contributo di tutti i membri di un’organizzazione o di un<br />
sistema sociale ed è da essi condivisa. Inoltre essa, per quanto dipenda certamente dalle<br />
interrelazioni fra i membri dell’organizzazione o del sistema sociale di cui è espressione,<br />
rappresenta anche in ultima analisi le relazioni che quell’organizzazione o quel sistema<br />
intrattengono con sistemi più ampi.<br />
Secondo Nicholls, la costruzione della cultura consiste nel “condurre le persone in<br />
organizzazioni dotate di senso, in grado cioè di attraversare il percorso individuato o di<br />
sfruttare appieno le opportunità presenti”. Nicholls arriva a sostenere che la “cultura” si<br />
costruisce rispondendo a domande come: “Cosa fa questa organizzazione? Qual è il mio posto<br />
in essa? Come verrà valutato e giudicato? Che cosa ci si attende da me? Per quali ragioni<br />
dovrei dare il mio impegno?” Per rispondere a queste domande, occorre definire: a) la visione<br />
dell’organizzazione; b) la sua missione; c) il suo percorso o strategia; d) la sua struttura.<br />
Per definire visione e missione occorre rispondere a due domande: cosa fa<br />
23 Dilts R. B., Leadership e visione creativa, op. cit. p. 31<br />
121
l’organizzazione e per quali ragioni dovrei dare il mio impegno individuale?<br />
Per definire percorso e struttura, occorre rispondere alle altre domande di Nicholls:<br />
quale è il mio posto nell’organizzazione? Che cosa l’organizzazione si attende da me? Come<br />
verrò valutato e giudicato?<br />
Queste domande coinvolgono anche ciascun esponente dell’<strong>eu</strong>roparlamento e della<br />
commissione <strong>eu</strong>ropea e possono sottendere conflitti o lasciar emergere ambiguità non risolte.<br />
Per fornire un esempio, il pregiudizio laicista anticattolico dell’<strong>eu</strong>roparlamento ha<br />
bocciato l’11 ottobre 2004 la nomina di Rocco Buttiglione a commissario <strong>eu</strong>ropeo per la<br />
giustizia e altre competenze per aver espresso un parere personale nei confronti degli<br />
omosessuali e delle donne, in difesa della famiglia intesa come unione di uomo e donna. “Si<br />
vuole criminalizzare un cattolico”, dichiara Buttiglione al telegiornale. Il ministro per le<br />
Riforme Calderoli ha commentato che si è trattato di “un voto ideologico contro la famiglia”.<br />
Si può parlare di “fondamentalismo laicista” che radicalizza la sua posizione contro i valori o<br />
criteri condivisi dalla maggioranza della popolazione. Ciò che sorprende è che nel centro-<br />
sinistra non si siano levate voci “cattoliche” in difesa di Buttiglione. Anzi, nella parte<br />
“moderata” si è espresso Castagnetti (Margherita) disapprovando Buttiglione. Ciò indica<br />
chiaramente che si è perso il senso della propria identità, travolti nel vortice del frullatore che<br />
omogeneizza tutto, appiattisce e livella tutto, anche il senso della propria identità, della<br />
consapevolezza dei valori o criteri che ispirano il proprio operato. Le ambiguità sulle quali si<br />
basa lo status quo insabbiano convinzioni e valori, opacizzando la vividezza della coerenza e<br />
dell’integrità.<br />
Rispondendo a tutte le precedenti domande di Nicholls, si può determinare la<br />
differenza tra “culto” e “cultura”. In un “culto”, valori e norme vengono imposti<br />
dogmaticamente dall’alto senz’altra spiegazione se non quella che le persone più in alto nella<br />
gerarchia sono anche quelle più vicine a Dio. I regimi teocratici e fondamentalisti, il<br />
nazifascismo e il nazislamismo e i regimi totalitari (comunismo) appartengono a questa<br />
categoria di “culto”.<br />
La “cultura” invece, come si è detto, è il prodotto del contributo di tutti i membri di<br />
un’organizzazione o di un sistema sociale ed è da essi condivisa. Essa, per quanto dipenda<br />
dalle interrelazioni tra i membri del sistema di cui è espressione, rappresenta anche le<br />
relazioni di quel sistema con sistemi più ampi.<br />
Uno degli errori più grandi che un’organizzazione può compiere, secondo Dilts,<br />
consiste nel non riuscire a cogliere e a integrare nella propria visione e nella propria missione<br />
il contributo che le viene dalla relazione con sistemi più ampi. Dire, ad esempio, che “la<br />
122
nostra missione è essere un’organizzazione di professionisti orientata a sostenere i suoi<br />
membri e a offrire loro ...”, non significa affatto formulare una missione o una visione.<br />
Significa al massimo formulare una “identità”. Formulazioni di visione e di missione non<br />
sono mai “autoreferenziate”, ma definiscono sempre il ruolo dell’individuo o<br />
dell’organizzazione in riferimento a soggetti esterni che li oltrepassano. È l’essere al servizio<br />
di qualcosa che va oltre l’individuo o l’organizzazione, ciò che dà lo “scopo” a<br />
“un’organizzazione dotata di senso”.<br />
Riassumendo, la costruzione della cultura consiste nel rispondere alle seguenti<br />
fondamentali questioni:<br />
a) Qual è la visione più ampia che l’organizzazione sta perseguendo?<br />
b) Qual è la missione che l’organizzazione si è data in rapporto alla visione e alla comunità di<br />
cui intende servire i bisogni?<br />
c) Quali sono il percorso e la strategia che l’organizzazione intende seguire per adempiere<br />
alla propria missione?<br />
d) Qual è struttura che l’organizzazione intende darsi in termini di compiti fondamentali e<br />
relazioni necessarie per implementare la propria strategia? 24<br />
E’ importante considerare attentamente le risposte a queste domande, ponendoci non<br />
soltanto dal nostro punto di vista ma anche da quello di ipotetici membri delle organizzazioni<br />
e delle comunità che abbiamo stabilito di servire. Solo dopo aver raggiunto un consenso<br />
comune su queste domande, abbiamo cominciato ad effettuare i passi concreti necessari per<br />
realizzare di fatto le organizzazioni. La nostra visione si traduce così nella creazione di una<br />
organizzazione internazionale di successo.<br />
Tutti sappiamo a quali aberrazioni ha portato la cultura o, meglio, il “culto” del<br />
Guerriero negativo.<br />
Una differenza cruciale è quella esistente tra la natura dei sistemi di partnership,<br />
basata fondamentalmente sulla fiducia, e quella dei sistemi dominatori, basata sulla paura. Il<br />
libro di Erickson Infanzia e Società (1963), insieme ad altre ricerche, ha mostrato che i<br />
bambini sono maggiormente disposti a correre rischi e ad esplorare il loro ambiente, se<br />
possiedono una fiducia di base e una confidenza in se stessi e in ciò che li circonda, ottenute<br />
di solito attraverso delle relazioni positive iniziali con la madre o con chi si occupa di loro. In<br />
altre parole, c’è una relazione dialogica tra fiducia e paura, sicurezza e rischio. Quando c’è<br />
fiducia di base, la sicurezza può anche essere minacciata, si possono pure correre rischi e si<br />
24 Cfr. Dilts R., op. cit. p. 83<br />
123
può anche provare un certo grado di paura. Ma se non c’è alcuna fiducia di base, allora il<br />
mondo esterno e l’Io sono percepiti come essenzialmente minacciosi e la paura diventa<br />
cronica. L’essere umano ha un profondo bisogno di appartenenza e di unità.<br />
La mente di gruppo.<br />
È importante sottolineare il concetto di unità: non si tratta infatti di semplice<br />
appartenenza ad un gruppo, magari in contrapposizione e in competizione con altri, fenomeno<br />
piuttosto comune. Si tratta di avvertire l’illusorietà dei nostri confini e quindi di percepire la<br />
possibilità di unione con tutti gli esseri (Wilber, 1977, 1995). Il gruppo è solo un’occasione<br />
per sperimentare questo stato di coscienza: il gruppo non si chiude in se stesso, ma diventa<br />
strumento di questa trasformazione interiore.<br />
Nell’esperienza convalidata da numerose fonti (vedi ad esempio Rogers, 1970; Senge,<br />
1990), la mente di gruppo, come stato di coscienza, è tra i più produttivi ai fini<br />
dell’’evoluzione personale e costituisce un eccellente modello da interiorizzare.<br />
Che cosa è la mente di gruppo? È una sorta di mente sovraindividuale, più competente,<br />
più flessibile, più intelligente e più saggia della mente individuale di ogni partecipante. La<br />
mente di gruppo costituisce un fondamentale strumento per snidare l’autoinganno. La<br />
partecipazione ad una mente di gruppo, ai fini dell’evoluzione personale, è molto potente,<br />
forse più potente di qualsiasi forma di terapia oggi conosciuta. Essa può promuovere o<br />
accelerare fortemente un processo trasformativo in atto (Scardovelli, 1998, 1999).<br />
Si tratta di un punto di arrivo: un gruppo in genere ha bisogno di molto lavoro per<br />
poter funzionare a tale livello. Diciamo di più: si tratta di un evento molto raro, che talvolta<br />
accade magicamente, ma sembra molto difficile da pilotare. C’è chi si è posto il problema di<br />
svelare tale magia in modo da renderla riproducibile. Attraverso varie operazioni di<br />
modellamento, modellamento di gruppi nei momenti magici di funzionamento e di conduttori<br />
in grado di facilitare questo processo, siamo oggi in grado di accelerare di molto il<br />
raggiungimento di questo obiettivo estremamente auspicabile.<br />
Il modello della mente di gruppo dà un chiaro esempio, concreto e possibile, di cultura<br />
della cooperazione, pacifica e produttiva, che arricchisce tutte le parti implicate.<br />
Portarsi dentro questo modello e farlo lavorare nel rapporto tra l’Io e le nostre parti<br />
interne innesca davvero una rivoluzione interiore. Pone fine al nostro dialogo interno, spesso<br />
vacuo o distruttivo, lasciando al suo posto il silenzio, l’ascolto di sé o una conversazione<br />
pacata e serena, dove nessuna parte cerca di far tacere l’altra, contrastarla o reprimerla.<br />
Quando ciò accade, la conoscenza di noi stessi diventa più profonda. Le nostre parti<br />
124
interne cominciano a svelarsi con più sincerità e trasparenza: non temono il giudizio, il<br />
rimprovero, la repressione. Possono pian piano uscire allo scoperto, allora possiamo<br />
riconoscere la nostra negatività, il sé inferiore, le parti violente, competitive, razziste, che<br />
abitano al nostro interno. Esse per noi non costituiscono più una minaccia. Così può iniziare<br />
un lavoro di trasformazione autentico. 25<br />
Quando un gruppo funziona a livello di mente sovraindividuale, ogni partecipante ha<br />
eccezionali occasioni di ricevere feed-back mirati e costruttivi. La mente di gruppo si<br />
alimenta e cresce attraverso la cultura del feed-back. Quando c’è un sospeso con una persona,<br />
non si va a parlarle dietro le spalle, alimentando la separatività: si può confrontarla in gruppo<br />
o a tu per tu, sicuri di essere accolti e riconosciuti come portatori di un dono prezioso.<br />
I leader, in un gruppo del genere, non sono esenti dal ricevere feed-back su loro stessi,<br />
come persone. Non sono esenti dallo svelare se stessi nel modo più diretto e trasparente<br />
possibile. Anzi, ad essi compete proprio fornire un esempio di recettività e flessibilità. In tal<br />
modo si garantiscono da un grave rischio che corrono tutti i leader: quello di innamorarsi del<br />
potere, alimentando il proprio narcisismo. Se questo accade, la loro leadership non può più<br />
essere evolutiva. La mente di gruppo, nella nostra concezione, da una parte costituisce la<br />
migliore salvaguardia contro questo tipo di inganno, dall’altra favorisce il clima di fratellanza<br />
necessario a superare i numerosi ostacoli che si frappongono sul cammino evolutivo.<br />
La sintonizzazione collettiva accresce in modo esponenziale l’intelligenza ecologica e<br />
creativa: ecologica in quanto frutto di interazione e valorizzazione di numerosi punti di vista;<br />
creativa in quanto sintesi in grado di armonizzarli. Si tratta di un tipo di intelligenza che<br />
coniuga pluralismo e unità: pluralismo delle visioni originali e unità nella visione finale.<br />
La mente di gruppo si forma come conseguenza della sintonizzazione collettiva:<br />
l’empatia corporea e l’ascolto empatico reciproco, in un clima di profonda fiducia, ne sono<br />
premessa indispensabile. Ogni lavoro che venga affrontato in questo contesto diventa più<br />
profondo ed efficace. Cadono le usuali barriere difensive: il gruppo si fa attento, coeso e<br />
recettivo, pronto a ricevere e pronto ad aiutare.<br />
In termini di psicosintesi, un gruppo funziona in tal modo quando tutti i partecipanti si<br />
disidentificano temporaneamente dal proprio ego e si identificano nell’Io o nel sé di gruppo.<br />
Si verifica cioè un cambiamento nello stato di coscienza: si sperimenta uno stato di coscienza<br />
collettivo, gruppale, e nello stesso tempo pienamente rispettoso delle differenze individuali.<br />
Si apprende a riconoscere, accettare e valorizzare le differenze, senza sentirsi<br />
25 Cfr. Pierrakos E., Il male e come trasformarlo, Crisalide, Roma, 1989<br />
125
minacciati o sminuiti: al contrario accorgendosi che da questa esperienza si esce<br />
profondamente arricchiti in ogni senso. Si diventa tutti più creativi, più intelligenti, più capaci<br />
di superare i propri limiti.<br />
Quest’esperienza si accompagna in genere ad un senso di gioia profonda, in quanto<br />
risponde ad un nostro bisogno mai pienamente soddisfatto: quello dell’appartenenza e<br />
dell’unità.<br />
La mente di gruppo e la ricerca.<br />
Dal momento che la mente di gruppo è più intelligente, creativa e più saggia della<br />
mente individuale, in PNL umanistica integrata viene ritenuta un eccellente strumento per fare<br />
ricerca. Anche e soprattutto perché il tipo di intelligenza emergente da una mente di gruppo<br />
tende ad essere ecologica, o, in altri termini, ad essere vera intelligenza.<br />
In che senso vera intelligenza?<br />
Contrapposta a quale falsa intelligenza?<br />
Se per intelligenza intendiamo la capacità di risolvere problemi, ne deriva che vera<br />
intelligenza è quella che porta a vere soluzioni. Ma le soluzioni vere sono per loro natura<br />
ecologiche. Infatti, ogni soluzione non ecologica è una falsa soluzione: essa si limita a<br />
spostare il problema da una zona all’altra o da un livello all’altro.<br />
Se, come imprenditore, mi arricchisco a scapito dell’ambiente, non posso considerare<br />
la mia un’impresa intelligente: io non produco vera ricchezza, perché altri, magari in futuro,<br />
dovranno pagare al mio posto. Per considerare intelligente la mia impresa devo<br />
necessariamente collocarmi in un’ottica miope ed egocentrica: io divento più ricco, questo è<br />
importante; gli altri si impoveriscono, questo non è importante. La logica egocentrica si fonda<br />
sulla separatività: io sono un’entità completamente staccata dagli altri, posso quindi<br />
manipolarli o eventualmente utilizzarli a mio solo vantaggio. Gli altri diventano semplici<br />
oggetti. La separatività cancella e nega l’azione di ritorno, nega la legge del causa-effetto: io<br />
posso fare del male e non riceverne: ciò dipende unicamente dalla mia astuzia e dalla mia<br />
furbizia.<br />
La furbizia: ecco il valore essenziale, il valore sotteso a questa logica egocentrica,<br />
separativa e competitiva. La furbizia consente di farla franca, di sfruttare gli altri e di non<br />
pagare i debiti contratti.<br />
L’astuzia diventa così sinonimo di intelligenza. Ma in realtà è una falsa intelligenza:<br />
anzi, è una vera e propria forma di stupidità spesso apprezzata e culturalmente diffusa.<br />
Persino la ricerca scientifica non è immune da questa forma di stupidità. La separatività nella<br />
126
scienza, apparentemente così produttiva, sta producendo un danno incalcolabile. 26 La<br />
separatività nella politica produce un incredibile spreco di risorse e perpetua l’oppressione dei<br />
più ricchi e potenti sui più poveri e indifesi. La separatività nell’economia ha generato dei veri<br />
mostri, imprese in grado di produrre immensa ricchezza per alcuni, disoccupazione e<br />
disperazione per moltissimi. I manager più pagati sono quelli che licenziano di più: mille,<br />
cinquemila, ventimila dipendenti.<br />
La stupidità ecologica è uno stato di coscienza perverso e tremendamente diffuso.<br />
Oggi urge più che mai sviluppare un tipo di ricerca, un tipo di scienza, un tipo di<br />
psicologia, un tipo di economia e di politica, che si fondino su un nuovo stato di coscienza. 27<br />
All’intelligenza-astuzia, alla falsa intelligenza, va sostituita un’intelligenza-saggezza. La<br />
mente di gruppo è uno strumento privilegiato per rendere attuabile questa trasformazione.<br />
La mente di gruppo, come stato di coscienza allargato, è la più adatta a trovare<br />
soluzioni vere a problemi insolubili in un ordinario stato di coscienza ristretto. Essa, per<br />
definizione, comprende in sé, simultaneamente, differenti punti di vista, diverse visioni e,<br />
nello stesso tempo, una visione allargata che li considera tutti.<br />
Leadership evolutiva.<br />
L’uomo contemporaneo è attraversato, al suo interno, da un conflitto lacerante tra<br />
almeno tre differenti modelli di etica: l’etica autoritaria, tradizionale, fondata sulla gerarchia,<br />
sullo sfruttamento e sul potere dominio; l’etica mercantile, alla base del cosiddetto pensiero<br />
unico, che considera esclusivamente il valore di scambio e si fonda sulla modalità<br />
dell’avere 28 ; l’etica umanistica, che pone al centro la persona, la sua autorealizzazione e i<br />
valori dell’essere (Scardovelli, 2002). Le prime due etiche sono responsabili dell’attuale<br />
degrado e difficoltà in cui versa l’ambiente e la società umana; la terza costituisce l’unico<br />
reale fondamento di un cambiamento di rotta.<br />
Attualmente uno degli impegni maggiori è formare trainer o leader capaci di facilitare<br />
la mente di gruppo nei più differenti contesti (scuola, formazione, lavoro, ecc.), allo scopo di<br />
26 Cfr. Wilson E. O., L’armonia meravigliosa, Mondadori, Milano, 1998<br />
27 Cfr. Walsh R., Ecologia della mente e sopravvivenza, Cittadella, Assisi, 1984<br />
28 Cfr. Fromm E., Avere o essere?, Mondadori, Milano, 1976<br />
127
diffondere i principi dell’etica umanistica e promuovere un’autentica cultura della pace. Per<br />
questo si richiede ad essi un forte impegno personale, al fine di sciogliere le zone d’ombra,<br />
trasformare il proprio carattere e sviluppare le necessarie qualità dell’essere, quali<br />
l’amorevole gentilezza, la compassione, l’empatia nella gioia, la trasparenza, la fratellanza. 29<br />
Per contro, la cultura del nazifascismo, che ha educato una generazione al culto del<br />
Guerriero, ha prodotto effetti nefasti, all’insegna della paura e dell’obbedienza agli ordini.<br />
Le domande da porsi restano ancora aperte: come possiamo evitare che l’umanità<br />
ricada nello stesso baratro devastante? La libertà e la democrazia non si esportano attraverso<br />
la guerra, bensì con l’informazione, la cultura, la propaganda, la collaborazione economica.<br />
L’Europa ha una strategia alternativa alla guerra preventiva? Tra Italia e USA è<br />
necessario un nuovo ponte, che connetta l’intera Europa al suo interlocutore privilegiato.<br />
L’Italia sembra la più attrezzata politicamente e culturalmente per costruire questo ponte, per<br />
le sue radici comuni e i valori condivisi con la civiltà statunitense.<br />
Questo libro intende fornire la risposta all’interrogativo concernente la necessità o<br />
meno di una guerra per dirimere le contese e opporsi al terrorismo: creando una cultura<br />
alternativa, educando i giovani fin da piccoli a distinguere tra il Guerriero negativo e quello di<br />
livello più elevato e ponendo i traguardi di crescita nei livelli più elevati, soprattutto nelle<br />
dimensioni<br />
archetipiche del Viaggio dell’Eroe, come il Cercatore, proiettato nella ricerca di significato<br />
della vita e del suo vero sé, che si pone come compito l’essere fedele ad una verità più<br />
profonda o più alta; il Distruttore, che si pone come traguardo la crescita, la metamorfosi, ma<br />
per fare questo deve essere iniziato ad un livello superiore dell’essere e “distruggere” almeno<br />
in parte ciò che lo tiene legato al passato, impedendogli un salto qualitativo; l’Amante, che ha<br />
come traguardo la felicità, il sentirsi uno in sé e con gli altri e come compito di impegnarsi nei<br />
confronti di ciò che ama; il Creatore, che si pone come traguardo la creazione di una vita, di<br />
un lavoro o di una nuova realtà quale che sia e come compito l’autocreazione e<br />
l’autoaccettazione.<br />
In questa linea di crescita o evoluzione personale spiccano i modelli che appartengono<br />
in gran parte alla cosiddetta psicologia umanistica.<br />
29 Cfr. Scardovelli M., PNL umanistica integrata e la mente di gruppo; in Strategie, n. 2, maggio-agosto 2003, pp. 18-20<br />
128
Il paradigma umanistico.<br />
La psicologia umanistica, detta anche terza forza, per distinguerla dal<br />
comportamentismo da una parte e dalla psicoanalisi dall’altra, ha origine negli Stati Uniti.<br />
L’elemento comune di questo movimento è la concezione dell’essere umano: non più<br />
determinato dall’ambiente (comportamentismo) o dai suoi istinti e impulsi (psicoanalisi),<br />
bensì soprattutto orientato verso uno scopo, lo scopo della sua attualizzazione. Il passato è<br />
importante, l’ambiente è importante, ma decisiva risulta la spinta evolutiva verso la<br />
realizzazione di sé e delle proprie potenzialità. Importante soprattutto diventa la presa di<br />
coscienza del proprio progetto di vita che fornisce senso all’esperienza della vita stessa.<br />
Autori come Maslow, Rogers, Assagioli, tutti concordano nell’attribuire grande risalto alla<br />
tendenza attualizzante insita nell’essere umano.<br />
Da questa concezione derivano grosse innovazioni nell’ambito della pratica<br />
terap<strong>eu</strong>tica: centrale diventa il tema dell’ascolto e dell’esplorazione di sé consentita dalla<br />
presenza di una relazione empatica. Non si tratta tanto di decondizionare e ricondizionare il<br />
paziente, né di fornirgli interpretazioni che attivino i suoi insight, bensì di offrirgli un contesto<br />
di opportunità, caldo, empatico e accogliente, che favorisca la sua autoesplorazione,<br />
l’autoascolto e il contatto con il sé profondo. La convinzione è che ogni persona abbia dentro<br />
di sé tutte le risorse per risolvere i propri problemi. Si tratta pertanto di facilitare nel cliente la<br />
riscoperta delle sue risorse, oltre che l’espressione e lo scioglimento della sua negatività, in un<br />
contesto di accettazione incondizionata.<br />
Temi ricorrenti nell’ambito della psicologia umanistica sono pertanto quelli del totale<br />
rispetto, della profonda accettazione, della stima, della valorizzazione dell’altro. Contatto con<br />
i propri veri sentimenti, spontaneità, congruenza, intimità diventano elementi chiave per<br />
valutare il percorso terap<strong>eu</strong>tico o il percorso di crescita personale. Crescita o evoluzione<br />
personale: ecco la comparsa di un concetto in parte nuovo. Dal momento che l’essere umano<br />
tende per sua natura ad evolvere e ad attualizzarsi, ne consegue che la terapia viene<br />
considerata solo uno dei contesti che possono facilitare questa trasformazione. Si preferisce<br />
pertanto evitare l’uso di termini come terap<strong>eu</strong>ta e paziente, sostituendoli con altri come<br />
facilitatore e facilitato o cliente. Inoltre si sperimentano vari modelli di terapia di gruppo, in<br />
cui le persone imparano a facilitarsi l’un l’altro.<br />
Nell’ambito della psicologia umanistica, sin dal suo esordio, cominciano a diffondersi<br />
corsi di formazione non diretti specificamente a terap<strong>eu</strong>ti, ma a persone comuni. Tutti<br />
possono beneficiare di questi seminari per la propria evoluzione personale e per imparare a<br />
facilitare gli altri nel proprio cammino. La psicologia tende a porsi al servizio dell’utente nel<br />
129
modo più diretto possibile, diventando psicologia di base. Lo specialismo si avvale di questo<br />
nuovo rapporto con gli utenti responsabili per confrontarsi e arricchirsi di nuove prospettive.<br />
L’apertura al transpersonale.<br />
All’interno di questo quadro di riferimento, ci sono autori come Maslow e Assagioli<br />
che considerano la spiritualità e la trascendenza aspetti connaturali dell’esperienza umana. In<br />
altri termini, l’evoluzione dell’uomo passa attraverso vari stadi: individuazione e<br />
autoaffermazione (caratterizzate da forte spinta competitiva), autorealizzazione (caratterizzata<br />
dall’attenzione al pieno sviluppo delle proprie potenzialità), e infine autotrascendenza<br />
(caratterizzata dal forte senso di appartenenza ad una comunità più vasta, per il cui bene si<br />
agisce). Questi autori, insieme ad altri, vengono oggi considerati fondatori della cosiddetta<br />
quarta forza, detta anche psicologia transpersonale. La psicologia umanistica e ancor più la<br />
psicologia transpersonale creano le premesse per un’etica su base scientifica: la profonda<br />
conoscenza dell’uomo mette in luce la sua tendenza evolutiva, spesso non realizzata, a vivere<br />
in conformità al bene comune. In altre parole, l’uomo ha in sé la scintilla divina o coscienza<br />
superiore che può renderlo creatore di un mondo armonioso e giusto. La sfida diventa allora<br />
quella di facilitare l’evoluzione di ognuno, in modo che la tendenza alla separazione, al<br />
conflitto e alla lotta lasci posto all’emergere del senso di unità, di appartenenza e fratellanza.<br />
Il contributo della PNL.<br />
La PNL, come modello per lo studio dell’esperienza soggettiva, ha tra i suoi compiti<br />
anche quello di favorire la crescita personale oltre al livello di identità, o livello<br />
transpersonale. Ci sono altri modelli psicologici già orientati in questa direzione: ad esempio<br />
la psicosintesi, l’enneagramma, la corenergetica, il movimento del sentiero ecc. In che modo<br />
la PNL può dare il suo contributo? Accelerando il processo di evoluzione personale, che passa<br />
attraverso la trasformazione della negatività. Tecniche come il cambio di storia, il<br />
reimprinting, la ristrutturazione, le recenti tecniche per far crescere le parti ecc., sono<br />
particolarmente efficaci e adatte al compito di rimuovere gli ostacoli al naturale processo di<br />
evoluzione personale.<br />
La PNL non è una tecnica spirituale, come la preghiera o la meditazione, ma raccoglie<br />
e sintetizza quanto di meglio le psicoterapie occidentali hanno prodotto nel campo della<br />
pulizia dell’inconscio inferiore e medio. Noi condividiamo con la psicosintesi e altre forme di<br />
130
psicoterapia l’idea che tale pulizia sia necessaria per accedere ad un autentico livello<br />
transpersonale. Lavorare solo sui livelli alti, trascurando i livelli più bassi, storicamente è stata<br />
una delle ragioni del fallimento concreto di molti movimenti che si ponevano obiettivi di<br />
crescita spirituale, comprese molte religioni. Analogo discorso rischia di essere<br />
profondamente vero anche per i movimenti pacifisti e ecologisti: porsi obiettivi di<br />
trasformazione del mondo esterno senza lavorare contemporaneamente per far evolvere ed<br />
allineare il proprio mondo interno, è probabilmente una delle utopie più dure a morire.<br />
Come hanno da sempre insegnato i grandi maestri dell’umanità, il vero cammino<br />
spirituale lo si misura non nel cielo, ma qui sulla terra, nel modo in cui ci rapportiamo con gli<br />
altri giorno per giorno, nel modo in cui abbandoniamo il nostro egocentrismo e diventiamo<br />
sensibili alla sofferenza che ci circonda (compassione), smettiamo di riprodurla (innocuità) e<br />
ci diamo da fare per alleviarla (cura). Illuminazione è la scoperta e l’esperienza che la<br />
sofferenza di qualsiasi persona è anche la nostra sofferenza, in quanto facciamo tutti parte di<br />
un organismo più grande.<br />
Occorre davvero aiutare il cammino spirituale, favorendo il riconoscimento e la<br />
trasformazione della nostra ombra e facilitando il contatto e la crescita di quelle parti interne<br />
che ostacolano l’integrazione e l’evoluzione personale. È opportuno sciogliere vecchi nodi<br />
emozionali, cui si sono ancorate saldamente antiche convinzioni e decisioni egocentriche e<br />
disfunzionali. La PNL può insegnarci a ricevere e dare feedback in modo costruttivo, cosicché<br />
impariamo ad interconnetterci in modo più sano e felice. Può farci sperimentare il<br />
collegamento tra i nostri singoli comportamenti e i livelli più alti, fino all’identità e alla<br />
missione, cosicché possiamo più facilmente procedere al nostro allineamento interno. Può<br />
darci l’opportunità di definire obiettivi e metaobiettivi ecologici e ben formati, scoprendo ed<br />
eliminando false aspirazioni e fasi desideri. Può fare tutto questo. Ma la capacità degli esseri<br />
umani di autoingannarsi, la capacità di sostenere un’idea e immediatamente dopo<br />
disconfermarla con i fatti, la capacità di costruire brillanti teorie a giustificazione delle azioni<br />
meno nobili, è talmente grande e sorprendente che, se vogliamo essere davvero onesti,<br />
dobbiamo riconoscerla e prevenirla. Non possiamo essere così ingenui da pensare che la PNL<br />
di per sé ce ne renda immuni. La storia della PNL, come infinite altre storie, è la storia dei<br />
dissidi interni, dei conflitti insanabili, delle scissioni inspiegabili, delle persone che parlano<br />
male le une delle altre in nome del bene comune.<br />
131
Nella nostra società della mente, come nella società esterna, il cammino evolutivo<br />
verso forme di rapporti ecologici, rispettosi e cooperativi è spesso molto difficile. La tendenza<br />
all’autoinganno è universalmente diffusa. 30<br />
Per smascherare e prevenire l’autoinganno è stata elaborata la metafora del Viaggio<br />
dell’Eroe o Eroina.<br />
30 Cfr. Sardovelli M., PNL umanistica integrata e la mente di gruppo; in: Strategie, op. cit. pp. 15-17<br />
132
CAPITOLO III<br />
LA POLITICA SOCIALE DELL’EUROPA<br />
IL VIAGGIO DELL’EROE O EROINA<br />
INCENTRATA SULL’IDENTITA’<br />
Il Viaggio dell’Eroe o Eroina viene spesso considerato una preparazione a quello che<br />
un tempo veniva designato come “comando”, ma che oggi indichiamo meglio come<br />
leadership, consistente “nel saper creare un mondo al quale le persone desiderino<br />
appartenere”, secondo la definizione di Gilles Pajou.<br />
Nei miti classici del Re Pescatore, il regno appare come una landa desolata in quanto il<br />
re è ferito o sofferente. Il giovane Eroe parte per un’impresa, uccide il drago e trova un tesoro<br />
che ridà vita a una cultura morente. In seguito al ritorno dell’Eroe, il regno si trasforma e<br />
torna a vivere una volta ancora, mentre il giovane Eroe diventa il nuovo Sovrano. Fuori<br />
metafora, nella misura in cui abbiamo dimenticato questo modello e vediamo la preparazione<br />
al “comando” come un semplice fatto di sviluppo di abilità, il governo del nostro regno<br />
soffrirà. Allora ci saranno i “partiti di plastica”, la tecnocrazia e l’Europa monetaria ed<br />
economica senza identità. La “morale” del mito è che nessuno può diventare un leader<br />
veramente grande senza prima aver intrapreso il Viaggio.<br />
Anche nel mondo scientifico bisogna distinguere i sovrani dai padroni. Le baronie<br />
presenti nelle università italiane, negli istituti di ricerca e negli ospedali costituiscono una<br />
chiara testimonianza del fenomeno “patronato”. Sette mila giovani italiani ogni anno vanno a<br />
lavorare all’estero nei laboratori di ricerca: fisici, matematici, biologi, medici. Gli scienziati<br />
italiani sono tra i più ricercati all’estero e ciò significa che la scuola funzione bene. Rita Levi<br />
Montalcini, che ha lavorato negli USA come medico ricercatore, il 14 gennaio 2004 ha<br />
dichiarato al telegiornale che negli USA c’è “senso del merito e non dell’appartenenza a<br />
gruppi di potere. In Italia sono i vecchi che comandano, non i giovani”. Un Paese vecchio,<br />
strutturato in caste di potere, non dà spazio alla creatività e resta arretrato anche sul piano<br />
dell’innovazione, della competitività.<br />
La classe dirigente che è al potere per fare le riforme e non per fare il mestiere della<br />
133
politica, dovrebbe occuparsi anche di questo scottante problema, che confina l’Italia alla<br />
marginalità scientifica.<br />
Sovrani o padroni?<br />
Nel nostro tempo, sottolinea Pearson, noi diventiamo Sovrani assumendoci la<br />
completa responsabilità della nostra vita, “non solo della nostra realtà esteriore, ma anche del<br />
modo in cui il mondo esterno riflette tale realtà. Questo comprende i modi in cui la nostra vita<br />
individuale si riflette sulla famiglia, sulla comunità e sulla società cui apparteniamo. Quando<br />
con tutta probabilità abbiamo finito con lo stare troppo comodi e abbiamo smesso di crescere,<br />
il nostro regno assume l’aspetto di un deserto; dobbiamo a quel punto permettere alla nuova<br />
vita - il nuovo Eroe - che si affaccia dentro di intraprendere un nuovo Viaggio”. 1<br />
Alla luce delle precedenti riflessioni sullo scambio dei ruoli, è importante chiedersi in<br />
che misura le nostre Eroine di oggi possano portare il loro contributo alla trasformazione di<br />
una cultura morente.<br />
Una politica sociale dell’Europa focalizzata sull’identità non può ignorare i problemi<br />
sollevati dalla tutela dei più deboli, in tutte le forme che essa può assumere.<br />
In un importante momento storico caratterizzato dalla modifica della Costituzione, in<br />
cui è stata riconosciuta la piena autonomia delle regioni nella programmazione del sociale, è<br />
importante riuscire a far condividere obiettivi omogenei da tutte le regioni, anche in vista di<br />
importanti stanziamenti in continuo aumento previsti dal Governo. È importante portare i<br />
servizi sociali vicino a chi ha bisogno. Nelle priorità, una politica che si adegui al<br />
cambiamento della società, prevede i servizi per i più deboli: giovani, anziani, disabili,<br />
tossicodipendenti, emarginati in genere. Tenendo presenti gli obiettivi di crescita e autonomia<br />
dell’individuo, si può operare in direzione “evolutiva”.<br />
Dove le circostanze lo consentono, si estrinsecherà come sollecitazione della crescita a<br />
livelli evolutivi superiori, perché non è detto che il debole vada protetto affinché resti debole,<br />
in modo da consentire a chi se ne occupa di assumere il ruolo di Eroe-protettore. Ci sono<br />
situazioni in cui lo stimolo a rischiare e a crescere può mettere il più debole in condizioni di<br />
rafforzarsi e di diventare autonomo, in modo da non dipendere dalle cure dei protettori.<br />
La tutela degli indifesi si esprime anche come difesa della vita in germe, che viene<br />
percepita dalla donna come “creatura vivente” e non come “ammasso informe di cellule”.<br />
1 Pearson C. S., Risvegliare l’eroe dentro di noi, op. cit. p. 200<br />
134
Posso portare una testimonianza - una delle tante - in cui una giovane di 32 anni, ricordando<br />
l’esperienza dell’aborto a cui è ricorsa a 22 anni, si esprime in questo modo: “Lo vivo<br />
(l’aborto) con senso di colpa. Prima di abortire era incoscienza, paura. Mi è arrivato addosso<br />
senza che mi rendessi conto. Pensavo che non mi sarebbe mai capitato di restare incinta e di<br />
dover abortire. All’inizio è stato un sollievo, poi ho cominciato a razionalizzarlo. È una<br />
macchia che ti porti dentro, che non si può cancellare, né giustificare. È meglio portarsi dietro<br />
il dolore, anziché addossarlo ai bambini. Secondo me, non avrò bambini ... Bisogna essere<br />
tranquilli, forti, liberi da pregiudizi e dispiaceri che hai. Devi prenderti la<br />
responsabilità, devi avere qualcosa da dargli. (Il figlio) deve avere il papà giusto, che voglia i<br />
bambini . Mauro (il ragazzo con cui vive attualmente) è egoista. È rimasto a sua volta scottato<br />
da quando a 22 anni ha messo incinta una ragazza di 17 anni con cui si era appena messo<br />
assieme e i genitori di lei hanno dovuto firmare per ottenere l’aborto. Si sono lasciati dopo<br />
otto anni, ma lei gli ha rinfacciato di averla messa incinta”.<br />
Come traspare dalle parole di questa giovane donna, l’aborto non viene cancellato<br />
dalla memoria e viene vissuto con senso di colpa, anche se questa scelta appare<br />
nell’immediato come un “sollievo”. Poi subentra il dolore per la perdita della vita che la<br />
donna porta dentro di sé, anche se viene razionalizzata come “male minore” rispetto al male<br />
che si può arrecare ad un bambino facendolo nascere senza essere preparati per crescerlo.<br />
Dopo aver abortito, questa giovane sognava spesso di avere il bambino in braccio senza viso,<br />
oppure “lo vedevo e sentivo la pancia grande come se fosse dentro”.<br />
È importante sottolineare che questa testimonianza non appartiene ad una cattolica<br />
praticante, ma semplicemente ad una ragazza per cui il valore della vita non è l’ultimo nella<br />
scala dei valori e credo che la maggior parte delle donne abbia una scala in cui certamente<br />
questo valore non sarebbe collocato all’ultimo gradino.<br />
Pertanto, la salvaguardia della vita non ha attinenza con il fatto di essere religiosa e/o<br />
praticante, ma semplicemente con la percezione di essere una donna che ha in sé la capacità di<br />
generare la vita. D’altronde, ho potuto constatare che l’aborto non lascia indifferenti neppure i<br />
“padri mancati”, che subiscono un contraccolpo a volte traumatico, con strascichi depressivi<br />
che durano a lungo e vengono alla luce in psicoterapia.<br />
Un ragazzo di 25 anni, la cui ragazza ha avuto un aborto a 19 anni, mi confidava<br />
commosso: “Il senso della vita ... ho scherzato con certe cose ... sono stato superficiale.<br />
Adesso mi sento ... è come se avessi perso ... messo 500 kg. sulla testa. La mia vita è<br />
cambiata. I mesi successivi ero tremendamente depresso ... Sento di avere sbagliato; mi sento<br />
in colpa”.<br />
135
Qualcun altro è rimasto “traumatizzato” dal fatto che la ragazza ha deciso di abortire<br />
senza avvertirlo.<br />
Ho aiutato varie donne nella difficile fase in cui dovevano decidere se tenere o no il<br />
bambino e quasi tutte, superato il momento delicato dello smarrimento, si sono orientate verso<br />
la maternità, se riuscivano a vedere una possibilità di provvedere al bambino. A distanza di<br />
tempo, sono rimaste contente della loro scelta.<br />
Essere Eroine può quindi significare adoperarsi per tutelare la vita e i più deboli e<br />
diffondere una cultura di adesione ai valori fondamentali della vita e di protezione e crescita<br />
dei più deboli, affinché si evolvano fino ai gradini più alti di crescita nel Viaggio dell’Eroe.<br />
L’archetipo del Sovrano nella nostra vita.<br />
Come sottolinea Pearson, “il Sovrano è il simbolo della completezza e del<br />
raggiungimento del Sé, non solo nei suoi stadi sperimentali e formativi, ma come espressione<br />
della nostra identità nel mondo, un’espressione abbastanza potente da trasformare la nostra<br />
vita, dentro e fuori. Il Sovrano è intero e completo, in quanto l’archetipo unifica il sapere della<br />
giovinezza a quello dell’età matura, tenendoli in tensione dinamica. Quando questa tensione si<br />
rompe e ne consegue uno squilibrio, occorre intraprendere un nuovo viaggio, conquistare un<br />
nuovo tesoro che possa trasformare ancora una volta il regno”. 2<br />
Quando dentro di noi è in funzione il Sovrano, siamo integrati, completi e pronti ad<br />
assumerci la responsabilità della nostra vita. Il nostro regno ci riflette e guardandoci attorno<br />
possiamo vedere noi stessi. Ad esempio, se il nostro regno è arido e sterile, è perché riflette<br />
l’aridità e la sterilità che è dentro di noi. Se viene continuamente attaccato e invaso, vuol dire<br />
che il nostro Guerriero non ne protegge i confini e occorre che il Sovrano mobiliti le truppe.<br />
Se il nostro regno è inospitale e aggressivo, è perché il nostro Angelo custode non è<br />
abbastanza sollecito e operante. Il Sovrano deve occuparsi di tutte le carenze connesse ai<br />
problemi del suo regno. Viceversa, quando il regno fiorisce, è indice di integrazione, armonia,<br />
equilibrio tra le parti. Il Sovrano è l’archetipo della prosperità materiale. Suo compito è<br />
promuovere l’ordine, la pace, la prosperità e l’abbondanza. “Ciò significa un’economia sana,<br />
leggi sane che vengono rispettare e corroborate, un ambiente che promuove lo sviluppo di<br />
ciascun individuo, un saggio uso delle risorse, tanto umane che materiali”. 3<br />
2 Ibidem p. 200<br />
3 Ibidem p. 201<br />
136
Quando nella nostra vita è all’opera l’archetipo del Sovrano, apprezziamo il processo<br />
dell’esprimere la nostra identità nell’ambito del lavoro, della casa, del denaro e dei beni<br />
materiali. E abbiamo una certa fiducia nella nostra capacità di cavarcela. Il Sovrano è un<br />
realista che non può permettersi di avere illusioni. In effetti, deve comprendere la politica del<br />
potere e interpretarla correttamente. Non può farsi illusioni circa la minaccia rappresentata dai<br />
nemici. Poiché il bravo Sovrano comprende anche la connessione tra interno ed esterno, fra<br />
Re/Regina e il regno, non può farsi illusioni neppure sul proprio conto. Deve conoscere il<br />
proprio Sé Ombra ed essere pronto ad assumersene la responsabilità.<br />
A questo proposito, è utile richiamare le parole del Vangelo, che ci illuminano sul<br />
significato del potere: (Matteo, 20, 25-28).<br />
Pertanto, chi vuole intendere il potere in senso evoluto, quale compimento della<br />
propria umanità, dovrà rendersi disponibile agli altri con umiltà e semplicità, assumendo in sé<br />
le caratteristiche del maschile e del femminile, in una armonica integrazione.<br />
“L’archetipo del Sovrano abbraccia non soltanto gli estremi della giovinezza e della<br />
maturità, ma anche quelli del maschile e del femminile. Il Sovrano androgino è simbolo del<br />
completamento del processo della trasformazione alchemica. [...] I vari procedimenti chimici<br />
che separano l’essenza dell’oro (o spirito) dagli elementi inferiori (o materia) corrispondono<br />
agli stadi del Viaggio spirituale dell’Eroe dalla realtà accettata, dominata dall’Io, al dinamico<br />
regno dello Spirito. Lo stadio finale - simboleggiato dalla regalità, dall’oro, dal sole - significa<br />
la felice capacità di esprimere la realtà dello Spirito manifestandola nella realtà della<br />
materia”. 4<br />
L’archetipo del Sovrano è androgino e include sia il maschile che il femminile. Per<br />
comprendere meglio questo punto, è opportuno precisare che secondo una ricerca svolta nella<br />
California del Nord dalla psicologa e psicoterap<strong>eu</strong>ta Helen Wambach 5 si rinasce mediamente<br />
in corpi maschili e femminili nella stessa proporzione. Potremmo concludere con una frase<br />
di Manuela Pompas: ...”non è l’anima ad avere una polarità sessuale - anzi essa le<br />
4 Ibidem p. 200<br />
5 Wambach H., Vita prima della vita, Ed. Mediterranee, Rome, 1991.<br />
137
possiede entrambe, è androgina - ma solo il corpo, che tra l’altro fino ai primi mesi di vita<br />
prenatale contiene in sé la possibilità di assumere entrambe le caratteristiche sessuali,<br />
determinate poi dai cromosomi” 6 .<br />
In tale prospettiva, quindi, anche l’omosessualità, se non vissuta con forti sensi di<br />
colpa e disagi psichici e fisici, diventa parte integrante di un lungo percorso di crescita<br />
spirituale che riguarda ogni essere umano. Ciò non giustifica la diffusione del fenomeno<br />
attraverso l’assunzione di una presunta “normalità” che incoraggerebbe gli “esitanti” a<br />
sperimentarlo, ma nemmeno la sua stigmatizzazione o condanna moralistica e<br />
colpevolizzante. Il fenomeno, ovviamente, va distinto dalla pedofilia, autentica “perversione”<br />
che semina sofferenza e gravi disturbi psichici nelle “vittime”.<br />
Il Sovrano come archetipo ha a che fare con l’affermazione del nostro potere di bene e<br />
di male. Molti hanno paura degli archetipi più potenti, in particolare di quello del Sovrano,<br />
perché la loro capacità di male è altrettanto grande di quella di bene. Un tempo si riteneva che<br />
solo poche persone fossero in grado di intraprendere il Viaggio e di diventare Sovrani della<br />
propria vita.<br />
Nel periodo medioevale la gente credeva nel diritto divino dei Re e delle Regine<br />
ritenendoli in grado di ascoltare e parlare per conto di Dio. Gli altri dovevano semplicemente<br />
essere obbedienti ai loro ordini. Tuttavia, “i Sovrani che non erano in tale relazione con la<br />
sapienza divina o il cui egotismo e la cui arroganza erano più forti dell’insegnamento si sono<br />
resi responsabili di grandi abusi di potere, ma se noi governiamo come gli antichi Sovrani che<br />
erano anche iniziati alle grandi scuole dei misteri, non prenderemo decisioni sull’esclusiva<br />
base delle esigenze dei capricci del nostro Io. Ci consulteremo in permanenza col nostro<br />
Spirito. Via via che impareremo a vivere in una maniera che riflette la nostra conoscenza più<br />
intima e profonda, vivremo diversamente, e nel momento in cui vivremo diversamente, la<br />
nostra vita creerà un effetto onda che influenzerà tutti gli altri regni attorno a noi” 7 .<br />
“Poca scienza allontana da Dio, molta scienza riconduce a Lui”, ha detto una volta<br />
Louis Past<strong>eu</strong>r. In effetti, chi sa molto, sa anche quanto non sa e quindi è aperto al mistero. Chi<br />
sa poco, ma è convinto di sapere tutto, non ammette misteri. Poca scienza allontana da Dio in<br />
quanto è accompagnata da molta presunzione.<br />
“Stato laico” non significa sbarazzarsi dell’idea di Dio o assumere la dea Ragione<br />
della Rivoluzione Francese.<br />
6 Pompas M., La terapia R.., Mondadori, Milano, 1997, p. 86<br />
7 Ibidem p. 203<br />
138
Significa non sovrapporre il potere politico a quello religioso, usando la religione per<br />
essere più efficaci politicamente. Lo “stato laico” è uno stato democratico che si basa sul<br />
rispetto dei diritti umani tra cui - vista l’attualità dell’argomento della procreazione assistita -<br />
il diritto alla vita e il riconoscimento dell’identità biologica dell’embrione che contiene in sé<br />
fin dal concepimento il programma in base al quale si svilupperà l’individuo concreto. Tutti<br />
noi siamo stati quell’embrione, che viene ora congelato o buttato via quando non serve più.<br />
Il Sovrano crea un regno di pace e di armonia diventando pacifico e armonioso al suo<br />
interno. La filosofia per cui il mondo interiore e quello esteriore si riflettono a vicenda è anche<br />
alla base dei grandi miti, in particolare per quanto riguarda il rapporto del Re o Regina col suo<br />
regno. Quando nella nostra vita è alla guida il Sovrano, abbiamo la possibilità di vederci come<br />
sovrani dei nostri regni e di agire in maniera tale da far diventare la nostra vita esattamente<br />
come vogliamo che sia.<br />
Il narcisista è per definizione autocentrato, non ascolta, non empatizza con gli altri. È<br />
quindi certamente inadeguato a promuovere la loro evoluzione ed è naturalmente<br />
incompetente a generare quel clima di sinergia necessario a formare un gruppo produttivo e<br />
una mente di gruppo. In termini buddhisti, i leader narcisisti sono preda del demone del<br />
potere 8 .<br />
Nella Bibbia sta scritto “ama il prossimo tuo come te stesso”. Traducendo in termini<br />
psicologici, solo quando riusciamo a diventare un buon genitore per noi stessi, generalmente<br />
guarisce anche il bambino interiore e siamo in grado di essere dei buoni genitori e “terap<strong>eu</strong>ti”<br />
per gli altri. Ma se non arriviamo ad amarci dando a noi stessi quello che diamo agli altri,<br />
finiamo per inacidirci ed essere dei “frustrati”, ambiziosi e arroganti o aspri, maligni,<br />
denigratori, velenosi e corrosivi.<br />
“Tutti i buoni monarchi e leader politici - prosegue Pearson - si identificano nel bene<br />
della collettività, e armonizzano i desideri e le aspirazioni personali con i bisogni degli altri.<br />
Nel decidere ciò che vogliono per sé, pensano anche al più vasto bene sociale. Se non<br />
vogliamo essere meschini tiranni, demagoghi, galoppini della politica o opportunisti,<br />
dobbiamo allargare la mente e il cuore ad abbracciare un senso più vasto della nostra sfera di<br />
influenza” 9 .<br />
8 Cfr. Ikeda D., La vita: mistero prezioso, Sonzogno, Milano, 1982<br />
9 Ibidem p. 203<br />
139
Qualcuno ha osservato che l’unico vero realista è il visionario. Il vero realismo del<br />
Sovrano corrisponde all’attuazione pratica di strategie di altissimo livello e ad una visione<br />
illuminata di sé, degli altri e del mondo. Ma un Io ipertrofico può slittare verso la perdita del<br />
senso della realtà, sotto la spinta di una megalomania che porta a credere di essere i padroni<br />
del mondo. Hitler perse il senso della realtà, pungolato da un’illimitata sete di potere, quando<br />
decise di assumere il comando della Wehrmacht e si mise in conflitto con i suoi generali<br />
dando disposizioni che contrastavano con la realtà dei fatti, che i suoi generali coglievano<br />
molto meglio di lui, essendo sul campo di battaglia, mentre Hitler non si mosse quasi mai dal<br />
suo quartier generale, dall’inizio della seconda guerra mondiale.<br />
I Sovrani che perdono il senso della realtà diventano pericolosi, perché portano il<br />
popolo alla rovina.<br />
Se il Sovrano crea un regno di pace e di armonia, come abbiamo constatato nel corso<br />
dell’esposizione, la dimensione archetipica dell’Orfano e del Guerriero, quando radicalizza la<br />
sua posizione, porta alle ideologia e alle terribili conseguenze che abbiamo descritto.<br />
Intervistato da Bruno Vespa alla trasmissione “Porta a porta” del primo dicembre<br />
2003, il vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini ha ribadito che bisogna “farsi carico<br />
della storia”. L’articolo sulle leggi razziali che dice “gli ebrei sono stranieri e appartengono ad<br />
una razza nemica” fa parte di una pagina assolutamente infame della storia italiana. Gli<br />
italiani non reagirono alle infami leggi razziali.<br />
Non reagire oggi equivarrebbe a “strizzare l’occhio” all’antisemitismo. Alleanza<br />
Nazionale come custode dei valori nazionali deve fare i conti con questo interrogativo: il<br />
passato storico è un peso o un elemento di identità? Se è un peso, dobbiamo liberarcene. In<br />
Italia il dopoguerra è durato sessant’anni.<br />
Lo stesso discorso vale per il nazismo. Mio figlio, in terza elementare, osservò: “I<br />
tedeschi sono nazisti”. Gli ho fatto visitare la Germania e conoscere la sua storia attraverso i<br />
racconti delle guide, per fargli comprendere che la Germania non equivale a quel nazismo<br />
durato dodici anni che gli è stato presentato nei documentari storici. La Germania va oltre il<br />
nazismo, con una storia che affonda le radici nella cultura dei popoli che in parte entrarono a<br />
far parte dell’Impero Romano.<br />
Per scrollarsi da dosso il retaggio del passato, bisogna incontrare quello stesso passato<br />
e dichiarare a se stessi e agli altri che non ci identifichiamo con esso, anche se in quel periodo<br />
c’è stato del “buono”. In ogni periodo storico ci sono pagine nere, grigie e bianche.<br />
Riconoscere storicamente questo colore, tuttavia, non significa necessariamente identificarsi<br />
con un certo periodo. La politica va distinta dalla storia.<br />
140
Ancora oggi sussiste il pregiudizio che essere di destra significhi essere fascisti, ossia<br />
sostenitori della politica adottata da Mussolini, e/o custodi della memoria di quel periodo e<br />
prigionieri della nostalgia del passato. Per quanto concerne la sinistra, oggi il suo<br />
antisemitismo non si può definire ideologico, ma “di riflesso”, come demonizzazione di<br />
Israele. È tuttavia “pregiudiziale”, in quanto dalla critica fanno derivare un pregiudizio verso<br />
il popolo ebraico. Per non cadere in questo pregiudizio, bisogna distinguere tra stato di Israele<br />
ed ebraismo, tra antisemitismo e critica a quanto Sharon stava facendo per risolvere i<br />
problemi del Paese. I no-global, nelle manifestazioni che inneggiano ai palestinesi, finiscono<br />
per radicalizzare l’avversione verso il popolo ebraico preso nel suo complesso e, quindi per<br />
seminare il pregiudizio razziale.<br />
Un altro pregiudizio radicato nella cultura politica italiana riguarda il cosiddetto<br />
“antifascismo”, che dovrebbe significare “libertà e opposizione alla dittatura”. Ma non tutti gli<br />
antifascisti sono contro la dittatura. Basti pensare che alcuni italiani si riconoscevano nello<br />
stalinismo.<br />
Inoltre, come possiamo constatare esaminando quanto è accaduto durante il<br />
comunismo e il nazifascismo, il regime comunista e quello nazifascista hanno in comune<br />
l’identificazione dello stato con il partito unico e il livellamento, l’omogeneizzazione, per cui<br />
non viene dato spazio alle voci che non si conformano alla linea del partito. Apparentemente<br />
incompatibili, quindi, i due regimi totalitari hanno in comune la negazione della libertà e della<br />
diversità.<br />
Clemente Mastella (UDEUR), a fine novembre 2003, ha proposto di togliere la parola<br />
“comunismo” dalla designazione di partito. Mentre Bertinotti, leader di Rifondazione<br />
comunista, si è mostrato favorevole alla proposta, Diliberto, leader dei Comunisti italiani, ha<br />
preferito “far vivere un ideale”, dimostrando quanto è radicata l’identificazione con la cultura<br />
comunista.<br />
La giustificazione che viene di solito avanzata riguarda l’osservazione che il<br />
comunismo italico è sempre stato diverso da quello sovietico. Tuttavia, qualcuno può far<br />
notare che il totalitarismo insito nel comunismo e tutte le conseguenze di esso si rendono<br />
evidenti solo al momento della presa del potere. È a questo punto che il comunismo mostra la<br />
sua “vera faccia”. Ciò non è stato possibile in Italia, in quanto il comunismo non ha mai<br />
governato il Paese. È, invece, stato possibile osservare i suoi effetti in tutti quei Paesi in cui è<br />
andato al potere. Ed è ancora possibile cogliere la sua portata repressiva della libertà nei Paesi<br />
in cui è ancora al governo, come Cuba, Corea del Nord, Laos, ecc.<br />
Qualcuno può anche osservare che in Italia abbiamo potuto avere un assaggio dello<br />
141
“stile” di epurazione del comunismo nel periodo di Tangentopoli, quando una frangia<br />
politicizzata della magistratura ha liquidato un’intera classe politica, comprendente in larga<br />
parte democristiani e socialisti, cioè i moderati.<br />
Oggi in Italia si ama discutere sulla “qualità della democrazia” controllando l’entità<br />
del “conflitto di interesse” di qualcuno o valutando la possibilità di affermazione della satira<br />
politica che dovrebbe servire a mettere alla berlina chi è al potere, senza schierarsi. La satira<br />
dovrebbe mettere in ridicolo, anche se gli insulti e le accuse infamanti e infondate, più che<br />
suscitare ilarità, risvegliano aggressività e violenza. Gli ascoltatori non si pongono il<br />
problema delle prove: basta lanciare il sospetto, per creare una “realtà virtuale”, che ha lo<br />
stesso potere di quella “vera” nell’influenzare il comportamento, come dimostrano gli studi<br />
sull’ipnosi clinica e come suggerisce quel famoso illuminista che decretò: “Calunniate,<br />
calunniate; qualche cosa resterà”. Tuttavia, a questo punto qualcosa segna il confine tra ciò<br />
che è satira e ciò che non lo è: il codice civile e penale. Non a caso D’Alema sporse querela a<br />
Forattini quando pubblicò una vignetta in cui D’Alema sbianchettava il suo nome inserito<br />
nella lista delle spie italiane al servizio dell’URSS.<br />
Ma dovrà passare ancora del tempo perché gli italiani comprendano quanta parte ha<br />
avuto la cultura del comunismo nell’epurazione giudiziaria che ha eliminato la classe politica<br />
al potere sostituendola con quella di sinistra.<br />
Gli archetipi calati nella cultura.<br />
La cultura dell’Orfano, molto egualitaria, solidale con gli individui che si uniscono<br />
contro l’oppressione o per aiutarsi nella difficoltà e nel dolore, crede nell’aiuto scambievole,<br />
ma può sconfinare infierendo sugli altri. Per quanto concerne l’ideologia comunista, può<br />
emergere persistentemente il lato occulto di questa cultura, che mantiene i metodi di lotta<br />
politica attraverso l’utilizzo della giustizia politica. Il lato Ombra dell’Orfano è costituito dal<br />
cinismo, insensibilità, masochismo o sadismo e dall’usare il ruolo di vittima per sfruttare<br />
l’ambiente.<br />
D’altro lato, la cultura del Guerriero, esigente, disciplinata, del lavoro duro e<br />
dell’atteggiamento stoico, in cui la competitività è al primo posto, esalta la conquista e il<br />
dominio. L’ideologia nazifascista, che si rivela impregnata del mito del Guerriero, degenera<br />
nelle forme più rozze, bieche, crudeli e spietate del livello evolutivo del Guerriero. Il lato<br />
occulto del nazismo, peraltro, emerge in tutte le forme di razzismo e discriminazione su base<br />
etnica, religiosa e sessuale. E bisogna considerare che i conquistatori sono come le palle di<br />
cannone. Quando rallentano, cadono, per cui non si fermano mai.<br />
142
La cultura del Guerriero insegna anche il coraggio, la disciplina e il rispetto di alti<br />
standard di comportamento, nell’interesse del bene comune, ma può sconfinare<br />
nell’insensibilità, nello sfruttamento, nell’imperialismo, nella distruzione della terra. Il lato<br />
Ombra del Guerriero, pertanto, è rappresentato dal bisogno di vincere amorale e ossessivo,<br />
dalla crudeltà, dall’uso del potere a fini di conquista e dalla concezione delle differenze come<br />
di una minaccia.<br />
Entrambe queste culture sono accomunate da scarsa attenzione per i bisogni<br />
dell’individuo, considerato da Hitler “un granello di polvere”, per usare una sua espressione, e<br />
da Marx qualcosa di analogo, comunque “sacrificato” per il bene della “rivoluzione” e del<br />
sistema comunista.<br />
Ignorare o sottovalutare i bisogni dei cittadini, tuttavia, significa creare le premesse<br />
per l’enantiodromia, in cui ciò che viene negato riaffiora prepotentemente e “guida” la scelta<br />
del governo successivo.<br />
In ultima analisi, questa cultura improntata alla difesa dei confini identitari può<br />
diventare dominio e volere impositivo, nella misura in cui resta negli stadi inferiori del<br />
percorso evolutivo e si chiude in una visione dualistica e gerarchica della realtà, in cui il<br />
mondo è visto come conflitto tra punti, idee o forze opposte, così che ciò che più conta è<br />
sempre chi o che cosa è superiore o più degno. Il compito dell’Eroe è sconfiggere o<br />
assoggettare tutto ciò che è inferiore, internamente o esternamente, alla sua volontà. Così,<br />
sotto la dittatura spietata di Saddam, le donne erano “cose” uccise in casa senza processo.<br />
L’approccio del Guerriero alla spiritualità consiste nell’individuare il male ed<br />
eliminarlo o dichiararlo illegale. È l’impeto che portò alle Crociate e alla guerra dei moderni<br />
fondamentalisti contro il peccato, il male e il demonio. A un gradino lievemente superiore il<br />
“peccatore” o l’“infedele” può essere salvato se adotta le stesse convinzioni religiose<br />
dell’Eroe.<br />
Scrive Pearson al riguardo:<br />
Di recente ho incontrato un cristiano carismatico, che mi ha parlato di quello che è il processo<br />
tipico del movimento a cui appartiene. La gioia della conversione, il senso di essere rinnovato e<br />
rigenerato dalla comunità ecclesiale, spesso è seguita dall’evangelismo. La fede iniziale è che basterà<br />
parlare agli altri di Gesù perché si salvino. Ma ecco che non solo molte persone non mostrano alcun<br />
interesse alla “buona novella”, ma è la propria stessa vita che può non andare come si era sperato.<br />
L’<strong>eu</strong>foria iniziale della salvazione è passata, e la vita ha ancora le stesse lotte, gli stessi alti e bassi. La<br />
tentazione a questo punto è di regredire al dogmatismo e di cercare di imporre - attraverso la legge o la<br />
143
pressione sociale - le proprie vedute sugli altri. L’impulso nasce dalla convinzione che la comunità<br />
cristiana ideale non possa realizzarsi in condizioni di così flagrante peccato. Quando la conversione<br />
non trasforma la propria vita, si sente l’esigenza di una vera disciplina e obbedienza militare.<br />
Io sospetto che questo sia anche ciò che è accaduto col marxismo in Russia e in Cina. Una<br />
volta che una verità liberante è stata messa in pratica e la comunità perfetta ha continuato a sembrare<br />
molto lontana, l’antidoto al cinismo e alla perdita di fede sono stati il dogmatismo e la repressione. La<br />
stessa frustrazione che ha prodotto il maccartismo nel nostro Paese [USA]. 10<br />
Queste riflessioni sulla tentazione di imporre il proprio punto di vista agli altri,<br />
attraverso la legge o la pressione sociale, e di regredire al dogmatismo, quando la conversione<br />
non trasforma la propria vita, sono attribuibili anche al fondamentalismo islamico. L’esigenza<br />
di una vera disciplina e obbedienza militare appare come il risvolto esteriore dell’incapacità di<br />
operare una trasformazione interiore: si agisce all’esterno in modo drastico e intransigente<br />
perché frustrati dal fatto che la “verità liberante” messa in pratica non dà i frutti della<br />
“comunità perfetta”, dell’“utopia realizzata”, dello “stato ideale definitivo”. Così, il<br />
dogmatismo e la repressione costituiscono l’antidoto al cinismo e alla perdita di fede. In<br />
breve, si perde la fede o si diventa cinici o rigidi e dogmatici, di fronte alla frustrazione di<br />
veder infranto il proprio “ideale”.<br />
Il fondamentalista che insiste nel prendere la Bibbia o il Corano alla lettera come<br />
regola e modello per l’azione, è essenzialmente unilogico, ossia considera falsa ogni altra<br />
visione del mondo che non sia uguale alla sua. Lui è nel “vero assoluto” e gli altri sono nel<br />
falso.<br />
Il Guerriero negativo.<br />
Un Guerriero di questo tipo è deciso a cambiare il mondo uccidendo il “drago”, il<br />
“male”. Non ci sono terroristi buoni e cattivi. Occorre usare un unico parametro di<br />
valutazione, in quanto la cultura della morte è nefasta per tutti e la sacralità della vita vale per<br />
tutti o per nessuno.<br />
Tra le 150 varietà di terrorismo, quello islamico esprime le conseguenze disastrose di<br />
un’ideologia totalitaria ispirata al potere e al controllo politico-economico del mondo. Il<br />
terrorismo degli emissari di Al Qaida usa l’Islam per conseguire un obiettivo di potere. I<br />
burattinai usano i burattini abbindolandoli, sacrificandone le loro vite per servire interessi<br />
10 Pearson S. P., L’eroe dentro di noi, Astrolabio, Roma, 1990, p. 101<br />
144
connessi al potere. Bin Laden ha investito 300 milioni di dollari per finanziare il suo progetto<br />
di potere che prevede l’accaparramento del petrolio dell’Arabia Saudita, sua patria di origine<br />
e il controllo delle città sacre all’Islam: Medina e La Mecca. Bin Laden creò il Fronte<br />
Internazionale Islamico contro gli ebrei, con l’obiettivo di massacrare in modo indiscriminato<br />
cristiani, ebrei e musulmani che non condividono le sue idee e per ciò stesso vengono<br />
considerati corresponsabili di un progetto ostile alle sua ambizioni di potere. Il motto “chi non<br />
è con me, è contro di me” si addice dunque perfettamente alla natura di questa ideologia<br />
molto simile al nazismo per la sua portata aggressiva, intimidatoria e orientata al dominio.<br />
Ci si può chiedere se queste considerazioni valgano anche per la Cecenia, visto che il<br />
terrorismo ceceno intende rivendicare l’indipendenza.<br />
Perché il terrorismo si è accanito contro i bambini dell’Ossezia? Si tratta in questo<br />
caso di terrorismo attivo o reattivo? Quando accadono barbarie di questo genere, non si può<br />
certo sostenere che i terroristi facciano gli interessi del popolo ceceno. Siamo di fronte ad un<br />
terrorismo globalizzato che, sia pure di fronte ad una specificità nazionale, si coagula intorno<br />
ad un’ideologia in cui prevale l’ostilità verso un ordine costituito in Israele, negli USA, in<br />
Occidente e verso la pace negoziata.<br />
Non a caso i primi attentati suicidi in Palestina si sono verificati nell’ottobre ’93, dopo<br />
che Rabin strinse la mano al leader palestinese e prefigurò un processo di pace. I terroristi<br />
disconoscevano il diritto di Israele all’esistenza e ne volevano la distruzione. Essi non<br />
vogliono né pace né stato palestinese. Ciò spiega perché, ogni volta che si fissa un incontro<br />
improntato al dialogo, fanno un attentato. Vogliono rinviare l’incontro perché non vogliono la<br />
pace. Così, il terrorismo nuoce a tutti, alla maggioranza che vuole la vita e la pace.<br />
I proclami registrati che periodicamente Bin Laden fa trasmettere dalle televisioni<br />
arabe sono carichi di invettive contro gli “infedeli” e il demonio che li possiede. Chi non<br />
pensa come Bin Laden fa parte della categoria del Male e la sua organizzazione terroristica,<br />
Al Qaida, opera su vasta scala contando su un gigantesco giro d’affari.<br />
Il suo fatturato annuo è di 1.500 miliardi di dollari. Che vuol dire il doppio del<br />
prodotto interno lordo della Gran Bretagna, giusto per dare un termine di paragone. Oppure il<br />
5% del prodotto interno lordo dell’intera economia mondiale. Al Qaida non è solo la più<br />
temuta e temibile organizzazione terroristica planetaria, ma è anche e soprattutto l’esempio<br />
più significativo della globalizzazione dell’economia del terrorismo. E sono proprio i suoi<br />
meccanismi di alimentazione finanziaria a preoccupare i vertici dell’Unione Europea a tutti i<br />
livelli.<br />
Il fatto è che l’Occidente, e l’Europa in particolare, sono un terreno strategico per i<br />
145
movimenti dei capitali che finiscono nelle casse del terrorismo, Bin Laden in testa. Lo segnala<br />
Loretta Napoleoni, economista, autrice tra l’altro di un libro-inchiesta sull’economia del<br />
terrorismo dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, in un’ampia intervista a “Polizia<br />
moderna”, la rivista della nostra Polizia. La notizia è apparsa su “Il Gazzettino” del 27 giugno<br />
2004. La sua denuncia è chiarissima e circostanziata: “Dei 1.500 miliardi di dollari del<br />
fatturato di Al Qaida, la maggior parte viene riciclata proprio in Occidente. Si tratta di<br />
un’enorme iniezione di contanti, che infiltra e supporta l’economia dei Paesi che sono, sul<br />
piano politico, i principali nemici del radicalismo islamico armato”.<br />
La UE è consapevole di questo fenomeno pervasivo; anche perché sui tavoli che<br />
contano, a Bruxelles, c’è un denso quanto allarmante rapporto delle Nazioni Unite, diffuso<br />
alla fine del 2003, nel quale si segnala tra l’altro che pochissimo è stato fatto sul piano<br />
finanziario delle indagini. Spiega Napoleoni : “Dall’attacco a Manhattan dell’11 settembre a<br />
oggi, sono stati congelati solo 150 milioni di dollari in tutto il mondo, il 70 % dei quali<br />
depositato in Occidente, in banche americane ed <strong>eu</strong>ropee. È chiaro che servono ulteriori<br />
misure per fermare il gigantesco flusso di denaro che affluisce ogni anno nelle casse dei<br />
gruppi di estremisti armati”.<br />
Insomma, si assiste al paradosso che l’Occidente, impegnato a combattere il<br />
terrorismo, in realtà alimenterebbe la propria economia con proventi di holding finanziarie<br />
che stanno dietro a gruppi eversivi. C’è di più: un terzo della mole di denaro che va a<br />
finanziarli proviene da attività lecite, almeno all’apparenza; il resto deriva da attività illegali<br />
redditizie, come il traffico di droga o di armi, con legami accertati tra gruppi eversivi e<br />
organizzazioni criminali. La minaccia numero uno proviene da Al Qaida, spiega Napoleoni:<br />
“Attualmente, la rete che fa capo a Osama Bin Laden ha enormi capacità finanziarie, superiori<br />
a quelle di ogni altra formazione. La gran parte dei fondi di Al Qaida proviene dal traffico di<br />
stupefacenti e dal contrabbando di prodotti elettronici. Ma un 30 % del suo fatturato deriva da<br />
investimenti in vari settori dell’economia sia occidentale che asiatica”.<br />
Bin Laden può contare su svariati banchieri: la maggior parte vive in Arabia Saudita;<br />
ma ce ne sono anche in occidente, banche <strong>eu</strong>ropee comprese, incaricati di spostare i capitali di<br />
Al Qaida da una parte all’altra del mondo e farli fruttare. Con rilevanti novità dopo l’11<br />
settembre: si è disinvestito in Occidente e si è investito tantissimo sul mercato delle materie<br />
prime, soprattutto in oro e diamanti.<br />
La battaglia per colpire questa gigantesca “piovra” è dunque tutta da combattere e va<br />
affrontata su molti fronti e a vari livelli.<br />
Per fronteggiare il terrorismo sul piano politico, militare ed economico, per estirpare le<br />
146
cause e colpire i burattinai del terrore, non serve la strategia di fare i buoni, pensando che se<br />
noi facciamo i buoni, “loro” smetteranno di fare i cattivi.<br />
Il buonismo, in questo caso, fa solo perdere del tempo prezioso per approntare<br />
strumenti di intervento adeguati e intralcia il lavoro di chi studia seriamente una strategia<br />
efficace.<br />
Un minaccioso messaggio indirizzato al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in<br />
cui lo si accusa di aver sostenuto l’inferiorità dell’Islam rispetto alla civiltà occidentale, è<br />
stato pubblicato il 3 agosto 2004 sul sito web arabo “qal3ah.info”, dalle “Brigate di Abu Hafs<br />
Al Masri - Formazione Al Qaida - settore Europa - Dipartimento dell’Informazione:<br />
comunicati e operazioni”, firmato da Abu Khaled El Tikriti.<br />
“I giorni passano e la civiltà occidentale segue nelle sue politiche la posizione<br />
americana - si dice nel testo del messaggio - dopo che il presidente americano ha definito la<br />
sua invasione dell’Afghanistan ‘guerra crociata’. Berlusconi si permette di parlare della civiltà<br />
islamica, che è una civiltà profonda nella storia e che ogni persona saggia riconosce come<br />
tale. In questo caso a parlare è una persona la cui storia si rivela con il volto della civiltà di<br />
Mussolini”.<br />
“Berlusconi - continua il testo - ha dimenticato che il suo primo antenato era fascista e<br />
che il 20° secolo è testimone dei crimini che ha commesso. E chi sei tu Berlusconi per parlare<br />
di civiltà mentre i tuoi soldati uccidono l’uomo in Iraq? Chi sei tu Berlusconi per parlare di<br />
civiltà, tu che domini il tuo popolo grazie ai tuoi soldi? E che cos’è questa civiltà di cui<br />
parli?”.<br />
“L’Islam, - conclude il messaggio - non si interessa a queste parole che tu dici e non<br />
aspetta nessuno per parlare della sua profondità, della sua bontà, alle nostre anime di<br />
musulmani. Dio è testimone ed i giorni sono vicini... gli ingiusti sapranno qual è la loro<br />
sorte”.<br />
Nello stesso sito le “Brigate di Abu Hafs Al Masri” affermano di non aver diffuso altri<br />
comunicati dopo quello del 28 luglio contenente altre minacce all’Europa e a Berlusconi<br />
(“Faremo tremare le città d’Europa e cominceremo con te, Berlusconi. Lo faremo in modo<br />
sanguinoso finché non tornerai sulla retta via”).<br />
Naturalmente, la “retta via” è quella del ritiro dall’Iraq dei militari italiani in missione<br />
umanitaria. Al Qaida impone le sue condizioni con toni intimidatori di stampo nazista. La<br />
“civiltà islamica” che Al Qaida intende diffondere è sul piano evolutivo allo stesso livello del<br />
nazismo. Nel Mein Kampf Hitler usa toni analoghi per esaltare la bontà e la profondità della<br />
sua ideologia.<br />
147
Il 5 agosto 2004 c’è un livello di massima all’erta, anche guardando al cielo. Di qui,<br />
infatti, secondo il ministro della Difesa, Antonio Martino, potrebbe venire l’attacco “come<br />
l’11 settembre insegna”. Contro questo rischio, “le difese aeree vanno rafforzate” è la logica<br />
del ministro, con uno “scudo” formato da sistemi anti-missile. Un allarme, avvalorato dalle<br />
indagini giudiziarie che proverebbero l’esistenza in Italia di cellule legate ai gruppi terroristici<br />
islamici.<br />
Il nostro dispositivo, ha sottolineato il ministro, era già stato messo a punto dopo<br />
l’attentato dell’11 settembre 2001 a Manhattan contro le Torri Gemelle: proprio il generale<br />
Tricarico ne è stato uno degli artefici, mentre il generale Ferracuti ha garantito che il<br />
meccanismo fosse operativo. Certo, ha aggiunto Martino, non ci si può fermare a quanto fin<br />
qui fatto: “Naturalmente, se guardiamo al lungo periodo, dovremmo dotarci di risorse e<br />
capacità che attualmente non abbiamo per avere una protezione più efficace. Ma quello che<br />
facciamo ora è soddisfacente”.<br />
Su quali fronti potrebbe verificarsi il potenziamento delle nostre difese aeree? Il<br />
ministro ha risposto: “Sto pensando per esempio ai missili anti-missile, uno dei settori che va<br />
rafforzato. Ci sono tante capacità che il Capo di Stato Maggiore della Difesa, che segue queste<br />
cose professionalmente, esaminerà”.<br />
Il ministro ha affrontato il caso terrorismo più in generale considerando l’aumentato<br />
stato di allarme in tutto il mondo occidentale dopo le ulteriori minacce di Al Qaida e di<br />
Osama Bin Laden: “Il controllo completo dello spazio aereo resta prioritario per le<br />
democrazie occidentali che in questo nuovo millennio - ha detto Martino - devono affrontare<br />
la sfida del terrorismo ed i diversi impegni legati alla conduzione delle missioni di pace”. In<br />
questo contesto, l’Italia deve quindi poter disporre “di un’Aeronautica con standard elevati,<br />
con personale eccellente in ogni livello di responsabilità, perfettamente integrabile in<br />
schieramenti multinazionali ed interforze che costituiscono la realtà dell’oggi e del domani”.<br />
Anche il generale Leonardo Tricarico ha sottolineato l’esigenza di poter contare su<br />
“un’Aeronautica sempre pronta a scendere in campo in qualunque momento e senza<br />
preavviso, flessibile nel necessario grado per confrontarsi con il nuovo avversario, il<br />
terrorismo, proiettata verso una a lungo attesa e meritata modernizzazione, schierata a difesa<br />
della collettività e dei suoi valori universalmente condivisi e minacciati dal nuovo nemico. E<br />
tutto sempre evitando le luci della ribalta, guidati solo da un radicato senso del dovere e da<br />
uno spirito di servizio senza riserve”.<br />
Se per il ministro Martino, quindi è necessario “stare sempre all’erta”, i compiti di<br />
prevenzione del terrorismo sono ormai diventati per il generale Tricarico la parte più<br />
148
qualificante del nuovo ruolo dell’Aeronautica Militare: “Tutti ricorderanno - ha citato ad<br />
esempio Tricarico - il consistente e prolungato dispiegamento del dispositivo aereo a cavallo<br />
delle ultime festività natalizie, quando un presunto pericolo di matrice terroristica pareva<br />
gravare a carico dello Stato Vaticano e della persona del Papa”.<br />
“In quell’occasione - ha ricordato Tricarico - l’Aeronautica Militare, dopo brevissimo<br />
preavviso, mandò in volo già nella notte di Natale e nei giorni successivi numerosi aerei, fece<br />
il debutto sullo scenario operativo il nuovo caccia F16, e mantenne un dispositivo di sicurezza<br />
che impegnò molti reparti. Tutto questo senza riflettori né clamore, nella nostra tradizione di<br />
fare il nostro dovere in silenzio”.<br />
Il ministro Martino ha preso anche posizione nel dibattito in corso in tema di riforma<br />
dei servizi, manifestando il proprio favore per il mantenimento di una doppia struttura con<br />
compiti differenti, anziché puntare sulla soluzione dell’Agenzia unica: “Gli Stati Uniti hanno<br />
messo mano ai servizi segreti perché è un problema che si trascinava da tempo. Hanno un<br />
numero di enti di intelligence molto elevato e questo ha dato dei problemi in passato.<br />
Rumsfeld, in uno dei primi incontri con me, tre anni fa, mi disse che c’erano troppe agenzie di<br />
intelligence. Il nostro problema è diverso: noi abbiamo due servizi segreti con specifiche<br />
competenze. Si farà probabilmente una riforma perché le riforme non mancano mai, però io<br />
credo che la differenziazione di compiti sia comunque un bene da preservare”.<br />
Anche in altri Paesi d’Europa lo stato di allarme è altissimo.<br />
Era arrivato alla fase finale della pianificazione di un attentato all’aeroporto londinese<br />
di Heathrow, Abu Masa Al-Hindi, nome in codice “Bilal”, considerato il leader di Al Qaida in<br />
Gran Bretagna. Arrestato insieme ad altri 11 sospetti terroristi dagli agenti di Scotland Yard,<br />
“Bilal” è stato individuato grazie a una soffiata fornita ai colleghi britannici dall’intelligence<br />
pakistana che ha anche rivelato che l’uomo riceveva istruzioni direttamente da Osama Bin<br />
Laden. Dall’aeroporto alle navi: il 5 agosto 2004 il capo della Royal Navy, l’ammiraglio Sir<br />
Alan West, ha rivelato che i governi occidentali hanno informazioni di intelligence secondo le<br />
quali i terroristi vedono le navi come un obiettivo interessante ed hanno piani per attaccarle.<br />
In America l’FBI ha arrestato l’imam e il fondatore di una moschea di Albany. I due<br />
sarebbero legati ad Ansar Al Islam, il gruppo terroristico attivo nel nord dell’Iraq collegato ad<br />
Al Qaida. Il piano, secondo indiscrezioni non confermate, era quello di acquistare un missile a<br />
spalla per uccidere l’ambasciatore pakistano alle Nazioni Unite.<br />
Il livello poliziesco, militare e di intelligence, pur essendo importante, non può<br />
soppiantare la considerazione del livello politico, culturale e sociale. Un’Europa forte,<br />
autorevole e unita potrà affrontare la nuova sfida del terrorismo senza quelle esitazioni,<br />
149
incertezze che lasciano aperta una breccia alle velleità di conquista dei terroristi.<br />
La sinistra italiana oltranzista e radicale e l’Ulivo diviso, che in prossimità delle<br />
elezioni <strong>eu</strong>ropee hanno chiesto il ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq sperando in<br />
un “effetto Zapatero”, per vincere le elezioni, hanno dato un’immagine di sé di<br />
irresponsabilità, ben sapendo che il ritiro avrebbe comportato il caos in un Paese in fase di<br />
recupero. Questo modo di “fare politica” non giova alla costruzione di un’Europa forte e<br />
coesa, capace di fronteggiare le sfide lanciate da Guerrieri negativi.<br />
L’immagine che i terroristi si fanno degli <strong>eu</strong>ropei e degli americani non è meno<br />
importante delle valutazioni dei punti di attacco per poter colpire ancora. Stiamo dando<br />
l’impressione di essere un continente compatto o diviso? Siamo politicamente forti o deboli?<br />
Siamo militarmente equipaggiati? La risposta a queste domande è determinante nell’orientare<br />
le attività dei terroristi. Se USA ed Europa daranno l’impressione di costituire un “fronte<br />
unico” di Resistenza al terrorismo, certamente ciò determinerà il corso successivo degli<br />
eventi. Occorre pertanto soffermarsi a riflettere su alcune questioni aperte.<br />
Magdi Allam, egiziano nato a Il Cairo nel 1952, vive da molti anni in Italia dove si è<br />
laureato in Sociologia all’Università La Sapienza di Roma. Si occupa di argomenti quali<br />
terrorismo, Islam, immigrazione, rapporti nord-sud. Nel suo libro “Kamikaze made in Europe.<br />
Riuscirà l’Occidente a sconfiggere i terroristi islamici?” (Mondadori, 2004), presentato il 7<br />
settembre 2004 nella città in cui vivo, parla del fenomeno terroristico che si è enormemente<br />
accentuato e nasce da una contrapposizione radicale ai valori occidentali su cui si innesta la<br />
nostra civiltà.<br />
L’Occidente si è trasformato in una roccaforte islamica e necessita di una strategia<br />
capace di arginare il fenomeno. L’Europa è una fabbrica di terroristi suicidi, in quanto in essa<br />
avviene il processo di formazione e addestramento e l’esportazione dei “prodotti finiti”, i<br />
kamikaze pronti a farsi esplodere. Da Brescia a Cremona sono partite decine di combattenti<br />
islamici e almeno cinque si sono fatti esplodere in Iraq.<br />
L’integralismo islamico ha iniziato il suo processo di espansione nel 1970, dopo la<br />
sconfitta panaraba ed era presente a livello di predicazione nelle moschee. Con l’assassinio di<br />
Sadat nel 1981 ha raggiunto il punto culminante.<br />
Secondo Allam, dopo il crollo del Muro di Berlino, il mondo arabo e islamico<br />
aderiscono al mondo della globalizzazione, al sistema di valori occidentale.<br />
La crisi del mondo arabo e musulmano si è affermata non perché fosse estraneo alla<br />
globalizzazione, ma per la difficoltà di gestire la modernizzazione, l’occidentalizzazione. Il<br />
conflitto di base si delinea tra la necessità di far parte di questo mondo e salvaguardare la<br />
150
propria identità. L’11 settembre 2001 e l’11 marzo 2004 rappresentano l’apice dell’impatto<br />
emotivo rispettivamente negli USA e in Europa suscitato da questa crisi, con un’aperta<br />
dichiarazione di guerra verso i valori occidentali su cui si fonda la nostra civiltà.<br />
Questo comportamento si può paragonare sul piano psicologico a quello<br />
dell’adolescente che, per affermare la sua identità, distrugge tutto ciò che rappresenta<br />
l’identità degli altri. Spiegherò diffusamente questo punto nel volume “Il pensiero adolescente<br />
di Hitler”.<br />
151
DIALOGO O GUERRA?<br />
Processo di islamizzazione e terrorismo.<br />
A chi obietta che l’Iraq era un Paese in pace prima che gli USA scatenassero la guerra,<br />
si può rispondere che, affinché ci sia la pace, bisogna essere in due a volerla. Saddam era uno<br />
sponsor del terrorismo: assegnava 25mila dollari ad ogni famiglia con un kamikaze. Ha<br />
ospitato per decenni due grandi terroristi. L’Iraq era un Paese in guerra: il regime iracheno ha<br />
attuato una pulizia etnica a danno delle popolazioni curde, costrette ad abbandonare la loro<br />
terra e sterminate nel 1989 con armi chimiche. Un milione di iracheni sono stati massacrati o<br />
sono morti in guerre volute da Saddam contro l’Iran e il Kuwait.<br />
Ora gli iracheni si sono liberati di un regime oppressivo e si attendono strategie di<br />
riequilibrio socio-economico.<br />
La guerra contro il regime di Saddam è finalizzata a prosciugare il bacino di coltura<br />
del terrorismo e ad instaurare la democrazia.<br />
Qualcuno può obiettare che la “guerra preventiva” non può diventare una regole nelle<br />
relazioni internazionali e gli USA hanno sbagliato nel non coinvolgere la comunità<br />
internazionale nella decisione di attaccare il regime di Saddam. Si può osservare in proposito<br />
che la guerra contro il regime di Milosevic per salvare gli albanesi del Kosovo dalla pulizia<br />
etnica fu giustificata come “ingerenza umanitaria”, senza consenso dell’ONU. Sulla base della<br />
necessità etica di salvare dallo sterminio dei musulmani in pericolo, gli <strong>eu</strong>ropei chiamarono<br />
gli americani ad intervenire per sbrogliare la matassa. E la NATO intervenne dove non<br />
c’erano pozzi di petrolio da controllare. Il Parlamento italiano e parte dell’opinione pubblica<br />
sostennero l’intervento armato.<br />
L’“asse del male” sostenuto da Bush comprende un certo numero di Paesi; come mai è<br />
stato scelto l’Iraq come bersaglio primario? Ci sono altri Paesi arabi autoritari e collusi con il<br />
terrorismo, come la Siria e l’Iran. Come mai la scelta è caduta sull’Iraq? Si può rilevare che<br />
l’Iraq era “un caso particolare”, non uno dei tanti, perché in esso si stava consumando una<br />
“pulizia etnica” di tutti coloro che non pensavano come Saddam, con la persecuzione dei<br />
curdi e degli sciiti, che costituiscono la maggioranza religiosa del Paese. La guerra con l’Iran<br />
e l’invasione del Kuwait ribattezzato 19ª provincia irachena ci riporta alla memoria<br />
l’invasione di Hitler della Polonia. I sogni di Saddam di costituire un impero panarabo sono<br />
collegabili al progetto di Hitler di germanizzare l’Europa sotto il suo dominio. Queste<br />
considerazioni non sono applicabili alla Siria e all’Iran, per cui la differenza che fa la<br />
differenza è proprio la struttura totalitaria e di conquista del regime di Saddam equiparabile al<br />
152
egime di Hitler, malgrado Saddam fosse un idolatra di Stalin e della sua dittatura. Le<br />
ideologie hanno in effetti molti punti in comune, tra cui la natura totalitaria e totalizzante e<br />
l’insofferenza verso la “diversità”, che odora di “eresia” sul piano teorico e di “opposizione<br />
ostile” sul piano pratico.<br />
La cultura del terrore è una piovra i cui tentacoli si stanno allungando senza<br />
distinzione di età, sesso, nazione, colore politico. Tant’è vero che ha sequestrato due<br />
giornalisti francesi e sappiamo che la Francia si è opposta alla guerra in Iraq e non ha inviato<br />
contingenti sul posto. Il giornalista Baldoni era un pacifista che operava nel volontariato, ma<br />
ciò non ha impedito la sua barbara uccisione.<br />
D’altro lato, perché un commando di terroristi il 7 settembre 2004 ha sequestrato due<br />
donne italiane? Simona Torretta e Simona Parri lavoravano per l’associazione umanitaria “Un<br />
ponte per Baghdad”. Attraverso di esse, è stato colpito il simbolo del volontariato, ritenendo<br />
implicitamente che chiunque collabori alla normalizzazione dell’Iraq sia un complice del<br />
governo di Allawi.<br />
emissari.<br />
Il terrorismo sta conquistando l’Europa attraverso un piano di diffusione dei suoi<br />
Il 5 giugno 2004 il quotidiano Il Giornale ha reso noto che “l’Italia si sta comportando<br />
in modo esemplare nella lotta al terrorismo, tant’è vero che molti governi hanno seguito<br />
quello che ha fatto il ministro Giuseppe Pisanu”. Lo ha detto il 4 giugno 2004 il segretario<br />
generale dell’Interpol, Ronald Noble, a un convegno internazionale organizzato nella sede<br />
fiorentina dell’università di New York. “Siete il Paese leader nello scambio di notizie”, ha<br />
detto Noble aggiungendo che il governo italiano “è stato il primo al mondo a diffondere i dati<br />
sui passaporti, i documenti d’identità e le carte di credito rubati che sono strumenti usati dai<br />
terroristi per trasferirsi in maniera sicura da un posto all’altro; così come l’Italia ha diffuso<br />
l’allarme, fornendo dettagliate descrizioni, quando pacchi bomba raggiunsero il presidente<br />
della Commissione <strong>eu</strong>ropea Romano Prodi e altri esponenti internazionali”. L’Italia - ha<br />
concluso il capo dell’Interpol -, ha aperto la strada “segnalando un milione e mezzo di<br />
documenti rubati”.<br />
E il 10 giugno 2004 un comunicato diffuso al telegiornale serale annunciava che le<br />
Brigate Verdi di Maometto, responsabili del sequestro di quattro italiani il 13 aprile 2004,<br />
avevano già emesso la sentenza di morte, quando un blitz li ha liberati. Si precisa che<br />
l’esecuzione sarebbe stata decretata “per fornire una risposta all’arrogante presidente<br />
Berlusconi” e sarebbe stata filmata.<br />
Le Brigate Verdi hanno usato gli ostaggi per ricattare il governo italiano, chiedendo il<br />
153
itiro del contingente in Iraq, le scuse ufficiali per le “offese” del premier all’Islam e infine<br />
una manifestazione contro Bush e Berlusconi. Naturalmente, le richieste sono state ignorate e<br />
non c’è stata alcuna trattativa con i terroristi, mentre è stata intensificata l’azione diplomatica<br />
con il governo locale. Il blitz è stato portato a termine “quando eravamo sicuri”, ha precisato<br />
il premier Berlusconi.<br />
Un farneticante messaggio delle Brigate “Abu Hafs Al Masri”, lancia un “ultimo<br />
avvertimento al popolo italiano: mandate via l’incapace Berlusconi o bruciamo veramente<br />
l’Italia”. Il messaggio è stato diffuso l’11 agosto 2004 sul sito “Hostinganine”.<br />
Le Brigate “Abu hafs Al Masri” hanno ereditato il nome di battaglia di uno dei<br />
massimi dirigenti di Al Qaida, l’egiziano Mohammed Atef, ucciso nella campagna USA in<br />
Afghanistan nell’autunno 2001. E’ l’organizzazione che ha rivendicato le stragi di Madrid<br />
dell’11 marzo (191 morti) con una e-mail al giornale londinese in lingua araba “Al Quds Al<br />
Arabi” inviata lo stesso giorno. Apparve per la prima volta il 25 agosto 2003, quando<br />
rivendicò con un comunicato su Internet l’attentato del 19 agosto alla sede ONU di Baghdad,<br />
che causò la morte di oltre 20 persone, compreso l’inviato speciale in Iraq delle Nazioni<br />
Unite, Sergio Vieira de Mello. Il 3 marzo 2004 le Brigate avevano invece respinto ogni<br />
responsabilità negli attentati antisciiti che il giorno precedente avevano fatto almeno 271<br />
morti in Iraq. Il 15 luglio un comunicato annunciava un “bagno di sangue come quello dell’11<br />
settembre 2001 negli USA” se gli italiani non avessero cambiato l’attuale governo. Il 10<br />
agosto le Brigate si sono poi fatte vive rivendicando gli attentati della notte precedente contro<br />
due alberghi e un deposito di gas a Istanbul, che avevano causato due morti.<br />
Il messaggio delle Brigate “Abu Hafs Al Masri” continua in questi termini: “Questa è<br />
una semplice equazione che noi mettiamo nelle vostre mani, per non essere responsabili.<br />
Questo è un avvertimento. Il prossimo messaggio lo vedrete sulla vostra terra, non su Internet.<br />
Berlusconi vi conduce verso altro sangue e verso la schiavitù completa all’America.<br />
Ricordatevi del vostro giornalista Antonio Russo, ucciso dall’intelligence di Putin per la<br />
semplice ragione che condivideva le sofferenze con i nostri fratelli in Cecenia. Lui era un loro<br />
ospite dignitoso, in quel momento Berlusconi non fece nulla per indagare sulla verità e sulle<br />
cause dell’uccisione. Non dovete farvi ingannare dai mass media che lui controlla o<br />
possiede”.<br />
Come si può constatare, le cellule di Al Qaida si propongono di indirizzare le scelte<br />
politiche di una nazione e danno giudizi di merito su chi appartiene al “regno del bene” e chi<br />
va confinato nel “regno del male”, secondo una visione dualistica del mondo che compare<br />
nelle “realtà ideologiche”.<br />
154
Il messaggio prosegue attaccando i media italiani: “Fanno interviste con Fuad Allam e<br />
con mercenari suoi simili, che dicono di essere i rappresentanti dell’Islam civile pacifico. Non<br />
dovete farvi ingannare dalle loro parole. Noi siamo capaci di colpire obiettivi con armi non<br />
convenzionali, che causano un enorme disastro. Siamo in Italia. Nessuno di voi è sicuro al suo<br />
posto, dovrete aspettarvi un bagno di sangue simile a quello dell’11 settembre”.<br />
Il testo - scritto in un elegante arabo classico - segue di poche ore un altro messaggio<br />
apparso sul portale Islamic Minbar che prende particolarmente di mira Berlusconi, inserito al<br />
terzo posto degli obiettivi mondiali da colpire. Il messaggio è firmato dalle Brigate Abu Bakr<br />
Al-Siddiq - sezione informativa di Al Qaida in Europa: “Berlusconi, sei nelle nostre mani e ti<br />
sgozzeremo come sgozziamo gli agnelli. Il tuo destino sarà simile a quello di Paul Johnson e<br />
degli altri agnelli. La nostra vendetta giungerà attraverso le nostre brigate. La punizione sarà<br />
dura e non saremo indifferenti nei confronti di chi tenta di colpire l’Islam ed i musulmani”.<br />
Nel sito, subito dopo le minacce contro il premier italiano, viene riportata la lista<br />
stilata dai terroristi con i nomi dei leader da colpire. Al primo posto troviamo il presidente<br />
americano George W. Bush, seguito da Tony Blair e da Silvio Berlusconi. Quarto è il<br />
Segretario di stato americano Colin Powell e quinto il premier israeliano Ariel Sharon. Poi in<br />
ordine vengono il premier australiano John Howard, il re saudita Fahd, il premier iracheno<br />
Iyad Allawi, il re giordano Abdullah II, il presidente egiziano Hosni Mubarak e quello libico<br />
Muammar Gheddafi.<br />
I militanti delle “ideologie” detestano i fautori del dialogo e trattano come mercenari e<br />
traditori coloro che dicono di essere i rappresentanti dell’Islam civile pacifico e i leaders dei<br />
Paesi arabi moderati, che sono nel mirino degli attentati alla stessa stregua degli USA, Gran<br />
Bretagna e Italia.<br />
Il 5 giugno 2004 Il Giornale ha pubblicato anche un articolo che può offrire lo spunto<br />
per alcune riflessioni. Il giornalista Ruggero Guarini lo ha intitolato “La Chiesa separi martiri<br />
e kamikaze”. Lo riporto integralmente per evitare tagli arbitrari:<br />
Può un miscredente non privo di un vago sentimento religioso permettersi di sovrapporre un<br />
rispettoso quesito alle importanti parole che monsignor Cesare Mazzolari, il vescovo di Rumbek, nel<br />
sud del Sudan, durante la commovente intervista concessa per Il Giornale a Stefano Lorenzetto, ha<br />
pronunciato sul singolare ritardo con cui a suo avviso la Chiesa sta incominciando a capire la gravità<br />
della minaccia islamica?<br />
Mi riferisco alla risposta che egli ha dato quando Lorenzetto gli ha chiesto se ritiene esagerato<br />
definire “scontro di civiltà” il conflitto fra Occidente e Islam. “No. Siamo solo agli inizi - egli ha detto<br />
155
-. La Chiesa ha abbattuto il comunismo, ma sta appena percependo la sfida dell’islamismo, che è ben<br />
peggiore. Il Santo Padre non ha potuto raccogliere questa sfida per motivi di età. Ma il prossimo papa<br />
si troverà ad affrontarla in pieno”.<br />
Dopodiché, forse temendo di essere frainteso, ha creduto opportuno chiarire che la sfida non<br />
potrà essere affrontata a partire dalla convinzione “che noi abbiamo ragione e loro torto”. Dovremo<br />
anzi tener conto del fatto che mentre “noi ci vantiamo di una tradizione cristiana che non viviamo nei<br />
fatti, il musulmano ha una costanza di pratica e di proselitismo superiore alla nostra”. E per chiarire il<br />
suo pensiero con un esempio, ha osservato che quando un maomettano dice “grazie” (“sukran”),<br />
questo per lui è già un atto religioso, giacché “l’arabo è la lingua del Corano”.<br />
D’accordo. Facciamoci dunque spiegare da loro il significato della parola “grazie”, ossia che<br />
“grazie” deriva da “grazia!”, cosa che monsignor Mazzolari sospetta non a torto che molti cristiani<br />
abbiano dimenticato. Ma intanto lui spieghi ai maestri dei loro “martiri” il vero significato della parola<br />
“martirio”. Ci sono forse oggi compiti più urgenti, per la Chiesa, della lotta contro quell’abietta<br />
concezione del “martirio” che glorifica e fomenta lo stragismo suicida del terrorismo islamista?<br />
Certo la Chiesa, su questo argomento, ha già detto tutto fin dai tempi in cui l’autore<br />
dell’Apocalisse, definendo Cristo “il testimone fedele”, decretò implicitamente che “martirio” vuol<br />
dire affrontare la propria morte (non quella altrui) per “testimoniare la fede”.<br />
Ora però che va molto di moda, fra i nostri cuginetti maomettani, quell’orribile idea di<br />
“martirio” che consiste nel votarsi simultaneamente al suicidio e al massacro, non sarà forse il caso di<br />
proclamare alto e forte (non in una comune omelia ma in uno di quei documenti del “magistero<br />
ordinario” che sono le encicliche) che non si tratta di martiri bensì di indemoniati?<br />
Ed ecco il quesito: per fare chiarezza su una parola così turpemente sfregiata da quella che<br />
forse è la più diabolica novità del nostro tempo non sarebbe opportuno che la Chiesa si decidesse ad<br />
affrontare il problema del vero e del falso martirio in un’apposita enciclica? So che si dice che esita a<br />
farlo per evitare che la collera di Allah si abbatta sui suoi figli, specialmente su quelli sparsi nel<br />
mondo islamico. Ma esitare a condannare apertamente come diabolica una così aberrante concezione<br />
del “martirio” non comporta la tacita rinuncia a testimoniare la propria?<br />
Leggendo l’articolo, possiamo avanzare alcuni dubbi sull’adeguatezza dell’attributo<br />
“indemoniati”, che rischia di acquisire connotazioni ideologiche da “caccia alle streghe e agli<br />
untori”. Sarebbe forse più opportuno considerare gli effetti dell’indottrinamento ideologico<br />
portato alle estreme conseguenze dall’immolare se stessi per uccidere il “nemico”. È lo stesso<br />
indottrinamento che nel Sudan sta consumando un “genocidio”.<br />
156
L’ultimo capitolo di una vicenda iniziata nell’Ottocento.<br />
Quello che sta accadendo nella regione occidentale del Sudan è solo l’ultimo capitolo<br />
di una vicenda che comincia con la conquista egiziana nell’Ottocento.<br />
Ex condominio anglo-egiziano, il Sudan è diventato indipendente nel ’56. Due<br />
dittature fino al 1985 e poi un colpo di Stato nell’89, che ha riportato al potere un regime<br />
militare. A maggio 2004, dopo vent’anni di scontri e due milioni di morti, è stata raggiunta<br />
un’intesa tra i ribelli del Sud e il governo centrale di Khartum. Il conflitto è ancora in corso<br />
nel 2004 nella regione occidentale del Darfur.<br />
I rifugiati nei campi sarebbero un milione e le vittime dei massacri non meno di<br />
10.000. Queste cifre bastano da sole a giustificare i viaggi in Sudan di Kofi Annan e di Colin<br />
Powell, le pressioni sul governo sudanese, il dibattito al Consiglio di sicurezza e l’attenzione<br />
della stampa internazionale per quello che viene sempre più spesso definito il “genocidio di<br />
Darfur”. Eppure vi è in questa improvvisa agitazione di alcuni governi e della maggiore<br />
organizzazione internazionale qualcosa di sorprendente.<br />
Quello che sta accadendo dal 2003 in una provincia occidentale del Sudan ai confini<br />
con il Ciad è solo l’ultimo capitolo di vicende iniziate al momento dell’indipendenza (1956) e<br />
per molti aspetti di una storia più antica che risale alla conquista egiziana della regione nei<br />
primi decenni dell’Ottocento.<br />
Cerchiamo di capire perché il Sud e il Nord del Sudan siano impegnati da quasi<br />
cinquant’anni, con qualche felice intervallo, in una delle più lunghe e sanguinose guerre civili<br />
della storia africana.<br />
La regione chiamata Sudan (in arabo “la terra dei neri”) entra nella storia moderna<br />
quando un riformatore egiziano, Muhammad Ali, si affranca dalla signoria dell’Impero<br />
Ottomano e decide di estendere i suoi domini verso il deserto nubiano, le coste meridionali<br />
del Mar Rosso e le terre dove il Nilo azzurro si congiunge al Nilo bianco. Conquistato da<br />
Ismael, figlio di Muhammad, il Paese diventa da quel momento un vespaio di contrasti politici<br />
e religiosi. La Chiesa cattolica vede nella discesa egiziana verso il cuore dell’Africa una<br />
grande occasione apostolica e lancia i suoi missionari alla conquista spirituale delle<br />
popolazioni animiste del Sudan meridionale. L’Islam marcia con l’intendenza degli eserciti e<br />
diffonde il proprio monoteismo lungo le sponde del Nilo. Gli esploratori scavalcano le truppe<br />
e perseguono un fine più terreno e scientifico: la scoperta delle fonti del Nilo. I mercanti arabi<br />
scendono lungo il Mar Rosso e creano piccole stazioni portuali per lo scambio delle merci.<br />
Ma alcuni fra essi commerciano in carne umana e fanno incetta di schiavi nei villaggi<br />
dell’interno, soprattutto al Sud.<br />
157
Dopo la metà del secolo la scena sudanese è occupata da almeno quattro personaggi di<br />
cui due sono italiani. Il primo è un missionario veronese, Daniele Comboni, di cui è apparsa<br />
presso l’editore Corbaccio, in occasione della sua canonizzazione, la bella biografia di<br />
Gianpaolo Romanato (L’Africa nera fra cristianesimo e Islam. L’esperienza di Daniele<br />
Comboni 1831-1881). Il secondo è un mistico combattente del Rinascimento musulmano. Si<br />
chiama Muhammad Ahmad (1844-85) e diventa rapidamente, agli occhi dei suoi fedeli, al-<br />
Mahdi, vale a dire l’uomo ispirato e mandato da Allah “per ripristinare nel mondo il regno<br />
della giustizia”. Il terzo è un generale inglese, Gordon Pascià (1833-85), devotamente<br />
anglicano, soldato al servizio di Dio, del Khedivé d’Egitto e della regina Vittoria. Il quarto è<br />
un esploratore, Romolo Gessi, vecchio garibaldino, legato da grande amicizia a Gordon per il<br />
quale accetta di compiere una operazione militare nel Bar-el-Ghazal, una provincia a Sud-Est<br />
del Darfur. I quattro protagonisti escono di scena negli stessi anni. Comboni muore nel 1881<br />
dopo essere divenuto vescovo e vicario apostolico, dalla sede di Khartum, per tutta l’Africa<br />
nera. Muhammad Ahmad muore a Omdurman nel 1885 dopo avere sconfitto più volte le forze<br />
anglo-egiziane e creato nel Sud “liberato” uno Stato teocratico.<br />
Gordon muore nel 1882 a Khartum, trafitto da una lancia dopo avere inutilmente<br />
difeso la città contro le truppe del Mahdi. Gessi muore a Suez nel 1881 durante il viaggio di<br />
ritorno da una lunga e difficile spedizione militare.<br />
Sulla scena abbandonata dai protagonisti irrompe qualche anno dopo un altro generale<br />
inglese. È Lord Kitchener, vendicatore di Gordon nella battaglia di Omdurman. Il cronista di<br />
quella giornata è un giovane e brillante scrittore-soldato: si chiama Winston Churchill.<br />
Da allora il Sudan fu un condominio anglo-egiziano e, di fatto, una colonia britannica.<br />
Ma quando divenne indipendente nel 1956 (l’anno in cui la Gran Bretagna dovette rinunciare<br />
al possesso del Canale di Suez), riapparvero alla superficie tutti gli ingredienti che ne avevano<br />
fatto, nel secolo precedente, uno dei paesi più turbolenti e ingovernabili dell’Africa.<br />
Fu subito evidente che le popolazioni africane del sud, prevalentemente cristiane e<br />
animiste, non avrebbero accettato il governo delle popolazioni arabe e musulmane del Nord.<br />
Agli inizi il motivo degli scontri fu soprattutto sociale ed economico. Il Sud vive soprattutto<br />
di agricoltura mentre gli arabi sono pastori; e i conflitti scoppiano, come ovunque in queste<br />
circostanze, per l’uso dell’acqua e della terra. Ma vennero inaspriti dalle differenze religiose<br />
allorché un governo ispirato dai Fratelli musulmani (la casa madre del fondamentalismo<br />
islamico) promulgò all’inizio degli anni Ottanta un codice penale ispirato ai principi della<br />
legge coranica (la sharia). Le truppe africane dell’esercito sudanese si ribellarono e trovarono<br />
rifugio in Etiopia da dove, costituite in Esercito di liberazione, scatenarono una nuova guerra<br />
158
civile. Da allora la storia del Sudan è una tragica sequenza di scontri sanguinosi, operazioni di<br />
guerriglia, brutali repressioni poliziesche, villaggi incendiati, massacri, stupri, popolazioni in<br />
fuga, epidemie, carestie. Dopo una nuova e più rigorosa proclamazione della sharia agli inizi<br />
degli anni Novanta la guerra divenne ancora più aspra. Secondo Yves Ternon, autore di un<br />
libro sui genocidi (Lo Stato criminale, Corbaccio 1997), le vittime, dopo dieci anni di<br />
combattimento, erano ormai non meno di mezzo milione. Quando il suo libro apparve in<br />
Francia nel 1995 il Sudan era diventato una roccaforte del fondamentalismo islamico. Aveva<br />
ospitato Osama Bin Laden prima della sua partenza per l’Afghanistan e sarebbe stato, di lì a<br />
poco, bersaglio di un attacco missilistico americano lanciato dal presidente Clinton contro un<br />
laboratorio per la fabbricazione di armi chimiche. Si trattava in realtà di un’azienda<br />
farmac<strong>eu</strong>tica, ma le responsabilità del Sudan erano state nel frattempo riconosciute e<br />
condannate dall’Assemblea generale dell’ONU, dal Parlamento <strong>eu</strong>ropeo, dall’Ufficio<br />
internazionale del lavoro (che aveva denunciato la pratica della schiavitù) e da Amnesty<br />
International.<br />
L’ultimo conflitto, quello di Darfur, è scoppiato nel 2003, quando le formazioni di due<br />
movimenti ribelli (l’Esercito per la liberazione del Sudan, laico, e il Movimento per la<br />
giustizia e l’eguaglianza, islamico) hanno attaccato postazioni militari del governo centrale.<br />
Il Darfur ha una superficie di circa 500mila chilometri quadrati e una popolazione di<br />
4-5 milioni di abitanti. Per quanto concerne le etnie, ci sono gli arabi delle tribù Rizeigat,<br />
Habbaniya e Beni Halba; africani delle tribù Fours, Zaghawas, Massalits. Per la gran parte gli<br />
abitanti del Darfur sono musulmani non arabi e per questo perseguitati da sempre dal regime<br />
sudanese.<br />
Contro la guerriglia il governo di Khartum ha messo in campo una milizia araba,<br />
montata su cavalli e cammelli. Si chiamano Janyaweed (i “diavoli a cavallo”) e vengono usati<br />
principalmente per bruciare i villaggi e cacciarne la popolazione. Soggetto a una crescente<br />
pressione internazionale, il presidente sudanese Omar Al Bashir ha dovuto riconoscere ai<br />
primi di luglio del 2004 che sono “gangsters”. Né le pubbliche ammissioni né le sanzioni, se<br />
verranno adottate, basteranno tuttavia a spegnere le fiamme alla guerra civile. Secondo molti<br />
osservatori occorrerebbe una forza internazionale forte almeno di 20.000 uomini e composta<br />
prevalentemente da truppe africane. Ma nessuno stato, per il momento, sembra voler<br />
concorrere alla sua formazione.<br />
Nel suo libro, Yves Ternon ricorda che la parola “genocidio” appare per la prima volta<br />
in un libro di Raphael Lemkin, professore dell’Università di Yale, pubblicato in America nel<br />
1944. Secondo Lemkin vi è genocidio quando uno Stato adotta “un piano coordinato di<br />
159
differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali<br />
per annientare questi gruppi stessi”. La parola ha perduto da allora questo significato e si è<br />
allargata sino a comprendere politiche che non si propongono l’annientamento di un popolo,<br />
ma mirano a cacciarlo con la forza dai luoghi in cui abita. Se vogliamo evitare che la parola,<br />
inflazionata, diventi trita e banale cerchiamo di evitarne un uso eccessivo. Nel caso del Sudan<br />
l’espressione giusta è “catastrofe umanitaria”. E dovrebbe bastare a suscitare orrore e<br />
riprovazione.<br />
La lotta al terrorismo è dunque una lotta contro una delle conseguenze del<br />
fondamentalismo islamico. Le altre conseguenze sono la catastrofe umanitaria, la reclusione<br />
delle donne, la barbarie.<br />
Monsignor Cesare Mazzolari, vescovo che vive in Sudan, sostiene che “siamo solo<br />
agli inizi”. Intervistato ad Excalibur Luneditalia, la trasmissione condotta da Antonio Socci, il<br />
7 giugno 2004 ha dichiarato che in Sudan i cristiani vivono l’“11 settembre” tutti i giorni, con<br />
stragi e angherie di tutti i generi. Ma i massacri di cristiani non fanno notizia. Il Sudan è un<br />
Paese fondamentalista, che conta già due milioni di vittime, che vengono sepolte in fosse<br />
comuni, come succede nei massacri di massa. Il governo fondamentalista di Kartun ignora<br />
questi fatti.<br />
Il genocidio dei cristiani armeni<br />
Anche il genocidio armeno, avvenuto nel 1915-1916, è tuttora un argomento tabù in<br />
Turchia: più di un milione di armeni su due milioni sono stati annientati. Dimenticare questo<br />
genocidio vuol dire non solo promettere l’impunità ai responsabili sopravvissuti, o ai governi<br />
o semplicemente alla “storia”, ma bensì creare le condizioni, i precedenti, i presupposti,<br />
affinché avvengano altri omicidi organizzati di massa, perché ci sarà comunque chi li coprirà,<br />
avvolgendoli rapidamente nell’oblio più totale.<br />
Adolf Hitler, alla vigilia dell’invasione della Polonia, nell’agosto 1939, aveva<br />
sottoposto al suo staff la “questione ebraica” e il problema dell’eliminazione di un milione di<br />
ebrei che vivevano in Polonia, pacificamente integrati con la popolazione. Quando gli fu<br />
posta l’obiezione: “Ma cosa dirà il mondo intero, se metteremo in atto lo sterminio degli<br />
ebrei?”, egli rispose: “Dopo tutto, chi è che parla oggi dell’annientamento degli Armeni?”.<br />
Erano passati solo 24 anni da quella strage, ma nessuno ne parlava più e ciò ha incoraggiato<br />
l’attuazione della “soluzione finale” nei confronti del popolo ebraico, con un esito di sei<br />
milioni di morti.<br />
Gli armeni costituivano un popolo di ricchi cristiani che venivano considerati una<br />
160
minoranza pericolosa dai turchi. Furono trasferiti in massa da paesini a sud verso paesini<br />
deserti, venendo assaliti dai banditi, dalla stessa polizia e dalle truppe turche. 450.000 furono<br />
presi come pecore e portati sulle montagne per farli morire di fame e di sete.<br />
Le persone sopravvissute intervistate in televisione ricordano le deportazioni in carri-<br />
bestiame, nello squallore più totale, verso la disperazione. Una anziana signora, intervistata in<br />
televisione, che è riuscita a sfuggire alla cattura, scappando nei boschi assieme ad altri<br />
bambini, e ora vive negli USA, ricorda quando i familiari e i compaesani furono circondati<br />
dai curdi e dai turchi: “Hanno preso tutto, animali. Hanno incendiato la chiesa dove si erano<br />
rifugiate le persone, che così sono morte bruciate vive”. Non hanno risparmiato né donne né<br />
bambini, trasformando il paese in un enorme mattatoio. Quelli che sono sopravvissuti e sono<br />
rimasti, sono stati costretti a passare all’Islam e a cambiare identità e nome.<br />
I dirigenti e storici turchi intervistati in televisione hanno negato ufficialmente la<br />
politica di sterminio e il genocidio perpetrato dalla Turchia. Questa negazione ufficiale è forse<br />
ancora più allarmante del genocidio compiuto, in quanto indica una mancanza di<br />
consapevolezza critica e autocritica, che costituisce la base della democrazia, perché denota<br />
la capacità di autocorrezione di un sistema.<br />
Le giustificazioni addotte dai politici e dagli uomini di cultura turchi sono risultate<br />
impressionanti nel “glissare” con un’abile dialettica l’operazione di genocidio. Basti pensare<br />
che a questa operazione è stata negata l’attuazione da un uomo politico turco, semplicemente<br />
perché “non esistono documenti ufficiali” che testimonino l’“intenzione” del governo turco di<br />
arrivare ad esiti di sterminio. Il “gioco dialettico” di questo politico ruotava intorno al<br />
concetto di “intenzione”. Non è bastato il trasferimento in massa in carri-bestiame, come al<br />
tempo di Hitler, per dare corpo a questa “intenzione”. Si possono dunque evacuare interi<br />
villaggi, trasferendo un popolo nel “deserto”, a morire di fame e sete, senza alcuna<br />
“intenzione”.<br />
E questa sarebbe la “dialettica democratica” di coloro che aspirano a far parte a pieno<br />
titolo delle istituzioni <strong>eu</strong>ropee. Tra i sopravvissuti al genocidio armeno circola un detto<br />
significativo: “Vedere negato il genocidio equivale a morire due volte”. Allora facciamo in<br />
modo - noi che abbiamo fatto della libertà e della democrazia il nostro pane quotidiano - che<br />
nessun genocidio diventi argomento tabù nella nostra Europa, a cominciare da quello del<br />
cristiano popolo armeno. Parliamone in televisione e sui giornali. Intervistiamo i sopravvissuti<br />
e i testimoni e conserviamo gelosamente le testimonianze negli archivi per i nostri figli e<br />
nipoti, in modo che in futuro trovino abbondante materiale per le loro ricerche scolastiche,<br />
come ha fatto ora mio figlio, quando ha svolto la ricerca per l’esame di quinta elementare,<br />
161
l’ultimo dopo l’introduzione della riforma Moratti. Mio figlio è rimasto molto colpito, quando<br />
nel giugno 2003, durante il viaggio in Polonia, ha visitato il campo di sterminio di Auschwitz-<br />
Birkenau e mi ha chiesto di portarlo nuovamente: “Perché devo raccogliere documenti per una<br />
ricerca”. Per educare una “coscienza democratica”, è importante seminare su un “terreno<br />
giovane”, non ancora indurito dal cinismo di una certa parte della società. Perché non si<br />
potrebbe creare un “archivio”, che raccolga le testimonianze dell’eccidio dei cristiani armeni,<br />
come si è fatto con gli ebrei? Perché non possiamo costituire anche in Italia e in Armenia un<br />
“Museo dell’Olocausto” armeno? Chiediamo esplicitamente che venga istituito a Roma<br />
questo Museo in memoria permanente del tragico genocidio, che rischia di cadere nell’oblio.<br />
Questo memoriale può costituire il modo migliore per onorare le vittime ed educare i<br />
giovani ad una dialettica democratica.<br />
Il dialogo e la mediazione tra cultura e civiltà<br />
Il 7 giugno 2004 Al Qaida minaccia nuovi attacchi spettacolari contro compagnie<br />
aeree americane e occidentali. L’obiettivo consiste nella cacciata degli stranieri che lavorano<br />
in Arabia Saudita e sostengono l’economia per poter rovesciare la monarchia e instaurare un<br />
governo fondamentalista sotto la direzione di Bin Laden. Il riformismo del governo, che ha<br />
cominciato a concedere le licenze commerciali alle donne il 7 giugno 2004, viene dunque<br />
visto da Bin Laden come una provocazione che merita di essere punita con nuovi attacchi<br />
terroristici.<br />
Il terrorismo vuole eliminare il dialogo e la democrazia e imporre con la forza e la<br />
violenza direttive unilogiche. Ma la democrazia stenta ad affermarsi anche in paesi non<br />
fondamentalisti.<br />
L’iniziativa sul Grande Medioriente che il presidente americano George Bush intende<br />
lanciare al G8 di Sea Island, in Georgia, nel giugno 2004, vive già momenti difficili.<br />
L’iniziativa non piace alla maggior parte dei governi dei Paesi arabi ed islamici che Bush ha<br />
invitato a Sea Island. Secondo il New York Times, molti tra i loro leader, divisi sull’iniziativa<br />
che ha l’obiettivo di rendere più democratico il mondo islamico, hanno già deciso di non<br />
andare al G8 in Georgia.<br />
È comunque opportuno operare alcune distinzioni, per non cadere in generalizzazioni<br />
fuorvianti e dannose per la diffusione della stessa democrazia.<br />
Combattere la violenza è giusto, però attenzione: “E’ preoccupante - insiste Ciampi il<br />
4 giugno 2004 durante l’incontro al Quirinale con Bush - che si stia attenuando la distinzione<br />
tra l’opinione pubblica araba e il fondamentalismo islamico. Bisogna riuscire a isolare i<br />
162
fanatici e aiutare i Paesi moderati”.<br />
“E’ proprio questo il nostro sforzo”, risponde Bush, che ringrazia ufficialmente il<br />
nostro Paese “per il contributo che dà, con i suoi contingenti militari in Iraq e in altre aree di<br />
crisi, alla lotta contro il terrorismo”, e che tranquillizza il presidente italiano pure sulla svolta<br />
filo-ONU. Le novità, dice, sono mature. L’Iraq ha già un nuovo governo provvisorio e, nel<br />
giro di pochi giorni, il Consiglio di sicurezza dovrebbe approvare la nuova risoluzione, “il<br />
sole tornerà a splendere molto presto sopra Baghdad”. Altro tema del colloquio, il conflitto<br />
israelo-palestinese. Ciampi si dice “molto preoccupato” per la mancanza di progressi e teme<br />
che la crisi del Medio Oriente si ripercuota su tutta la regione. Bush concorda, ma sostiene<br />
che anche in quell’area ci saranno presto degli sviluppi positivi: l’impegno americano per<br />
l’applicazione della road-map è costante, tanto che, assicura, “presto vedremo la nascita di<br />
uno Stato palestinese”.<br />
Alla fine bilancio “molto positivo”. L’amicizia tra Roma e Washington è più salda che<br />
mai. “Solo attraverso un rinnovato impegno comune - dice Ciampi - sarà possibile rimuovere<br />
le cause del terrorismo. Ci riusciremo continuando a lavorare sulla base dei metodi che ci<br />
hanno guidato per 50 anni: confronto, rispetto, solidarietà”. E visto che l’Italia è in Iraq per<br />
ricostruire e non per occupare e colonizzare, il Quirinale ha “molto apprezzato” sia il<br />
riavvicinamento di Washington all’ONU e al multilateralismo, sia l’ultima intervista del<br />
presidente USA, che ha definito “non tutti terroristi” quelli che oggi imbracciano le armi<br />
contro le forze della coalizione.<br />
Il ruolo centrale dell’ONU su tre capitoli chiave viene richiesto in questa ricorrenza: la<br />
creazione di nuove istituzioni in Iraq, l’organizzazione delle elezioni e la difesa dei diritti<br />
umani, unico vago cenno alla vicenda delle torture. “Non possiamo dare l’idea che si sta<br />
consumando uno scontro di civiltà” spiega Ciampi, che ricorda come la costituzione ci<br />
consenta di usare i nostri militari solo in operazioni di pace.<br />
Il dialogo e la mediazione tra culture e civiltà sono assolutamente indispensabili per<br />
evitare lo scontro frontale.<br />
C’è infatti il rischio di “creare” il nemico attribuendo a tutti i musulmani le nostre<br />
categorie concettuali e religiose, immaginando l’islam come un blocco monolitico con un<br />
clero. In realtà gli imam non hanno una qualifica religiosa, non sono sacerdoti e vescovi. E le<br />
moschee in Italia sono frequentate dal 5% dei musulmani, di cui non tutti sono integralisti e<br />
terroristi.<br />
Creando indiscriminatamente il “nemico”, finiamo per fare il loro gioco e per<br />
potenziare l’integralismo islamico. La democrazia è un processo che deve essere assimilato<br />
163
con il convincimento e l’esperienza e non può essere imposto. Non è un insieme di regole<br />
astratte da imparare e mettere in pratica con forzature, compromessi o, peggio, ricatti politici.<br />
Ecco perché il nazismo, andato al potere con libere elezioni, si è programmato come dittatura,<br />
non trovando sul terreno una cultura profondamente democratica che correggesse le sue<br />
impennate lesive della libertà, della sacralità della vita, del rispetto dei diritti fondamentali<br />
della persona, della pacifica alternanza di governo. Il nazislamismo è la negazione di tutti<br />
questi principi democratici.<br />
Occorre dunque porre le basi affinché lo scontro tra culture e civiltà venga evitato<br />
ponendo la massima attenzione agli abbinamenti. Se le divergenze nelle mentalità sono<br />
eccessive, non è possibile aggregare forzatamente le varie comunità, per non fomentare<br />
continue tensioni che possono esplodere da un momento all’altro. Questo discorso non vale<br />
tanto per Paesi accomunati da un’unica religione, anche se divisa in sciiti e sunniti, quanto per<br />
l’Europa che deve affrontare il gravoso problema di ricevere richieste di partecipazione a<br />
pieno titolo alle istituzioni <strong>eu</strong>ropee. Mi riferisco in particolare alla Turchia, un Paese di<br />
consolidata tradizione islamica che potrebbe istaurare con l’Europa un partenariato, senza per<br />
questo accedere alle istituzioni <strong>eu</strong>ropee. Il livello identitario dell’Europa, in effetti, non<br />
consentirebbe alla Turchia di ritenersi partecipe dell’identità comune, in quanto affonda le sue<br />
radici in una tradizione storico-culturale assai diversa rispetto al resto dell’Europa. Nello<br />
stesso quotidiano Il Giornale del 5 giugno 2004, accanto all’articolo precedentemente citato,<br />
si trovava un altro articolo di Alberto Indelicato, intitolato “L’ultima tentazione dei ‘moderati’<br />
al potere in Turchia”, che riporto integralmente:<br />
Gli italiani sono ormai abituati ad uno spettacolo stucchevole ed oltretutto superfluo. Ogni<br />
qualvolta il governo o la maggioranza approvano una qualsiasi norma, l’opposizione chiede<br />
l’intervento del presidente della Repubblica implorandolo di opporsi. Più spesso gli ordina quasi di<br />
rifiutare la sua firma e di rispedire il provvedimento alle Camere denunciando una violazione della<br />
Costituzione. Naturalmente le incessanti e quasi sempre infondate richieste dell’intervento<br />
presidenziale hanno svilito l’importanza dell’invocazione e dello stesso strumento invocato, per cui i<br />
cittadini hanno finito per non dare alcuna importanza a questa sorta di giaculatoria. Sbaglierebbero<br />
però se pensassero che il rifiuto presidenziale sia sempre e dovunque ingiustificato.<br />
Non lo è stato ad esempio quello del presidente della Repubblica turca che ha rinviato al<br />
mittente una legge approvata in Parlamento dal “partito della Giustizia e dello Sviluppo” attualmente<br />
al governo. Con la legge si intendeva riconoscere ai titoli rilasciati dalle scuole religiose, quelle cioè<br />
dove si studia il Corano, valore legale per l’ammissione alle università statali. Com’è noto, il partito al<br />
164
potere ad Ankara, considerato “islamista moderato”, è in realtà l’erede di un’altra formazione: il<br />
“partito del benessere”, che si proponeva apertamente di potenziare il ruolo dell’Islam nei costumi e<br />
nella legislazione del Paese. La norma sulle scuole religiose ora proposta si ricollegava proprio a<br />
quella tendenza. È stata opportuna quindi l’eccezione di incostituzionalità eccepita dal presidente<br />
Necdet Sezer sulla base dei principi aconfessionali fissati da Kemal Atatürk. Al di là dell’utilità dello<br />
strumento di rinvio quando, come in questo caso, esso è usato per impedire reali violazioni e non come<br />
strumento di lotta politica, l’episodio deve indurre ad alcune riflessioni. Esso ha dimostrato anzitutto<br />
che i cosiddetti partiti islamici moderati, come quello al potere ad Ankara, tanto moderati non sono,<br />
perché sotto la vernice “laica” in essi riemerge sempre la tentazione di tornare alle tradizioni religiose<br />
più retrive. Coloro che in Europa si sono a suo tempo sbracciati, insistendo nel sostenere che la<br />
Turchia è ormai un Paese che si ispira ai principi laici, dovrebbero riflettere sul pericolo che le sue<br />
forze politiche facciano ricadere il Paese nel passato islamico, in contrasto con i principi voluti dal<br />
fondatore della Repubblica. Nel caso concreto la Corte costituzionale di Ankara, se sarà investita del<br />
problema, forse rigetterà la legge, ma fino a quando la composizione di quell’organo sarà tale da far sì<br />
che essa sia sottratta alle pressioni dell’opinione pubblica? Appena anch’essa sarà l’espressione della<br />
maggioranza islamista, saranno i militari ad intervenire per salvare come è già avvenuto in passato<br />
l’eredità di Kemal, e gli <strong>eu</strong>ropei si troveranno di fronte alla scelta di approvarne l’azione<br />
necessariamente antidemocratica o di accettare che i Parlamenti eletti dalla maggioranza impongano la<br />
legge religiosa.<br />
La prospettiva è abbastanza allarmante già ora, ma come dovrà essere affrontata quando -<br />
come da alcuni si continua a chiedere - la Turchia entrerà a far parte dell’Unione Europea? Si sostiene<br />
che il suo ingresso costituirà un ponte attraverso il quale il pensiero moderno penetrerà nel mondo<br />
musulmano. Si dimentica che da un ponte può passare tutto nelle due direzioni, prodotti utili e prodotti<br />
nocivi, e fuor di metafora: abitudini accettabili e costumi inconciliabili con quelli occidentali.<br />
Continuare a far credere ai dirigenti turchi che perché il loro Paese sia accolto nella famiglia <strong>eu</strong>ropea è<br />
sufficiente che esso si adegui ai parametri economici di Maastricht significa ingannarli. A meno che<br />
ciò non significhi voler ingannare noi stessi.<br />
Le divergenze messe in evidenza dall’articolo e i vicoli ciechi che l’Europa<br />
imboccherebbe accollandosi una responsabilità così gravosa come l’inclusione di un Paese<br />
con una forte tradizione islamica ci portano a vagliare attentamente l’insufficienza dei<br />
parametri economici di Maastricht per accogliere nella Famiglia Europea un componente che<br />
possiede un’identità forte, combattiva e molto diversa da quella degli altri componenti<br />
<strong>eu</strong>ropei.<br />
165
Una politica pragmatica.<br />
Il 25 novembre 2003 intervistato a Ballarò, Michael Laeden, politologo, analista<br />
dell’istituto di Washington, ha definito “paese serio” quello che agisce quando è il momento<br />
di agire. E ha aggiunto: “Dire che l’ONU sia fondamentale per agire nel mondo moderno è un<br />
mito e un’idea astratta”. In base a questa definizione, Francia e Germania non sarebbero seri.<br />
Il 26 gennaio 2004 il vicepresidente USA Cheney giunge a Roma e, definendo l’Italia<br />
“uno degli alleati più forti e fidati”, precisa che occorre “scongiurare” l’Europa contrapposta<br />
agli USA” e “rafforzare la NATO per la lotta al terrorismo”, e assicura: “Entro giugno pieni<br />
poteri agli iracheni”.<br />
Il terrorismo ha diviso il mondo in paesi “seri” e paesi “non seri”. Ma, al momento di<br />
vincere la pace e costruire la democrazia quale criterio useranno gli USA per qualificare i vari<br />
paesi?<br />
La guerra contro il terrorismo coinvolge solo i paesi che sono alleati degli USA e<br />
perché si sono schierati dalla sua parte, come se fosse la guerra con la sua alleanza ad<br />
alimentare il terrorismo? Occorre precisare che la guerra di cui stiamo parlando è una guerra<br />
per il potere, che sfrutta la manovalanza e la cultura di solidarietà tra islamici per coalizzarsi<br />
contro il potere dell’Occidente e dell’Islam moderato. Si tratta di una guerra per il controllo<br />
del mondo tipica delle menti in preda alla sete di potere e all’onnipotenza narcisistica.<br />
Michael Laeden ha dichiarato, nell’ambito della trasmissione citata, che “non è una<br />
guerra religiosa, perché i terroristi ammazzano anche i musulmani. Non agiscono in nome dei<br />
poveri. I 19 terroristi delle Torri Gemelle erano figli di avvocati e medici. Hanno scelto come<br />
carriera il terrorismo. Ci sono legami tra Saddam e Al Qaida”.<br />
Occorre innanzitutto osservare che, se non agiscono in nome dei poveri, arruolano la<br />
manovalanza tra i poveri e utilizzano il potere istigatorio della Guerra Santa proclamata da<br />
Bin Laden, per seminare odio verso gli “infedeli” del mondo occidentale e dell’Islam<br />
moderato considerato un “tradimento” della vera fede. Sotto l’influenza dei proclami di Bin<br />
Laden e di altri “capi”, le cellule sparse che operano in maniera clandestina, in Italia come in<br />
altri Paese, si organizzano e possono colpire da un momento all’altro. Non c’è alcun bisogno<br />
che Bin Laden impartisca l’ordine di sferrare l’attacco. Il “mandante occulto” è sempre<br />
presente nella figura-simbolo che ricompare ogni tanto con i messaggi registrati e trasmessi<br />
sulla televisione araba Al-Jazeera o in altro modo. Gli stessi attacchi costituiscono un invito<br />
esplicito a ripetere il gesto per imitazione. Non a caso, subito dopo l’attacco di Nassirya ai<br />
carabinieri italiani, l’imam di Carmagnola ha cominciato a predicare l’odio contro l’Italia e ad<br />
annunciare altri attentati a Roma e a Milano. La sua espulsione, seguita il giorno seguente da<br />
166
quella di altri sette islamici, è pienamente coerente con una politica di tutela della sicurezza<br />
dei cittadini italiani e islamici residenti sul territorio italiano. In effetti, il terrorismo islamico<br />
e la diffusione dell’odio preoccupano non solo l’opinione pubblica italiana, che fa fatica a<br />
distinguere tra integralismo, terrorismo e diversità culturale degli islamici, ma anche gli stessi<br />
islamici moderati, che sono venuti in Italia soltanto per lavorare onestamente e mantenere la<br />
loro famiglia.<br />
Il potere del pregiudizio consiste infatti nel porre in un’unica categoria tutti coloro che<br />
appartengono ad un gruppo etnico e religioso, per cui gli islamici moderati e onesti sono<br />
sicuramente danneggiati dall’immagine che gli altri cittadini si fanno di loro. Il terrorismo si<br />
pone, infatti, come scontro di civiltà, per cui tutti i musulmani sarebbero contro gli “infedeli”,<br />
cristiani e islamici moderati. Si instaurano la “caccia al musulmano”, la xenofobia, il<br />
desiderio della guerra all’Occidente. Viene colpita la “categoria”, senza distinguere un<br />
individuo da un altro, secondo la logica tipica del “pregiudizio” che investe un intero gruppo.<br />
Qui occorre operare una distinzione fondamentale fra questi terroristi che, come ha<br />
detto Magdi Allan del Corriere della Sera a Porta a Porta del primo dicembre 2003,<br />
presentano una “crisi di identità” che li porta a rifiutare i valori occidentali, e quei musulmani<br />
che desiderano integrarsi nel territorio nazionale. In tale linea, il provvedimento di espulsione<br />
dei soggetti pericolosi salvaguarda implicitamente coloro che desiderano integrarsi nel<br />
territorio italiano rispettando le leggi dell’Italia.<br />
L’istigazione a delinquere di cui l’imam di Carmagnola si è reso colpevole ha ricevuto<br />
un’implicita legittimazione da un atto, l’attacco a Nassirya, già compiuto da attivisti della<br />
Guerra Santa.<br />
Michael Laeden sostiene che non si tratta di una guerra religiosa. Ma questa guerra<br />
utilizza il potere religioso, che nell’Islam non si differenzia da quello politico, per influire sul<br />
popolo musulmano e avviarlo alla conquista del potere politico. L’imam è una figura di<br />
riferimento religiosa e politica nello stesso tempo, anche se in periodo di pace la politica<br />
lascia il posto alla religione. Ma in tempo di guerra - e oggi siamo in guerra - la politica<br />
prevale sulla religione. Le cellule dormienti che si trovano in Italia potrebbero svegliarsi da<br />
un momento all’altro e mettere a repentaglio la sicurezza nazionale con un’azione di massa.<br />
Il 22 novembre 2003 il ministro dell’Interno Pisanu, in visita a Ischia, sostiene che<br />
“l’Italia è uno dei bersagli principali dell’integralismo islamico. Singoli individui e cellule<br />
dormienti di Al Qaida potrebbero colpire in Italia”. Pisanu invita all’unità nella battaglia<br />
contro il terrorismo. Le cellule presenti in Italia non sono solo sedi logistiche, ma anche<br />
operative, con addestramento quotidiano all’attività terroristica di soggetti che peraltro si<br />
167
mimetizzano dietro lavori apparentemente “normali”. Alcune moschee sono luoghi operativi,<br />
e non solo di preghiera e incontro. Un islamico che si è fatto esplodere in Iraq si è addestrato a<br />
Milano.<br />
Gli islamici ora puntano sull’Europa. La lotta contro il terrorismo ha bisogno di unità,<br />
fermezza e tenacia. Nel 2003, 71 terroristi sono stati arrestati contro i 16 del 2000. Usano il<br />
traffico di droga per finanziarsi. Una cellula islamica è stata sgominata il 28 novembre 2003.<br />
Sempre nel 2003 sono stati arrestati 5 magrebini e uno è ricercato in Germania, dove è facile<br />
mimetizzarsi per l’elevato numero di immigrati islamici, tra cui circa tre milioni di turchi.<br />
Alcuni attentatori delle Torri Gemelle vivevano e si erano addestrati nella Germania del nord.<br />
Di fronte alla minaccia oscura e non identificabile del terrorismo, la domanda che si<br />
pone è: qual è lo strumento più efficace per isolarlo e sconfiggerlo?<br />
La teoria della “guerra preventiva” propone un intervento repressivo, armato e<br />
poliziesco. Le informazioni fornite dai servizi segreti al governo inglese “non escludevano” la<br />
presenza di armi di distruzioni di massa, ma non fornivano “dati certi”. Il giornalista Andrew<br />
Gilligan ha gonfiato le informazioni, mentre David Kelly, lo scienziato inglese ex ispettore<br />
ONU in Iraq morto suicida, ha detto di non aver mai parlato di “dati manipolati”.<br />
Anche se probabilmente c’è stato un uso enfatizzato ed ingigantito delle informazioni<br />
dell’Intelligence, per persuadere l’opinione pubblica inglese circa la necessità di intervenire<br />
con le armi, la guerra preventiva in Iraq è stata decisa a prescindere dalla presenza di armi di<br />
distruzione di massa, che comunque Saddam in passato ha usato contro il suo stesso popolo.<br />
Gli abitanti di interi villaggi curdi sono stati sterminati con il gas letale.<br />
Anche se dal ’91 Saddam non sembra aver fabbricato armi di distruzione di massa,<br />
secondo gli USA la sua pericolosità era tale da costituire comunque una minaccia per la<br />
stabilità della pace. I suoi contatti con Al Qaida e la possibilità che potesse procurarsi armi<br />
atomiche rappresentavano, infatti, una spada di Damocle per l’Occidente.<br />
La “teoria” alternativa alla guerra preventiva, che suggerisco nei miei libri, prospetta<br />
l’isolamento degli estremisti attraverso il consenso che può essere ottenuto solo con il dialogo<br />
rivolto all’Islam moderato.<br />
Le due “teorie” possono anche non contrapporsi, bensì integrarsi a vicenda. In Italia<br />
abbiamo sconfitto il terrorismo politicamente, isolandolo. I terroristi si consideravano in<br />
guerra, mentre noi siamo in pace e quindi siamo indifesi.<br />
Dobbiamo munirci anche di armi culturali, ma non “ideologiche”, per fronteggiare la<br />
minaccia terroristica.<br />
Ora anche la Libia sembra intenzionata ad entrare a far parte dei Paesi islamici<br />
168
moderati, forse più sotto la spinta del dialogo che della guerra in Iraq. Il 20 dicembre 2003<br />
Gheddafi, che in passato stava per costruire la bomba atomica, sottrae la Libia alla condizione<br />
di stato canaglia e smantella gli arsenali con le armi di distruzione di masse. La Libia esce<br />
così dallo stato di isolamento in cui si è trovata dopo l’embargo. Nella “lista nera” restano<br />
ancora l’Iran e la Corea del Nord.<br />
Il terrorismo si combatte con la politica, con il dialogo con l’Islam moderato e con la<br />
legittima difesa. Per agire sulle cause del terrorismo e non sui sintomi, dobbiamo considerare<br />
che i terroristi vogliono difendere l’indipendenza nazionale, il diritto ad una patria e<br />
rappresentano la rivolta dei poveri. In Cecenia c’è una sistematica violazione dei diritti umani,<br />
con uccisione di civili e stupri. Relativamente a questo martoriato Paese, dobbiamo<br />
testimoniare con i nostri valori, altrimenti legittimiamo il terrorismo e forniamo l’alibi per<br />
difendere i diritti legittimi.<br />
La pace dunque ha bisogno anche di forza e presenza sul campo. Ma c’è da chiedersi:<br />
chi sono i moderati? Coloro che sono disposti a comprendere il punto di vista<br />
dell’interlocutore, mettendosi a guardare la realtà con i suoi occhi e calandosi nei suoi panni;<br />
coloro che sono disposti a mettere in dubbio le loro credenze su di sé, sugli altri e sul mondo,<br />
e che si siedono davanti ad un tavolo perché sono aperti al cambiamento delle idee.<br />
I moderati sono coloro che possono e vogliono convivere pacificamente nel rispetto e<br />
nella tolleranza dei modi di vivere e di pensare degli altri. Occorre predisporre strategie di<br />
dialogo con gli islamici moderati, affinché siano proprio loro ad isolare gli estremisti e i<br />
terroristi appartenenti alla stessa religione. Non c’è nulla di più potente ed influente del<br />
pensiero moderato su quello intransigente ed estremistico.<br />
Pertanto, la prospettiva di integrazione degli immigrati attraverso il voto alle elezioni<br />
amministrative non può essere etichettata come “di sinistra” e, quindi “snaturante” nei<br />
confronti di chi ha dato il suo voto a destra. Ciascuna proposta politica, infatti, va valutata a<br />
prescindere dalle etichette classificatorie che separano le persone, come si fa con i piselli o i<br />
fagioli da sbucciare, che vengono staccati dall’involucro e messi in una cesta a parte. Una<br />
politica semplicemente realista e pragmatica, che considera i problemi reali di una nazione<br />
non può essere trattata alla stregua dei piselli o dei fagioli.<br />
In Francia, ad esempio, chi è pro immigrati viene considerato di sinistra e chi è contro<br />
gli immigrati viene ritenuto di destra. L’Italia, Paese che ha conosciuto un forte flusso di<br />
emigrazione e tutti i problemi dell’integrazione in terra straniera, non può che essere solidale<br />
con coloro che desiderano fare di questo Paese la loro residenza per lavorare e integrarsi. Ciò<br />
significa anche predisporre il terreno per il dialogo con le forze moderate dell’Islamismo e,<br />
169
pertanto, togliere l’acqua al pesce-terrorismo, che viene così isolato nelle moschee e nei<br />
luoghi di raduno dei musulmani. La Francia non ha conosciuto il problema dell’emigrazione,<br />
bensì quello dell’immigrazione di cittadini dalle ex colonie francesi, che sono stati assimilati<br />
in Francia. Oggi milioni di cittadini francesi sono musulmani. La politica della cittadinanza<br />
della Francia fa sì che ogni anno centomila persone acquisiscano la cittadinanza francese. In<br />
Italia la cittadinanza italiana viene data ogni anno a dieci mila “stranieri” per aver contratto il<br />
matrimonio con cittadini italiani. In Francia la proposta del ministro dell’Interno di fare un<br />
prefetto musulmano non suscita scalpore, mentre in Italia ciò sarebbe difficilmente<br />
comprensibile e compatibile con la realtà italiana per la diversità del contesto storico e<br />
ambientale in cui si è creato il flusso immigratorio.<br />
Tuttavia, la politica di integrazione nel territorio italiano di quanti desiderano sentirsi<br />
parte integrante di essa va perseguita con forza e determinazione perché è pragmatica e<br />
risponde alle esigenze della società attuale e del bisogno di sicurezza dei cittadini. La<br />
“psicosi” determinata dal sospetto che l’immigrato della porta accanto possa essere un<br />
terrorista può essere arginata dalla legittimazione degli integrati e dell’espulsione dei<br />
“disadattati”. Chi resta in Italia non può essere un terrorista o un soggetto pericoloso. Questa<br />
selezione, che può essere considerata una “schedatura” da qualche simpatizzante del<br />
terrorismo, viene confermata dalla “banca dati genetica” quale strumento identificatorio, atto<br />
sia a fornire prove nell’attività antiterroristica sia ad integrare i soggetti che non hanno nulla<br />
da spartire con il terrorismo.<br />
Dietro il terrorismo c’è una strategia politica che vuole colpire l’Islam moderato e i<br />
costruttori di pace appartenenti a tutte le culture. In Iraq Al Qaida colpisce la convivenza<br />
pacifica e il tentativo di ricostruzione. In Italia si sono annidati 85 professionisti del<br />
terrorismo, di cui non si è riusciti a bloccare tutti i beni. È stata sottovalutata la presa della<br />
predicazione islamica nel sobillare le masse e predisporre favorevolmente gli islamici alla<br />
conquista del potere attraverso il terrorismo.<br />
L’Europa deve prendere coscienza che è in atto una guerra santa attraverso lo<br />
strumento del terrorismo: ci stanno conquistando con le armi degli attacchi ripetuti, a<br />
sorpresa. La nostra risposta di <strong>eu</strong>ropei non può essere dettata dalla negazione del problema o<br />
dalla viltà, secondo le accuse rivolte da alcuni di inettitudine e passività. Bisogna agire con<br />
consapevolezza critica e autocritica, con decisione e determinazione. Ma ciò significa<br />
soprattutto pianificare una strategia da Guerriero evoluto che realizza un dialogo efficace ed<br />
efficiente con tutti coloro che, pur appartenendo ad una religione o etnia o nazione diversa<br />
dalla nostra, sono disposti ad ascoltare, a parlare, a recepire il nostro messaggio di pace, di<br />
170
ispetto, di civiltà, di amore.<br />
L’Europa è una unione istituzionale di stati e popoli basata sulla condivisione di valori<br />
e obiettivi. Il progetto diretto a rafforzare la voce unitaria dell’Europa va coltivato con<br />
costanza e fermezza, anche per quanto riguarda il dialogo con i moderati che aspirano ad<br />
un’autentica integrazione nel tessuto sociale <strong>eu</strong>ropeo.<br />
Le informazioni che orientano o disorientano.<br />
Un inglese ha osservato che gli americani sanno tutto, ma non lo capiscono: non<br />
estraggono una sintesi dalla massa di informazioni e non compongono gli scenari possibili.<br />
Troppe informazioni non possono essere messe insieme. Forse la tragedia delle Torri Gemelle<br />
si è verificata perché è stato impossibile mettere insieme le tessere del mosaico.<br />
Echelon, la spia satellitare, fornisce tre milioni di informazioni al minuto che arrivano<br />
al Pentagono. Ma molte di queste informazioni sono in arabo e dialetto arabo. Sono<br />
decodificabili in tempo reale? O restano inutilizzabili? Come ha potuto la CIA non prevedere<br />
che stava succedendo una cosa così spaventosa? Gli operatori della CIA non hanno visto<br />
perché non hanno saputo o non hanno voluto vedere?<br />
L’Intelligence ha trascurato molti elementi nel ’96 e dopo. Ha trascurato anche<br />
l’informazione pervenuta che alcuni arabi si stavano esercitando a pilotare aerei, tralasciando<br />
l’apprendimento della fase di decollo dell’aereo. L’Intelligence degli USA, dunque, ha fallito<br />
perché il compito era dell’FBI e non della CIA, come ha precisato Paolo Guzzanti,<br />
intervistato ad Enigma il 19 febbraio 2004?<br />
Nel 1995 il direttore delle operazioni di spionaggio della CIA non era mai stato<br />
all’estero, secondo informazioni ricevute. È vero che milioni di americani sono americani<br />
arabi che possono infiltrarsi. Ma sono stati arruolati dalla CIA per svolgere un’attività di<br />
moderno spionaggio? Solo la human intelligence, le fonti umane possono svolgere attività<br />
preventiva, sventando molti attentati. L’80% delle informazioni importanti sono accessibili a<br />
tutti - non sono segreti di stato - ma non vengono utilizzate e messe insieme in modo da<br />
assumere un significato.<br />
171
CAPITOLO IV<br />
INVITO A SVILUPPARE UN PROGETTO<br />
LA FUNZIONE DELLE RADICI NELL’ESPANSIONE DEL PROGRESSO<br />
In prossimità del Natale 2003 sono state intensificate speciali misure antiterrorismo<br />
concernenti 150 obiettivi a rischio, tra cui il Vaticano e Piazza S. Marco a Venezia. Ma noi<br />
<strong>eu</strong>ropei non reagiremo come Hitler all’ipotesi di un complotto. Non ci lasceremo coinvolgere<br />
in un delirio paranoide e affronteremo il problema dell’“assedio” architettato dal terrorismo<br />
islamico e dal fondamentalismo con le armi di una cultura evoluta e di una politica strategica<br />
lungimirante. Reagiremo in modo “sano”, puntando sul dialogo con gli islamici moderati, i<br />
quali a loro volta isoleranno i loro connazionali “fanatici”. Il dialogo con i moderati e tra<br />
moderati innalzerà la vera “barriera difensiva” contro gli attacchi terroristici e non il “muro”<br />
di Israele, anche se viene denominato <strong>eu</strong>femisticamente “barriera difensiva”.<br />
Noi <strong>eu</strong>ropei siamo chiamati a presentare al mondo un modello di civiltà impostato sul<br />
dialogo costruttivo e su una forte identità, basata sui valori condivisi e su radici storiche<br />
comuni.<br />
La nostra coscienza identitaria<br />
La minaccia del terrorismo ha risvegliato la nostra coscienza <strong>eu</strong>ropea e il nostro senso<br />
di responsabilità verso i fratelli <strong>eu</strong>ropei che per la loro storia sono cresciuti sotto regimi<br />
totalitari e non hanno potuto sviluppare autonomamente una coscienza <strong>eu</strong>ropeista e<br />
un’identità <strong>eu</strong>ropea. Ma a loro rivolgiamo la nostra attenzione affinché, crescendo nella<br />
Famiglia Europea, maturino nella certezza che c’è un posto per loro come in una Grande<br />
Famiglia, di cui ci si sente parte e per cui talvolta si rinuncia al proprio interesse, ricevendone<br />
in cambio solidarietà e aiuto al momento del bisogno.<br />
Questo augurio va inteso in senso affettuoso e non lesivo dell’“orgoglio nazionale”.<br />
D’altro lato, la Famiglia Europea, che accoglierà la Romania e la Bulgaria nel 2007,<br />
dovrà preparare psicologicamente queste due nazioni al “salto qualitativo” dell’appartenenza<br />
all’Europa, fornendo loro l’armamentario psicologico contenuto in questo libro per evolvere<br />
172
dallo stato di ex satelliti dell’URSS a quello di sorelle delle altre nazioni <strong>eu</strong>ropee nella Grande<br />
Famiglia Unita. La Famiglia Europea non potrà incrementare all’infinito il numero di figli,<br />
ma potrà sempre intrattenere rapporti di amicizia e solidarietà con le nazioni vicine. I Figli<br />
della Famiglia Europea potranno contribuire a fare dell’Europa non tanto una super-potenza,<br />
quanto una Super-Famiglia con un’Identità ben definita, protagonista degli equilibri<br />
internazionali per portare la pace nel mondo.<br />
Il terrorismo ci ha risvegliato una coscienza identitaria in quanto Nazioni e in quanto<br />
Vecchio Continente, con tradizioni antichissime e radici storiche comuni lontanissime nel<br />
tempo. Si dice che non sempre il male viene per nuocere. Dobbiamo fare tesoro di questo<br />
detto per acquisire una Nuova Coscienza di Europei, che si sono evoluti anche sotto la spinta<br />
del fenomeno terroristico. Le avanguardie animate da autentico ideale e coscienza <strong>eu</strong>ropeista<br />
potranno svolgere un lavoro prezioso come mediatrici culturali in una società ancora<br />
improntata al pregiudizio razzista, sessista e classista.<br />
Le donne, portatrici di valori mai tramontati come la famiglia, potranno acquisire<br />
coscienza del loro ruolo nella società unendo la richiesta di pari opportunità ad un contributo<br />
essenziale nel costruire un modello di civiltà a cui tutti desiderino “appartenere”. Saranno le<br />
donne, con la loro predisposizione alla cura degli altri, ad unire in una sintesi poli<br />
apparentemente opposti, come una forte identità e il dialogo interculturale, interreligioso,<br />
interetnico, internazionale.<br />
È la nascente cultura delle donne che si propone come pioniera di una civiltà fino ad<br />
oggi dominata dal mito del Guerriero, che ha continuamente bisogno di fanciulle in pericolo<br />
da salvare dal drago, per sentirsi Eroe. In tal modo, il Guerriero ha perpetuato le guerre, la<br />
povertà, l’inquinamento del pianeta, i disastri ecologici, per poter accorrere in aiuto delle<br />
vittime e sentirsi Eroe. La cultura delle donne, perciò, propone strategie preventive, in modo<br />
da non aver bisogno che gli uomini facciano gli Eroi salvatori, quando ormai è troppo tardi<br />
per intervenire e proporre soluzioni alternative al conflitto e alla guerra. La cultura delle<br />
donne si propone come cultura del dialogo, dello scambio dialettico di punti di vista, del<br />
radicamento identitario nella tradizione culturale e nella fedeltà alla storia, ai valori<br />
condivisi.<br />
La tradizione non è rigida e arida conservazione, bensì fedeltà alle radici, all’identità<br />
storico-culturale, ai valori condivisi da un popolo, da una nazione, da un Continente.<br />
D’altro lato, la prima formulazione della moderna idea di Europa risale a Niccolò<br />
Machiavelli. Nell’Arte della guerra egli scriveva: “Voi sapete come degli uomini eccellenti in<br />
guerra ne sono nominati assai in Europa, pochi in Africa e meno in Asia. Questo nasce perché<br />
173
queste due ultime parti del mondo hanno avuto uno principato o due e poche repubbliche; ma<br />
l’Europa solamente ha avuto qualche regno e infinite repubbliche”. Mentre in Asia,<br />
storicamente, i sovrani hanno un potere illimitato e regnano su masse passive di sudditi, in<br />
Europa proliferano le repubbliche, cioè gli Stati cittadini, dove la competizione tra i gruppi<br />
politici fa emergere le virtù individuali. Lo stesso potere monarchico, in Europa, è vincolato<br />
da consuetudini e leggi, e da una stratificazione di poteri che preclude la strada al dispotismo.<br />
L’Asia è la terra dove gli uomini sono sudditi, l’Europa è la terra dove emergono le virtù<br />
dell’individuo. Nella storia moderna, l’Europa appare per la prima volta con una sua<br />
caratteristica “morale”, non fisica.<br />
In passato, anche dal punto di vista politico, si poteva parlare di Cristianità perché i<br />
due grandi sistemi medioevali, l’Impero e il Papato, esercitavano un dominio che tendeva<br />
all’unificazione del mondo cristiano. L’era moderna, invece, si profila come l’epoca degli<br />
Stati nazionali, che conferiscono all’Europa quel quadro politico diversificato su cui<br />
Machiavelli tanto insisteva.<br />
L’ideologia nazista e quella comunista non considerano l’individuo in quanto persona,<br />
ma come ingranaggio nel sistema sociale. L’individuo è strumento e il fine è lo stato,<br />
onnipotente tutore dei cittadini che predispone, organizza e decide su ogni sfera della vita,<br />
anche privata, controllando che tutto proceda secondo l’ideologia di stato. Pertanto,<br />
l’individuo deve servire ed essere utile al sistema. Altrimenti, viene “scartato”, perché non ha<br />
alcun valore per se stesso. Questa è la logica sottostante ai campi di sterminio nazisti e ai<br />
Gulag sovietici.<br />
L’individuo non viene accettato per se stesso, ma viene valutato in funzione di quanto<br />
è utile al sistema. Gli handicappati, pertanto, in quanto “inutili”, sono stati eliminati da Hitler.<br />
Per contro, dove l’accento viene posto sulla persona e i suoi valori, non c’è spazio per le<br />
ideologie totalitarie.<br />
Tradizione e crescita<br />
La tradizione è complementare alla trasformazione: occorre una rampa di lancio per<br />
far partire un missile. La tradizione è la struttura portante. Senza di essa è difficile attuare un<br />
cambiamento sostanziale. Occorre una struttura di base per poter operare una ristrutturazione.<br />
Una psiche destrutturata oscilla nel vuoto: la psicosi.<br />
La tradizione è mettere radici: un terreno culturale in cui costruire il cambiamento e la<br />
civiltà. Tradizione e innovazione non sono reciprocamente escludentisi, ma si integrano a<br />
vicenda, in una sintesi.<br />
174
Ci sono posizioni molto lontane e diverse che possono convivere benissimo proprio<br />
perché costituiscono due “lati integranti” della stessa medaglia. Il carattere composito della<br />
realtà che presenta molte sfaccettature giustifica l’assunzione di vari punti di vista<br />
contemporanei nell’osservare lo stesso oggetto. In tale ottica, ad esempio, non c’è conflitto o<br />
incompatibilità tra modello di produzione neoliberista, modello di innovazione con un ruolo<br />
dello stato nell’economia, anziché affidamento pieno al mercato e modello di civiltà, come<br />
precisa scelta di sviluppo anche politico e sociale.<br />
Sostenere la capacità individuale e la competizione economica, ma anche il settore no-<br />
profit come agente che opera nell’assistenza e solidarietà, e il principio di sussidiarietà che è<br />
alla base dell’autonomia, non appare contraddittorio. Si tratta di modi diversi di guardare la<br />
stessa realtà economica e sociale, tenendo conto del bisogno dei cittadini di crescere a<br />
molteplici livelli.<br />
Le dicotomie del tipo o/o, che escludono a priori un aspetto della medaglia, in fin dei<br />
conti, bloccano la crescita di un lato della società, rendendola atrofica o asfittica in una parte<br />
delle sue funzioni. Il paradigma e/e può correggere l’unilogica delle posizioni politiche<br />
improntate all’economia di mercato liberista “pura e semplice”.<br />
Secondo questa linea la lotta al declino deve favorire il superamento dei deficit<br />
competitivi dell’industria e dei servizi, per produrre nuovo reddito intervenendo sulla scarsa<br />
presenza di management, internazionalizzazione limitata, produzioni a basso contenuto<br />
tecnologico, poca capacità di innovazione e di utilizzo delle risorse umane. Gli incentivi e<br />
disincentivi mirati possono contribuire ad una politica della Competitività e Sviluppo.<br />
Il progetto per la realizzazione in Veneto di Centri di Eccellenza, luoghi di master,<br />
tavoli di ricerca e di applicazione di soluzioni innovative rivolte alle realtà produttive<br />
affronterà anche le tematiche che vanno dai cambiamenti climatici all’inquinamento, dalla<br />
sicurezza alimentare al miglioramento del vivere nella società industriale.<br />
Dare più spazio alla partecipazione sociale ed economica della società civile e<br />
organizzata significa cooperare alla crescita sociale e non certo interferire su di essa,<br />
bloccandola. Bisogna ricomporre le distanze tra sviluppo e cultura, tra economia e civiltà, tra<br />
beni materiali e immateriali.<br />
È la terza fase del capitalismo, spiegano gli economisti veneti e fra questi il professor<br />
Ferruccio Bresolin, uno dei cinque saggi che la Regione ha interpellato per individuare<br />
priorità, direttive e ispirazioni fondamentali di buon governo in vista della definizione di un<br />
nuovo Piano territoriale che disegnerà il Veneto del futuro.<br />
175
Il “capitalismo della conoscenza” trasferisce le competenze acquisite sul campo (che<br />
hanno fatto la fortuna del Nord-est), in un sistema per produrre ricerca e innovazione e,<br />
quindi, competitività.<br />
Se la questione si affronta sul piano dei rapporti tra economia e società, allora si<br />
chiama “capitalismo della responsabilità” e mira a ripristinare una nuova alleanza tra etica ed<br />
economia, per far sì che il progresso economico si possa realmente trasformare in benessere.<br />
“Proprio il Nord-est - ha commentato Luca Cordero di Montezemolo nelle<br />
affollatissime assemblee annuali di fine giugno 2004 degli industriali del Veneto, fra le<br />
numerose tappe a Nord-est - rappresenta in questo senso un interessante laboratorio”.<br />
Una presenza, quella di Montezemolo a Padova, così come a Verona prima e a<br />
Venezia poi, che vuole essere un invito esplicito rivolto a tutti (imprenditori, politici,<br />
sindacati, banche, università) a partecipare attivamente, a lavorare insieme per fare squadra e<br />
sviluppare quel progetto che si chiama “ripresa economia”.<br />
Agli imprenditori, innanzitutto, Montezemolo chiede di fare la propria parte e di<br />
assumersi le proprie responsabilità. Ma le istituzioni, i sindacati, il sistema bancario, le<br />
università sono tutti attori coinvolti dal leader di Confindustria per creare un sistema<br />
funzionale alle imprese e agli imprenditori, che non devono essere lasciati soli ad affrontare<br />
una sfida davvero decisiva per il futuro del Paese.<br />
Gli imprenditori chiedono, a questo punto, di essere messi in condizione di svolgere la<br />
propria attività. Sono pronti, con coraggio e risolutezza, a rimboccarsi le maniche e cogliere le<br />
nuove opportunità di sviluppo. L’esemplificazione del concetto attingendo dalla Formula Uno<br />
è per Montezemolo quasi obbligata: “Anche Schumacher, - dice - che è un grande campione,<br />
se dovesse guidare la Ferrari con una mano sola non otterrebbe gli stessi risultati. Gli<br />
imprenditori chiedono di poter tornare a guidare a due mani le proprie imprese e ricominciare<br />
ad essere protagonisti consapevoli nel circuito dell’economia”.<br />
Il punto di partenza è la necessità di una classe dirigente autorevole, credibile e<br />
competente, fatta di leader - in tutti i settori chiamati in causa - capaci di decidere, di indicare<br />
la strada e di assumersi le proprie responsabilità. Ma soprattutto una classe dirigente che<br />
sappia fare quadra, convergere su pochi ma indispensabili obiettivi. “Un tasso di litigiosità<br />
eccessivo e generalizzato invece - bacchetta il numero uno di viale dell’Astronomia - disturba<br />
la sempre più diffusa necessità di unità e dialogo”.<br />
Il punto d’arrivo è allora il raggiungimento di questi obiettivi prioritari, a risposta di<br />
improrogabili esigenze dell’industria. E riguardano il ridimensionamento del costo<br />
dell’energia, la funzionalità della pubblica amministrazione, le infrastrutture e i servizi, ma<br />
176
soprattutto la ricerca e l’innovazione.<br />
Una temporanea soluzione all’eccessivo costo dell’energia va trovata nel breve<br />
periodo chiamando a confronto produttori e consumatori, anche se la questione va poi<br />
affrontata radicalmente sul medio e lungo termine con un’adeguata politica industriale. Sulla<br />
pubblica amministrazione: così com’è - ha affermato Montezemolo - rappresenta soltanto una<br />
palla al piede del sistema italiano. “Non è accettabile - ha detto - che la PMI debba destinare<br />
tanto tempo e denaro per risolvere le pratiche burocratiche, piuttosto che concentrarsi sulla<br />
conquista di nuovi mercati”. Quanto alle infrastrutture, il confronto anche solo con un Paese<br />
ad economica emergente, la Cina, è impietoso: “Ogni cinque-sei anni a Shangai - ha fatto<br />
osservare - completano strade nuove, sopraelevate e autostrade. Qui da noi stiamo discutendo<br />
da trent’anni sul passante di Mestre!”.<br />
Ma la priorità in assoluto rimane la ricerca e l’innovazione. “Un Paese che non investe<br />
in ricerca - ha sottolineato con amarezza uno di Confindustria - non pensa al proprio futuro.<br />
Se è vero tuttavia che la ricerca, in un Paese moderno, ha bisogno di essere sostenuta ed<br />
incentivata dallo Stato, l’innovazione, però, è altra cosa: è un’innata propensione che ciascun<br />
imprenditore deve avere scritta nel proprio DNA, insieme allo spirito imprenditoriale”.<br />
La strada da percorrere è quella del dialogo e della concertazione. Un confronto sulle<br />
priorità che il mondo dell’impresa, a partire dal suo leader propone a sindacati - “che devono<br />
essere richiamati ad un comportamento responsabile e considerati interlocutori credibili e<br />
indispensabili” - banche - “con cui è necessario ricostruire un rapporto di reciproca fiducia e<br />
trasparenza per crescere insieme” - istituzioni e Governo, sollecitato nel ruolo strategico di<br />
creare il consenso per operazioni necessarie alla crescita del Paese. Ciò che il mondo<br />
dell’impresa deve giudicare sono i fatti e i risultati. Ciò che chi è al Governo da parte sua<br />
deve assicurare, indipendentemente dall’alternanza politica, è la continuità di progetti e<br />
pianificazioni essenziali allo sviluppo.<br />
Ma istituzioni, rappresentanze sindacali, banche e università all’altezza delle attuali<br />
sfide possono fare ben poco se il mondo imprenditoriale non si adegua a nuovi scenari<br />
internazionali e non torna con prodotti innovativi ad “aggredire” i mercati. A loro si chiede di<br />
compiere un indispensabile salto culturale.<br />
Il presidente di Confindustria, con toni pacati ma autorevoli, scuote i suoi, chiede una<br />
crescita dimensionale delle imprese - “apriamo ai soci che ci portano idee nuove, know how e<br />
sviluppo” -, innovazione continua e tecnologie - “può essere che negli ultimi anni qualcuno di<br />
noi si sia lasciato prendere la mano ed abbia acquistato un’auto in più al figlio piuttosto che<br />
investire in macchinari e formazione, fosse stata poi una Maserati...” -, capitale umano<br />
177
qualificato e conoscenze per mettere a punto modelli organizzativi e strategie di<br />
internazionalizzazione sempre più efficaci.<br />
E il senatore Tiziano Tr<strong>eu</strong> prospetta i dibattiti sul rilancio del modello veneto, che<br />
hanno individuato con larga convergenza i persistenti del sistema (la vitalità delle sue piccole<br />
imprese in particolare) e i suoi punti critici (la scarsa innovazione, l’eccessivo posizionamento<br />
su settori a basso valore aggiunto, la frammentarietà produttiva, la congestione del territorio,<br />
la inadeguatezza delle infrastrutture). Entrambi sono simili a quelli propri di gran parte del<br />
sistema economico italiano; ma in Veneto sono più evidenti, proprio per la posizione di<br />
“punta” che ha raggiunto la nostra economia.<br />
“Sottolineo due punti critici - precisa Tr<strong>eu</strong> in un articolo apparso su La piazza, un<br />
giornale locale del 24 luglio 2004 -: un primo aspetto essenziale riguarda le modalità con cui<br />
l’innovazione, che tutti ritengono cruciale, si può diffondere e far fare il salto di complessità<br />
necessaria al nostro sistema. Le piccole imprese sono ancora capaci di innovare; ma lo hanno<br />
fatto finora in modo incrementale, a piccoli passi, e quasi sempre individualmente. Ora si<br />
chiede una innovazione profonda e spesso a ‘salti’. Per far questo hanno bisogno di sostegni,<br />
di un ponte fra la ricerca avanzata e le sue applicazioni diffuse. Questo ruolo lo possono<br />
svolgere le grandi imprese, e dovremmo sostenerle e garantirne la crescita. Ma intanto ne<br />
abbiamo poche.<br />
Lo stesso ruolo può essere svolto in forme alternative, che vanno attivate subito: con un<br />
grande sforzo collettivo di sistema, come si dice, non ognuno per sé come si è fatto finora. Ma<br />
mettendosi insieme, con forme efficaci per organizzare davvero la diffusione delle<br />
innovazioni, la fornitura di servizi di qualità - finanziari, commerciali - che sono essenziali<br />
per competere sullo scenario globale”.<br />
Il tema dell’innovazione sollecita altri punti di riflessione: “Le associazioni di<br />
categoria devono porsi questo nuovo obiettivo. E le istituzioni pubbliche locali devono<br />
collaborare. Oltre le reti associative e tecnologiche sono necessarie reti istituzionali che<br />
sostengano i legami fra università, centri di ricerca, e imprese, che aiutino le piccole-medie<br />
imprese a fare veramente sistema.<br />
La ricerca pubblica e privata deve essere organizzata a sistema e finalizzata meglio<br />
all’innovazione produttiva. Venti centri di ricerca in Veneto sono una ricchezza se si<br />
concentrano e coordinano davvero in una missione comune: altrimenti sono uno spreco.<br />
Un secondo punto riguarda la qualità e l’innovazione. Per competere è prioritario che<br />
le imprese e il pubblico aumentino gli investimenti in tecnologie finalizzandoli ai settori<br />
praticabili dal nostro sistema. Non a pioggia, non su tutti i settori, alcuni ci sono preclusi; ma<br />
178
molte opportunità si aprono continuamente in settori impensati fino a ieri (pensiamo alle<br />
nanotecnologie e biotecnologie entrambe praticabili anche su piccola scala). Gli incentivi alle<br />
imprese non vanno aboliti, come qualcuno pretende. Vanno rigorosamente orientati a chi<br />
investe effettivamente in tecnologie e settori innovativi. Ma le tecnologie non bastano a<br />
innovare, se l’organizzazione di impresa resta vecchia e se le risorse umane non sono<br />
adeguatamente formate. Il Veneto deve investire di più in cultura d’impresa e in formazione, a<br />
tutti i livelli.<br />
La prima generazione di imprenditori si era ‘autoformata’ sul campo. Ora non basta<br />
più. La successione generazionale nelle imprese è un problema enorme e tocca l’intero vissuto<br />
dei giovani. Ma è anche un problema di cultura imprenditoriale, da modernizzare e<br />
diffondere. Il Nord-est ha recuperato in scolarità ma non abbastanza; c’è ancora troppo poca<br />
istruzione tecnico-scientifica e poca cultura manageriale. Gli investimenti in formazione<br />
vanno aumentati, come quelli in tecnologia. E non solo per gli operai, ma anche per manager<br />
e imprenditori. Nella società della conoscenza non bastano le doti spontanee di creatività dei<br />
nostri padri. Servono più tecnologia, organizzazioni più sofisticate, maggiore cultura<br />
imprenditoriale e più capacità di sistema”.<br />
E Raffaele Zanon, assessore regionale alle Politiche della sicurezza e dei flussi<br />
migratori sostiene nello stesso giornale La Piazza che “nel Veneto è palpabile il bisogno di<br />
iniziative che sviluppino il rapporto con le categorie economiche e sociali, ma è altrettanto<br />
concreta la necessità di una crescita culturale e identitaria. Una vera comunità è tale, soltanto<br />
se dotata di un progetto e di una classe dirigente che sappia essere all’altezza delle aspettative<br />
del Veneto.<br />
In forza della richiesta di politica proveniente dalle mutate condizioni storiche, si<br />
deduce che il momento è propizio per stipulare un patto per lo sviluppo tra i partiti che<br />
governano la regione e l’imprenditoria veneta. Patto che Alleanza Nazionale, per la sua<br />
estraneità alle vicende del passato e per la sua posizione politica caratterizzata dalla volontà di<br />
coniugare le esigenze del mercato con quelle della comunità, è ampiamente in grado di<br />
stipulare. L’esperienza di governo maturata in questi anni, la serietà della classe dirigente, il<br />
sostrato di valori che ne supporta l’azione politica, sono una garanzia di affidabilità. La Destra<br />
politica deve diventare protagonista in occasione dell’apertura del dibattito sul ‘piano di<br />
sviluppo regionale’.<br />
Oggi, dopo alterne vicende e superati i campanilismi, esiste una squadra veneta<br />
costituita da presidenti provinciali, amministratori, professionisti, consiglieri ed assessori<br />
regionali e parlamentari che si è aggregata sul lavoro quotidiano. L’obiettivo è di interpretare<br />
179
correttamente quello che la gente chiede alla politica, facendo giungere ad essa il messaggio<br />
della Destra politica e di quei valori che sono gli stessi che ritroviamo nella cultura del popolo<br />
veneto. Una cultura che riesce a coniugare la modernità con la tradizione, il profitto con la<br />
socialità, la globalizzazione con la riscoperta delle radici”.<br />
Tradizione e innovazione, coscienza identitaria, radicamento e crescita, valori<br />
condivisi e dialogo, fedeltà alle radici e ricerca possono integrarsi in un connubio che diventa<br />
parte del tessuto sociale.<br />
In questo quadro, le donne possono tessere la tela della società proponendosi come<br />
elemento unificante, che porta alla sintesi, anziché allo sbriciolamento. Il pensiero disgiuntivo<br />
degli uomini può essere controbilanciato da quello “congiuntivo” delle donne, preservando la<br />
società dal disgregamento. Le donne possono adoperarsi per preservare le tradizioni culturali<br />
dallo scardinamento operato dalla superficialità, dagli attacchi arroganti e dall’indifferenza.<br />
Una domanda sorge spontaneamente riflettendo sull’evoluzione della nostra cultura e<br />
della nostra società sempre più multietnica. Cosa ci ha portato a dimenticare la nostra identità<br />
storico-culturale e le nostre radici in nome del livellamento e della società multietnica, in cui è<br />
“meglio” far sparire le tracce identitarie, per non apparire “provinciali” nell’era della<br />
globalizzazione? Le donne islamiche col loro velo tradizionale che si fa notare vistosamente<br />
mentre camminano per le strade delle nostre città, viceversa, possono “imporre” le loro<br />
usanze senza per questo essere considerate “provinciali” dalla nostra sinistra. “Loro” vengono<br />
giustificate come “fedeli alla loro cultura”, mentre “noi” siamo considerati “provinciali” se ci<br />
vestiamo con abiti tradizionali della regione o della provincia.<br />
Come mai ci sono “due pesi e due misure”? Come mai nessuno ha opposto obiezioni a<br />
chi voleva sradicare l’usanza di costruire il presepe nelle scuole, in prossimità del Natale, per<br />
“rispetto” verso la comunità islamica presente nella scuola? Ci vergognamo forse della nostra<br />
cultura, delle nostre tradizioni, della nostra identità storica? Qual è la cultura che strappa le<br />
radici storico-culturali, fonte di identificazione e di “salute” mentale?<br />
Non è forse la cultura della sinistra che non ama connetterci con il nostro passato, con<br />
la nostra identità <strong>eu</strong>ropea, nazionale, regionale, locale?<br />
In effetti, la cultura del livellamento anonimo, dell’omogeneizzazione, dell’uniformità<br />
non tollera le differenze derivanti da una consapevolezza identitaria, dal contatto con le<br />
proprie radici storiche, dall’attingere la linfa vitale all’interno dell’individuo.<br />
La cultura del livellamento anonimo si preoccupa unicamente di non “dissolvere la<br />
dignità personale nel valore di scambio”, per prelevare le parole di Marx dal Manifesto del<br />
partito comunista, e denuncia “l’unica libertà, quella di commerciare, una libertà senza<br />
180
scrupoli”, secondo Marx concessa dalla borghesia nella società capitalistica.<br />
La cultura del livellamento anonimo non considera che c’è anche una libertà di<br />
attingere alla propria identità storica, culturale, familiare, personale, ma anche locale,<br />
regionale, nazionale, <strong>eu</strong>ropea, mondiale.<br />
Tutto ciò che riguarda l’identità e il processo di acquisizione di una consapevolezza<br />
identitaria viene spesso negato o scotomizzato dalla cultura della sinistra.<br />
La nostra civiltà occidentale, come del resto gran parte delle civiltà oggi dominanti sul<br />
pianeta, si trova impigliata in un paradosso. Da un lato, la diversità o la varietà delle attitudini<br />
e delle esperienze degli individui e delle collettività umane appare una precondizione<br />
indispensabile e necessaria perché le creazioni e le innovazioni possano avere luogo, perché le<br />
conoscenze possano essere formate e consolidate. D’altro lato, però, si è ben lontani,<br />
dall’accordare il giusto valore o quanto meno il dovuto rispetto alle diversità e alle varietà<br />
individuali e collettive. Al contrario, la tendenza prevalente è di ignorarle, di sottovalutarle e<br />
soprattutto, se possibile, di ridurle o addirittura di annullarle attraverso processi di<br />
omogeneizzazione forzata.<br />
Dove non si riesce a ridurre o ad annullare, prevale la tendenza a gerarchizzare e a<br />
subordinare, a definire un superiore e un inferiore, ciò che deve prevalere e ciò che deve<br />
essere sottoposto. Le relazioni tra maschile e femminile e fra mente e corpo, nella nostra come<br />
in altre civiltà, sono forse i casi più evidenti in cui l’ossessione della gerarchizzazione e della<br />
subordinazione ha annientato molte possibilità creative presenti nella tensione coevolutiva fra<br />
polarità distinte, e non opposte.<br />
Oggi non basta il rispetto reciproco fra le identità. È necessario che unità e diversità<br />
non siano più intese come separate e conflittuali, ma come i due poli tramite cui si definisce<br />
una medesima entità.<br />
È auspicabile che questa difficoltà di conciliazione sia superata da un pensiero delle<br />
diversità che sappia riconoscere che ogni universo è un pluriverso, che sappia cioè concepire<br />
insieme uno e molteplice - la molteplicità nell’unità e l’unità nella molteplicità - tutto e parti,<br />
interdipendenza planetaria e senso delle radici, apertura e chiusura, integrazione e<br />
appartenenza.<br />
La situazione del mondo attuale rende impraticabili i modi consolidati di concepire<br />
gruppi, identità, nonché confini fra gruppi e fra identità. Si tratta di istituire nuove regole del<br />
gioco che non sommergano più le diverse identità, ma che nemmeno le tengano isolate le une<br />
dalle altre. Si tratta di innescare non più meccanismi di conservazione, ma di coevoluzione.<br />
181
Identità negata o identità inesistente?<br />
Di fronte alla moltiplicazione delle interazioni e delle ibridazioni, molti gruppi, popoli,<br />
civiltà, forme di vita e di conoscenza temono di perdere la propria identità, di venire<br />
risucchiati in un magma indifferente e informe. Non a caso il Veneto si dimostra, ancora una<br />
volta, terra di esperimenti politici che anticipano le lentezze dei partiti a livello nazionale: in<br />
Veneto DS-Margherita-SDI-Repubblicani hanno annunciato all’inizio di agosto 2004 la<br />
nascita, prima in Italia, della Federazione dell’Ulivo, in vista delle elezioni regionali del 2005,<br />
in cui verrebbe tutelata l’identità dei partiti. È paradossale che proprio coloro che si<br />
oppongono al federalismo programmato dalla Casa delle Libertà diventino fautori del<br />
federalismo di partito.<br />
Ci sono individui e gruppi che reagiscono con un esasperato senso di appartenenza<br />
nazionale che degenera nella “malattia” nazionalista e gruppi che reagiscono con un richiamo<br />
alle loro radici. Fra l’omologazione indifferenziata e le identità monolitiche esclusive e<br />
vicendevolmente conflittuali, il divario è immenso e lo spazio è molto ampio. Riuscirà questo<br />
spazio ad essere colmato da un pensiero delle diversità che sappia riconoscere l’identità<br />
locale, regionale, nazionale, <strong>eu</strong>ropea, planetaria, che sappia concepire insieme uno e<br />
molteplice, ossia la molteplicità nell’unità e l’unità nella molteplicità? Riuscirà a concepire<br />
insieme, contemporaneamente, tutto e parti, interdipendenza planetaria e senso delle radici,<br />
apertura e chiusura, integrazione e appartenenza?<br />
Contraddizioni e distanze culturali.<br />
Gli schemi culturali possono costituire una gabbia che rivela alcune contraddizioni con<br />
la spinta alla crescita e all’innovazione. Ad esempio, gli abitanti della Cina, pur fermamente<br />
motivati ad una crescita economica, rimangono ancorati alle proprie radici, alle proprie regole<br />
e, depositari di un’antica civiltà, alla propria cultura. E’ una distanza culturale difficile da<br />
colmare per chi intende sviluppare rapporti anche di tipo commerciale e industriale.<br />
Elementi di modernità, anche “spinta”, convivono con la tradizione e con una realtà<br />
per lo più agricola: lo si coglie nella caratterizzazione del paesaggio - isole di modernità con<br />
grattacieli supertecnologici e lussuosi si trovano a poche centinaia di metri di distanza da<br />
estesi villaggi “f<strong>eu</strong>dali” - ma anche nella composizione della popolazione: del miliardo e 300<br />
milioni di abitanti, 50 milioni sono benestanti. I prodotti della Cina spesso sono copie a basso<br />
prezzo di prodotti originali, una concorrenza a volte sleale contro cui è difficile difendersi.<br />
Ignorare la “questione cinese” è controproducente, così come chiudersi in difesa a<br />
sostegno di una strategia di tipo protezionistico. Meglio aggredire il fenomeno, sfruttando a<br />
182
pieno le enormi opportunità commerciali ma anche produttive. Per internazionalizzare le<br />
produzioni gli imprenditori chiedono, però, politiche economiche e commerciali adeguate;<br />
chiedono inoltre un sostegno sicuro, anche e soprattutto, da parte delle associazioni di<br />
categoria, che in questa fase di studio e di conoscenza del fenomeno, hanno un ruolo<br />
fondamentale e di riferimento per i propri associati.<br />
Escludere la Cina dal proprio orizzonte non è possibile per non rinunciare ad una<br />
quota rilevante del mercato mondiale, ma anche per assumere come imprese strategie di<br />
internazionalizzazione e sollecitare dai Governi controlli e misure valutarie per una<br />
competizione meno impari. Chi vuol rimanere competitivo non può ignorare quel Paese, anzi<br />
deve conoscerlo per capirne punti di forza e debolezza e non subirne passivamente<br />
l’invasione. In effetti una partita competitiva di questa portata richiede misure a più livelli,<br />
fondate sul rispetto degli accordi internazionali.<br />
E qui l’iniziativa spetta all’Unione Europea che deve far applicare le clausole previste<br />
dai Protocolli di accesso della Cina alla World Trade Organization, per arginare la<br />
concorrenza sleale, il dumping. Quanto all’Italia, servono politiche per favorire il<br />
riposizionamento strategico del sistema industriale, costituito in larghissima parte da piccole e<br />
medie imprese. Politiche per sostenere l’internazionalizzazione delle imprese in Cina;<br />
politiche per riqualificare le produzioni industriali, aiutandole a spostarsi verso i segmenti alti<br />
di mercato. La concorrenza di costo non gioca più a nostro favore. Ma dove contano<br />
originalità delle innovazioni, capacità intellettuali, qualità, servizio, brand, lì la partita è aperta<br />
e i nostri produttori possono giocarla con una ragionevole attesa di vincerla. Sono obiettivi di<br />
lungo periodo, che richiedono nuove attitudini e nuovi modi di pensare: non solo agli<br />
imprenditori, ma anche alla società italiana e al decisore pubblico.<br />
Per quanto riguarda la regione Veneto, alcuni osservatori hanno paventato lo scenario<br />
di un Veneto che affronta “in ordine sparso” un continente complesso come la Cina.<br />
I rischi da assumere e le soglie minime da superare per avere chance di successo in<br />
Cina, suggeriscono di fare sistema, suggeriscono pertanto il coordinamento progettuale e<br />
funzionale di queste azioni a livello regionale. Unindustria Padova si muoverà in questa<br />
direzione, mettendo a disposizione di un progetto di sistema il know how e le conoscenze<br />
acquisite sul mercato cinese.<br />
Constatando l’importanza e la strategicità di quel Paese e di quel mercato si è “mossa”<br />
la Fondazione Italia Cina, presieduta da Cesare Romiti. Ad oggi è l’unica associazione<br />
provinciale presente nella task force sulla Cina, attivata da Confindustria. Quanto alle attività<br />
specifiche dell’Associazione, è stata realizzata nel 2004 un’indagine tra 500 imprenditori<br />
183
associati dei principali settori produttivi vicentini (meccanica, sistema moda, orafo, concia...)<br />
per verificare quali sono gli atteggiamenti e le aspettative dell’industria locale. È stata poi<br />
completata la mappatura di 25 distretti industriali situati in altrettante provincie o municipalità<br />
cinesi per verificare le potenzialità della politica avviata dal governo cinese. Per ognuno dei<br />
25 distretti sono stati mappati i costi (dei terreni, degli immobili, del lavoro, di costruzione...),<br />
le infrastrutture (viarie, telecomunicazione, reti distributive, formazione...), le agevolazioni e<br />
gli incentivi, le politiche industriali e altri. Insieme con Confindustria, si sta mettendo a punto<br />
un progetto che prevede di integrare la mappatura dei distretti con una serie di studi sulla<br />
normativa cinese in materia di proprietà industriale, sul sistema fiscale cinese, sul regime<br />
societario e gli investimenti esteri in Cina, con analisi di mercato dei problemi incontrati dagli<br />
imprenditori italiani in Cina. L’idea è poi di organizzare, sempre con Confindustria, un<br />
workshop a Pechino o a Shanghai nella primavera del 2005.<br />
L’unità nella molteplicità e la molteplicità nell’unità.<br />
La nostra crescente consapevolezza dell’eterogeneità del nostro mondo e della sua<br />
complessità è unita a una crescente consapevolezza della sua unità.<br />
Oggi la maggior parte dell’enfasi popolare sul multiplex, sulla eterogeneità, relatività,<br />
molteplicità ha gettato via il bambino dell’unità, dell’unitas, insieme all’acqua della vasca,<br />
insieme all’acqua dell’omogeneità.<br />
Come il tragico collasso dell’ex Jugoslavia ci ha mostrato, la frammentazione di una<br />
compagine di stati ed etnie predispone il terreno al sorgere di un pensiero riduttivo e<br />
disgiuntivo per scopi di dominio. Le teorie biologiche sulla purezza etnica sono esplose in una<br />
pulizia etnica di unità forzata, unitas simplex (unità semplice). In altri termini, l’unità<br />
semplice, espressione di pensiero riduttivo e disgiuntivo, fissa artificialmente i criteri di<br />
appartenenza ed esclusione da una determinata comunità e seleziona i membri di questo<br />
gruppo “artificiale” espellendo e perseguitando gli altri.<br />
L’unitas simplex, l’unità forzata, è stata attuata durante il nazifascismo e si ripresenta<br />
puntualmente nel corso della storia in alcune fasi di transizione e di crisi.<br />
L’unitas simplex perseguita per scopi di dominio in una cultura patriarcale o<br />
androcratica va sostituita dall’unitas multiplex, scoprendo un modo alternativo di relazionarsi,<br />
oltre il dominio.<br />
La nozione di purezza etnica sottolinea una identità selezionata artificialmente in un<br />
gruppo eterogeneo, privilegiando i puri e scartando gli impuri, come si fa quando si sgusciano<br />
i baccelli, selezionando il fagiolo o pisello e scartando la buccia.<br />
184
Ponendo l’accento sull’identità individuale, locale, regionale, nazionale, <strong>eu</strong>ropea,<br />
planetaria, viceversa, non si opera alcuna selezione artificiale con un fantasmatico richiamo<br />
alle radici immaginate e costruite ad uso e consumo del momento presente. Rintracciando le<br />
nostre radici, le nostre storie personali, locali, regionali, nazionali, <strong>eu</strong>ropee, planetarie,<br />
rafforziamo il nostro senso di identità, ma senza sacrificare nessuno in nome di una presunta<br />
superiorità, di una dialettica di dominazione.<br />
Il valore accordato alla molteplicità e all’eterogeneità impedisce l’assunzione<br />
pregiudiziale di parametri di superiorità. D’altro lato, l’importanza attribuita all’identità del<br />
cerchio concentrico soprastante sposta l’accento sull’unità nelle dicotomie parte/tutto,<br />
individuale/collettivo, molteplice/uno. In altri termini, immaginando analogicamente le varie<br />
identità come cerchi concentrici formatisi lanciando un sasso in un lago, il secondo cerchio<br />
comprende il primo, il terzo comprende il secondo, il quarto comprende il terzo, ecc.<br />
Nel riconoscimento dell’unitas multiplex (unità molteplice) dialogica dell’Io e<br />
dell’ambiente che interagiscono nel tempo, la nostra identità sociale in quanto membri di una<br />
comunità cittadina, di una regione, di una nazione, di un super-stato, del pianeta, fa sì che ci<br />
sentiamo contemporaneamente parte di un tutto, di una comunità più ampia e in ciò<br />
costituisce l’unità. Pertanto, l’unità non è un’idea astratta, imposta artificialmente dall’alto<br />
sulla base di criteri artificiali che rispecchiano un pensiero riduttivo e disgiuntivo.<br />
Nell’antica Roma, la selezione di criteri artificiali ha portato alla persecuzione dei<br />
cristiani. E quando la Chiesa cristiana è diventata istituzione, ha istituito il Tribunale<br />
dell’Inquisizione, il Santo Uffizio e l’Indice dei libri proibiti, per selezionare con la violenza<br />
delle buone intenzioni i criteri utili a preservare la “purezza della dottrina”. Purezza della<br />
razza, purezza della religione e purezza della dottrina si equivalgono sul piano della<br />
dialettica di dominazione.<br />
Un modo alternativo di relazionarsi, oltre il dominio e l’unità forzata, unitas simplex, è<br />
l’unitas multiplex, che pone l’accento sulla molteplicità e l’eterogeneità rimandando tuttavia a<br />
quell’unità del tutto che comprende la parte, e a quel collettivo che comprende l’individuale,<br />
senza negarlo, reprimerlo o ignorarlo.<br />
La teoria dei sistemi insegna che la realtà non si divide in categorie nettamente<br />
ordinate e che la frammentazione conduce a una mutilazione concettuale. In base a questa<br />
teoria, non si può creare una conoscenza utile riguardo ad una nazione, ad un continente, ad<br />
una città, ad una regione ecc., senza prendere in considerazione fattori culturali, storici,<br />
psicologici ed economici, per completare la dimensione politica. Gli psicologi del gestaltismo<br />
olistico hanno mostrato che le note in una melodia hanno un senso per via della loro<br />
185
organizzazione, come un insieme. Il suono di un accordo può essere visto come una proprietà<br />
emergente e, in un brano musicale, una figura melodica suona in modo molto differente, in<br />
base all’armonia che viene creata dietro di essa (il “contesto”). Suonando in un gruppo,<br />
l’importanza dell’interazione è sovrana, essendo la musica una proprietà fondamentale delle<br />
interazioni organizzate dei musicisti. E tuttavia in molte scuole di musica tutti questi elementi<br />
cruciali sono esattamente ciò che viene detto di eliminare dall’indagine, in quanto “rumore”<br />
(noise).<br />
La frammentarietà della conoscenza contemporanea si riflette in un sistema educativo<br />
a sua volta frammentario e sconnesso. Nonostante una forma di ossessione verso la<br />
metodologia, apparentemente con il fine di ottenere una conoscenza “giusta”, le premesse<br />
fondamentali e il metodo delle scienze sociali restano ampiamente incontestualizzati, fuori dal<br />
contesto. Il contesto culturale, le relazioni, i legami, la totalità sono smarriti. Le variabili<br />
isolate, gli agenti quantificati, insieme con gli schemi di valutazione e di voto, rappresentano<br />
uno sforzo finalizzato alla replica del metodo delle scienze naturali, mentre,<br />
contemporaneamente, la relazione tra le scienze umane, sociali/naturali rimane<br />
incontestualizzata. Nello sforzo di trovare un ordine semplice, viene distrutta la complessità<br />
della vita e la conoscenza che ne deriva è spesso di scarso valore per la “vita reale”.<br />
Lo sforzo di trovare un ordine semplice dilania spesso la vita, anziché esaltarla. Ciò è<br />
successo nel corso della storia tutte le volte che una razza, una cultura, una religione hanno<br />
cercato di spazzare via le altre razze, culture o religioni, per imporre una sola voce: la propria.<br />
Questa unilogica, basata talvolta sulla violenza delle buone intenzioni o su una palese volontà<br />
di dominio, come nel processo di germanizzazione attuato in Europa da Hitler, può esprimersi<br />
in varie forme, anche attraverso la costruzione di un muro, che può apparire “il male minore”,<br />
ma essere contemporaneamente caricato di significati politici e relazionali.<br />
Il muro della sicurezza o della separazione?<br />
Il 9 luglio 2004 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja ha reso noto il parere<br />
consultivo richiesto dall’Assemblea Generale dell’ONU: la costruzione del muro che divide<br />
israeliani e palestinesi dev’essere interrotta perché incompatibile con la legislazione<br />
internazionale e con i diritti del popolo palestinese.<br />
Di 700 chilometri è la lunghezza del muro: pareti di cemento armato - 20 km secondo<br />
il progetto - alte fino a 8 metri, alternate a reticolati. È sorvegliato da telecamere. Un milione<br />
di dollari per chilometro è il costo stimato per la costruzione del muro dichiarato “illegale”<br />
dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. Dell’80% è il calo degli attentati suicidi nei<br />
186
primi sei mesi del 2004 rispetto allo stesso periodo nel 2003. Per il governo israeliano è<br />
merito della barriera.<br />
Il ministro degli Esteri olandese Bernard Bot, presidente di turno dell’Unione Europea,<br />
il 12 luglio 2004 a Bruxelles aprirà la discussione con gli altri 24 ministri degli Esteri<br />
(Consiglio Affari Generali), partendo proprio da queste quattro righe: “L’Unione Europea,<br />
pur riconoscendo il diritto di Israele a proteggere i propri cittadini dagli attacchi terroristici,<br />
ha chiesto alla stessa Israele di fermare la costruzione della barriera all’interno dei territori<br />
palestinesi”. Ma oltre al “documentino” olandese, i ministri UE troveranno sul tavolo la<br />
richiesta ufficiale del premier palestinese Abu Ala: adesso l’Europa si schieri contro il muro<br />
israeliano nella discussione che si profila all’ONU. Abu Ala non poteva essere più esplicito<br />
con l’inviato dell’UE in Medio Oriente, il belga Marc Otte. Il diplomatico <strong>eu</strong>ropeo,<br />
naturalmente, ha preso tempo, sintonizzandosi automaticamente con la cautela espressa dagli<br />
olandesi: “Dobbiamo valutare con attenzione quello che la Corte ha detto e quali saranno le<br />
conseguenze”.<br />
La sentenza dell’Aja riapre dunque uno dei dibattiti più difficili, e politicamente più<br />
delicati, all’interno della UE. “Se ci avvitiamo solamente sul muro ho l’impressione che il<br />
problema si inasprisca”, ha detto il 10 luglio, parlando a Siena, il ministro Franco Frattini,<br />
forse presentendo quanto poteva accadere a Bruxelles. Fin dall’inizio della vicenda i Paesi<br />
della UE hanno mantenuto un problematico atteggiamento n<strong>eu</strong>trale. L’8 dicembre 2003<br />
l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò a larga maggioranza la risoluzione<br />
presentata dai palestinesi, con la quale si chiedeva un “parere” alla Corte di Giustizia dell’Aja.<br />
Gli Stati Uniti votarono contro, le astensioni furono 74, comprese quelle degli <strong>eu</strong>ropei. Poi,<br />
nel febbraio del 2004, quando cominciò il “processo al muro”, la UE evitò di prendere una<br />
posizione “nel merito” della causa, rilanciando la strada della mediazione, mentre attivisti<br />
israeliani portavano fuori dal tribunale la carcassa di un autobus colpito da un attentato e i<br />
palestinesi organizzavano sit-in permanenti. Frattini prova a portare la “questione del muro”<br />
sul campo politico: “Quella parte di barriera che invade il territorio palestinese sicuramente<br />
non aiuta il dialogo. Lo abbiamo detto con chiarezza agli israeliani che quello è un tracciato<br />
da rivedere. Lo ha detto del resto anche la Suprema Corte Israeliana, non soltanto noi. Altra<br />
cosa è il principio di una sicurezza di Israele che, all’interno del proprio territorio, credo possa<br />
effettivamente organizzarsi come meglio crede. Il problema è che il muro assume un<br />
simbolismo politico che sicuramente non aiuta né da un lato né dall’altro. Quindi noi<br />
temevano che, dopo la sentenza dell’Aja, la reazione sarebbe stata esattamente quella di questi<br />
giorni, inasprendo l’una e l’altra parte. Ecco perché non solo l’Italia, ma anche l’Europa,<br />
187
avevano detto che non è con decisioni giuridiche che si risolvono i nodi politici”.<br />
La linea “minimalista” di Frattini (“L’Europa e l’Italia non possono fare niente”) è<br />
sostanzialmente condivisa dalla Gran Bretagna e, sia pure con parole diverse, dai Paesi<br />
dell’Europa centrale, cioè Germania, Polonia, Austria e Repubblica Ceca. Su un altro versante<br />
ci sono Francia, Belgio e Spagna, Paesi convinti che la UE dovrebbe fare qualcosa di più per<br />
convincere Israele a smantellare il muro, ma non solo.<br />
Ora che la sentenza sul muro è scritta, che la barriera eretta da Gerusalemme contro il<br />
terrore è stata definita “illegale” dalla Corte Internazionale dell’Aja, è ai Paesi amici che<br />
guardano sia gli israeliani che i palestinesi, per n<strong>eu</strong>tralizzare gli effetti di quel verdetto di<br />
condanna, o capitalizzarli.<br />
La contesa giuridica ha un secondo round, che stavolta si giocherà all’ONU. È lì che i<br />
palestinesi hanno deciso di spostarla - ed è lì che Israele vuole intervenire, chiamando in aiuto<br />
innanzitutto il suo primo alleato, gli Stati Uniti -, per fermare una risoluzione del Consiglio di<br />
Sicurezza che suonerebbe come una seconda, pesante, sconfitta.<br />
L’osservatore palestinese alle Nazioni Unite ha annunciato il 10 luglio la strategia<br />
dell’ANP. “Chiederemo all’Assemblea generale, tramite la Lega Araba, di sostenere questa<br />
sentenza - ha detto Nasser Al Kidwa -. Poi porteremo la risoluzione sul muro al Consiglio di<br />
Sicurezza”. Chiedendo così all’ONU di far propria questa condanna. Per poter - questa<br />
l’ambizione dei palestinesi - magari chiedere sanzioni contro Israele.<br />
Il governo Sharon, da parte sua, non ha perso tempo e ha iniziato una controffensiva<br />
diplomatica a tutto campo. “Abbiamo chiesto l’aiuto agli USA - ha annunciato il ministro<br />
degli Esteri Silvan Shalom - perché blocchino la risoluzione al Consiglio di Sicurezza”.<br />
Chiaramente, con il veto. Da Gerusalemme sono state chiamate le capitali <strong>eu</strong>ropee che hanno<br />
un seggio nel ristretto club (15 membri) che governa l’ONU. Che la questione arrivi ai suoi<br />
tavoli, ormai non v’è dubbio. Alla metà di luglio si pronuncerà l’Assemblea generale, e come<br />
ha detto proprio Shalom, i “palestinesi lì otterranno una maggioranza automatica”, grazie allo<br />
scontato appoggio degli Stati Arabi e dei Paesi del Terzo Mondo.<br />
Ma altrettanto certo sarà il sostegno degli Stati Uniti alle posizioni israeliane nel<br />
Consiglio di Sicurezza. Nessuno l’ha promesso, ma Colin Powell ha implicitamente sposato le<br />
critiche di Gerusalemme alla sentenza “unilaterale” dell’Aja: “I numeri mostrano che questa<br />
barriera - ha detto il segretario di Stato USA - ha diminuito il terrorismo”. La diplomazia<br />
USA ha fatto propria un’altra delle tesi chiave del governo Sharon (e non solo): “Restiamo<br />
dell’idea che questo foro non era appropriato - ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato,<br />
Richard Boucher -, e che la sentenza possa pregiudicare gli sforzi per arrivare a un accordo di<br />
188
pace tra gli israeliani e i palestinesi”. Poi una frase che è quasi un impegno di veto: “Gli Stati<br />
Uniti non credono che ci debba essere un’ulteriore azione dell’ONU”.<br />
C’è un altro attore, che tutti chiamano in scena: l’Europa. La cercano da<br />
Gerusalemme, la corteggiano da Ramallah. Il premier palestinese Abu Ala ha ricevuto il 10<br />
luglio 2004 l’inviato dell’UE in Medio Oriente Marc Otte, implorando il suo aiuto: “E’ una<br />
responsabilità della comunità internazionale, è una responsabilità delle Nazioni Unite creare<br />
un meccanismo che costringa Israele a rispettare la sentenza e abbattere il muro”. Speriamo,<br />
ha aggiunto, che gli USA “non sabotino questo sforzo”.<br />
L’Europa prenderà posizione il 21 luglio schierandosi a favore dello smantellamento<br />
del muro, con il voto unanime dei 25 Paesi membri. Ma per quanto l’Unione abbia criticato il<br />
tracciato del muro, e i danni prodotti alla popolazione palestinese - “L’UE continua a chiedere<br />
a Israele di rimuovere la barriera dai Territori occupati, compresa Gerusalemme”, ha ricordato<br />
anche il 10 luglio 2004 il portavoce della Commissione Jean-Christophe Filori - è altrettanto<br />
vero che importanti Paesi <strong>eu</strong>ropei si sono opposti al processo dell’Aja. Non è il foro il luogo<br />
giusto, hanno sostenuto, per dirimere la questione più calda del conflitto israelo-palestinese.<br />
Una presa di distanza, capeggiata da Gran Bretagna e Germania, guarda caso, due dei Paesi in<br />
Consiglio di sicurezza.<br />
Nessuno si dà per vinto, ma sembra chiaro che la battaglia all’ONU, che ha espresso<br />
parere contrario al muro, non cambierà il tracciato del muro. Quello andrà rivisto perché è la<br />
Corte Suprema israeliana che lo ha ordinato. Il tracciato intorno a Gerusalemme sembra infatti<br />
destinato a procurare notevoli sofferenze alla popolazione palestinese. A Gaza, intanto, si<br />
ripete all’infinito la guerra vera: il 10 luglio quattro palestinesi sono morti, dopo che la loro<br />
Mercedes nera è esplosa, centrata da un tank israeliano (sostengono i palestinesi) o perché<br />
trasportava esplosivo (dicono gli israeliani).<br />
Per costruire il futuro, lo sviluppo, la speranza, si richiede la collaborazione anche<br />
dell’Europa nell’intricato conflitto israelo-palestinese. Sharon ha ribadito anche quando è<br />
venuto a Roma nel 2003 che “il muro non è un atto politico” e serve a presidiare la sicurezza<br />
di Israele. Quale “atto temporaneo” di difesa da attacchi terroristici, tuttavia, dovrà tener<br />
conto delle conseguenze di separare gli agricoltori dalla terra lavorata, i bambini dalla scuola<br />
frequentata, i pazienti dal luogo in cui si trovano gli ospedali. La tutela della sicurezza di<br />
Israele non va disgiunta da un intervento umanitario di solidarietà verso la popolazione<br />
palestinese, in vista del momento in cui il muro non sarà più necessario, come è successo a<br />
Berlino nel 1989. E’ ragionevole supporre che questo momento non tarderà a venire, e non<br />
per una ingiunzione esterna, da qualunque parte essa provenga, ma per una convinzione<br />
189
maturata da entrambe le parti, israeliana e palestinese, sull’utilità di stringere rapporti di<br />
alleanza e collaborazione, anziché di escalation di guerra.<br />
NUOVE STRADE DA PERCORRERE<br />
L’attuazione della road map.<br />
L’incarico che hanno affidato a Yonatan Bassi non è solo delicato, ma è anche<br />
fondamentale: trasferire i coloni ebrei che da trent’anni vivono nella Striscia di Gaza<br />
all’interno dei confini dello Stato di Israele. Un compito arduo e che gli ha già attirato le<br />
critiche dell’ala più oltranzista. Proprio in queste settimane, alcuni esponenti di spicco del<br />
movimento dei coloni lo hanno attaccato giudicandolo un “traditore”. Anzi. Di più, lo hanno<br />
battezzato “Kapò-Cino”, un pesante gioco di parole a metà strada tra il collaboratore nazista e<br />
la parola “cappuccino” mettendo a nudo la sua origina italiana. Ma Yonatan Bassi, 56 anni,<br />
tanti quanti lo Stato d’Israele, sangue veneziano nelle vene, fa spallucce. Bassi è figlio di un<br />
“pioniere”, di un ebreo veneziano, Paolo, che all’emanazione delle leggi razziali nel 1938 fu<br />
costretto ad emigrare prima in Francia e poi decise di andare in Palestina, realizzando così il<br />
sogno sionista. Paolo Bassi, morto nel 1967, partecipò alla costruzione del kibbutz di Sdè<br />
Elyahu sfuggendo così alle persecuzioni naziste che decimarono la sua famiglia rimasta in<br />
Europa.<br />
Yonatan Bassi per sei ani ha avuto la responsabilità del settore Piscicoltura del<br />
kibbutz, poi ha intrapreso gli studi di Economia all’università e a poco a poco ha assunto<br />
incarichi di gestione e di amministrazione raggiungendo nel 1992 la carica di Direttore<br />
generale del ministero dell’Agricoltura nel governo Rabin. Con quell’incarico, Bassi ha<br />
partecipato ai negoziati di pace a Parigi tra israeliani e palestinesi.<br />
In un’intervista apparsa su Il Gazzettino del 5 agosto 2004, Bassi rivela le sue<br />
convinzioni e i suoi dubbi:<br />
ebrei da Gaza.<br />
Proprio in queste settimane, lei è stato designato a gestire l’“evacuazione” dei coloni<br />
“Direi che la parola ‘evacuazione’ non è giusta. Il mio compito è quello di offrire ai coloni<br />
ogni sorta di finanziamento, di aiuto sociale, psicologico, e amministrativo per consentire loro di<br />
ricollocarsi all’interno delle frontiere internazionalmente riconosciute dello Stato d’Israele. In questo<br />
senso ho carta bianca dal governo Sharon”.<br />
190
Non sarà facile convincere i coloni a “tornare a casa”. Anche perché dal punto di vista<br />
messianico loro sono convinti di vivere sul territorio della Grande Israele.<br />
“Certo, sarà un lavoro difficile, arduo e pesante. Ma va detto con chiarezza che i coloni<br />
pagano decisioni che non sono state prese da loro. Sono ‘vittime’ di una politica errata che ha<br />
consentito loro di stabilirsi in quelle aree. Il governo di Israele si è preso l’impegno di offrire un’altra<br />
chance, una nuova possibilità di sistemazione. Sarà complicato, ma capisco anche i sentimenti di<br />
questa gente che ha costruito nuove città, realizzato nuove colture e infrastrutture con tanti, tanti<br />
sacrifici”.<br />
vista morale?<br />
Lei è un ebreo osservante e non laico. Sente il peso di questo incarico anche dal punto di<br />
“Questo è il mio lavoro. Aiuterò in tutti i modi queste persone. Ma da Gaza dobbiamo<br />
andarcene. E senza choc. Il mio incarico prenderà il via la settimana prossima e l’obiettivo è uno solo:<br />
far sì che nel 2005 non ci sia più un israeliano a Gaza”.<br />
Difficile risolvere in un anno problemi più che trentennali...<br />
“E’ la nostra scommessa. Le pressioni, soprattutto da parte dei coloni, sono molto forti. Non<br />
sarà facile, ma dobbiamo farlo. E sono onorato di fare questo lavoro, nonostante le critiche, perché<br />
anche se sono religioso e posso avere più di qualche sintonia con i coloni, sono convinto che sto<br />
operando per il bene del mio Paese. Paradossalmente ho ricevuto apprezzamenti e giudizi positivi<br />
dalla parte laica d’Israele e molte condanne dalla parte religiosa. E questo mi ferisce non poco perché -<br />
come dire - è il mio mili<strong>eu</strong>, il mio ambiente”.<br />
Qual è la situazione in Israele?<br />
“Prima di tutto il popolo israeliano vuole la pace. Ma si rende conto che l’Occidente<br />
sottovaluta i rischi al quale va incontro il mio Paese. In Europa, soprattutto, non si vuole capire che<br />
Israele è il confine ‘reale’ del Vecchio Continente e dell’Occidente. La decisione del Tribunale<br />
dell’Aja sulla ‘bariera’ è assurda. In tutto il testo non vi è una parola di condanna degli attentati<br />
suicidi, dei mille morti causati dalle bombe sugli autobus, nelle discoteche e nei centri commerciali”.<br />
Servirà il ritiro d’Israele da Gaza?<br />
“Siamo in battaglia da cento anni. Non credo, onestamente, che il ritiro di Israele da questa<br />
città risolverà il problema. I missili continueranno a cadere nel Sud del mio Paese. Sarà sempre<br />
pericoloso, ma dobbiamo garantire un futuro ‘ebraico’ allo Stato d’Israele. Il grande dibattito da noi è<br />
legato alla questione demografica. Siamo contro ogni forma di deportazione, ma l’unico obiettivo è<br />
garantire che Israele rimanga a maggioranza ebraica e che sia soprattutto uno stato democratico.<br />
Uscire da Gaza vuol dire anche tutto questo”.<br />
La decisione di Sharon di “evacuare” Gaza dopo trenta anni di insediamenti israeliani<br />
è coraggiosa e lungimirante e va appoggiata. Il muro costruito dagli israeliani costituisce una<br />
191
arriera contro il terrorismo. Il popolo israeliano ha espresso la sua volontà di pace accettando<br />
il ritiro da Gaza. I rischi a cui va incontro Israele saranno attentamente valutati con un piano<br />
di sicurezza alternativo all’occupazione dei territori per istituire una cintura protettiva.<br />
L’Europa valuta positivamente il contributo di Israele agli equilibri di pace nel mondo,<br />
partendo dalla “piaga infetta” del Medio oriente, da cui si propaga l’infezione del terrorismo<br />
in tutto il mondo.<br />
D’altro lato, la vistosa pubblicazione dei piani di estensione di una colonia israeliana<br />
alle porte di Gerusalemme il 5 agosto 2004 è stata accolta con aperto malumore da parte degli<br />
Stati Uniti.<br />
Un dirigente del Dipartimento di stato, Elliott Abrams, si è recato a Gerusalemme dal<br />
premier Ariel Sharon - in precedenza aveva visto anche il premier palestinese Abu Ala e il<br />
ministro degli esteri Silvan Shalom - per ricordare ancora una volta che gli Stati Uniti sono<br />
per il congelamento delle colonie e attendono da molto tempo ormai lo smantellamento in<br />
Cisgiordania di decine di avamposti “illegali” anche agli occhi del governo Sharon.<br />
Secondo il quotidiano Maariv, i progetti del ministero dell’Edilizia israeliano<br />
riguardano una zona (chiamata “E-1”) che dovrebbe collegare il tessuto urbano di<br />
Gerusalemme alla colonia di Maale Adumim, dieci chilometri ad est, in Cisgiordania.<br />
Si tratta di piani elaborati a suo tempo dal premier laburista Yitzhak Rabin che adesso<br />
- secondo Maariv - sono stati rielaborati dal ministero dell’edilizia “in modo discreto”.<br />
La notizia è stata confermata da un dirigente del Likud (Yuval Steinitz, presidente<br />
della Commissione parlamentare per gli affari esteri e la difesa), secondo cui la costruzione<br />
della zona “E-1” ha notevole importanza nazionale e va realizzata comunque, “anche se gli<br />
Stati Uniti dovessero obiettare”.<br />
Sul tavolo di Sharon e di Abrams c’era inoltre il ritiro di Israele da Gaza che, secondo<br />
i collaboratori del premier, dovrebbe entrare nella sua fase acuta nel 2005: quando - prima<br />
dell’inizio dell’anno scolastico - a ottomila coloni ebrei sarà ordinato di abbandonare le loro<br />
abitazioni nella striscia di Gaza.<br />
L’esercito israeliano ha compiuto un ridispiegamento nel nord della striscia di Gaza,<br />
ritirandosi così dalla cittadina di Beit Hanun. Le forze israeliane restano tuttavia nella zona,<br />
nel tentativo di impedire ulteriori lanci di razzi Qassam verso la vicina città di Sderot.<br />
Malgrado la presenza militare, sette razzi sono stati sparati anche il 5 agosto 2004 verso<br />
Sderot, ma non hanno provocato danni né vittime.<br />
Per non distruggere la complessità della vita - e gli equilibri che garantiscono la pace -,<br />
dunque, è opportuno liberarsi dell’ordine semplice nelle scienze sociali e politiche, oltre che<br />
192
in quelle naturali.<br />
L’incontestualizzata immagine delle scienze naturali che le scienze sociali cercano di<br />
riprodurre è antica, risale all’epoca in cui esse avevano interrotto il loro rapporto con la<br />
filosofia, la grande madre abbandonata di tutte loro.<br />
Tradizione nell’innovazione.<br />
La tradizione che rimanda alle radici identitarie ci riporta al Femminile, alla Madre<br />
che ci nutre nel suo grembo come la Madre Terra nutre le radici delle piante. La relazione di<br />
separazione tra creatività e conservazione, innovazione e tradizione deve essere ripensata in<br />
termini di una relazione dialogica. Una cultura planetaria richiederà molto da noi e<br />
determinerà sicuramente una radicale riconcettualizzazione delle basi stesse del pensiero, da<br />
un pensiero semplice a uno complesso, dal dominio all’associazione, alla partnership.<br />
Un intervistato di spicco intervenuto alla trasmissione Enigma del 16 gennaio 2004, ha<br />
affermato che la Destra è caratterizzata dal radicamento nel passato, mentre la Sinistra è<br />
orientata verso il futuro. In breve, la Destra sarebbe conservatrice o orientata verso la<br />
conservazione del passato, mentre la Sinistra sarebbe progressista o orientata verso il futuro.<br />
Ma questo signore, che ha dichiarato di essere stato fascista, suppone implicitamente che<br />
tenere conto del passato, delle radici significhi necessariamente essere ancorati al passato sia<br />
intellettualmente che affettivamente. Questa pericolosa sovrapposizione tra Destra e<br />
Conservazione trae in inganno e porta ed equiparare automaticamente due poli opposti: Destra<br />
e Conservazione e Sinistra e Progressismo. Così, la dicotomia categoriale è netta e non<br />
ammette sintesi. Viceversa, si può tenere conto delle radici storiche ed essere progressisti,<br />
come si può non tenere conto delle radici storiche ed essere conservatori, anziché rivolti<br />
all’innovazione riformista e al futuro.<br />
In effetti, questa posizione intermedia contraddistingue attualmente la Destra e la<br />
Sinistra italiane. La Destra taglia i ponti con un passato fascista che grava negativamente sulla<br />
sua identità moderna, mentre la Sinistra, soprattutto dei no-global e di frange estreme, difende<br />
i governi oppressivi come quello di Fidel Castro, proteggendosi dietro lo scudo della difesa<br />
dei diritti umani del popolo cubano che si è “riscattato” dal precedente regime oppressivo di<br />
Batista mettendosi sotto l’ala soccorritrice di Castro.<br />
Il compito degli storici e dei politici “non politicanti” consiste pertanto nel distinguere,<br />
evitando pericolosi scivolamenti all’interno di categorie comode, ma semplicistiche, aride e<br />
fuorvianti, in quanto finiscono per costruire identità che non ci appartengono e in cui non ci<br />
riconosciamo. Si può essere sommamente progressisti e riformisti e, al tempo stesso,<br />
193
iconoscere le proprie radici storiche o rifiutare l’appartenenza a determinate radici, per<br />
convogliare in altre appartenenze, enucleando la propria identità in una nuova dimensione,<br />
come avviene in tutte le cosiddette “conversioni”.<br />
Lo scrittore politico inglese Edmund Burke (1728-1797), nelle sue Riflessioni sulla<br />
Rivoluzione in Francia, esprimeva la preoccupazione di perdere le “antiche opinioni e regole<br />
di vita”, ritenute “una bussola che ci guidi”. Tuttavia, possiamo osservare che, nel corso del<br />
progresso scientifico, la bussola dei tempi di Burke è stata sostituita da strumenti di<br />
orientamento ben più efficaci e precisi, mentre gli antichi navigatori, prima della scoperta<br />
della bussola, si orientavano sulla base della posizione delle stelle e del sole. Si possono<br />
dunque solcare i mari con vari strumenti di orientamento, dai più primitivi ai più evoluti: la<br />
perdita di uno strumento è stata sostituita dall’uso di uno strumento più efficiente. Restare<br />
ancorati al passato può talvolta costituire “una perdita incalcolabile” di opportunità di<br />
crescere, attraverso il Viaggio. “L’avventura serve per conoscersi meglio”, scriveva André<br />
Gide. Dal momento in cui ci conosciamo meglio, siamo più capaci di stabilire nuovi punti di<br />
riferimento che ci aiutino ad orientarci nel mondo e a fare le scelte più adeguate alle nuove<br />
realtà che esploriamo.<br />
La pacifica rivoluzione inglese del 1688-89 era vista da Burke come il risultato della<br />
continuità storica, anziché di una frattura con il passato. In effetti, le fratture possono<br />
comportare problemi di calcificazione successiva o altri problemi, che talvolta non si<br />
risolvono, se non con una protesi o con l’uso delle stampelle. La continuità storica, qualora sia<br />
possibile, evita sradicamenti improvvisi, che rischiano di lasciare un pericoloso vuoto di<br />
potere. L’abbinamento tra tradizione e innovazione può ottenere i migliori risultati, perché la<br />
tradizione senza innovazione conduce a lungo andare ad una situazione di aridità, di<br />
stanchezza e rigidità, mentre l’innovazione senza tradizione genera una pericolosa sensazione<br />
di vuoto, di perdita di punti di riferimento, di confusione.<br />
Come spesso succede, dunque, non sono le scelte dicotomiche del tipo o/o, a risolvere<br />
adeguatamente i problemi, ma quelle che abbinano gli opposti in una sintesi armonica. Queste<br />
riflessioni sono particolarmente attuali per quanto riguarda l’Afghanistan e l’Iraq, in cui si<br />
cerca di innestare la democrazia occidentale in una società tribale. Una felice combinazione di<br />
democrazia e tradizione non è affatto impossibile, purché si tenga conto delle radici storiche<br />
di questa società e non si voglia strafare sacrificando troppo e rapidamente il passato per il<br />
futuro. I passaggi graduali e successivi, in cui la democrazia si integra con le tradizioni<br />
culturali senza forzature eccessive, può costituite la formula vincente per far evolvere questi<br />
Paesi senza fare violenza a quella parte di tradizione che è radicata nell’educazione degli<br />
194
afghani e degli iracheni.<br />
Per conservare integra la nostra personalità, per non destrutturarla, dobbiamo poggiare<br />
su forti radici identitarie, così come una nazione, per non disgregarsi e andare in rovina, deve<br />
poggiare su altrettanto solide radici identitarie, fornite da una storia comune e da valori<br />
condivisi. Hitler comprese questo problema, ma ricorse a strategie da Guerriero negativo, per<br />
risolverlo. Il suo livello evolutivo da Guerriero negativo con forti turbe della personalità gli<br />
impedì di escogitare le strategie più evolute per affrontare le “minacce” del comunismo che<br />
stava avanzando. Oggi l’Europa, gli USA e molti altri Stati devono affrontare la minaccia del<br />
terrorismo. La strategia più evoluta per n<strong>eu</strong>tralizzarlo viene indicata nei miei libri.<br />
Hitler propagandò il mito della “razza pura” per consolidare l’identità nazionale della<br />
Germania. Noi Europei, anziché questo mito decadente e rozzo, prospettiamo il<br />
consolidamento dell’identità <strong>eu</strong>ropea, nazionale, regionale e locale, attraverso la presa di<br />
coscienza delle radici storiche e dei valori condivisi, in quanto cittadini di un paese, di una<br />
città, di una regione, di una nazione, di un continente, del mondo.<br />
Nella scala dei livelli identitari, il livello superiore comprende quello inferiore e non lo<br />
esclude, come invece succede nelle politiche di omogeneizzazione e appiattimento culturale.<br />
Così, ad esempio, il livello dell’identità regionale comprende il livello dell’identità locale e il<br />
livello dell’identità nazionale comprende quello dell’identità regionale.<br />
Il livello dell’identità <strong>eu</strong>ropea comprende quello dell’identità nazionale. C’è<br />
continuità dall’uno all’altro. Ma non necessariamente a livello individuale chi si sente<br />
“locale” deve anche sentirsi “nazionale”. In altre parole, se ha bisogno di parlare in dialetto<br />
per sentirsi a suo agio, nulla gli vieta di fare una scelta di radicamento e appartenenza ad una<br />
realtà ristretta.<br />
D’altro lato, non devono esserci preclusioni nel senso di negare valore all’identità<br />
locale semplicemente perché l’identità nazionale è più “evoluta”. Come un sasso gettato nel<br />
laghetto forma dei cerchi concentrici, così noi siamo al centro di questi “cerchi identitari”, che<br />
rafforzano il nostro senso di appartenenza e ci mantengono attaccati alle nostre radici, al<br />
nostro territorio, nutrendoci di una linfa identitaria che è alla base della salute mentale. Allora<br />
potremo girare il mondo intero senza provare angosciose sensazioni di vuoto e di perdita,<br />
perché porteremo dentro di noi le nostre radici coltivate sui banchi di scuola.<br />
Forte identità e tolleranza.<br />
Spesso si confonde una forte identità con l’intolleranza per altre identità. Ma<br />
nell’accezione “sana” del termine è vero esattamente il contrario: una forte identità è anche<br />
195
sensibile alle comunicazioni e ai bisogni dell’altro e sa sintonizzarsi con le altre identità, per<br />
cui non può che essere tollerante.<br />
Le forti “identità” malate sono descritte nei manuali di Psichiatria come Disturbo<br />
Narcisistico di Personalità, Disturbo Istrionico di Personalità, ecc.<br />
Per intenderci, il Disturbo Narcisistico di Personalità, secondo il DSM-IV è<br />
caratterizzato da un quadro pervasivo di grandiosità nella fantasia o nel comportamento,<br />
necessità di ammirazione e mancanza di empatia, ossia incapacità di riconoscere o di<br />
identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri. Oltre all’esagerazione di risultati e<br />
talenti, in cui si aspetta di essere notato come superiore senza una adeguata motivazione, il<br />
soggetto con questo disturbo è assorbito da fantasie di illimitato successo, potere, fascino,<br />
bellezza e di amore ideale. Crede di essere “speciale” e unico, e di dover frequentare e poter<br />
essere capito solo da altre persone o istituzioni speciali o di classe elevata. L’eccessivo<br />
orgoglio per i successi, una relativa mancanza di manifestazioni emotive e il disprezzo per la<br />
sensibilità degli altri accentuano il quadro egocentrico. E’ spesso invidioso degli altri, o crede<br />
che gli altri lo invidino. Ha la sensazione che tutto gli sia dovuto, cioè la irragionevole<br />
aspettativa di trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative. Si<br />
approfitta degli altri per i propri scopi e mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti e<br />
presuntuosi. Ha una relativa stabilità dell’immagine di sé e così anche una relativa mancanza<br />
di autodistruttività, impulsività e preoccupazione di abbandono.<br />
Chi presenta un Disturbo Istrionico di Personalità è a disagio in situazioni nelle quali<br />
non è al centro dell’attenzione. Manifesta un’espressione delle emozioni rapidamente<br />
mutevole e superficiale. Utilizza l’aspetto fisico per attirare l’attenzione su di sé, mostra<br />
autodrammatizzazione, teatralità ed espressione esagerata delle emozioni. Lo stile<br />
dell’eloquio è eccessivamente impressionistico e privo di dettagli. Ha spesso un<br />
comportamento sessualmente seducente o provocante. Questo tipo di personalità si riscontra<br />
sia tra gli uomini che tra le donne. La presenza di queste persone nella società e nelle<br />
posizioni di potere ha portato ragionevolmente a difendersi dai loro soprusi ed eccessi. Ma<br />
presumibilmente ha spinto anche molti a difendersi dalle “forti personalità”, ritenendo che si<br />
identificassero con il “prototipo” dei soggetti appena descritti.<br />
Nella cultura maschile, la forza è connessa con l’aggressività e la sopraffazione, per<br />
cui si ricorre ad una politica di “inibizione” dell’espressione individuale, per timore che<br />
l’assertività e l’affermazione di sé scivolino nel predominio.<br />
Una ragazza di 23 anni appena laureata in Scienze della comunicazione, che ha<br />
soggiornato a lungo a Berlino, negli USA e in Messico con i progetti che consentono di<br />
196
studiare e sostenere esami in università straniere, si è fidanzata con un ragazzo originario di<br />
Dresda conosciuto a Berlino. Durante un viaggio a Parigi ha conosciuto altri giovani originari<br />
della Germania dell’Est e commentava: “Hanno tutti la stessa mentalità. Non decidono mai,<br />
per timore di sovrastare sugli altri. Così, quando si tratta di andare da qualche parte, si crea un<br />
tira e molla interminabile e una confusione...”. La paura di essere assertivi lascia tutto in<br />
sospeso, provocando stress. Per non finire nell’estremo della rigida gerarchizzazione dei<br />
rapporti, si finisce per far sparire qualunque “identità”. La paura di lasciar emergere il<br />
Guerriero di livello inferiore fa restare all’interno della dimensione dell’Orfano insicuro ed<br />
esitante, che piange sulle sue sventure. Lo “spettro” del “peggio” porta a rifugiarsi in un<br />
“meglio apparente”, che tuttavia crea altri problemi.<br />
La storia è carica di esempi estremi che hanno lasciato il segno.<br />
Nella misura in cui gli uomini hanno preso piacere alla lotta, alla corrida e ai<br />
combattimenti di gladiatori, le punizioni sono state l’impiccagione, il rogo e la tortura. Il<br />
rischio di incorrere in squilibri da una parte o dall’altra è dunque sempre presente.<br />
Penso che dovremmo amichevolmente confrontarci, senza cercare di attribuire colpe o<br />
meriti, con il fatto che nel mondo di oggi questa differenza di vedute sull’importanza e sulla<br />
priorità da attribuire all’identità individuale e collettiva - rispetto all’omogeneizzazione o<br />
livellamento che ha contraddistinto il pensiero e la politica precedente - si erge tra di noi come<br />
una barriera apparentemente insormontabile.<br />
La società e la scuola tentano di appiattire e cancellare quella singola scintilla di<br />
individualità, che ci rende diversi da tutti gli altri, e di metterci tutti nello stesso stampino. Ma<br />
noi siamo tenuti a sviluppare quanto più è possibile questa scintilla che è l’unico reale<br />
attributo importante.<br />
La prospettiva interculturale abbracciata dall’Europa privilegia il rispetto delle identità<br />
culturali, di fronte all’omogeneizzazione praticata da alcuni Paesi, con la creazione di un<br />
melting-pot, di un crogiolo in cui le varie culture vengono mescolate fino a produrre una<br />
nuova realtà culturale.<br />
Malgrado questa scelta <strong>eu</strong>ropea, assistiamo a processi di livellamento o<br />
impoverimento culturale, per un malinteso rispetto verso le altre culture o per la “vergogna”<br />
di lasciar trasparire la propria identità culturale, come se odorasse di provincialismo. Allora, è<br />
come se tutti dovessero correre al buio, per paura che i fanali della propria auto si differenzino<br />
per intensità luminosa, colore delle luci e direzione del fascio luminoso. Analogamente,<br />
l’omogeneizzazione può essere paragonata all’indossare una divisa, come succede al<br />
personale che lavora nelle pasticcerie, nei panifici, negli istituti di bellezza, in alcune palestre<br />
197
ecc.<br />
Il voler dare un’immagine omologata e omogenea mi fa pensare anche alla Cina<br />
comunista, in cui fino a non molto tempo fa tutti giravano in divisa.<br />
In questa mentalità collettiva, ciascuno finisce per non avere mai ciò che realmente<br />
vuole, per paura di apparire egoista, chiedendo quello che desidera.<br />
In effetti, se un’immagine omologata può produrre alcuni vantaggi per un esercizio<br />
pubblico o per un’istituzione come l’esercito, non sembra né produttivo né educativo<br />
utilizzare lo stesso parametro di valutazione nella realtà scolastica protesa a formare individui<br />
e non “schemi di individui”.<br />
In tale prospettiva, l’emergere del legame con il territorio, la sua cultura e tradizione,<br />
non è provincialismo, bensì un sano appagamento del bisogno di radicamento e di<br />
appartenenza, oltre che del senso di identità collettiva.<br />
Combattere il pregiudizio<br />
Su un altro versante, si profila l’esigenza di veder tutelata l’identità culturale di chi è<br />
immigrato per motivi di lavoro ed è intenzionato ad integrarsi nel territorio nazionale.<br />
Rosa Parks, una giovane donna di colore di grande fierezza personale, un giorno del<br />
1955, salì su un autobus a Montgomery, in Alabama, e si rifiutò di cedere il posto a un bianco<br />
come sarebbe stato suo dovere per legge. Il suo semplice atto di disobbedienza civile fu la<br />
scintilla che scatenò un’infuocata tempesta di polemiche e divenne un simbolo da seguire per<br />
generazioni. Fu quello l’inizio del movimento per i diritti civili, un momento culminante,<br />
capace di risvegliare le coscienze, cui ancora oggi gli americani fanno riferimento quando<br />
riaffermano il senso di uguaglianza, pari opportunità e giustizia per tutti gli uomini, a<br />
prescindere dalla razza, dal credo religioso e dal sesso. Rosa Parks non pensava forse al futuro<br />
quando quel giorno rifiutò di cedere il suo posto a sedere. Forse non aveva un progetto per<br />
cambiare la struttura della società. Tuttavia, la semplice decisione di questa donna ebbe un<br />
enorme effetto sociale. La sua decisione a mantenersi ad un livello più alto l’ha spinta ad agire<br />
e ha innescato un cambiamento radicale nella società.<br />
Un discorso analogo vale per i portatori di handicap. Qualche coraggioso ha<br />
combattuto contro una serie di pregiudizi sulle capacità delle persone fisicamente menomate.<br />
Ed Roberts era un uomo comune, costretto su una sedia a rotelle, diventato straordinario<br />
grazie alla sua decisione di agire al di là delle sue palesi limitazioni. A quattordici anni è<br />
rimasto paralizzato dal collo in giù. Durante il giorno, usava un respiratore per condurre,<br />
nonostante le avversità, una vita normale e passava la notte in un polmone d’acciaio. Avendo<br />
198
dovuto combattere una terribile battaglia contro la poliomielite, rischiando più volte di<br />
perdere la vita, Ed Roberts avrebbe potuto decidere di concentrarsi sulle sue sofferenze,<br />
invece di scegliere di fare qualcosa per gli altri.<br />
Negli ultimi quindici anni, la sua decisione di lottare contro un mondo che spesso<br />
trovava indifferente ha provocato molti miglioramenti nella qualità di vita dei cosiddetti<br />
“disabili” che oggi sono chiamati in modo più appropriato “diversamente abili”. Ed ha<br />
educato la gente e ha cominciato da zero, partendo dalle rampe d’accesso per le sedie a rotelle<br />
e dagli spazi riservati nei parcheggi fino ad arrivare alle sbarre per aggrapparsi. È diventato il<br />
primo tetraplegico laureato della University of California a Berkeley e, alla fine, ha ottenuto il<br />
posto di capo del Dipartimento di Stato per la Riabilitazione in California, aprendo anche in<br />
questo campo la strada ai disabili.<br />
Ed Roberts è la dimostrazione vivente che non importa da dove si parte: quello che<br />
conta sono le decisioni che si prendono su dove si vuole andare a parare. Tutte le sue azioni si<br />
sono basate su un unico, forte e impegnato momento di decisione. La sua forte identità è<br />
emersa anche decidendo di aiutare coloro che si trovavano nelle sue stesse condizioni.<br />
Egli scelse di concentrarsi su qualcosa di molto diverso da quello su cui si sarebbe<br />
concentrata la maggior parte delle persone nella sua stessa situazione. Lui si è focalizzato<br />
sull’idea di come poter fare qualcosa di buono al mondo. Le sue difficoltà fisiche erano una<br />
sfida per lui. Quello che lui ha deciso di fare era chiaramente qualcosa che potesse rendere<br />
migliore la qualità della vita per altri nelle sue stesse condizioni. Si è impegnato in modo<br />
assoluto a plasmare l’ambiente, in modo da migliorare la qualità della vita di tutti i disabili.<br />
In questa prospettiva evolutiva di attenzione per il rafforzamento dell’identità - in<br />
controtendenza rispetto all’attuale livellamento operato dal conformismo e da un malinteso<br />
senso di “altruismo” - possiamo coltivare le nostre radici identitarie collettive, che ci<br />
accomunano in un’Europa Unita.<br />
Allora non ci sarà alcun bisogno di prospettare una “razza pura” per avere una solida<br />
identità nazionale, in quanto è la “purezza delle nostre radici” ben coltivate, a creare un fronte<br />
comune contro la minaccia di perdere la nostra identità sotto i “colpi di frusta” della dittatura<br />
delle minoranze che avanzano per conquistarci imponendo la loro “razza pura”, come fece a<br />
suo tempo Hitler con la teoria del pangermanesimo.<br />
Sapere perché e come Gesù è stato assassinato può aiutare anche gli islamici come<br />
Adel Smith ad avere più rispetto per il nostro simbolo identitario, il Crocifisso. Riporto le<br />
parole del Vangelo:<br />
199
Il processo civile.<br />
Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore lo interrogò dicendo: “Sei tu il<br />
re dei Giudei?”. Gesù rispose: “Tu lo dici”. E mentre lo accusavano i sommi sacerdoti e gli anziani,<br />
non rispondeva nulla. Allora Pilato gli disse: “Non senti quante cose attestano contro di te?”. Ma Gesù<br />
non gli rispose neanche una parola, con grande meraviglia del governatore.<br />
Gesù o Barabba.<br />
Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a<br />
loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. Quindi, mentre si trovavano<br />
riuniti, Pilato disse loro: “Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?”. Sapeva bene<br />
infatti che glielo avevano consegnato per invidia.<br />
Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: “Non avere a che fare con quel<br />
giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua”. Ma i sommi sacerdoti e gli anziani<br />
persuasero la folla a richiamare Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò: “Chi dei<br />
due volete che vi rilasci?”. Quelli risposero: “Barabba!”. Disse loro Pilato: “Che farò dunque di Gesù<br />
chiamato il Cristo?”. Tutti gli risposero: “Sia crocifisso!”. Ed egli aggiunse: “Ma che male ha fatto?”.<br />
Essi allora urlarono: “Sia crocifisso!”.<br />
Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell’acqua,<br />
si lavò le mani davanti alla folla: “Non sono responsabile - disse - di questo sangue; vedetevela voi!”.<br />
E tutto il popolo rispose: “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”. Allora rilasciò loro<br />
Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso”.<br />
Il dileggio dei soldati.<br />
Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la<br />
corte. Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto e intrecciata una corona di spine, gliela<br />
posero sul capo, con una canna nella destra; poi mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano:<br />
“Salve, re dei Giudei”. E spuntandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul<br />
capo.<br />
La “via crucis”.<br />
Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del mantello, gli fecero indossare i suoi vestiti e lo<br />
portarono via per crocifiggerlo.<br />
Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a<br />
prendere su la croce di lui.<br />
Sul Golgota.<br />
Giunti a un luogo detto Golgota, che significa luogo del cranio, gli diedero da bere vino<br />
mescolato con fiele; ma egli, assaggiatolo, non ne volle bere. Dopo averlo quindi crocifisso, si<br />
spartirono le sue vesti tirandole a sorte. E, sedutisi, gli facevano la guardia. Al di sopra del suo capo,<br />
gli posero la motivazione scritta della sua condanna: “Questi è Gesù, re dei Giudei”.<br />
Insieme con lui furono crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra (Matteo, 27, 11-38).<br />
200
Il Messia è stato “consegnato per invidia”. L’“uomo giusto” è stato dileggiato dai<br />
soldati, crocifisso e poi schernito dai Giudei che lo insultavano scuotendo il capo e dicendo:<br />
“Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei il Figlio di<br />
Dio, scendi dalla croce!”. Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano:<br />
“Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli<br />
crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono<br />
Figlio di Dio!”.<br />
Se a questo oltraggio aggiungiamo anche quello di Adel Smith, il quadro è completo<br />
nel far comprendere che la forza insita nei messaggi di Cristo, mista alla dolcezza e all’amore<br />
verso l’umanità, suscita decisioni forti: una cultura impregnata dei messaggi di Cristo non può<br />
esporsi a scherni plateali da show televisivo o da sceneggiata nelle scuole e negli ospedali.<br />
Se vogliamo essere “seri”, non possiamo tollerare lo scempio o l’eclissamento del<br />
nostro simbolo culturale in nome dell’anonimato di una laicità che, tutto sommato, si<br />
prefigura come “terra di nessuno” e assenza di identità storico-culturale.<br />
L’ideologia del predominio<br />
Per consolidare l’identità della Germania di fronte alla minaccia bolscevica, Hitler si<br />
concentrò sul nazionalismo, inteso come affermazione della Germania in contrapposizione ad<br />
altri Paesi e in posizione dominante rispetto ad essi. L’ideologia del predominio si profilava<br />
come pangermanesimo, in cui la “razza ariana”, eletta e dominante, imponeva agli altri popoli<br />
la sua cultura e la sua presunta “civiltà”. Viceversa, oggi, una forte identità <strong>eu</strong>ropea non<br />
implica il predominio di una nazione sulle altre, bensì l’affermazione di un’identità che<br />
appartiene a tutti gli <strong>eu</strong>ropei, basata sulle comuni radici storiche e sui valori condivisi. Il salto<br />
qualitativo sta nel passaggio dalla sopraffazione all’integrazione armonica e voluta dai<br />
componenti della Casa Europea.<br />
Oggi il nazismo si chiama terrorismo islamico e Al Qaida, con le sue cellule sparse<br />
anche sul territorio italiano. Dobbiamo comprendere la cultura del nazismo, perché ha vari<br />
elementi in comune con il fondamentalismo islamico. D’altro lato, come ho indicato nel corso<br />
dell’esposizione, tutte le ideologie si somigliano nelle loro terribili conseguenze.<br />
È il fondamentalismo islamico che sta imponendo i suoi valori e i suoi parametri di<br />
valutazione al mondo occidentale. Il terrorismo islamico è il frutto culturale del pensiero<br />
antagonista dell’Occidente, che costituisce l’acqua in cui nuota il pesce - terrorista . Bin<br />
Laden rappresenta la rivolta di Galatea. Nella mitologia classica, Pigmalione, re di Cipro, era<br />
insoddisfatto delle donne che non trovava mai all’altezza dei suoi desideri. Scolpì una statua<br />
201
d’avorio di cui si innamorò e pregò Afrodite di darle vita. La dea, mossa a pietà dal suo caso,<br />
ascoltò la sua preghiera. Pigmalione sposò questa creatura che chiamò Galatea e in lei generò<br />
una figlia, Pafo, che fu madre e moglie di Cinira.<br />
Il mito non parla di una ribellione di questa creatura costruita in modo strumentale per<br />
soddisfare le esigenze di Pigmalione, ma la storia dei rapporti coniugali in cui lui sposa una<br />
ragazza con venti o trent’anni di meno per forgiarla secondo le sue esigenze ci indica che<br />
spesso c’è una presa di coscienza, da parte della donna, del ruolo strumentale in cui è stata<br />
relegata, e una conseguente ribellione a questo “destino”. Bin Laden, creatura del governo<br />
americano al pari di Galatea, rappresenta forse il seguito inedito del mito, inaugurando la fase<br />
della rivolta contro il creatore per affermare un’identità esclusiva di dominio sul mondo. Così,<br />
Bin Laden si è posto in competizione con gli USA per il controllo del mondo sviluppando una<br />
rete terroristica che vorrebbe sottrarsi ad ogni caccia. L’attacco terroristico acquista un<br />
significato simbolico di spaccatura di un ordine precostituito, di ferimento del “padrone”, che<br />
non è quindi invulnerabile.<br />
Per i terroristi siamo tutti nemici, in quanto parte del sistema. Il terrorismo è nemico di<br />
tutte le forze politiche perché vuole sostituirsi con la sua identità politica. Mina la stabilità, in<br />
attesa di un mondo migliore e al tempo stesso rifiuta il cambiamento, in direzione riformista,<br />
mentre la criminalità convive con lo stato, con l’ordine costituito. Per fermare il terrorismo<br />
dobbiamo mostrare un’estrema risolutezza nel difendere il nostro radicamento culturale e<br />
identitario, pur dialogando con i componenti moderati dell’Islam. Il dialogo con i moderati<br />
rappresenta l’armamentario più efficace nella lotta al terrorismo e all’estremismo, perché<br />
spinge gli stessi moderati ad isolare e a n<strong>eu</strong>tralizzare i fanatici. In effetti, da un punto di vista<br />
sistemico, non esiste il potere in se stesso, bensì solo in funzione del consenso che uno riceve.<br />
In breve, un individuo ha potere solo se noi glielo attribuiamo, con il nostro consenso<br />
e il nostro appoggio. Un individuo isolato, emarginato, non ascoltato, non ha potere,<br />
nemmeno se è a capo di un grande movimento terroristico o fondamentalista. Comprendere<br />
bene il concetto di “potere” significa anche non avere paura e non sentirsi minacciati, quando<br />
si è in grado di controllare il fenomeno terroristico ottenendo il consenso e l’appoggio<br />
costruttivo della “quasi totalità” moderata.<br />
L’identità dell’Europa assediata.<br />
La Grecia è stata per tanto tempo sotto la dominazione ottomana e non è diventata<br />
musulmana perché aveva una forte religione ortodossa e una coscienza identitaria. Viceversa,<br />
l’Europa appare impreparata a confrontarsi con l’invasività di una penetrazione che è prima di<br />
202
tutto culturale.<br />
Dietro lo schermo della mitezza e della tolleranza si nasconde la mancanza di<br />
“anticorpi”, di spina dorsale, di fronte ad una sfida cieca, brutale, intollerante, che non<br />
riconosce nessuno dei valori nei quali noi ci riconosciamo. Il terrorismo è solo un affare di<br />
fanatici? È vero che non si può identificare l’Islam con il terrorismo o l’integralismo, e che i<br />
primi nemici del terrorismo sono rappresentati dai componenti del mondo islamico moderato.<br />
È in atto una guerra civile islamica tra terroristi e islamici moderati.<br />
Tuttavia, la laicità intesa come relativismo culturale, che non prende mai una<br />
posizione identitaria, e non afferma nulla per non scontentare nessuno degli illuministi, dei<br />
positivisti o di chicchessia finisce per condannarsi alla propria disfatta.<br />
Essere laico vuol dire non agire, lasciare che le cose vadano alla deriva, perché occorre<br />
cercare nell’azione una “misura”?<br />
O essere laici non significa piuttosto appellarsi alla forza della civiltà a cui agganciare<br />
questa Europa alla deriva? La matrice da cui proviene lo sviluppo liberal-democratico è<br />
giudaico-cristiana. Un continente decerebrato che non sa mettersi d’accordo su questa<br />
constatazione storico-culturale si definisce per ciò stesso terreno ideale di occupazione, di<br />
conquista, perché manca di difese immunitarie, di riconoscimento dei propri valori comuni e<br />
delle proprie radici storiche.<br />
Il fatto che la giornalista Oriana Fallaci si sia definita un’“atea cristiana” nel suo libro<br />
“La forza della ragione”, è indicativo della possibilità di una non-credente di riconoscersi nei<br />
valori fondanti della civiltà <strong>eu</strong>ropea. La Fallaci parla dello “splendido nazareno” (Gesù) e del<br />
cristianesimo come di una “irresistibile provocazione”. Il cristianesimo è la più grande<br />
rivoluzione, quella dell’anima. Senza cristianesimo, non ci sarebbero stati né il Rinascimento,<br />
né l’Illuminismo, e nemmeno la Rivoluzione Francese. Non ci sarebbero stati il socialismo, e<br />
neppure il liberalismo e il femminismo.<br />
Il positivismo e il comunismo, avversari del cristianesimo, sono stati confutati dalla<br />
storia. Oggi ci sono le élites agnostiche, atee per forza d’inerzia, che non si rimettono in<br />
discussione e danno piuttosto per scontato che laico sia tutto ciò che non puzza di sacrestia o<br />
di religione. Non si pongono il problema dei valori a cui aderiscono e, perciò, non hanno il<br />
senso della propria identità e ritengono che affermare la propria identità significhi<br />
necessariamente fare violenza a qualcuno. In questo modo, essendo senza confini identitari,<br />
non percepiscono la necessità che tali confini siano trovati anche a livello nazionale ed<br />
<strong>eu</strong>ropeo, e lasciano libero campo all’attecchimento di altre identità, ben più agguerrite e<br />
pronte ad affermare i loro criteri e le loro leggi.<br />
203
C’è chi sostiene che l’Occidente si sta islamizzando di giorno in giorno e che “Prodi<br />
ha venduto l’Europa al mondo islamico”. Blair, dopo che è stato sventato nell’aprile 2004<br />
l’ultimo attentato, ha dato un giro di vite alla società multiculturale, in quanto permette<br />
all’Islam di attecchire.<br />
Constatando lo smarrimento della nostra identità come Europa, qualcuno ha osservato<br />
che la società <strong>eu</strong>ropea è più minacciata da se stessa che dall’Islam. La “guerra culturale che<br />
vuole colpire la nostra filosofia di vita”, in cui “ci ammazzano per piegarci, scoraggiarci”, in<br />
quanto “vogliono distruggere la nostra anima, nelle idee, nei sogni”, trova il terreno ideale<br />
nell’incapacità di accordarci sulle nostre radici e sul riferimento ad esse nel preambolo della<br />
Costituzione che ci richiami alla nostra identità, alla nostra coscienza identitaria. Qualcuno ha<br />
osservato che non c’è alcun bisogno di fare del riferimento alle radici una bandiera, che il<br />
cristianesimo è dentro di noi e si manifesta nella mitezza, non come “bandiera”.<br />
A questi fautori della “mitezza senza identità”, di fronte a quella parte dell’Islam che<br />
ha una fortissima identità, anche se fanatica, vorrei far notare qual è il destino dei vasi di<br />
coccio in mezzo a tanti vasi di ferro. In questo caso la minaccia non incombe solo sul nostro<br />
stile di vita, sui nostri sentimenti e valori, ma sulla nostra sopravvivenza in quanto individui,<br />
perché il pesce nuota solo nell’acqua e occorre una vasta rete di protezioni e coperture<br />
nell’ambiente islamico per poter attuare un attentato “sofisticato” come quello dei Madrid<br />
dell’11 marzo 2004. Analogamente, anche se la maggioranza dei tedeschi e degli italiani non<br />
è direttamente responsabile della ghettizzazione e della “soluzione finale” riguardo agli ebrei,<br />
durante la seconda guerra mondiale, l’atteggiamento di indifferenza assunto dalla popolazione<br />
ha favorito l’attuazione del piano criminale. Il terreno di coltura del fondamentalismo e del<br />
terrorismo resta l’Islam. Se è vero che il fondamentalismo cattolico ha generato l’IRA, anche<br />
se non si può dire che tutti i cattolici siano membri dell’IRA, è anche vero che la rete del<br />
terrorismo internazionale islamico non ha né la portata né le motivazioni dell’IRA. È<br />
indagando sulle motivazioni culturali, politiche, ideologiche di fondo del terrorismo, che noi<br />
possiamo comprendere come questo fenomeno riguardi tutti noi, nella nostra identità e<br />
cultura, nei nostri valori e nelle nostre radici storiche.<br />
La strategia di combattere il terrorismo con la forza della conoscenza parte dall’idea<br />
che capire costituisce l’arma migliore che abbiamo per difenderci dalle minacce e dalla paura.<br />
Napoleone ha detto: “La mente fermerà sempre la spada”.<br />
Dobbiamo comunque distinguere tra guerra agli estremisti e tutela di chi viene qui per<br />
lavorare e avere migliori condizioni di vita. Ma il fatto che sia difficile estrapolare le<br />
“intenzioni” delle persone dovrebbe renderci estremamente cauti nell’aprire l’ingresso delle<br />
204
frontiere a chiunque.<br />
La trasmissione dei valori nella strutturazione dell’identità individuale e culturale.<br />
Le donne, che trasmettono ai figli la cultura e i valori, svolgono un ruolo fondamentale<br />
nello strutturare l’identità e perciò va loro attribuita l’importanza che meritano nella cultura e<br />
nelle istituzioni. La nascente cultura delle donne va compresa e valorizzata in quanto si<br />
presenta come la struttura portante della società del futuro. È confidando nelle donne che gli<br />
uomini potranno costruire un mondo più giusto, più sano, più solidale, più vero.<br />
A Vigevano, (Lombardia) il 5 aprile 2004 è stato aperto il primo asilo aziendale, nella<br />
nuova frontiera della politica di conciliazione tra famiglia e lavoro. Una web-camera e<br />
internet permettono il collegamento tra nido e ufficio, consentendo alle madri di essere vicine<br />
al proprio figlio, seguendone le attività attraverso il video.<br />
È auspicabile che l’iniziativa si diffonda su tutto il territorio, per favorire<br />
l’integrazione della percezione di sé delle donne come madri e lavoratrici. Le donne hanno<br />
bisogno di aiuto e incoraggiamento nello svolgere molteplici ruoli contemporaneamente, in<br />
sintonia con le richieste di una società che ha bisogno di madri esperte anche nell’arte di<br />
vivere in mezzo agli altri, combattendo per un mondo migliore, e non solo di “angeli del<br />
focolare” alla vecchia maniera.<br />
Perché le istituzioni non si rivolgono esplicitamente alle donne?<br />
Cinquemila persone tutte in piedi in un battimani ritmato, altri mille davanti a un<br />
maxischermo fuori dal padiglione più grande della Fiera di Rimini. È l’evento di questo<br />
Meeting, e qualcuno potrebbe non credere che non si tratta di un concerto rock ma di una<br />
lezione di teologia, di filosofia. In realtà è una lezione di umanità e di fede, protagonista il<br />
Patriarca di Venezia, Angelo Scola. Come Cardinale è corresponsabile insieme al Papa della<br />
guida della Chiesa universale; ecco perché la sua presenza qui va oltre il fatto che si tratta del<br />
primo sacerdote di CL elevato al porporato. È la Chiesa che parla. E la sua è un’analisi severa,<br />
a tratti anche dura, del mondo occidentale; ma anche un messaggio di ottimismo e di speranza<br />
nella capacità dell’uomo di capire il senso della frase-chiave del Meeting, “il nostro progresso<br />
non consiste nel presumere di essere arrivati ma nel tendere continuamente alla meta”.<br />
Il Patriarca di Venezia, che a metà agosto ha celebrato una S. Messa nella chiesa di<br />
Jesolo rivolgendosi a tutti i turisti presenti, in lingua italiana e tedesca e ha commentato il<br />
Vangelo confrontandone il messaggio con la cultura odierna, ha rilasciato un’intervista a Il<br />
Gazzettino del 28 agosto 2004, in cui parla del progresso: “Nel suo apprezzabile intento di<br />
205
valorizzare la persona - egli dichiara - la modernità ha dato il via a un processo di riduzione<br />
ideologica del cristianesimo. Come se Dio fosse indifferente o nemico dell’umana libertà.<br />
L’Occidente e l’Europa non riescono a liberarsi da questa concezione ideologica del<br />
progresso”. Riporto il seguito dell’intervista:<br />
Anche il modello di progresso proposto dal Nordest è da condannare?<br />
“E’ un modello che per avere futuro deve trasformarsi in un modello di civiltà. Il problema di<br />
oggi non è il progresso, perché quello lo tocchiamo tutti con mano. Il problema è avere un progresso<br />
ragionevole, a misura di uomo, a misura delle famiglie, a misura di una regione, a misura del mondo”.<br />
Cosa garantisce un progresso ragionevole?<br />
“Se parliamo del Nordest, constato che questo sviluppo è stato reso possibile dalla solidità<br />
della sensibilità cristiana dei nostri padri verso gli affetti e verso il lavoro. Accettiamo pure tutte le<br />
trasformazioni; ma accettiamo almeno che è necessario porre alcuni punti fondamentali, alcuni pali<br />
come quelli che circondano la nostra Venezia. La prima condizione è che dobbiamo finirla con la<br />
confusione nel mondo degli affetti e del lavoro. Ritrovare una bussola, una stella polare. A partire dal<br />
matrimonio e dalla famiglia; dal lavoro come equilibrato sviluppo personale e sociale, e che non sia<br />
lavoro per il lavoro. Poi dobbiamo avere il senso della Storia, la capacità di riconoscere i processi in<br />
atto, accompagnarli e assecondarli rispettando i diritti fondamentali della persona che sono diritti<br />
sociali, economici, del lavoro, il principio di sussidiarietà e solidarietà. E soprattutto è ora di finirla<br />
con la pretesa di separare la vita privata dalla vita sociale: come se nella vita privata ci si potesse<br />
concedere qualunque vizio e al contempo pretendere che la vita pubblica sia ineccepibile. E questo<br />
discorso vale anche per il Veneto”.<br />
Nella parte finale dell’intervista il Patriarca di Venezia sostiene che “l’autorità<br />
istituzionale a tutti i livelli e gli uomini che sono impegnati in primo piano nella politica,<br />
nell’economia e nella cultura devono guardare al popolo con un atteggiamento diverso,perché<br />
nel nostro popolo italiano c’è una profonda radice che si rifà a un’esperienza elementare di<br />
vita legata alla crescita degli affetti e del lavoro, che è straordinaria. E le autorità devono far<br />
maturare tutto questo. Se guardassero di più lì, anche la litigiosità tra loro scemerebbe”.<br />
Vorrei far notare che il cardinale si rivolge agli “uomini impegnati in primo piano<br />
nella politica, nell’economia e nella cultura” e, in altre parti dell’intervista, parla di “uomo<br />
<strong>eu</strong>ropeo” che “non può evitare un giudizio sul suo presente”, di “cristiano <strong>eu</strong>ropeo” per<br />
concludere che “siamo ormai uomini impagliati”. Non c’è alcun accenno esplicito alle<br />
“donne”, come se non esistessero o vivessero solo in funzione dell’uomo e delle sue decisioni<br />
206
in materia di politica, economia e cultura. Anche nel corso delle S. Messe, le invocazioni<br />
rivolte a Dio vengono fatte al maschile: “Per gli uomini che hanno responsabilità educative e<br />
sociali...” ho sentito ripetutamente, come se le donne non entrassero nel mondo della<br />
responsabilità educativa e sociale. Qualcuno può obiettare che nella lingua italiana per<br />
“uomini” si intendono genericamente anche le donne. Ma questa spiegazione non mi convince<br />
né come psicologa né come donna. Perché in alcuni casi si parla di “uomini e donne”,<br />
soprattutto nel linguaggio dei politici, e altre volte no? La Programmazione N<strong>eu</strong>rolinguistica<br />
insegna che il linguaggio, che è generato dalla “realtà interiore”, finisce per “creare la realtà<br />
esteriore”, costituendo un “filtro” tra noi e gli altri. In altri termini, usando un certo modo di<br />
esprimerci, condizioniamo il modo di percepire la realtà degli altri.<br />
L’esperienza interna costruisce il linguaggio, ma è da questo condizionata. Esiste tra<br />
linguaggio ed esperienza interna un legame bidirezionale. Il linguaggio di una persona ci<br />
consente di accedere alla sua mappa del mondo.<br />
Nel mondo degli affari giapponese, c’è una parola che viene sempre usata quando si<br />
discute di affari o di rapporti umani. Questa parola è kaizen. Letteralmente significa<br />
“miglioramento costante” e viene usata in continuazione. Spesso i giapponesi parlano di<br />
kaizen del loro deficit commerciale, di kaizen della linea di produzione, di kaizen dei rapporti<br />
personali. Di conseguenza, i giapponesi cercano continuamente di migliorare. Kaizen si basa<br />
sul principio del miglioramento graduale, fatto di piccoli, semplici miglioramenti. I<br />
giapponesi però sanno che i piccoli ritocchi fatti quotidianamente finiscono per creare dei<br />
miglioramenti complessi, a un livello che ai più sembra impensabile.<br />
Un detto giapponese suona così: “Se un uomo non si è fatto vedere per tre giorni,<br />
quando torna i suoi amici devono guardarlo bene per scoprire che cambiamenti ha subito”.<br />
Il principio organizzativo del kaizen ha un enorme effetto sulla cultura imprenditoriale<br />
giapponese. Tutti abbiamo bisogno di una parola per concentrarci sul miglioramento continuo<br />
o costante. Quando creiamo una parola, le diamo un significato in codice e creiamo un modo<br />
di pensare. Le parole che usiamo costituiscono il tessuto di come pensiamo e influiscono<br />
anche sulle nostre decisioni.<br />
In Giappone si parla spesso di controllo di qualità in tutta l’azienda. Ma un<br />
miglioramento costante e continuo negli affari, nei rapporti personali e spirituali, nella salute<br />
e nelle finanze, fa della vita un viaggio entusiasmante.<br />
Un miglioramento graduale e continuo è fonte di sicurezza nella vita nella sfera<br />
personale, familiare, sociale, lavorativa.<br />
207
Scoprire i problemi in formazione<br />
Uno degli scopi del continuo miglioramento è scoprire i problemi ancora in<br />
formazione e dominarli prima che diventino vere e proprie crisi. Il momento migliore per<br />
uccidere un mostro è quando è ancora piccolo. Le parole rimandano dunque alla mappa<br />
interna delle persone. E la nostra mappa agisce da “filtro” nei confronti della mappa altrui.<br />
Esiste uno strumento in Programmazione N<strong>eu</strong>rolinguistica, detto “metamodello”, che può<br />
essere utilizzato in ogni tipo di conversazione e consente di indirizzare la nostra<br />
comunicazione alla mappa dell’altra persona. Se qualcuno afferma ad esempio “Lui mi<br />
rifiuta”, è possibile riconoscere una violazione del metamodello nel verbo non specificato.<br />
Attraverso le domande di confrontazione: “Come ti rifiuta? A quale livello? In che modo?<br />
Come precisamente?”, possiamo raggiungere lo scopo di specificare il verbo per evitare<br />
fraintendimenti. D’altro lato, non si dice anche comunemente che chi mal capisce peggio<br />
risponde?<br />
Un altro esempio. L’affermazione “E’ sbagliato essere disordinato” non fa capire chi<br />
dà il giudizio di valore, ossia lascia emergere un performativo mancante. Le domande di<br />
confrontazione “Chi dice che è sbagliato? Per chi è sbagliato? Come fai a sapere che è<br />
sbagliato essere disordinato” ci portano a perseguire la finalità di ricercare la fonte della<br />
credenza, ricercare il performativo mancante e ricercare le strategie di esame.<br />
Un altro esempio ancora. Se qualcuno dice “Io non ti piaccio”, si fa una lettura della<br />
mente con una distorsione. Occorre chiedere: “Come sai che non mi piaci? Come sai<br />
specificamente? Da cosa lo sai l’hai dedotto? Quando non ti piaccio? In che modo? Cosa ti fa<br />
pensare che non ti piaccio?”. Attraverso queste domande, si ricerca la fonte dell’informazione.<br />
Noi prestiamo scarsa attenzione anche ad una violazione molto diffusa, che coinvolge<br />
i quantificatori universali: tutti, niente, tutto, sempre, mai, nessuno, ogni volta che ecc. Ad<br />
esempio, se io dico “lei non mi ascolta mai”, si può chiedere: “Proprio mai? C’è mai stata<br />
almeno una volta in cui ti ha ascoltato? Quando non ti ha ascoltato? Cosa succederebbe se lo<br />
facesse?”. Lo scopo di queste domande è la ricerca del contro-esempio. Questo tipo di<br />
violazione-generalizzazione sta alla base del pregiudizio. Ad esempio, se uno dice: “Tutti i<br />
tedeschi sono nazisti”, si può chiedere: “Proprio tutti? Chi specificamente lo era? Di chi<br />
stiamo parlando? Ma quelli sono ‘tutti’ per te?”.<br />
Per smantellare i pregiudizi etnici, razziali, nazionali ecc. occorre avvalersi di queste<br />
domande di confrontazione, ricercando i contro-esempi, per rompere la generalizzazione.<br />
Questi esempi di meta-modello illustrano come sia possibile creare un collegamento<br />
tra linguaggio di una persona e la sua esperienza interna.<br />
208
Le violazioni della nostra mappa ci impediscono di vedere le violazioni della mappa<br />
altrui. È quindi importante conoscere le nostre violazioni.<br />
L’omissione del riferimento specifico alle donne quando si parla di “uomo <strong>eu</strong>ropeo”<br />
ecc., può somigliare alla violazione della mancanza di indice referenziale o soggetto. Nella<br />
frase “Loro non mi ascoltano”, manca la specificazione del soggetto a cui si può ovviare<br />
chiedendo: “Chi specificamente non ti ascolta?”. Il recupero degli indici referenziali è<br />
importante perché il linguaggio condiziona l’esperienza interna di chi parla e di ascolta. Esiste<br />
un legame bidirezionale tra linguaggio ed esperienza interna.<br />
Non è quindi affatto irrilevante specificare il riferimento esplicito alle donne e al loro<br />
contributo nella costruzione della società. In effetti, a furia di evitare tale riferimento<br />
specifico, incappiamo in una violazione colossale, e non solo linguistica, in quanto le<br />
implicazioni riguardano il buon andamento della società, oltre al mancato riconoscimento dei<br />
meriti effettivi delle donne.<br />
Restando inchiodati nell’idea che le donne non contano o contano molto meno degli<br />
uomini nell’evoluzione della civiltà, si finisce per parlare sempre di “uomo <strong>eu</strong>ropeo”, “uomo<br />
artefice dei cambiamenti economici, politici, sociali, culturali” ecc.<br />
D’altro lato, le violazioni ripetute della nostra mappa che diventano una sorta di<br />
“abitudine mentale”, ci impediscono di vedere le violazioni della mappa altrui e di fare le<br />
domande chiarificatrici di confrontazione.<br />
In breve, si finisce per dare per scontato che l’uomo è artefice della società e le donne<br />
sono passive, perché pensano solo a mettere al mondo figli e allevarli.<br />
Non a caso era una ragazza a leggere in chiesa, in pubblico, l’invocazione “Per gli<br />
uomini con responsabilità educative e sociali...”. Presumibilmente, è stata così abituata ad<br />
usare il maschile per tutto ciò che implica “responsabilità”, che non si è mai posta il problema<br />
se questa espressione fosse adeguata ad estrinsecare l’effettivo coinvolgimento delle donne<br />
nella conduzione della società. Non ha “visto” le violazioni della mappa di chi ha composto lo<br />
scritto, perché nella sua mappa ci sono violazioni ormai radicate. Oppure non ha avuto il<br />
coraggio di porre obiezioni al clero che pensa “unicamente” al maschile per tutto ciò che<br />
riguarda le responsabilità educative e sociali. Ma finché nessuna donna avrà il coraggio di fare<br />
domande di confrontazione del tipo “Solo gli uomini hanno responsabilità educative e sociali?<br />
Come sai che sono solo gli uomini? C’è mai stata almeno una volta in cui una donna ha avuto<br />
responsabilità educative e sociali?”.<br />
Adesso può forse far sorridere l’idea che non sia stata presa in considerazione la donna<br />
per quanto concerne le responsabilità educative, perché sicuramente le donne ne hanno molte.<br />
209
Ma l’assunzione del maschile in maniera sistematica non può essere giustificata con l’ipotesi<br />
che per “uomo” si intenda automaticamente anche la donna. In effetti, quando i politici e gli<br />
ecclesiastici intendono rivolgersi anche o soprattutto alle donne, sanno bene cosa dire e come<br />
dirlo.<br />
Allora l’ipotesi più accreditata nell’interpretazione di questa situazione è che le donne<br />
vengano considerate irrilevanti, di serie B e C per tutto ciò che riguarda i compiti di alta<br />
responsabilità nella conduzione della società. E ciò si riflette nell’uso del linguaggio della<br />
gerarchia ecclesiastica immersa in una cultura maschile. E, nonostante le donne costituiscano<br />
il 53% dell’elettorato, sono irrilevanti sul piano politico, con una rappresentanza in<br />
Parlamento al di sotto del 10%. Ciò significa che il linguaggio dei politici non può che<br />
riflettere la loro cultura maschile, a detrimento di una sana integrazione tra Maschile e<br />
Femminile anche nella cultura.<br />
Parlando ripetutamente di “uomini impegnati in primo piano nella politica,<br />
nell’economia e nella cultura”, senza nominare le donne, il messaggio ricevuto implica che<br />
l’essere “in primo piano” nella guida della società riguarda soltanto gli uomini e non le donne.<br />
La “cultura al maschile” della Chiesa, tuttavia, non è la cultura di Cristo, che si rivolgeva<br />
sullo stesso piano agli uomini e alle donne e ha affidato ruoli di responsabilità alle donne nella<br />
cultura, nell’educazione e nella società. La Chiesa gerarchica ha fatto del Maschile una<br />
categoria dominante a detrimento del Femminile. Ma questo non era lo spirito di Gesù e del<br />
Vangelo. L’integrazione del Maschile e del Femminile anche nel linguaggio ecclesiastico,<br />
quale sintesi degli opposti, va considerata attentamente, per evitare l’“unilogica” sociale,<br />
foriera di ideologie di stampo dittatoriale. Su questa linea, il Papa Giovanni Paolo II ha<br />
iniziato a valorizzare sullo stesso piano uomini e donne attraverso modelli esemplari di<br />
santità, ma selezionandoli sulla base di “affinità” nelle risorse.<br />
Una filosofa diventata santa<br />
Verso la fine di agosto 2004 il Pontefice ha rivolto ai giovani le sue “persuasioni”,<br />
riemerse con forza dentro al messaggio in preparazione della XX Giornata mondiale della<br />
gioventù che si svolgerà a Colonia dal 15 al 21 agosto 2005.<br />
Giovanni Paolo II non ha paura di rinverdire antiche verità, e di tirar fuori dal cassetto,<br />
che in qualche sacrestia sa di muffa, parole come “santità”. Egli propone per esempio,<br />
ricollegandole con Colonia, un grande vescovo filosofo (e, a suo modo, scienziato) del<br />
Medioevo, Alberto, maestro di Tommaso d’Aquino, e un’affascinante figura femminile,<br />
l’ebrea Edith Stein, diventata monaca carmelitana e incenerita dai nazisti ad Auschwitz.<br />
210
Edith, che si chiamò alla fine Benedetta Teresa della croce, era stata la discepola<br />
prediletta del più grande filosofo della prima metà del secolo, l’austero Husserl, e gli aveva<br />
dato un certo dispiacere quando era passata dalla libera ricerca filosofica alla libera e insieme<br />
vincolante adesione al vangelo della croce.<br />
La Stein scriveva: “Io incontro questo dolore o questa gioia direttamente nel luogo in<br />
cui è, presso l’altro, e così si rende evidente anche a me che io sono altro”. È un atto<br />
esperienziale, dunque, dove l’uno esiste di fronte all’altro, capace di confrontarsi con lui,<br />
come dice Buber, e confermarlo nella presenza comune. Questo sistema di concordanza<br />
implica un “abitare la distanza”, un dimorare nello spazio vuoto con l’altro riconosciuto,<br />
stando discosti da noi stessi per poter ospitare l’altro, con un movimento simultaneo di<br />
assenza e presenza, di distanza e coincidenza.<br />
L’approccio fenomenologico, di cui Husserl è uno dei massimi esponenti, mira a<br />
cogliere e descrivere l’evento psicologico nel suo darsi immediato, nell’incessante divenire<br />
del vissuto.<br />
È nella variazione della distanza che avviene l’interazione tra ciò che si presenta<br />
inizialmente come corpo fisico che diventa via via corpo vivente, e la “lettura” della realtà<br />
avviene sulla base di una modificazione che la mia esperienza subisce per effetto del<br />
presentarsi.<br />
Che cosa permette ad ogni persona di passare dal “corpo proprio” al riconoscimento<br />
dell’altro? È quel “sentire” che Husserl chiama via empatica, e che in psicologia si chiama<br />
rapporto, seconda posizione percettiva o mettersi ad osservare una cosa dal punto di vista<br />
dell’altro. Questo “corpo proprio” incontra il “mondo trascendente” (l’altro) ed è così che si<br />
costituisce la “messa in comune” del mondo, dando vita ad un “noi” o quarta posizione<br />
percettiva, che comporta un comune sentire e “un’armonia di monadi”.<br />
Attraverso la variazione della distanza avviene la relazione d’aiuto, con la<br />
comprensione dell’umana presenza come con-essere-nel mondo, alla ricerca dei modi<br />
fondamentali in cui l’altro esiste e aiutandolo a riprogettarsi in modo autentico. C’è un intento<br />
antiriduzionistico a parametri biologici, sociologici, causalistici, che comporta la costante<br />
apertura a un orizzonte di senso proprio di ogni evento psichico.<br />
È forse giunto il momento che anche gli uomini della Chiesa considerino finalmente<br />
l’aspirazione alla libera ricerca filosofica delle donne, in contrasto con i parametri<br />
“riduzionistici”, che hanno orientato a lungo la visione del mondo femminile? E che non si<br />
limitino ad apprezzarne le abilità di cuoche o procreatrici alla stessa stregua delle culture del<br />
Guerriero di livello inferiore che hanno improntato il nazifascismo imperante durante la<br />
211
seconda guerra mondiale e il fondamentalismo islamico che soggioga la società in Iran e in<br />
altri stati?<br />
FRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE: LA DONNA DI OGGI E DI DOMANI<br />
Le nostre rappresentazioni interne, le nostre esperienze degli eventi, non sono<br />
esattamente quel che è accaduto, ma piuttosto una personale ri-presentazione. La mente<br />
conscia dell’individuo non è in grado di utilizzare tutti i segnali che le vengono inviati. Con<br />
ogni probabilità, impazziremmo se dovessimo ricavare consciamente un senso da migliaia di<br />
stimoli, dalla pulsazione del sangue nel pollice destro al brusio nell’orecchio. Perciò il<br />
cervello filtra e immagazzina le informazioni di cui ha bisogno o si aspetta di aver bisogno<br />
più tardi, e permette alla mente conscia dell’individuo di ignorare il resto.<br />
Il “filtro” nella percezione della realtà<br />
Il processo di filtraggio spiega l’enorme gamma delle percezioni umane. Due individui<br />
possono assistere allo stesso incidente stradale e fornirne resoconti completamente diversi.<br />
Uno può aver prestato maggiore attenzione a ciò che vedeva, mentre l’altro a ciò che udiva.<br />
Hanno sperimentato l’incidente da prospettive diverse, registrando nel cervello dati diversi.<br />
Può darsi anche che uno si sia trovato a sua volta coinvolto in precedenza in un<br />
incidente stradale e ne abbia già immagazzinato una vivida rappresentazione. Comunque sia, i<br />
due avranno rappresentazioni differenti dello stesso evento. E procederanno<br />
all’immagazzinamento di tali percezioni e rappresentazioni interne che diventeranno nuovi<br />
filtri attraverso i quali in futuro sperimenteranno il reale.<br />
Questi “filtri” agiscono in un certo modo come una sorta di mappa. Alfred Korzybsky<br />
scrisse su Science and Sanity: “Vanno tenute presenti fondamentali caratteristiche delle<br />
mappe. Una carta geografica non è il territorio che rappresenta ma, se è esatta, ha una struttura<br />
simile a quella del territorio, ciò che ne giustifica l’utilità”.<br />
Il significato di questa affermazione è che la rappresentazione interna dei singoli non<br />
coincide con l’esatta riproduzione dell’evento, ma è soltanto un’interpretazione filtrata<br />
attraverso specifiche credenze, atteggiamenti e valori personali. Il 25 novembre 2004 ho<br />
assistito al dibattito politico sulla riforma dell’ordinamento giudiziario che si è tenuto sul<br />
programma televisivo “Punto e a capo”. Durante la trasmissione, condotta da Giovanni<br />
Masotti e Daniela Vergara - in cui finalmente si è introdotto in televisione il role-playing,<br />
212
l’alternanza della conduzione tra uomo e donna, mentre in passato comparivano solo<br />
conduttori uomini o donne - Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti Italiani ed ex<br />
ministro della Giustizia, ha accusato il conduttore di essere fazioso. Questi si è difeso<br />
osservando che non si può prescindere dalla propria visione politica, ma tutt’al più cercare di<br />
“smorzare i toni” o cercare di essere “moderatamente faziosi”.<br />
Prendendo atto che ogni interpretazione è “necessariamente” filtrata attraverso<br />
specifiche credenze, atteggiamenti e valori personali, è possibile contenere i “bollenti spiriti”,<br />
tenendo presenti anche altre interpretazioni alternative della stessa realtà.<br />
Si possono portare vari esempi di “rovesciamento” del punto di vista, in<br />
corrispondenza di credenze, atteggiamenti e valori personali differenti.<br />
Per citarne uno, per vario tempo la classe politica al potere ha ritenuto che la<br />
solidarietà fosse essenzialmente di sinistra e che a destra lo stesso concetto corrispondesse al<br />
vecchio e “umiliante” concetto del “fare l’elemosina” al povero.<br />
Qualcuno pensa che la maniera migliore per aiutare i poveri sia di essere uno di loro.<br />
Tuttavia, qualche altro ha constatato che forse è vero il contrario, che la maniera migliore per<br />
aiutarli consista nell’offrire loro un modello di altre possibilità, la dimostrazione che è<br />
disponibile un’altra gamma di scelte, e nell’aiutarli a sviluppare le risorse necessarie a<br />
raggiungere l’autosufficienza.<br />
Un atteggiamento analogo ha contrapposto in Italia chi vedeva nel taglio delle tasse<br />
l’opportunità per rilanciare l’economia e chi - a sinistra - ha continuato a vedere in questa<br />
linea politica un modo per favorire i ricchi e impoverire ulteriormente i poveri.<br />
Alla prova dei fatti, il 25 novembre 2004 il premier Berlusconi ha annunciato la<br />
“svolta epocale”, dopo un animato dibattito all’interno della maggioranza, che si è protratto<br />
per settimane, sulla necessità di avere coperture finanziarie e di non intaccare i parametri di<br />
Maastricht, anche se serve una ridefinizione di essi. Non c’è alcuna macelleria sociale e non si<br />
tocca una lira per il Sud. Si interviene su sprechi, privilegi e spese inutili, senza incidere sullo<br />
stato sociale. Le coperture, dunque, ci sono: su tutte c’è il timbro della ragioneria dello Stato.<br />
Conclusione: meno tasse, meno Stato e anche meno statali. Ha vinto la tenacia del<br />
premier; che non ha ceduto di fronte alla proposta di un Berlusconi-bis che rivedeva la<br />
promessa fatta agli italiani di ridurre le tasse. La ferma determinazione del premier, che in una<br />
lettera prospettava il voto anticipato in caso di mancato accordo, si è rivelata la chiave della<br />
soluzione della crisi. Le coperture indicate sembrano ragionevolmente lontane da crinali<br />
avventurosi. Il realismo con i piedi per terra sembra esserci. Gli sgravi destinati alle famiglie<br />
danno un po’ di respiro a chi non arriva alla fine del mese e denotano che ci si è posti<br />
213
ealisticamente nei panni dei meno abbienti.<br />
Le donne – politiche del futuro<br />
Occorre tuttavia intervenire anche con risorse cospicue e adeguate politiche a favore<br />
della natalità. Altrimenti, l’Italia diventerà la terra dei morti. Il tasso di natalità è il più basso<br />
d’Europa. Il 52% delle famiglie è formato da un solo individuo o da una coppia senza figli.<br />
Sono l’emblema della desertificazione familiare. Spetterà alle donne-politiche del futuro<br />
mobilitarsi in direzione di una illuminata politica di sostegno alle famiglie con figli,<br />
facilitando alle donne l’impegno di occuparsi contemporaneamente del lavoro, della carriera e<br />
dei figli. Il punto di vista delle donne è fondamentale in questa area di scottante attualità e va<br />
valorizzato in un’ottica non repressiva dei diritti-doveri delle donne di realizzarsi anche<br />
nell’ambito professionale.<br />
Il fatto è che perfino nell’era dell’informatica l’informazione non basta. Se tutto ciò di<br />
cui abbiamo bisogno fossero idee e un modo di pensare concreto, da adolescenti tutti<br />
avremmo potuto soddisfare i nostri capricci e attualmente tutti saremmo in grado di vivere il<br />
nostro sogno. L’azione, ecco il minimo comun denominatore di ogni grande successo.<br />
L’azione è ciò che produce risultati. Il sapere è potere potenziale finché non capita<br />
nelle mani di qualcuno che sa agire con efficacia. In definitiva, il termine “potere” significa,<br />
alla lettera, “facoltà di agire”.<br />
Ma ogni comunicazione è un’azione, una causa che produce effetti. E ha qualche<br />
conseguenza per noi e per gli altri.<br />
Quello che facciamo nel corso dell’esistenza è determinato dal nostro modo di<br />
comunicare attraverso comunicazioni interne, e sono le cose che immaginiamo, diciamo e<br />
sentiamo nel nostro intimo, e comunicazioni esterne, cioè parole, tonalità, espressioni facciali,<br />
portamenti corporei, azioni fisiche che servono a comunicare con il mondo.<br />
Nel mondo moderno, la qualità della vita è tutt’uno con la qualità delle comunicazioni.<br />
Da quello che pensiamo e diciamo di noi stessi, dal nostro modo di muoverci e di servirci<br />
della muscolatura corporea e facciale dipenderà fino a che punto saremo in grado di servirci di<br />
quello che sappiamo.<br />
Ad esempio, se io vi trasmetto quello che ritengo essere un messaggio positivo, ma la<br />
mia voce è fievole e incerta e il linguaggio del mio corpo è scomposto e incongruente, il mio<br />
messaggio risulterà contraddittorio e poco credibile. L’incoerenza mi impedisce di essere tutto<br />
quello che potrei essere. Trasmettere a se stessi messaggi contraddittori è un modo<br />
subliminale di darsi la zappa sui piedi.<br />
214
Tutti noi abbiamo pagato e paghiamo il prezzo dell’incoerenza quando accade che una<br />
parte di noi vuole davvero qualcosa, ma un’altra parte dentro di noi sembra bloccarci.<br />
Coerenza è potere. Le persone che hanno successo sono quelle che sono in grado di far agire<br />
insieme tutte le loro risorse mentali e fisiche nell’esecuzione di un compito. Soffermatevi per<br />
un momento a pensare alle tre persone più coerenti che conoscete e quindi alle tre più<br />
incoerenti a voi note. Qual è la differenza tra esse? Qual è l’effetto che individui coerenti<br />
hanno su di voi, e quale è quello esercitato da persone contraddittorie? Un’importante chiave<br />
della comunicazione è la coerenza. Quando comunichiamo, il nostro portamento, la nostra<br />
espressione facciale, il nostro respiro, i nostri movimenti, il modo e il tono della voce sono<br />
congruenti o no? Se diciamo a noi stessi: “Eh, sì, credo che sia proprio così che si debba<br />
fare”, ma la nostra fisiologia è debole e indecisa, che genere di messaggio riceve il cervello?<br />
Se i segnali trasmessi dal nostro organismo sono deboli e contraddittori, il nostro cervello non<br />
ha una chiara idea sul da farsi. È come un soldato che stia per cimentarsi in una battaglia<br />
guidato da un comandante il quale dica: “Be’, forse dovremmo fare così, non sono certo che<br />
funzionerà, ma facciamolo, e vediamo cosa succede”. In quale stato d’animo si troverà il<br />
soldato?<br />
Viceversa, se ci diciamo: “Devo assolutamente fare questo o quello” e la nostra<br />
fisiologia concorda, ci riusciremo senz’altro. Il potere deriva dall’emissione di un unico,<br />
congruente messaggio. Se il nostro corpo dice una cosa e la nostra mente un’altra, ne deriverà<br />
un messaggio conflittuale. Tutti noi desideriamo pervenire a condizioni di coerenza e<br />
l’iniziativa più efficace che si può prendere a tale scopo è di accertarsi di essere in uno<br />
fisiologico di fermezza, decisione e coerenza. Se le nostre parole e il nostro corpo sono in<br />
disaccordo, la nostra efficacia ne risulterà sminuita.<br />
Comunicazione è potere. Quelli che hanno imparato a servirsene in maniera efficace,<br />
possono mutare la propria esperienza del mondo e l’esperienza che il mondo ha di loro. Non<br />
c’è comportamento e sentimento che non abbia le proprie originarie radici in una forma di<br />
comunicazione. Le persone che influiscono sui pensieri, i sentimenti e le azioni della maggior<br />
parte di noi sono quelle che sanno come servirsi di questo strumento.<br />
L’integrazione dei punti di vista all’interno di una comunicazione efficace, e non la<br />
soppressione della voce femminile, per lasciare spazio solo al pensiero e alle decisioni degli<br />
uomini, può costituire la base su cui costruire l’intera società. In effetti, le convinzioni, gli<br />
atteggiamenti e i valori personali attraverso cui le donne filtrano la realtà sono spesso - ma<br />
non necessariamente sempre - diversi da quelli degli uomini. Questa differenza che fa la<br />
differenza non può che giovare ad una sana democrazia, in cui uomini e donne cooperano<br />
215
insieme per rafforzare l’unità del Paese e progettarne e realizzarne il futuro.<br />
La gestione dei conflitti nell’orientamento di ruolo.<br />
Gli effetti dell’orientamento di ruolo maschile e femminile si ripercuotono sullo stile<br />
di gestione dei conflitti, secondo Greenhalgh e Gikley (1999). Questi studiosi osservano che<br />
lo stile negoziale maschile e femminile non è da imputarsi soltanto ad una differenza<br />
ormonale e genetica, ma ad un orientamento di ruolo acquisito nelle fasi di socializzazione<br />
primaria. Pertanto, lo stile negoziale femminile può essere appreso e impiegato con efficacia<br />
anche da negoziatori maschi. In particolare, secondo gli autori, nella socializzazione al ruolo<br />
maschile giocano un forte effetto distorsivo la pregnanza e la generalizzazione nei diversi<br />
contesti della mentalità dello sport, dove la sfida è sempre episodica (“one-shot”), gli altri<br />
sono avversari e dove può esserci un solo vincitore.<br />
L’orientamento di ruolo acquisito della mentalità dello sport, in cui ci può essere un<br />
solo vincitore, si riverbera in particolare nelle professioni esercitate tradizionalmente dagli<br />
uomini, in cui scatta un forte pregiudizio antifemminile.<br />
Fortunatamente, la rigidità del clima antifemminile si sta temperando. Un segnale di<br />
disgelo è fornito dal premio Nobel per la pace, che è stato assegnato il 10 dicembre 2004 ad<br />
un’ambientalista keniota, Wangari Maathay.<br />
Tuttavia, permangono altri segnali allarmanti.<br />
Il 18 ottobre 2004 il TG2 serale rende noto che in Italia un chirurgo su due è donna,<br />
ma la metà denuncia episodi di mobbing.<br />
La strategia di contesa, in cui si tenta di prevalere sull’altro utilizzando numerose<br />
tattiche, denominate nella letteratura statunitense “contending”, è caratterizzata dall’intento di<br />
risolvere il conflitto secondo le proprie condizioni senza prestare alcuna attenzione agli<br />
interessi della controparte. L’affinità di questa strategia con il mobbing praticato nei contesti<br />
lavorativi appare evidente.<br />
Greenhalgh e Gikley hanno individuato le tendenze distinte del negoziatore con<br />
orientamento maschile e di quello con orientamento femminile. Ad esempio, a fronte delle<br />
tendenze maschili ad affrontare la trattativa come episodica (“mordi e fuggi”), ci sono<br />
tendenze femminili ad affrontare la trattativa presente come un evento nel contesto di una<br />
relazione a lungo termine. Mentre il “maschile” ricerca la vittoria di tipo sportivo, il<br />
femminile ricerca il vantaggio comune. Sul versante maschile ritroviamo ancora il<br />
sottolineare le regole del gioco, i precedenti e le posizioni di potere, mentre su quello<br />
femminile vengono sottolineate l’equità e la giustizia. Ancora, sulla sponda maschile viene<br />
216
evidenziata la logicità delle proprie posizioni negoziali, e su quella femminile vengono<br />
approfonditi i bisogni dell’altro, con la concentrazione sulla persona. Il nascondere o<br />
presentare in modo distorto i propri bisogni fa parte dello stile maschile, mentre l’essere<br />
consapevoli e dirette nell’esprimere i propri bisogni fa parte dello stile femminile.<br />
Il comunicare con modalità asimmetrica, mirando al controllo e al dominio dell’altro è<br />
ascrivibile alle caratteristiche maschili, mentre il comunicare con modalità simmetrica<br />
mirando alla parità e al confronto con l’altro è ascrivibile a quelle femminili. Di nuovo,<br />
l’essere intransigenti sulle proprie posizioni è “maschile”, mentre l’essere disponibili al<br />
compromesso è “femminile”. Infine, un effetto dell’orientamento di ruolo maschile è<br />
l’interrompere e ingannare la controparte, mentre un effetto dell’orientamento di ruolo<br />
femminile è costituito dall’evitare tattiche che possano danneggiare il futuro della relazione.<br />
Dalle ricerche di altri studiosi risulta tuttavia che i fattori situazionali e in particolare le<br />
caratteristiche della controparte hanno un’influenza almeno altrettanto importante degli<br />
attributi di personalità del soggetto nel determinare la risposta che egli adotterà nell’affrontare<br />
un conflitto. Una stessa persona può quindi utilizzare diversi stili a seconda dell’importanza<br />
che attribuisce alla persona che ha di fronte. In termini operativi, nel cercare di prevedere lo<br />
stile che adotterà un individuo con il quale si sta iniziando a negoziare, sembra più razionale<br />
soffermarsi a stimare l’interesse che egli nutre al mantenimento di una buona relazione con<br />
noi, piuttosto che spingersi in complesse e spesso improbabili analisi di personalità.<br />
C’è comunque un fattore individuale con un’influenza stabile e coerente sulla modalità<br />
con cui si affrontano i conflitti: l’appartenenza di genere, l’essere maschio o femmina.<br />
Le femmine tendono ad utilizzare più dei maschi strategie di “problem solving” e<br />
compromesso (Utley et Al. 1989). Inoltre, sono più orientati all’altro, più empatiche (Gikley,<br />
Greenhalgh, 1984) e hanno la tendenza ad interpretare il conflitto più come una questione<br />
affettiva e relazionale che cognitiva e legata al compito (Pinkley, 1990). D’altro lato, i maschi<br />
sono generalmente più aggressivi fisicamente e verbalmente (Eagly, Steffen, 1986) e quindi<br />
più propensi alla contesa (Ohbuchi, Tedeschi, 1995).<br />
In diverse aree negoziali è stata osservata una sequenza di maturazione in due fasi<br />
della trattativa, prima competitiva e poi cooperativa (Morley, Stephenson, 1977; Snyder,<br />
Diesing, 1977; Mc Gillicuddy, Welton, Pruitt, 1987; Craver, 1999). Ciò potrebbe spingere ad<br />
affermare che la dicotomia tra negoziazione competitive e negoziazioni cooperative è in realtà<br />
riconducibile al passaggio da uno “stile maschile” ad uno “femminile” o, secondo alcuni<br />
autori, ad una distinzione tra negoziazioni ancora immature e negoziazioni mature.<br />
Come si può quindi promuovere questo prezioso processo di maturazione prima che le<br />
217
parti sprechino ingenti risorse nel circolo vizioso della competizione? Rubin suggerisce la<br />
creazione di un’immagine: andare con la propria controparte in cima al dirupo ed osservare<br />
dall’alto le conseguenze catastrofiche del perseverare nella contesa e del fallimento del<br />
negoziato. In questo modo viene utilizzata una “vision” di tipo negativo. Al pari della<br />
“vision” positiva, più essa è emotivamente vivida e suggestiva, più è efficace in questo caso<br />
come deterrente al mantenimento dello stile predatorio.<br />
Come qualsiasi cambiamento, anche l’evoluzione dello stile negoziale costituisce un<br />
costo per i negoziatori che devono attuarlo. Pertanto, una incisiva “vision” negativa deve<br />
essere così sconvolgente e dura da far apparire al confronto irrilevante quel costo. Se durante<br />
le infuocate fasi di contesa vengono prospettate delle pause di raffreddamento per riflettere e<br />
proiettarsi nel futuro, si aiutano le parti a maturare questa visione.<br />
218
CAPITOLO V<br />
LE “LENTI” CHE METTIAMO<br />
TRA NOI E LA REALTÀ<br />
L’INFLUENZA DELLE MAPPE COGNITIVE CULTURALI DI DOMINAZIONE<br />
Incidere sui pregiudizi per cambiare il mondo.<br />
Kuhn Thomas ha scritto che “quando mutano i paradigmi, il mondo stesso cambia con<br />
essi” 1 . Occorre incidere sui pregiudizi culturali, etnici, sessisti, classisti, scientifici, per<br />
cambiare il mondo.<br />
Ciò che noi percepiamo durante la maggior parte del nostro tempo non è,<br />
semplicemente, un qualsiasi segmento del mondo fisico, bensì una selezione di cose che<br />
abbiamo convenuto di considerare reali ed importanti.<br />
I filtri sociali, la cultura di cui facciamo parte ci insegnano a percepire e ci<br />
socializzano in modo da creare una realtà consensuale. Don Juan parla a Castaneda di una<br />
realtà diversa, e gli insegna a considerare una diversa selezione di cose reali ed importanti: “...<br />
la tecnica ... richiedeva anni per essere perfetta ... L’assenza di conversione dell’immagine<br />
comportava una duplice percezione del mondo ... che dava l’opportunità di giudicare quei<br />
cambiamenti dell’ambiente circostante che gli occhi erano ordinariamente incapaci di<br />
percepire”.<br />
Per entrare a far parte di una determinata comunità scientifica e condividerne la realtà<br />
consensuale, occorre una socializzazione molto sofisticata: “L’esempio tipico è costituito dal<br />
giovane studente in biologia, che allorquando comincia a lavorare al microscopio inizialmente<br />
scorge immagini confuse, e solo in un secondo momento, seguendo le precise indicazioni del<br />
suo insegnante, imparerà veramente a riconoscere ciò che è chiamato a studiare, ottenendo,<br />
grazie all’allenamento, visioni stabili ed ‘oggettive’. Quindi, nel caso dello studente, esistono<br />
istruzioni atte a consentirgli la visione di determinati fenomeni in conformità con le esigenze<br />
e le aspettative di un determinato modello cognitivo. ...<br />
1 Kuhn Thomas S., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1962, p. 139<br />
219
Nell’ambito del nostro particolare quadro culturale, possiamo facilmente preparare<br />
quelli che sembrano esperimenti scientifici eccellenti, che dimostreranno che le nostre<br />
percezioni sono davvero reali, nel senso che siamo reciprocamente d’accordo su questi<br />
elementi selezionati dalla nostra realtà consensuale”. 2<br />
Gli elementi di soggettività presenti nelle teorie scientifiche diventano particolarmente<br />
evidenti quando si esamina la relazione tra le teorie stesse e il periodo storico in cui sono state<br />
formulate.<br />
Alla luce delle conoscenze attuali, la grande maggioranza dei trattamenti medici<br />
prescritti prima di questo secolo erano del tutto inefficaci 3 . “Se queste credenze fuori moda si<br />
devono chiamare miti, allora i miti possono essere prodotti dallo stesso genere di metodi, e<br />
sostenuti per lo stesso genere di ragioni, che oggi guidano la ricerca scientifica. Se, d’altra<br />
parte, essi meritano il nome di scienza, allora la scienza ha incluso complessi di credenze<br />
abbastanza incompatibili con quelle che oggi sosteniamo” 4 .<br />
Sebbene il mondo non cambi a causa di una rivoluzione scientifica, lo scienziato si<br />
trova a lavorare in un mondo differente. 5<br />
Il valore conoscitivo di una teoria scientifica è quindi strettamente legato al contesto<br />
culturale in cui è stata prodotta e ai modelli interpretativi da questo elaborati.<br />
Poiché i paradigmi, i filtri sociali e la cultura sono in gran parte responsabili delle<br />
nostre convinzioni su noi stessi, sugli altri e sul mondo, dobbiamo agire su di essi, per<br />
cambiare il modello di organizzazione sociale.<br />
È indispensabile realizzare il passaggio da un modello di organizzazione sociale e<br />
ideologica di dominazione ad un modello di cooperazione, di partnership. La sfida a radicate<br />
tradizioni di dominazione aveva già avuto inizio con le ribellioni politiche post-<br />
illuministiche contro le monarchie “di diritto divino” in Europa e in America nel XVIII e XIX<br />
secolo.<br />
È poi proseguita nel XX secolo con una sfida sempre più forte al razzismo, al<br />
colonialismo e, attraverso la ripresa del femminismo, alla supremazia della metà<br />
maschile dell’umanità su quella femminile. Più recentemente, anche la conquista e il domino<br />
sulla natura sono stati sfidati dal moderno movimento ambientalista.<br />
2 Pracca P., Kuhn T. S., La tartaruga e la farfalla; dalla Rivista “Antropos & Jatria” anno 1 n° 2, Ed. De Ferrari 1997<br />
3 Talbot M., Tutto è uno, Ed. URRA, Milano, 1991, p. 116<br />
4 Kuhn Thomas S., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, op. cit. p. 21<br />
5 Ibidem p. 151<br />
220
Anche la sfida alla componente principale dell’androcrazia, ossia ad un alto grado di<br />
violenza istituzionalizzata, è diventata sempre più forte, non solo nel crescente rifiuto della<br />
guerra come mezzo per la risoluzione dei conflitti, ma anche attraverso una maggiore<br />
consapevolezza e di conseguenza una pubblica avversione per forme istituzionalizzate di<br />
violenza privata, come la violenza sulle donne e sui bambini, nonché lo stupro.<br />
Questo crescente movimento planetario che sfida radicate tradizioni di dominazione ha<br />
però innescato anche un’intensificazione delle pressioni per il mantenimento del sistema<br />
androcratico. Un esempio visibile di ciò è la re-idealizzazione dell’aggressione e conquista<br />
“maschile” che si riflette nell’escalation di violenza nei rapporti interetnici, intertribali e<br />
internazionali, oltre che privati.<br />
Il terrorismo di Al Qaida e, in Italia, quello degli anarco-insurrezionalisti, che<br />
all’inizio del 2004 hanno aperto una campagna contro il nuovo ordine <strong>eu</strong>ropeo ritenuto troppo<br />
liberista e dirigista, attraverso l’invio di pacchi bomba da Bologna ad esponenti di spicco<br />
dell’UE, costituiscono esempi di violenza internazionale. Gli anarco-insurrezionalisti si<br />
muovono secondo logiche telematiche e mirano ad inserirsi nel conflitto tra le parti sociali per<br />
deviarlo dall’alveo democratico a scopo eversivo, in una possibile alleanza con le nuove<br />
Brigate Rosse, che esprimono una continuità con le vecchie, come ha detto il ministro<br />
dell’Interno Pisanu l’8 gennaio 2004.<br />
Un altro esempio ancora è costituito dalla pressione che élites religiose dominanti<br />
esercitano per continuare a privare le donne di opzioni di vita che vadano oltre quelle della<br />
maternità, attraverso la pari opportunità di istruzione e altri miglioramenti della condizione<br />
femminile. Nei primi giorni di gennaio 2004 l’assemblea dei capi tribù dell’Afghanistan<br />
approva la costituzione con un regime presidenziale forte in cui viene sancito il<br />
riconoscimento dei diritti delle donne e delle minoranze. Questa svolta è stata impressa al<br />
governo di un paese martoriato da precedenti regimi oppressivi che hanno annullato le donne<br />
dietro un burqa, privandole dei diritti civili, dell’istruzione e del lavoro.<br />
Ma altre religioni conservano all’interno delle gerarchie una radicata “distanza” nei<br />
confronti delle donne, considerate “tentatrici”, “streghe”, preda degli istinti, insidiate dal<br />
demonio. Il cristianesimo ha ereditato dalla religione ebraica la diffidenza verso la donna.<br />
Tuttavia, nel Vangelo di Cristo non c’è alcun discredito verso la donna. Anzi, Gesù valorizza<br />
al massimo le donne, che costituivano un largo seguito, insieme ai dodici apostoli. Il Vangelo<br />
affida la testimonianza della resurrezione di Gesù ad alcune donne, tra cui Maria di Magdala e<br />
Maria madre di Giacomo, che si recarono per prime al sepolcro. Secondo il diritto ebraico e<br />
semitico, che persiste ancora oggi presso i musulmani, le donne non potevano testimoniare<br />
221
nulla, in quanto non erano testimoni credibili. La resurrezione di Gesù, ritenuta il discrimine<br />
tra chi crede e chi non crede, viene constatata innanzitutto da una categoria discriminata di<br />
cittadini di serie B o C. Ciò porta a riflettere su una rimessa a punto di questa discriminazione<br />
praticamente posta in discussione dal Vangelo e dal primo cristianesimo, considerato una<br />
setta ebraica che si è affermata con una notevole espansione, probabilmente proprio per<br />
essersi schierata dalla parte dei deboli e degli oppressi, dei fragili e degli indifesi.<br />
La svalutazione della donna come “seduttrice” è avvenuta al momento della<br />
costituzione della gerarchia fatta di soli uomini. Nella religione ebraica il rabbino si sposa e<br />
ha figli. Tuttavia, le donne restano separate dagli uomini, in un luogo a parte, al momento<br />
della celebrazione del culto sacro, esattamente come avveniva nella religione cattolica, in cui<br />
le donne prendevano posto in chiesa in una fila separata, rispetto agli uomini e io conservo il<br />
ricordo di questa suddivisione in base al sesso, quando assistevo alla celebrazione <strong>eu</strong>caristica<br />
nell’infanzia.<br />
Anche i musulmani mantengono la suddivisione gerarchica in base al sesso e le donne<br />
non possono accedere alla moschea insieme agli uomini.<br />
Anche il celibato ecclesiastico rappresenta una “novità” dei secoli successivi alla<br />
predicazione di Gesù e degli apostoli e non è casuale che sia stato costituito quando si è<br />
radicata la cultura maschile di dominazione all’interno della Chiesa.<br />
Un ulteriore esempio di sistema androcratico è rappresentato dal ritorno di posizioni<br />
che esaltano il governo dell’“uomo forte” sia in famiglia che nello stato. Questo fenomeno si<br />
sta verificando in tutto il mondo attraverso il sorgere del cosiddetto fondamentalismo<br />
musulmano, cristiano, indù, ecc., che in realtà è fondamentalismo dominatore.<br />
Questa opposizione è così forte che, ad esempio in Bangladesh, gli integralisti islamici<br />
militanti hanno inscenato una protesta per chiedere al governo di mettere al bando le<br />
organizzazioni non-governative che istruiscono le donne e forniscono loro cure mediche,<br />
oppure per chiedere di affrontare una “guerra religiosa”. Questo avviene benché il Bangladesh<br />
non sia mai stato un paese musulmano particolarmente ortodosso, ma semplicemente perché,<br />
come ha detto un politico del Bangladesh, “hanno sfidato l’autorità del marito”. In linea con<br />
questo “filtro deformante” di dominazione, gerarchico e pregiudiziale, molte giovani donne in<br />
Bangladesh sono state sfigurate permanentemente con l’acido negli anni ’90 perché si<br />
rifiutavano di accettare il corteggiamento di un uomo o di sposarlo. La vendetta contenuta nel<br />
messaggio è lampante: “O con me o con nessun altro”. La logica di dominio e di possesso è<br />
violenta e lesiva.<br />
Come ho già sottolineato a più riprese in alcuni libri precedenti, nella cultura<br />
222
femminile scarseggia la solidarietà, in quanto la cultura patriarcale in cui siamo immerse ci ha<br />
abituate a vedere l’uomo come forte e vincente e la donna come debole e perdente. Le donne<br />
di carattere che vogliono affermarsi ed esprimere le proprie capacità e punti di vista, pertanto,<br />
sono portate ad identificarsi con gli uomini e a trattare il femminile come debole e perdente<br />
per cui, paradossalmente, si accaniscono contro le stesse donne.<br />
In quanto terap<strong>eu</strong>ta, ho osservato molte volte il trattamento discriminante, spietato e<br />
disumano che alcune madri “carabinieri”, identificate con il “maschio forte”, riservavano alle<br />
figlie femmine, deprivandole della loro autostima e fiducia in se stesse. La spietatezza e il<br />
disprezzo rilevabili nell’atteggiamento di alcune donne verso le altre donne che si affermano,<br />
è pari allo stesso disprezzo per il femminile che c’è in loro e che considerano elemento di<br />
debolezza, anziché risorsa, disponibilità al dialogo, tutela della vita e della dignità della<br />
persona, cura degli altri.<br />
Essendo state a loro volta delle bambine che hanno ricevuto un’educazione autoritaria,<br />
in cui era il maschio a dettare legge e la femmina ad eseguire, e provando rifiuto verso questo<br />
trattamento, gestiscono il conflitto attraverso meccanismi difensivi di identificazione<br />
proiettiva, per cui usano le figlie e le donne con cui hanno contatti, per scaricare il loro senso<br />
di autosvalutazione e di autodisprezzo, dirigendo verso di loro il disprezzo. Spesso subentrano<br />
meccanismi difensivi di identificazione con l’aggressore, in cui introiettano la figura del<br />
maschio aggressore e diventano spietate con le donne che ritengono subalterne, imitando la<br />
mancanza di rispetto dell’uomo verso la donna, che hanno vissuto di persona sulla propria<br />
pelle. Basta che queste donne così strutturate notino un punto debole in una donna per<br />
infierire contro di lei, scaricando così tutto il senso di frustrazione per i sensi di inadeguatezza<br />
e inferiorità accumulati nel corso del tempo. Queste donne percepiscono illusoriamente un<br />
senso di potere nel momento in cui vanno all’attacco di altre donne. Essendo<br />
fondamentalmente prive di vera identità, che si acquista solo con un percorso evolutivo, sono<br />
deboli con i forti, di cui diventano “serve” e forti con i deboli, in particolare con le donne,<br />
infierendo su di loro nei punti di fragilità. Instaurano con le figlie e con le donne che<br />
dipendono da loro un rapporto sado-masochistico, in cui utilizzano la dipendenza e il bisogno<br />
per affermare un potere improntato alla dominazione, per il solo piacere di vedere le altre<br />
dipendenti e schiacciate dal loro dominio, ai loro piedi, e le trattano come “tirapiedi”<br />
bisognose.<br />
Ma questa cultura improntata al modello di dominazione svaluta il femminile,<br />
considerandolo sinonimo di debolezza e intralcio alla realizzazione di rapporti sociali di<br />
potere e finisce in tal modo per mantenere la donna in una condizione di emarginazione,<br />
223
sudditanza e inferiorità. Le donne che intendono veramente liberare se stesse e le altre donne<br />
hanno aperta davanti a sé la strada della solidarietà reciproca, non contro l’uomo o il maschio,<br />
ma contro il patriarcato e il modello di dominazione, che stabilisce una struttura gerarchica,<br />
in cui necessariamente c’è chi sta sopra (up) e chi sta sotto (down) e in cui la donna finisce<br />
per diventare succube e per sentirsi zittire, perché il suo parere non interessa né a chi governa<br />
né a chi ha potere di decidere del suo destino e di quello degli altri.<br />
Occorre attuare una politica di conciliazione tra famiglia e lavoro e rendere la società<br />
più attenta ai bisogni delle madri che fanno i conti con i tempi da dedicare alla famiglia. I<br />
congedi parentali in cui ai papà viene concesso di accudire i figli costituiscono un valido<br />
appoggio nei confronti delle mamme, su cui non incombe tutto l’onere della presenza costante<br />
quando il figlio sta male. Questo alleggerimento del carico di responsabilità può contribuire<br />
notevolmente nella decisione di mettere al mondo altri figli, perché la donna non si sente più<br />
sola nello svolgimento dei suoi compiti e può contare sull’aiuto delle istituzioni, del mondo<br />
del lavoro ecc.<br />
I servizi per l’infanzia costituiscono un settore bloccato da 30 anni. Gli asili nido<br />
comunali e aziendali, i servizi flessibili di asili condominiali dovrebbero ricevere un nuovo<br />
impulso. La politica di sostegno alle donne nel doppio ruolo di madri e lavoratrici, mogli e<br />
donne va realizzata con la presenza delle donne nelle istituzioni come candidate ed elette. Le<br />
quote di accesso potrebbero rivelarsi necessarie, almeno in una prima fase, per predisporre<br />
una “forza d’urto” che abbatta le barriere pregiudiziali.<br />
La legittima - e auspicabile - estrinsecazione delle proprie potenzialità non va confusa<br />
con il carrierismo, una “malattia” che colpisce anche gli uomini.<br />
L’autoaffermazione implica che la donna non debba scegliere tra la vita pubblica e la<br />
famiglia. Le donne non vogliono essere “scisse”, divise a metà, sacrificate al lavoro o alla<br />
famiglia. La cultura dualistica e gerarchica in cui è cresciuta la mia generazione ci ha educate<br />
a scegliere se vogliamo costruirci una famiglia o una vita lavorativa soddisfacente.<br />
La stessa cultura ci ha educate a restare subordinate rispetto all’uomo, accettando<br />
come naturale che lui mantenesse il potere di “comandare”, mentre a noi era riservato<br />
l’obbligo di eseguire, per cui sul lavoro la donna è sempre stata relegata in ruoli marginali,<br />
anche quando le sue capacità erano ben superiori a quelle degli uomini. Oggi noi chiediamo<br />
che le donne vengano considerate per se stesse, e non emarginate o interdette o precluse<br />
perché donne, non appena si candidano per un incarico istituzionale, politico, manageriale,<br />
religioso, ai vertici delle possibilità decisionali e degli incarichi di responsabilità. Oggi le<br />
donne hanno gli strumenti culturali, economici, lavorativi per ricoprire posti di altissima<br />
224
esponsabilità, in cui il buon senso, l’equilibrio, la flessibilità, l’apertura all’innovazione<br />
giocano a favore di una candidatura femminile piuttosto che maschile, anche dove lo staff è<br />
composto in larga parte da uomini e a maggior ragione dove la struttura è composta da donne,<br />
come succede nelle riviste femminili.<br />
La presenza femminile apporta risorse nella misura in cui viene valorizzata<br />
opportunamente.<br />
Valorizzare la cultura femminile<br />
Quelli che oggi chiedono il ritorno dei “bei tempi andati”, quando la maggior parte<br />
degli uomini e tutte le donne sapevano ancora “stare al proprio posto”, paradossalmente,<br />
hanno individuato la cosiddetta questione femminile come punto centrale per il dibattito,<br />
opponendosi aspramente, e sempre più violentemente, a qualunque cambiamento nella<br />
condizione femminile. Tuttavia, molti di coloro che rifiutano un governo autoritario e<br />
l’istituzionalizzazione della violenza tipica dei sistemi dominatori, considerano ancora ciò che<br />
riguarda i ruoli e le relazioni fra donne e uomini come una “questione femminile” secondaria<br />
da trattare, semmai, dopo questioni “più importanti”. Così non si attua alcuna revisione delle<br />
mappe cognitive nell’esaminare la storia e si continua ad usare mappe di dominazione nel<br />
presentare eventi storici, personaggi, scoperte scientifiche, fasi del progresso tecnologico. Ad<br />
esempio, il problema chiave dei tempi moderni non è, come si sostiene a volte, la scienza<br />
moderna e la tecnologia. È la scienza moderna e la tecnologia all’interno di esigenze di<br />
mantenimento del sistema di un’organizzazione sociale orientata alla dominazione, con le sue<br />
mappe culturali cognitive o “filtri deformanti” che presentano un’organizzazione sociale<br />
gerarchica, violenta e fondamentalmente ingiusta, come semplicemente naturale e perfino<br />
morale. Ad esempio, non c’era alcun motivo intrinseco per cui gli impianti di produzione<br />
nelle prime fasi dell’industrializzazione dovessero essere progettati come catene di montaggio<br />
in cui perfino gli esseri umani diventavano semplici ingranaggi di un enorme meccanismo.<br />
Tant’è vero che, con la divisione della fabbrica della svedese Volvo, negli anni ’60 si è passati<br />
a una progettazione completamente diversa, in cui le squadre di lavoro potevano prendere<br />
molte decisioni autonomamente sul modo migliore di costruire un’automobile, anziché essere<br />
trasformati in poco più che automi umani.<br />
Malgrado tutti questi problemi connessi con mappe cognitive culturali di dominazione,<br />
i “filtri deformanti” o pregiudizi della maggior parte degli scritti liberali, socialisti, umanisti,<br />
“progressisti”, hanno trattato quella che i marxisti chiamano “la questione della donna” come<br />
secondaria rispetto alla lotta dell’uomo per la libertà e l’uguaglianza. Viene così a mancare<br />
225
una configurazione di collaborazione tra uomini e donne, di collegialità. Perciò,<br />
un’organizzazione sociale più pacifica e giusta non può avere basi solide, come non può avere<br />
uno stabile appoggio un tavolino a due gambe. Occorrono tre gambe per dare stabilità, così<br />
come bisogna introdurre una mappa cognitiva culturale di cooperazione e dialogo tra uomini e<br />
donne per poter creare una cultura di pacificatori e non solo di pacifisti da manifestazioni pre-<br />
elettorali.<br />
L’11 febbraio 2004 il segretario dei DS Fassino propone per le liste <strong>eu</strong>ropee la<br />
presenza delle donne al 50%. Analogamente, per le amministrative prospetta la presenza di<br />
assessori donne al 50%, mentre nelle elezioni comunali le donne dovrebbero occupare un<br />
terzo della lista.<br />
Si tratta di una risposta-segnale del cambiamento di ottica del partito o della mentalità<br />
degli uomini del partito? Come si è instaurato questo cambiamento? Come mai non si è<br />
verificato prima? Gli uomini del partito sono diventati consapevoli dei loro pregiudizi sulle<br />
donne? Ma sono pronti a dare spazio e fiducia alle donne delle loro liste? Oppure sono stati<br />
spinti a questa decisione dal timore che i voti dell’elettorato femminile - che in Italia<br />
corrisponde al 53% - vengano convogliati a destra, dove le donne sono tutelate nella loro<br />
dignità e nei loro diritti - oltre che doveri - con forza e autentica convinzione, in vista del bene<br />
di tutta la comunità, dal momento che moltissime donne sono portatrici di risorse<br />
straordinarie, spesso carenti negli uomini?<br />
Occorreva una testa d’ariete al femminile per sfondare le mura del pregiudizio che<br />
sbarrano alle donne l’accesso alla vita sociale attiva nei posti che contano?<br />
L’antica macchina d’assedio per sfondare mura o porte era costituita, nella forma più<br />
semplice, da una trave, in cima alla quale si trovava una testa d’ariete in bronzo. Possiamo<br />
paragonare l’abbattimento del pregiudizio che circonda o opprime le donne all’azione di una<br />
macchina d’assedio? E quanto durerà ancora questo assedio nei vari settori della società? È<br />
sufficiente far crollare un muro, perché questo possa servire di esempio per altri “casi” di<br />
muraglie erette a salvaguardia di privilegi veri o presunti? Lasciando le “cose” come sono,<br />
senza intervenire con la punta d’ariete per sfondare il pregiudizio, si migliora o si peggiora<br />
irrimediabilmente la società? La nostra società sarebbe migliore, se crescesse all’insegna della<br />
cultura femminile, anziché di quella maschile? Abbiamo sperimentato da secoli le aberrazioni<br />
a cui ci ha condotti la cultura maschile. Dobbiamo ancora collaudare i vantaggi offerti della<br />
cultura femminile, che non ha mai messo radici nella nostra società patriarcale. Vogliamo<br />
trovare il coraggio, uomini e donne, per attuare una politica di rinnovamento della società<br />
all’insegna dei valori insiti nella cultura femminile?<br />
226
Secondo una statistica resa nota al TG2 il 7 febbraio 2004, nell’ambito delle notizie<br />
che scorrono in fondo allo schermo televisivo, l’Italia è il Paese <strong>eu</strong>ropeo con la maggior<br />
percentuale di laureati donne: le dottoresse sono il 50,8%. Tuttavia, persiste la preclusione<br />
delle carriere e la discriminazione nell’accesso ai posti di alto livello, secondo il vecchio<br />
pregiudizio per cui “a dirigere deve essere un uomo”, anche quando si tratta di gestire<br />
problemi femminili.<br />
La “pantera rosa” agile, sinuosa e perspicace, non ha ancora solcato le scene italiane<br />
proponendo una versione femminile del potere. La “rivoluzione rosa”, che porti ad una<br />
“visione rosa” del mondo, non è ancora avvenuta.<br />
Dallo studio dei cambiamenti dei sistemi sappiamo che, quando un sistema si avvicina<br />
a un bivio cruciale, può non essere possibile prevedere quale corso prenderà (I. Prigogine e I.<br />
Sengers, 1979). Si possono però prevedere i fattori o gli interventi che amplificheranno gli<br />
effetti desiderati, nonché quelli che tenderanno ad arrestare il fenomeno. Sulla scia di queste<br />
riflessioni, delineando la dinamica interattiva dei mutamenti culturali e dei cambiamenti di<br />
fase tecnologica, dobbiamo affrontare molte forme intersecate di dominazione, dalla<br />
dominazione economica e delle razze cosiddette “inferiori” alla dominazione e allo<br />
sfruttamento sfrenato della natura. In questa fase di integrazione <strong>eu</strong>ropea, dobbiamo prestare<br />
la massima attenzione alla dominazione del fondamentalismo islamico, che mira a<br />
disintegrare non solo gli USA, ma anche l’Unione Europea. L’allargamento dell’Unione<br />
Europea dovrà valutare la mappa culturale cognitiva di dominazione del fondamentalismo<br />
islamico come un fattore destabilizzante della sua compagine, che mina il passaggio da un<br />
mondo androcratico ad un mondo in cui le relazioni fondamentali tra la metà femminile e<br />
quella maschile diventeranno più equilibrate, per poter avere le basi che ci sono mancate<br />
finora: solide basi su cui costruire un mondo più giusto, più cooperativo ed egualitario, più<br />
pacifico ed ecologicamente sostenibile.<br />
Una mappa culturale cognitiva di dominazione può portarci all’estinzione. Un<br />
Guerriero interno evoluto è tuttavia necessario, innanzitutto per proteggere i confini. Senza<br />
Guerrieri coraggiosi, disciplinati e ben addestrati, il regno corre sempre il rischio di essere<br />
invaso dai barbari. Senza un forte Guerriero interiore, noi siamo senza difesa contro le pretese<br />
e le intrusioni degli altri. Al giorno d’oggi, in cui è evidente che non può continuare ad essere<br />
la guerra il modo di dirimere le controversie fra le nazioni, molti tendono a rifiutare a livello<br />
emotivo l’archetipo del Guerriero e la guerra in Iraq del 2003, che ha diviso l’opinione<br />
pubblica <strong>eu</strong>ropea e mondiale, costituisce un chiaro esempio di rifiuto di tal genere. Eppure, il<br />
problema non è costituito dall’archetipo del Guerriero, ma bensì dalla nostra necessità di<br />
227
elevarci ad un livello superiore dell’archetipo. Senza la capacità di difendere i confini,<br />
nessuna civiltà, nessun paese, nessuna organizzazione e nessun individuo è al sicuro e oggi<br />
l’Europa è particolarmente minacciata dalla dittatura di minoranze islamiche che si sono<br />
insediate anche nel territorio italiano con cellule terroristiche. Spetta ai Guerrieri altamente<br />
evoluti - le cui armi includono il dialogo e la capacità di negoziare, oltre a quella di<br />
organizzare il sostegno alla propria “causa” - tenere sotto controllo i Guerrieri primitivi e<br />
devastatori, che minacciano di distruggere la nostra cultura e la nostra civiltà.<br />
L’Europa ha bisogno di leader che puntino sull’unità, la fiducia e la voglia di<br />
contribuire al bene della comunità. Il coordinamento <strong>eu</strong>ropeo delle polizie e magistrature e di<br />
tutta l’attività di protezione dei cittadini va accompagnato da risposte di strategia politica di<br />
isolamento del fenomeno terroristico. Bisogna combattere il terrorismo senza riserve,<br />
prevenirlo nelle cause e non rinunciare mai alla democrazia, slittando verso il totalitarismo di<br />
fronte alla minaccia esterna e interna.<br />
Nel periodo storico in cui viviamo, possiamo forse ancora unire le nostre forze, per<br />
creare le istituzioni sociali capaci di sostenere, anziché impedire, l’uso della creatività umana<br />
per realizzare le nostre specifiche potenzialità in direzione della cooperazione pacifica.<br />
Gli studiosi e gli educatori sono chiamati a ripensare le nostre mappe culturali<br />
cognitive, soprattutto nell’apprendimento della storia, nell’approccio alla ricerca e<br />
all’insegnamento così frammentario e centrato sul maschile. Guardiamo invece alla storia<br />
umana nella sua interezza, comprendendo la socializzazione sessuale che tanto a lungo ha<br />
mantenuto un sistema che può portare in un vicolo cieco dell’evoluzione, a questo punto del<br />
nostro sviluppo tecnologico. Sviluppando nuove mappe cognitive improntate alla<br />
cooperazione tra la metà femminile e quella maschile dell’umanità, potremo aprire la strada<br />
non solo ad una migliore comprensione del nostro passato e del nostro presente, ma anche per<br />
elaborare scelte più consapevoli per il nostro futuro.<br />
Salvaguardare le nostre radici identitarie.<br />
La salvaguardia della nostra cultura e civiltà richiede anche una revisione delle mappe<br />
cognitive nell’esaminare la storia, per evitare che il rifiuto del cristianesimo abbracciato come<br />
“lente” personale o politica si traduca di fatto in una visione distorta degli eventi storici.<br />
Il “filtro deformante” o pregiudiziale attraverso il quale viene guardata o “visitata” la<br />
storia viene identificato da varie parti e occorrerebbe un vero rilancio della cultura rimasta<br />
soffocata sotto le pietre di alcune correnti politiche. Ecco cosa scrive il giornalista Antonio<br />
Socci al riguardo il 29 giugno 2004 su Il Giornale:<br />
228
Siamo così immersi in un conformistico pregiudizio anticattolico che ormai non ci facciamo<br />
più caso e si accetta il linciaggio morale della Chiesa anche quando si confondono le vittime con i<br />
carnefici. Tantomeno dunque sappiamo cogliere la manipolazione storica continua che si fa della<br />
storia della Chiesa. Ecco qua, direte voi, la solita geremiade del cattolico che lamenta un po’ di sana<br />
critica laica. Nient’affatto. La voce di autodifesa dei cattolici - in questo clima - è pressoché<br />
inesistente.<br />
Sono spesso degli studiosi laici che chiedono più rispetto per la storia e la verità dei fatti.<br />
Qualche giorno fa Massimo Firpo sul laicissimo Sole 24 ore firmava una serrata critica storica di due<br />
recenti film. Il primo è Luther, un’apologia del riformatore tedesco “finanziato dalle Chiese<br />
evangeliche”. Se il S. Uffizio avesse finanziato un film apologetico della Chiesa di Roma credo non<br />
avrebbe avuto neanche distribuzione. Non così per il film su Lutero, a proposito del quale Firpo<br />
osserva: “Ciò che lascia sconcertati è la vera e propria falsificazione dei fatti per presentare un Lutero<br />
immaginario, una specie di santino agiografico”, “un Lutero che appare sempre e comunque come una<br />
sorta di intrepido difensore della verità evangelica contro la corrotta Chiesa papale e le sue interessate<br />
superstizioni”.<br />
Laddove invece si dimenticano i contadini “trucidati a decine di migliaia... con la benedizione<br />
del dotto Martino, pronto a esortare i principi tedeschi a scagliarsi senza pietà ‘contro le bande<br />
brigantesche e assassine dei contadini’... Parole dure come pietre” commenta Firpo “che è<br />
semplicemente inaccettabile aver occultato”. Del resto Firpo ha da ridire anche sulla rappresentazione<br />
così idealistica degli Elettori tedeschi “mentre è noto che a schierarli a fianco di Lutero fu soprattutto<br />
la brama dei beni della Chiesa”.<br />
Il “pregiudizio anticattolico” a cui Socci si riferisce si riallaccia al fatto che il Corriere<br />
della Sera abbia affidato al comico Dario Fo il commento al Martirio di sant’Orsola, il<br />
capolavoro di Caravaggio esposto a Milano dal 2 luglio. Una volta su quel giornale era<br />
Giovanni Testori a firmare gli articoli sul genio di Merisi, oggi è Fo.<br />
“Ma non è comico il contenuto - osserva Socci -. Fo infatti approfitta dell’occasione<br />
per la solita requisitoria contro il Vaticano, quando il soggetto dell’opera del Caravaggio parla<br />
e drammaticamente del martirio cristiano. È qui rappresentata infatti la storia leggendaria del<br />
martirio di questa principessa di Britannia con le sue undicimila compagne, secondo il<br />
racconto di Jacopo da Varagine. Ma per Fo l’opera sarebbe una denuncia del potere, ‘di ogni<br />
potere’, a cominciare da quello dello ‘Stato Vaticano’. Il ribaltamento è dunque totale e<br />
clamoroso: anziché parlare del martirio dei cristiani, il Corriere ci canta la solita solfa delle<br />
229
presunte ‘turpitudini’ della Chiesa.<br />
Ancora una volta così viene censurato il tema del massacro dei cristiani attuale ai tempi di<br />
Caravaggio (basti ricordare la carneficina che i musulmani avevano fatto a Otranto) come è<br />
attualissimo oggi (lo ha documentato proprio nei giorni scorsi la presentazione del Rapporto<br />
sulla libertà religiosa dell’Aiuto alla Chiesa che soffre)”.<br />
anticattolico:<br />
Socci prosegue la sua analisi presentando altri “casi” di “filtro deformante”<br />
L’altro film analizzato da Firpo è Pontormo. Naturalmente “accade anche al povero<br />
Pontormo” di essere “presentato come l’ultimo genio di un autunno rinascimentale destinato a<br />
spegnersi fra gli algidi rigori di una Controriforma repressiva e fanatica, in un mondo che nulla riflette<br />
della realtà fiorentina di quegli anni, che non era affatto dominata da un truce inquisitore”.<br />
Firpo conclude con “una domanda che s’impone” e cioè “il perché di un continuo<br />
travisamento di uomini e cose”. Ebbene, il perché è abbastanza chiaro: il filo rosso che lega tutta<br />
questa produzione è l’anticattolicesimo.<br />
O almeno quell’“ovvio dei popoli” che è il pregiudizio anticattolico. Si potrebbero ricordare<br />
anche la tristezza espressa dall’Osservatore romano sulla recente fiction dedicata a Nerone, così come<br />
il premiato film Magdalene. O - per andare sulla narrativa - il best-seller di Dan Brown, Il Codice Da<br />
Vinci, che ha venduto milioni di copie scrivendo di tutto sulla Chiesa, ma che è stato letteralmente<br />
demolito, sul piano storico-filologico, da Massimo Introvigne in un saggio critico uscito su Cristianità.<br />
Il fenomeno che si verifica è stato descritto esaurientemente da un sociologo americano<br />
(peraltro non cattolico), Philip Jenkins in The New Anti-Catholicism. The Last Acceptable Prejudice<br />
(Oxford University Press) secondo il quale oggi si accetta normalmente che contro i cattolici e il<br />
cattolicesimo si dicano e si facciano cose che - nei confronti di qualunque altro gruppo religioso o<br />
etnico - sarebbero ritenute inaccettabili.<br />
Tutto questo mentre i cristiani in genere e i cattolici in particolare sono attualmente il gruppo<br />
umano più perseguitato del pianeta dai regimi illiberali. Regimi che peraltro hanno sempre usato e<br />
usano a piene mani per la loro propaganda i luoghi comuni e gli stereotipi anticattolici prodotti da<br />
qualche secolo di anticlericalismo.<br />
Ultimamente certe parti del mondo laico italiano (da giornalisti della stoffa di Oriana Fallaci a<br />
personalità come Marcello Pera) hanno ritrovato un grande interesse per la Chiesa e ciò che - di<br />
luminoso - ha rappresentato nella storia dell’Occidente. Sono arrivati perfino a spronare il mondo<br />
cattolico <strong>eu</strong>ropeo, che appare loro “timido, sconcertato, angosciato”, a ritrovare l’orgoglio. Bisogna<br />
però interrogarsi anche su una cultura laica che continua a fornire una rappresentazione del<br />
cattolicesimo così carica di stereotipi, falsificazioni e disprezzo. A chi conviene che la cultura<br />
occidentale seghi il ramo dove sta seduta tutta la nostra civiltà?<br />
230
I cristiani in genere e i cattolici in particolare vengono dunque colpiti da pregiudizi e<br />
persecuzioni sulla base di luoghi comuni e stereotipi prodotti da secoli di anticlericalismo,<br />
come se Cristo e il messaggio evangelico coincidessero con il clero cattolico e non avessero<br />
dato un’impronta luminosa alla nostra civiltà che valorizza la “persona” in quanto tale. Tutto<br />
ciò che di buono la Chiesa ha seminato attraverso le sue opere e lo stesso Vangelo vengono<br />
spazzati via dall’onda d’urto degli stereotipi più accesi. Ciò può derivare in parte dalla<br />
sovrapposizione tra cattolicesimo o cristianesimo e clericalismo, come se essere cristiani<br />
equivalesse ad appoggiare tutte le “tesi” del clero, e in parte dal rifiuto del messaggio<br />
evangelico, che resta comunque fondamentale nella nostra civiltà.<br />
In sintesi, la revisione della mappa culturale cognitiva anticattolica e anticristiana<br />
potrebbe portare un po’ di ordine nella confusione della Torre di Babele di una progettata<br />
Nazione dai venticinque idiomi. L’unico collante di tanto miscuglio, quello delle comuni<br />
radici cristiane, andrebbe difeso come intangibile. Questa mappa culturale cognitiva sgombra<br />
da pregiudizi anticristiani va pertanto ad aggiungersi all’esigenza di revisione del modello di<br />
dominazione a favore di un modello di cooperazione-collegialità e appare imperativa nella<br />
costituzione di un’Europa autenticamente integrata e non solo “aggregata” attraverso criteri di<br />
assembramento o annessionismo. La sfasatura si profila nell’ipotesi di un’“Europa a due<br />
velocità”, che è riapparsa nel vertice di Berlino del 17 e 18 febbraio 2004.<br />
Il modello di dominazione in Europa.<br />
L’emergere periodico del “direttorio a tre”, costituito da Chirac, Schröeder e Blair,<br />
tutte le volte che in Europa si presenta una crisi di unità nel perseguire obiettivi comuni,<br />
rappresenta un esempio e un segnale inquietante di incidenza e pervasività del modello di<br />
dominazione della nostra cultura. Il vertice di Berlino del 17 e 18 febbraio 2004 ha suscitato<br />
in proposito molte critiche da parte dei partner <strong>eu</strong>ropei esclusi dal vertice del “direttorio”. Il<br />
ministro degli Esteri Frattini richiama ad “un’Europa più unita, non multipista”. Il premier<br />
Berlusconi protesta: “Non possiamo accettare un direttorio a tre che ci escluda”. Ma il<br />
Cancelliere Schröeder ribatte: “Non vogliamo dominare nessuno. Discutiamo di economia,<br />
per ridarle vitalità e competitività”. Tuttavia, il problema del rilancio dell’economia in Europa<br />
non riguarda solo Francia, Germania e Gran Bretagna. Come mai gli altri partner <strong>eu</strong>ropei non<br />
sono stati invitati al vertice, data la rilevanza del tema per tutta l’Europa? Come mai si è<br />
costituito un gruppo privilegiato di potere, per rilanciare la crescita <strong>eu</strong>ropea?<br />
231
La cultura competitiva, dualistica e gerarchica, che ha generato tanti disastri in<br />
Europa con la costituzione di imperi che hanno favorito alcune nazioni, schiacciandone altre<br />
sotto il peso di una feroce oppressione, si ripresenta “sotto mentite spoglie” e va gestita con<br />
scrupolosa attenzione, per evitare ulteriori scompensi e pericolosi segnali di decadenza della<br />
compagine <strong>eu</strong>ropea faticosamente costruita.<br />
Bisognerà attendere per sapere se la montagna ha prodotto il topolino oppure se<br />
effettivamente il terzetto anglo-franco-tedesco, autopromossosi al rango di direttorio<br />
dell’Europa, è riuscito a dare nuovi impulsi all’unione dei quindici che diventeranno<br />
venticinque. Per il momento una cosa è certa: ciò che è avvenuto il 18 febbraio 2004 al vertice<br />
di Berlino assomiglia molto ad un’esibizione dei muscoli. Blair, Chirac e Schröeder sono<br />
intervenuti accompagnati da uno stuolo di ministri (cinque per parte), di sottosegretari, di<br />
consiglieri, oltre a un nutrito numero di imprenditori e di esperti in questioni<br />
socioeconomiche. E, nelle dichiarazioni alla stampa, hanno fatto poco per smorzare i timori<br />
espressi dalla maggioranza dei partner <strong>eu</strong>ropei davanti alla prospettiva di un triumvirato che<br />
dividerebbe l’Unione in due categorie, quelli che indicano la strada e quelli che devono<br />
adeguarsi. Come a dire: avanti da soli, noi che siamo Grandi, gli altri seguano.<br />
Per Chirac il vertice è “perfettamente normale” dal momento che Gran Bretagna,<br />
Francia e Germania raggiungono insieme un PIL superiore al 50% di quello complessivo<br />
prodotto dai venticinque. Come dire: poiché siamo i più forti economicamente, è<br />
“perfettamente normale” che dobbiamo essere noi ad indicare la rotta della navicella <strong>eu</strong>ropea.<br />
Blair senza mezzi termini ha detto di “non sentirsi in dovere di scusarsi in alcun modo”.<br />
Schröeder è stato più diplomatico, non ha parlato di forza economica, ma indirettamente ha<br />
confermato l’aspirazione al direttorio. “Non vogliamo dominare l’Europa - ha detto - però nel<br />
precedente vertice a tre (in settembre) siamo riusciti a riavvicinare le nostre posizioni sull’Iraq<br />
e a fare passi avanti sul problema della difesa comune <strong>eu</strong>ropea. Vogliamo proseguire su<br />
questa strada”.<br />
La strada è di arrivare al successivo Consiglio <strong>eu</strong>ropeo, a fine marzo 2004, con una<br />
posizione unitaria su quello che Schröeder, promotore dell’iniziativa, ha definito un problema<br />
urgente e prioritario: il varo di una politica comunitaria per rilanciare la crescita e la<br />
competitività del nostro continente, premessa fondamentale per risolvere una serie di altri<br />
problemi che riguardano tutti i paesi dell’Unione, quali la lotta alla disoccupazione e la<br />
sostenibilità dei sistemi di previdenza sociale, sanità e pensioni. Uno dei tasti sui quali hanno<br />
insistito sia Blair che Chirac e Schröeder è quello dell’innovazione scientifica e tecnologica.<br />
Un settore sul quale il nostro continente registra un ritardo allarmante rispetto alle altre due<br />
232
grandi aree economiche del pianeta, America e Giappone, causa principale del declino<br />
economico dell’Europa. Un declino che colpisce in modo particolare proprio i tre Paesi<br />
aspiranti al direttorio: secondo una graduatoria sulla competitività dei paesi industrializzati, la<br />
Francia è al ventiseiesimo posto, la Germania al tredicesimo e la Gran Bretagna è scivolata al<br />
quindicesimo. Per recuperare, secondo i tre leader, gli sforzi isolati non bastano più; è<br />
necessaria una politica <strong>eu</strong>ropea di grandi investimenti nel settore dell’innovazione a tutti i<br />
livelli.<br />
È probabile che durante gli incontri a porte chiuse, lontano da microfoni e riflettori, i<br />
tre abbiano messo a punto alcune misure concrete per restituire all’economia <strong>eu</strong>ropea la<br />
capacità di rispondere alle sfide della globalizzazione. Ed è probabile che queste misure per il<br />
momento non siano state divulgate per non dare l’impressione di mettere gli altri partner<br />
davanti al fatto compiuto. Nella lettera congiunta diretta al presidente di turno del Consiglio<br />
Europeo, si auspica la modernizzazione del modello sociale <strong>eu</strong>ropeo nell’innovazione<br />
imprenditoriale e nell’educazione. Tuttavia, se ci si deve attenere ai comunicati e alle<br />
dichiarazioni durante la conferenza stampa conclusiva, l’impressione che prevale è che il<br />
vertice non sia andato al di là di una elencazione degli obiettivi prioritari da seguire. Un po’<br />
poco per parlare di nuovi impulsi. Di qui il sospetto che alla fine la montagna abbia prodotto<br />
il topolino. Però un mutamento è emerso chiaramente con il vertice triangolare di Berlino. Il<br />
tandem franco-tedesco sembra avere il fiato grosso e con l’arrivo di Blair si è trasformato in<br />
un triciclo, considerato un mezzo più adatto per l’Europa a venticinque.<br />
Il modello di dominazione si è consolidato con il nuovo arrivo? Il “sistema a tre” ha<br />
dato nuovo lustro a vecchie logiche di potere, i cui effetti sono tristemente noti?<br />
Più che masticare amaro, a Roma non si nascondono preoccupazioni per il “direttorio”<br />
a tre nato di fatto il 18 febbraio 2004 a Berlino. “Ciò di cui abbiamo bisogno è di un’Europa<br />
più unita - ha scritto Frattini lo stesso giorno sul Financial Times - mentre i vertici ristretti<br />
comportano il rischio non solo di causare frammentazioni, ma di rinnovare le divisioni interne<br />
alla UE”. In serata, infatti, ha insistito: “Non accetteremo intese al ribasso”, perché l’Italia<br />
vuole un’Europa che “cresca con l’aiuto di tutti” e in cui “le regole vengano scritte insieme,<br />
con l’accordo di tutti”.<br />
Il titolare della Farnesina - che vola a Varsavia e Budapest dove non mancherà di<br />
valutare coi suoi interlocutori polacco e ungherese il risultato del vertice tra Schröeder, Blair e<br />
Chirac - ha ricevuto il 18 febbraio una telefonata del collega britannico Straw che ha negato<br />
ancora una volta che ci sia una velleità di guida ristretta dell’Europa. Ma il sospetto resta<br />
forte. Tanto che Buttiglione non ha frenato la lingua ed alla BBC ha fatto sapere che se pure<br />
233
“chiunque è libero di incontrare chiunque, bisogna si faccia attenzione. Nessuno in Europa -<br />
ha chiarito il ministro per i rapporti con l’Unione - è disponibile ad essere un cittadino di<br />
seconda classe! Tanto più - ha proseguito - perché l’Italia è un Paese grande come il Regno<br />
Unito o la Francia”.<br />
Più flemmatico, il ministro della Difesa Antonio Martino che in risposta a chiarimenti<br />
sollecitatigli in Senato il 18 febbraio 2004 (nel corso dei quali ha confermato la disponibilità<br />
italiana ad integrare una forza di difesa <strong>eu</strong>ropea per missioni umanitarie specie in Africa), ha<br />
convenuto che “a Berlino sarebbe stato meglio esserci” ma che l’assenza dell’Italia dalla<br />
riunione dei grandi non deve neanche preoccupare. “Io credo - ha detto - che l’Italia debba<br />
saper essere presente quando necessario, ma non debba porsi il presenzialismo come obiettivo<br />
fondamentale”. Allarmato infine anche il leader dell’UDEUR, Clemente mastella, il quale ha<br />
indirizzato una nota a Romano Prodi facendo presente come il vertice trilaterale possa<br />
danneggiare il già faticoso cammino d’integrazione <strong>eu</strong>ropea. Da notare infine come a Londra<br />
uno dei responsabili di un’importante think-tank sull’Europa abbia rivelato che l’Italia sia<br />
stata tenuta ai margini per l’atteggiamento di apertura tenuto da Berlusconi nei confronti della<br />
Russia di Putin: Londra, Berlino e Parigi non avrebbero gradito.<br />
Ma c’è da chiedersi: è possibile che una iniziativa poco gradita basata su un<br />
atteggiamento di apertura verso un Paese possa compromettere le alleanze e lo spirito di<br />
collegialità? Se così fosse, questo sarebbe un segnale preoccupante di fragilità del “sistema<br />
Europa”, che richiederebbe un piano di “ristrutturazione”. E meno male che i “signori<br />
dell’Europa” hanno pensato anche a sbloccare la costituzione “accettando proposte<br />
dall’Europa”. Altrimenti, si è indotti a pensare che siano sufficienti loro a pensare per tutta<br />
l’Europa e “al posto dell’Europa”. Questa prospettiva tipica di una cultura maschile<br />
patriarcale ci rinvia a riflessioni di ordine socio-culturale di portata più vasta.<br />
Il giorno precedente Berlusconi aveva definito “un pasticcio” la riunione a tre di<br />
Berlino, in attesa di conoscerne i risultati. E il 19 febbraio, proprio alla luce di questi risultati,<br />
Berlusconi, in trasferta ad Atene per un vertice del PPE, ha espresso tutta la sua contrarietà<br />
all’idea di un Direttorio <strong>eu</strong>ropeo, sottolineando l’esigenza della coesione tra i 25 partner della<br />
UE. E ha colto l’occasione per annunciare il suo “no” pregiudiziale a qualsiasi decisione del<br />
trio Blair-Chirac-Schröeder che investa gli altri 22 Paesi membri.<br />
Secondo quanto viene riferito dal quotidiano “Il Giornale” del 20 febbraio 2004,il<br />
premier, parlando ai giornalisti italiani che l’avevano seguito nella capitale greca, ha ricordato<br />
che esiste un sistema di voto all’unanimità e uno a maggioranza “con il criterio dei voti<br />
assegnati a Nizza a ciascun Paese”. E siccome è “fuori dalla filosofia di un’Europa che si sta<br />
234
allargando a 25 un’attività che abbia poco a che fare con una gestione a 25”, la riunione a tre<br />
di Berlino secondo Berlusconi “non ha portato a nulla se non a definire i rapporti tra Stati, il<br />
che è perfettamente legittimo”. Ma è stata tutto sommato priva d’importanza, “dal momento<br />
che, a quanto si è saputo, hanno discusso soprattutto di problemi interni e tra di loro non si<br />
sono trovati d’accordo su molti punti, basta leggere i giornali inglesi per avere la foto di ciò<br />
che è successo”.<br />
Se invece da riunioni del genere verranno decisioni o proposte nei confronti di tutti gli<br />
altri Paesi membri, sottolinea Berlusconi, l’asse anglo-franco-tedesco sappia “che la risposta<br />
sarà sempre pregiudizialmente di no”. Quanto sopra vale anche per l’ipotesi di istituire un<br />
supercommissario all’Economia; il semplice fatto che a proporlo sia stato il Direttorio “credo<br />
che ne renderà difficile l’approvazione, soprattutto da parte dei Paesi piccoli”.<br />
Gli stessi Paesi, questi ultimi, subirebbero per primi le conseguenze di una riduzione<br />
dei contributi alla UE dei Paesi membri. Vanno quindi mantenuti invariati, secondo il<br />
Cavaliere, questi contributi, nonostante la precaria situazione dell’economia <strong>eu</strong>ropea e del<br />
bilancio dei singoli Paesi “nel momento in cui con tanta speranza e tanto entusiasmo i nuovi<br />
Paesi membri si accingono a diventare parte della grande Europa”. L’occasione è servita poi a<br />
Berlusconi per ricordare che, dopo la Germania, il nostro Paese è il secondo contributore<br />
<strong>eu</strong>ropeo ex equo con l’Inghilterra.<br />
Il giudizio del nostro presidente del Consiglio sul vertice a tre di Berlino è condiviso<br />
in molti Paesi. “Ogni ambizione di triumvirato - ha dichiarato Matthias Wissman, presidente<br />
della Commissione Europa al Bundestag - è compromessa a priori, con a bordo due peccatori<br />
estremi di bilancio”. Han-Gert Pottering, capogruppo del PPE all’Europarlamento, si è detto<br />
contrario al supercommissario all’Economia rilevando come “non si risolvono i problemi<br />
economici con una nuova carica nella Commissione UE”. Sempre in Germania critiche al<br />
vertice a tre sono venute dai liberali, per i quali “si è formato un cartello di politici industriali<br />
che punta a una politica economica dirigistica e intervenzionistica”.<br />
Su questa figura di supercommissario all’Economia frenano anche Spagna e Austria.<br />
“Quando questa iniziativa verrà messa sul tavolo - ha detto Ana de Palacio, ministro degli<br />
Esteri spagnolo - chiederemo spiegazioni sugli eventuali benefici che porterebbe all’Europa”.<br />
E la sua omologa austriaca Benita Ferrero Waldner ha espresso il suo disaccordo “se questa<br />
proposta deve servire ad impedire una Commissione più grande”. La Commissione Europea,<br />
per bocca di un portavoce, manifesta perplessità sulle idee di Chirac, Blair e Schröeder<br />
considerandole fumose, non essendo chiaro quali poteri i tre intendano conferire a un<br />
supercommissario per le politiche economiche, né cosa si intenda esattamente per riforme<br />
235
economiche.<br />
Sull’argomento è intervenuto il 19 febbraio 2004 il presidente della Commissione<br />
<strong>eu</strong>ropea, Romano Prodi. “Il dibattito sulla stampa di questi giorni si concentra sulle risorse e<br />
su quanto accaduto tra Inghilterra, Francia e Germania a Berlino: è quasi un diktat la lettera<br />
che hanno elaborato e che chiede che il bilancio non ecceda l’1% del PIL <strong>eu</strong>ropeo nemmeno<br />
fino al 2013. Ma la Commissione ha fatto richieste ben superiori”, ha detto Prodi.<br />
Una sorta di asse Berlino, Londra, Parigi, nata nella capitale tedesca il 20 settembre<br />
2003, consolidata sempre a Berlino il 18 febbraio 2004, è “benedetta” nell’incontro<br />
annunciato tra i tre leader dal cancelliere Schröeder in persona che il 26 marzo 2004 ha anche<br />
specificato: “Discuteremo di giustizia, affari interni e diritto”. Un portavoce della cancelleria<br />
ha spiegato che i tre leader avevano già convenuto sull’utilità di tali incontri nell’ultima<br />
riunione a Berlino e dichiarato di volerne altri.<br />
Nelle stesse ore Berlusconi precisava: “Noi non abbiamo alcun complesso di<br />
inferiorità, siamo tra i quattro grandi Paesi che decidono”, smentendo una presunta posizione<br />
di subordinazione nei confronti dei tre partner <strong>eu</strong>ropei. Ma a demolire la notizia di un<br />
“direttorio” Schröeder, Blair-Chirac, ci ha pensato proprio lo stesso Tony Blair che il 27<br />
marzo 2004 mattina ha preso il telefono e chiamato il presidente del Consiglio Italiano. “Un<br />
lungo e cordiale colloquio - ha informato una nota di Palazzo Chigi - nel quale il premier<br />
inglese ha avuto occasione di confermare che non è prevista alcuna riunione tra Gran<br />
Bretagna, Germania e Francia, come invece annunciavano alcuni importanti quotidiani”.<br />
Ciò che è certo, è che Londra ha concordato un summit con Berlusconi. E<br />
probabilmente sarà quella l’occasione in cui Tony Blair si metterà d’accordo col collega<br />
italiano per chiudere al più presto la partita sulla nuova Costituzione UE, che è al centro<br />
dell’attenzione nelle questioni riguardanti l’Unione Europea. Una Europa forte nelle sue<br />
istituzioni politiche, e non solo economicamente, potrà reggere i contraccolpi negli equilibri<br />
internazionali senza barcamenarsi, come sta facendo, tra “direttori” e summit separati,<br />
espedienti tattici per smuovere le acque stagnanti e avviare un processo che porti ad un<br />
risultato soddisfacente per tutti i 25 membri, senza scontentare nessuno.<br />
Una risposta alle sfide della globalizzazione.<br />
La teoria della trasformazione culturale ipotizza che un mutamento da una direzione di<br />
maggiore parità nella collaborazione tra uomini e donne ad una androcratica o patriarcale<br />
abbia alterato radicalmente il corso della civiltà occidentale durante un periodo caotico di<br />
disequilibrio dei sistemi nella nostra preistoria. Ipotizza inoltre che, nel nostro tempo di<br />
236
crescente disequilibrio di sistemi, si verifichi una forte spinta verso un altro mutamento<br />
fondamentale, questa volta dall’androcrazia ad un rapporto paritetico tra uomo e donna, anche<br />
se riemerge in una sorta di coazione a ripetere, la tendenza a gerarchizzare e a subordinare, a<br />
definire un superiore e un inferiore, ciò che deve prevalere e ciò che deve essere sottoposto.<br />
Le relazioni tra maschile e femminile come modello relazionale rappresentano un evidente<br />
prototipo in cui l’ossessione della gerarchizzazione e della subordinazione ha dissolto molte<br />
possibilità creative presenti nella tensione coevolutiva fra polarità distinte e non opposte.<br />
Il mondo contemporaneo pone molteplici sfide, affascinanti, drammatiche, in ogni<br />
caso ineludibili: la sfida della convivenza, la sfida dell’innovazione, la sfida dell’educazione,<br />
la sfida della qualità, la sfida dell’interdipendenza globale, la sfida della complessità, la sfida<br />
tecnologica, la sfida ecologica ecc.<br />
Tutte queste sfide impongono di formulare e di affrontare nuovi tipi di problemi.<br />
Esigono di capire quali presupposti, pregiudizi, specialismi, barriere comunicative siano oggi<br />
di ostacolo alla concezione e alla progettazione di nuove forme di convivenza e di<br />
cooperazione tra saperi e culture. Impongono prospettive originali e innovative, che nelle crisi<br />
presenti ci consentono di rinvenire anche opportunità impreviste.<br />
Una notizia divulgata dal TG2 serale il 17 aprile 2004 fa riflettere. A Londra, i giovani<br />
musulmani britannici usano le biblioteche pubbliche per collegarsi on line e imparare le<br />
tecniche del terrorismo.<br />
Il modello interculturale di società vigente in Gran Bretagna sta subendo uno<br />
scossone, in quanto sono stati proprio gli islamici con passaporto britannico ad architettare un<br />
catastrofico attentato che per fortuna è stato sventato.<br />
A grandi linee, nel giro di due-tre anni sono precipitate cinque drammatiche crisi, che<br />
hanno avuto un enorme peso sull’economia mondiale, e in particolare <strong>eu</strong>ropea e italiana.<br />
1. L’11 settembre 2001, seguito da due guerre in due anni, ha generato instabilità e rottura<br />
degli equilibri.<br />
2. L’entrata di Cina e India nel T.W.O. (Organizzazione Mondiale del Commercio) ha segnato<br />
l’avvento di una competizione senza regole. Occorreva più tempo per aprire il mercato a Cina<br />
e India che non hanno regole e competono in maniera insostenibile, immettendo nel mercato a<br />
prezzi stracciati prodotti copiati da quelli occidentali. Il settore dell’abbigliamento è in forte<br />
crisi anche nel Nord-Est d’Italia per questi motivi.<br />
3. Il crollo della Borsa negli USA brucia una ricchezza pari a quella persa nel 1929.<br />
4. il cambio della lira in <strong>eu</strong>ro ha fatto perdere agli italiani il valore dell’<strong>eu</strong>ro, in quanto hanno<br />
equiparato la moneta metallica a spiccioli, mentre un <strong>eu</strong>ro equivale a due biglietti da 1.000<br />
237
delle vecchie lire.<br />
5. La crisi Cirio, Parmalat, Fiat ha determinato la sfiducia degli investitori.<br />
Se aggiungiamo che l’Italia è il Paese che ha il terzo debito pubblico del mondo, il<br />
quadro è pressoché completo. Il fatto di mantenere il deficit al 2,4% contro il 4% di Germania<br />
e Francia, anche se la crescita è minima, ci dà l’idea che, in una simile situazione, è stato fatto<br />
quello che si poteva fare per arginare i “mali”.<br />
La dimensione catastrofica degli attentati in Spagna dell’11 marzo 2004 ha condotto<br />
inizialmente il governo spagnolo ad un’ipotesi di responsabilità dell’ETA o di alleanza tra<br />
ETA e Al Qaida. Gli attentati simultanei e ben pianificati che hanno fatto esplodere quasi<br />
contemporaneamente le bombe su tre treni fa pensare alla ricerca del massacro spettacolare<br />
iniziato con l’11 settembre negli USA: 200 morti e 1.400 feriti, tutti pendolari, donne,<br />
bambini, lavoratori, studenti, ci riporta all’insicurezza come una delle dimensioni della<br />
globalizzazione: non c’è luogo al mondo che sia al sicuro. La struttura “specialistica”<br />
dell’attentato rimanda a connivenze e coperture al di fuori del territorio basco, a Madrid e<br />
dintorni, forse nella comunità islamica assai numerosa in Spagna.<br />
L’odio contro l’Europa, a cui si riferiscono parlando di “Europa crociata”, ci fa<br />
riflettere sulla necessità di trovare una linea direttiva unitaria contro il terrorismo.<br />
Gandhi diceva che occorre difendersi dalla violenza senza violenza. Ma la cosa<br />
peggiore è non difendersi. L’ETA ha iniziato gli attentati il 31 luglio 1959. Non è mai stata un<br />
movimento di massa e ha avuto l’appoggio del 10% della popolazione.<br />
Il movimento separatista basco, che con il governo Aznar ha ottenuto ampia<br />
autonomia, era ridotto ai minimi termini, ma aveva annunciato un colpo di coda,<br />
probabilmente per lanciare il messaggio: “Dovete negoziare”. L’ETA ha sempre avuto<br />
rapporti con estremisti e gruppi terroristici dell’Africa del Nord e Medio Oriente.<br />
Bin Laden fonda il suo movimento nel 1981 per i mujaydin, combattenti di 32 paesi<br />
del mondo. Due anni dopo istituisce centri di addestramento in sei paesi del mondo. Al Qaida<br />
ha predisposto un terreno fertile dove ci sono i gruppi che agiscono in modo autonomo. Al<br />
Qaida è un marchio che fornisce le motivazioni e la mente e le cellule locali fanno gli<br />
attentati. Nel braccio di ferro tra governo centrale ed ETA può subentrare Al Qaida, in quanto<br />
il nemico dell’ETA diventa anche il nemico di Al Qaida, in un intreccio di alleanze.<br />
Il giorno dopo l’attentato il governo spagnolo procede all’arresto di cinque islamici,<br />
tre marocchini e due indiani e in seguito conferma la provata matrice islamica. In una<br />
videocassetta Al Qaida rivendica la responsabilità di quanto è accaduto, definendosi<br />
portavoce militare di Bin Laden. La Spagna è un bersaglio preferenziale in Europa, come altri<br />
238
Paesi <strong>eu</strong>ropei, e paga il suo appoggio agli USA nella guerra all’Iraq. La messa in atto<br />
dell’attentato alla vigilia delle elezioni politiche in Spagna, a distanza di due anni e mezzo<br />
dall’11 settembre 2001, può aver determinato il risultato elettorale, con un calo del Partito<br />
popolare di Aznar e la vittoria dei socialisti. Sembra che Al Qaida voglia rovesciare i governi<br />
considerati apostati dei Paesi arabi. Porta il terrorismo nei Paesi arabi ritenuti nemici e<br />
influenza direttamente i processi elettorali, cambiando i governi. Al Qaida ha cambiato volto<br />
rispetto all’11 settembre: è meno centralizzata, ma più flessibile, con più leader al vertice<br />
ansiosi di scatenare una Guerra Santa nel nome di un Islam in cui credono. Bin Laden è ormai<br />
troppo occupato a sopravvivere per esporsi e può essere sostituito da altri abili registi, come<br />
l’algerino che sembra aver architettato la strage di Madrid, o Al Zaroavi, terrorista giordano<br />
legato ad Al Qaida.<br />
La vittoria di Zapatero, capo del partito socialista, è strettamente intrecciata con la<br />
vittoria dell’opposizione alla guerra in Iraq. Le prime dichiarazioni di Zapatero dopo la<br />
vittoria elettorale prevedono il ritiro dei 1.300 soldati di Madrid dall’Iraq se entro giugno non<br />
interviene l’ONU. “La dura lotta al terrorismo non deve essere guerra unilaterale”, sostiene il<br />
nuovo premier, che sottolinea: “Sarò presidente di tutti. Il mio stile sarà il dialogo. Io tendo la<br />
mano al leader dell’opposizione” per esprimere l’unità del Paese nella lotta al terrorismo.<br />
Questo fenomeno in effetti colpisce più facilmente i Paesi che si dividono.<br />
Sappiamo che Al Qaida è una holding, ma non sappiamo chi sono gli azionisti.<br />
Dovremmo cercare di colpire questi azionisti. Se in Spagna e in Europa ci sono cellule<br />
operative, chi le finanzia? Come si nascondono? La lotta al terrorismo si conduce innanzitutto<br />
come lotta alla criminalità, per non moltiplicare i nostri nemici colpendo dei civili, il che<br />
inocula un sentimento di rivendicazione (retaliation) con il desiderio di far provare<br />
all’Occidente ciò che si vive in guerra, con la morte di civili innocenti. Non dobbiamo<br />
dimenticare che in Afghanistan sono morti 10.000 civili e in Iraq 6.000.<br />
È pur vero, tuttavia, che la guerra ha estirpato una dittatura sanguinaria e complice del<br />
terrorismo in Afghanistan e in Iraq. Ma ha anche fomentato il terrorismo, pur riconoscendo<br />
che è difficile stabilire quanti 11 settembre ci sarebbero stati se il terrorismo non fosse stato<br />
estirpato alla radice nei campi di addestramento afghani. Gli otto pachistani, 6 di età compresa<br />
tra i 17 e 32 anni, arrestati in Gran Bretagna il 30 marzo 2004 in relazione al sequestro di<br />
mezza tonnellata di nitrato d’ammonio usato per preparare bombe, avevano un passaporto<br />
britannico. La notizia ha precipitato gli inglesi nell’angoscia, percependo che il nemico, in<br />
una società multietnica, si trova nel cortile di casa.<br />
Gli obiettivi a basso livello di sorveglianza come pub e cinema potrebbero essere nel<br />
239
mirino dei terroristi.<br />
La conquista dell’Europa<br />
I terroristi hanno lanciato un messaggio di conquista dell’Europa, a cominciare da una<br />
delle loro prime conquiste alcuni secoli fa, l’Andalusia, che ora rivendicano come califfato di<br />
loro appartenenza. Fra poco toccherà a Roma, antica aspirazione del mondo islamico, da<br />
trasformare in capitale araba. Il tentativo di acquisto da parte degli arabi di un antico palazzo<br />
situato accanto al Vaticano - che poi è stato comprato dal Vaticano stesso - fa parte di questa<br />
strategia di islamizzazione.<br />
La sfida culturale lanciata da Adel Smith, prima rimuovendo il Crocifisso dall’aula in<br />
cui vanno a scuola i suoi figli e poi scaraventandolo dalla finestra di un ospedale, rientra di<br />
nuovo nella strategia di umiliazione e denigrazione culturale dei simboli occidentali per<br />
riaffermare una presunta superiorità del mondo islamico.<br />
In breve, come al tempo di Hitler si era verificato il processo di germanizzazione del<br />
mondo conquistato, nel nazislamismo si sta attuando una politica di islamizzazione dei<br />
territori in cui gli islamici si sono insediati. La politica “latente” e moderata che ora<br />
propongono svelerà il suo vero volto non appena acquisteranno forza e potere sul territorio<br />
nazionale e internazionale. Quando ci accorgeremo della vera funzione delle strategie di<br />
Concordato con lo Stato italiano, sarà tardi per tornare indietro.<br />
Il 15 aprile 2004 Bin Laden tenta di dividere l’Europa dagli USA attraverso<br />
un’apparizione televisiva sulla televisione araba. L’intento di frammentare il fronte<br />
occidentale contro il terrorismo, invitando gli <strong>eu</strong>ropei a lasciare l’Iraq sotto la pressione delle<br />
minacce di uccidere gli ostaggi italiani, appare come una conferma della necessità di<br />
rinsaldare l’alleanza con gli USA nella lotta contro il terrorismo, sollecitando al tempo stesso<br />
una nuova risoluzione delle Nazioni Unite sull’Iraq, in quanto una presenza internazionale<br />
legittimata può stemperare lo spessore politico del nazionalismo iracheno nell’avviare la<br />
modernizzazione o democratizzazione del Paese.<br />
Gli attacchi terroristici all’ONU presente in Iraq fanno parte della stessa strategia, che<br />
intende allontanare tutti gli alleati degli USA, a cominciare dalla Spagna, Italia e Gran<br />
Bretagna, in modo da lasciare gli USA da soli a combattere il terrorismo sul campo iracheno e<br />
internazionale. La strategia di isolare gli USA, per infliggere il massimo di perdite umane e<br />
indurli ad andarsene sotto la spinta del fantasma di un Nuovo Vietnam, è abilmente<br />
orchestrata da Bin Laden con la promessa di una tregua, se l’Iraq verrà evacuato subito.<br />
La volontà di potenza di Bin Laden troverebbe così un supporto strategico, con la<br />
240
finalità di impadronirsi dell’Arabia Saudita, in cui regna il fondamentalismo, per la sua<br />
preziosità in quanto “terra sacra” all’Islam contenente enormi ricchezze petrolifere.<br />
Gli attentati di Madrid dell’11 marzo, attuati da marocchini, si collocano nella stessa<br />
strategia di conquista: la rivendicazione dell’Andalusia come califfato musulmano.<br />
I nostri politici che sollecitano il ritiro delle truppe italiane, nella speranza che in<br />
questo modo i terroristi “faranno i buoni”, si lasciano sfuggire il “particolare” che l’11<br />
settembre 2001 è avvenuta una dichiarazione di guerra con l’attentato alle Torri Gemelle.<br />
Questa guerra è stata preparata prima e dichiarata solo l’11 settembre: fa parte di un piano di<br />
conquista aggressiva che utilizza il terrorismo al posto degli eserciti di un tempo.<br />
Gli USA hanno predisposto una strategia di difesa che, anche se non “corretta” sotto il<br />
profilo cognitivo-linguistico, designando l’“asse del male” e predisponendo una manovra<br />
unilaterale, è tuttavia pertinente nel considerare la gravità della situazione. L’Europa è terreno<br />
di conquista da parte di un Islam sempre più aggressivo che ha basi logistiche disseminate<br />
ovunque sul suo territorio. Se si rompesse l’alleanza con gli USA attraverso il miraggio di una<br />
tregua, questo Islam diventerebbe ancora più potente, perché la “vittoria” conseguita nello<br />
spezzare le alleanze rinsalderebbe la sua forza penetrativa e feroce.<br />
L’integrazione dell’ONU nell’intervento in Iraq è altamente auspicabile come forza di<br />
urto multilaterale, che non lascia gli USA isolati in questo difficile momento, in cui tutti gli<br />
stranieri vengono considerati come “forza occupante”, compresi gli italiani in missione di<br />
pace, che non hanno partecipato alla guerra.<br />
I problemi rimasti aperti<br />
Ora il seme politico culturale di trasformazione piantato in Afghanistan e in Iraq va<br />
coltivato, perché il problema che si profila ora è del tipo: cosa si lascia in Iraq, democrazia<br />
araba o dittatura sanguinaria?<br />
L’unità rappresenta la condizione per isolare e abbattere il terrorismo con diversi<br />
livelli di strategia e di azione: dialogo culturale, interreligioso, politico, impegno per lo<br />
sviluppo economico dei Paesi sottosviluppati, in quanto i ricchi organizzatori degli attentati<br />
trovano una facile manovalanza tra i diseredati.<br />
Su scala globale ci sono molte aree, molti problemi aperti, per esempio il conflitto tra<br />
arabi e israeliani o l’incomprensione tra l’Occidente e l’Islam, dove è molto importante avere<br />
degli strumenti che permettano di trovare nuove interpretazioni, in modo che la gente possa<br />
avere la possibilità di arrivare ad una comprensione del senso della natura del conflitto.<br />
Su scala mondiale c’è carenza di vera leadership e leader di vari paesi sono molto più<br />
241
espressione di quanto sono capaci di gestire la propria immagine attraverso i media che non di<br />
un apporto sostanziale alla soluzione dei problemi del mondo. Dando un contributo alla<br />
formazione di una vera leadership, si può spianare realisticamente la strada alla soluzione<br />
effettiva dei problemi. La completezza e la profondità non sono istantanee. Mettendo<br />
l’accento sulla qualità, da questo deriva che occorre una certa quantità di tempo per arrivare a<br />
quegli elementi e a quei modi di essere che sono veramente essenziali per noi e ci permettono<br />
di collocarci, in rapporto al progetto, in una maniera in cui ci troviamo più a nostro agio e che<br />
è per noi più congruente.<br />
Istituzioni comuni e regole comuni costituiscono la risposta più efficace e<br />
lungimirante al terrorismo. Uno stretto coordinamento <strong>eu</strong>ropeo nella lotta al terrorismo viene<br />
potenziato dalla Carta costituzionale. Una Europa unita, libera dall’odio e dalle ideologie e<br />
affratellata da valori comuni è una potenza contro cui il fondamentalismo islamico si sfalderà.<br />
Se l’Europa rispondesse con l’odio e l’intolleranza razzista, cadrebbe nella deriva islamica<br />
riproponendo quella stessa cultura nazista che si è imposta per dodici anni in Germania e in<br />
Europa nelle varie sfaccettature del fascismo. Questa cultura nazista è in realtà sopravvissuta<br />
ben oltre la fine della seconda guerra mondiale, riproponendo i suoi tentacoli in Italia sotto<br />
forma di organizzazioni come Ordine nuovo, e in altri stati <strong>eu</strong>ropei sotto rinnovate spoglie.<br />
Rispondere ad una cultura nazista fondamentalista e intollerante con una nuova cultura nazista<br />
estremista e intollerante significherebbe non solo mettersi sul terreno di guerra dello scontro<br />
tra culture e civiltà, ma soprattutto alimentare la legittimazione alla lotta, in quanto l’odio<br />
genera odio. Una volta che si crea il Drago da uccidere, lo stesso Drago si sente legittimato ad<br />
uccidere. E il Drago ha molte teste. Per analogia, nel 1987 lo sceicco Yassin fonda Hamas con<br />
l’obiettivo di distruggere lo stato di Israele. Il leader spirituale, carismatico dell’estremismo<br />
islamico è stato ucciso il 22 marzo 2004: tre razzi hanno colpito l’auto su cui viaggiava,<br />
uccidendo anche sette guardie del corpo. Duecentomila persone hanno sfilato al funerale di<br />
Yassin. Il governo israeliano intendeva indebolire Hamas, decapitandola, in vista del ritiro dei<br />
coloni di Gaza, in modo che i terroristi non potessero cantar vittoria. Yassin, presumibilmente<br />
implicato nel terrorismo, è più autorevole dell’Autorità palestinese, accusata di corruzione e,<br />
come un Drago che si rispetti, ha già un’altra testa che rispunta: è il suo successore. E Bin<br />
Laden ha già altre teste in Europa: i registi dell’attentato di Madrid dell’11 marzo ne sono una<br />
prova.<br />
Tuttavia, sappiamo che il Drago Bin Laden è una creatura del governo americano:<br />
riceveva finanziamenti dal Pakistan, a sua volta finanziato dalla CIA. Si è rivoltato nelle mani<br />
dei suoi finanziatori, sfuggendo alla logica della sudditanza che esprime gratitudine ai<br />
242
foraggiatori. Il punto della questione è che è sempre pericoloso creare e alimentare Draghi,<br />
per cui la logica del dialogo è l’unica che in ultima analisi si riveli vincente. Dialogo, unità e<br />
istituzioni forti dovrebbero rappresentare la colonna portante dell’Europa Unita.<br />
Occorre un mandato <strong>eu</strong>ropeo dell’ONU in Iraq non perché l’ONU abbia la bacchetta<br />
magica per risolvere tutti i problemi in quanto organismo internazionale super-partes, ma per<br />
consentire il superamento della “guerra unilaterale”. Le truppe ONU, essendo costituite da<br />
personale che non ha fatto la guerra, non sono odiate dalla popolazione.<br />
L’Italia si è dichiarata non belligerante e contribuisce a ricostruire l’Iraq.<br />
In ultima analisi, il messaggio di unità dell’Europa di fronte alle sfide del XXI secolo<br />
costituisce una roccaforte contro la minaccia terroristica.<br />
L’allargamento dell’Europa ad Est e a Sud, con Malta e Cipro, assume quindi non solo<br />
un valore economico, ma anche politico di ingrandimento della potenza <strong>eu</strong>ropea contro il<br />
rischio di attentati, con la possibilità di prendere una posizione forte in politica estera per<br />
salvaguardare la pace e la sicurezza mondiale.<br />
Questo libro ha raccolto queste sfide creando un contesto di approfondimento e di<br />
dibattito per chi consideri le interazioni tra linguaggi, conoscenze e culture del mondo<br />
contemporaneo e del passato non soltanto interessanti, ma anche indispensabili per la vita<br />
associata e per la vita professionale. In questa prospettiva, il libro si è proposto di<br />
sperimentare un tipo di informazione e di formazione culturale imperniate sull’interazione e<br />
sulla reciproca interrogazione fra differenti linguaggi, culture, competenze ed esperienze.<br />
243
LA MEMORIA E LA STORIA POSSONO FONDARE L’IDENTITÀ NAZIONALE?<br />
Il 13 febbraio 2004 Ernesto Galli della Loggia, storico e politologo romano, laureato<br />
in Scienze Politiche all’Università “La Sapienza” di Roma, liberal-democratico, laico<br />
“terzista” pronto al confronto con il mondo cattolico, attualmente docente di Storia dei partiti<br />
e dei movimenti politici nell’Università di Perugia, ha tenuto una conferenza-dibattito nella<br />
città in cui vivo sul tema “Uso e abuso della memoria e della storia”. Egli precisa: “La scena<br />
italiana è sovraccarica di storia. La memoria storica è la memoria di una collettività, non di<br />
singole persone. Ha un peso pubblico. La storia della collettività dà un significato unitario al<br />
passato, a vicende apparentemente slegate, per una comunità. C’è un uso pubblico della storia<br />
perché l’identità della collettività è nella sua storia. Se non ci fosse l’uso pubblico, non<br />
avremmo un’identità come collettività. L’identità dipende dal passato. Pertanto, questa<br />
‘litania’ contro l’uso pubblico della storia ‘non va’ (bene)”.<br />
Si può invocare una memoria condivisa?<br />
C’è una compresenza di molte memorie contemporaneamente, perché si è rotta la<br />
cultura della comunità che produceva una memoria unitaria.<br />
La polis moderna si è divisa secondo fratture di tipo politico-ideologico e produce una<br />
diversità di memorie.<br />
Si tratta di una patologia italiana. Ma si può trovare anche nell’antichità.<br />
Dove troviamo la memoria storica?<br />
Le nostre città ricordano nomi storici nelle vie, nelle scuole e nei monumenti: i nomi<br />
di Mazzini, Garibaldi, Pellico ecc. sono ovunque. Questi nomi si rifanno alla storia nazionale,<br />
nel tentativo di imporre una memoria nazionale. Si tratta del tentativo di costruire una<br />
memoria nazionale che superasse le singole memorie. Questo tentativo è fallito in Italia,<br />
perché l’Italia è stata segnata dalla politica: Mazzini e Garibaldi hanno “inventato” la nazione<br />
italiana, non prendendola dai singoli (popolo), ma dalla tradizione letteraria del paese. Questa<br />
unità è stata fatta dalla politica, costruendola sui problemi economici del Paese: lo stato<br />
nazionale ha prodotto il maggiore benessere. Gli italiani si consideravano nella fedeltà alla<br />
Chiesa cattolica, che rifiutava l’unità.<br />
Le contraddizioni di questa scelta unitaria sono evidenti: i patrioti erano repubblicani,<br />
ma si trovavano con il re al Viminale. Si tratta di una storia dissociata, conflittuale. Noi siamo<br />
nati dall’immaginazione politica di una ristretta minoranza di intellettuali e patrioti.<br />
C’è un legame inquietante che unisce la politica al racconto storico: è quello di chi ha<br />
244
vinto politicamente, che ha messo fuori gioco altre forze in grado di produrre memoria.<br />
In un paese povero come era l’Italia, la politica era importantissima, perché solo<br />
attraverso la politica era possibile avere un impiego e far funzionare le industrie.<br />
Le identità dei partiti politici sono legate ad una storia particolare. In Italia ci sono tre<br />
grandi culture politiche: il cattolicesimo politico, il fascismo e la cultura comunista<br />
gramsciana, diversa dal comunismo di Lenin. Ciascuno di questi partiti aveva una storia e una<br />
memoria, contrassegnate da scontri e guerre civili. Queste culture non si riconoscevano in un<br />
percorso comune. Il clima di tensione tra identità politiche e di incompatibilità di memorie e<br />
di storie ha determinato un conflitto sulla memoria. Queste tre identità politiche e memoriali<br />
sono finite malissimo, con un fallimento, in modi diversi.<br />
quella storia.<br />
Coloro che le avevano “vissute”, hanno avuto e hanno difficoltà a riconoscersi in<br />
L’Italia ha distrutto le libertà politiche con il fascismo, che è finito nell’Olocausto<br />
antisemita hitleriano. Possiamo dire che il ventennio fascista si sia aperto con l’assassinio di<br />
Giacomo Matteotti il 10 giugno 1924 e chiuso con quello di Giovanni Gentile il 15 aprile<br />
1944. Prima di essere ucciso, Gentile lanciò un messaggio di tolleranza e riconciliazione per<br />
tutti gli italiani. D’altro lato, oggi è impossibile un riconoscimento “tranquillo”<br />
dell’esperienza storica comunista. E l’esperienza cattolica si è conclusa con Mani Pulite, che<br />
ha minacciato di gettare un’ombra sul cattolicesimo politico del dopoguerra. Tutti questi<br />
partiti hanno cambiato nome, perché il passato comporta qualcosa che “non funziona”, per<br />
riabilitare la propria storia e identità memoriale prendendo le cose migliori ma sapendo che ci<br />
sono cose meno buone da lasciar andare. Oggi ci sono i successori, i posteri di questi tre filoni<br />
politico-culturali.<br />
Le discussioni sul passato sono cariche di valenze politiche. Il cattolicesimo politico<br />
diventò emblema e riassunto di tutta la corruzione politica e della malavita organizzata.<br />
Andreotti fu accusato di essere il capo della mafia. In Italia la storia è “diminuita”. Si cerca di<br />
far esplodere il caso degli altri. Le identità politiche sono legate alla storia. E le identità<br />
storiche hanno avuto una storia conflittuale tra di loro, vinti e vincitori. Ogni vincente ha<br />
cercato di dare un’immagine del passato a proprio uso e consumo. Ma per vincere<br />
politicamente non è necessario stare al governo. Oggi viene sollecitata una autonoma<br />
elaborazione concettuale che produca il senso comune storico del passato.<br />
245
La cultura del comunismo e del nazismo<br />
Per inciso e per completezza, risulta utile rimettere in prospettiva critica e coerente,<br />
proprio in nome delle sfide dell’umanità in questo XXI secolo, la cultura del comunismo e del<br />
nazismo, che a mio avviso hanno trovato una interessante collocazione storica nella<br />
descrizione dello storico Victor Zaslavsky, che è nato a San Pietroburgo e da alcuni anni vive<br />
a Roma. Insegna Sociologia politica alla Luiss e vi dirige l’International Center for<br />
Transition Studies. Ha pubblicato in Italia varie opere, tra cui Fuga dall’impero.<br />
L’emigrazione ebraica e la politica della nazionalità in Unione Sovietica (1985), Dopo<br />
l’Unione Sovietica. La perestroika e il problema della nazionalità (1991), Storia del sistema<br />
sovietico. L’ascesa, la stabilità, il crollo (1995, 2001), Il massacro di Katyn. Il crimine e la<br />
menzogna (1998) e, con Elena Aga-Rossi, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera<br />
staliniana negli archivi di Mosca (1997).<br />
Zaslavsky, figlio di un comunista russo, ha pubblicato nel 2004 un libro intitolato “Lo<br />
stalinismo e la sinistra italiana”, in cui indaga sulla storia inedita, i protagonisti, i retroscena di<br />
cinquant’anni di rapporti tra la sinistra italiana e l’Unione Sovietica 1 .<br />
Ha dichiarato ad Excalibur, il programma televisivo che è andato in onda il 15 marzo<br />
2004, che lo stalinismo è vivo e vegeto nella cultura italiana, in quanto la sinistra italiana non<br />
ha fatto i conti con lo stalinismo, mentre ciò è avvenuto con il nazismo e il fascismo. Gli<br />
stalinisti di ieri e di oggi hanno la loro ideologia. Oggi l’ideologia “elegge” un capo<br />
carismatico, all’interno di un sistema che si basa su odio e lotta e sceglie i nemici sulla base<br />
del fatto che appartengono ad una certa categoria, non importa se non hanno fatto niente di<br />
male: basta che esistano, per essere eliminati.<br />
L’indifferenza dell’Italia nei confronti del fondamentalismo algerino, che in otto anni<br />
ha provocato 150.000 vittime, la dice lunga sul fatto che la sinistra si è sentita protetta dal<br />
terrorismo ritenendo che questo fenomeno riguardasse solo l’Algeria e non avrebbe colpito<br />
l’Italia perché era filo-islamica. Oggi sappiamo che l’Algeria ha fatto da scudo con le proprie<br />
vittime ad un fenomeno che sta avanzando ed invadendo anche l’Italia. Se in Algeria le<br />
vittime erano famiglie, donne che non volevano portare il chador, in Italia il terrorismo<br />
islamico può colpire nel mucchio con la stessa logica spietata.<br />
L’analogia tra terrorismo islamico e dittatura nazista non è balzana e cervellotica. La<br />
logica del totalitarismo è infatti la stessa: l’eliminazione sistematica delle categorie<br />
“indesiderate”. Durante il nazismo queste categorie comprendevano ebrei, zingari,<br />
omosessuali, comunisti ecc.<br />
1 Vedi Zaslavsky V., Lo stalinismo e la sinistra italiana, Mondadori, Milano, 2004<br />
246
Oggi l’eliminazione operata dal naziterrorismo riguarda gli “infedeli”, l’Occidente, in<br />
uno scontro tra civiltà. Il bersaglio è rappresentato non solo dagli ebrei, ma dagli <strong>eu</strong>ropei,<br />
dagli americani ecc. L’obiettivo consiste nel distruggere l’economia, la cultura e la civiltà<br />
del Vecchio e del Nuovo Continente per instaurare la dittatura del nazislamismo.<br />
La natura pubblica e politica della storia<br />
Per ricollegarci a quanto detto in precedenza, a conclusione del suo discorso, Galli<br />
della Loggia dichiara che “non ci possono essere memoria e storia condivise. Ci può essere<br />
accordo sulle date, ma a volte nemmeno su quelle”. La natura pubblica e politica della storia<br />
lascia aperte alcune questioni.<br />
Durante il dibattito, la prima obiezione sottolineava che “la fine del partito cattolico è<br />
cominciata prima di Mani Pulite, con l’apertura del Concilio Vaticano II. La Chiesa è iniziata<br />
con il concetto di Memoriale della salvezza. La Chiesa non può essere partitica, in quanto non<br />
è legata ad una cultura, ma all’esperienza di Cristo. Il Partito cattolico era già sfaldato, finito<br />
ben prima di Mani Pulite, con il Concilio avviato da Giovanni XXIII. Solo il fascismo e il<br />
comunismo erano fondati sull’ideologia costituita da schemi preconcetti”.<br />
Galli della Loggia risponde: “Nel 1992 la Democrazia Cristiana aveva la maggioranza<br />
relativa dei voti. Il Partito Comunista arrivò al 16% dei voti, con una percentuale inferiore al<br />
1946. Il successo è relativo alla forza relativa. La Chiesa ha un problema con il passato. I<br />
perdoni chiesti dal Papa Giovanni Paolo II sono per il passato ‘sbagliato’ della Chiesa. C’è<br />
stata una resa dei conti con la storia della Chiesa. Non è solo l’ideologia che porta sulla strada<br />
‘sbagliata’. È la storia che porta al ‘problema’ col proprio passato, in quanto la Chiesa è anche<br />
terrena. Prima di Fini, nessuno ha chiesto scusa; solo il Papa, che ha voluto liberarsi del<br />
fardello del passato. Anche la Chiesa è chiamata a fare i conti con il passato. La memoria è<br />
costruita socialmente in base a parametri singolari. Dal 1945 ad oggi, la memoria<br />
dell’Olocausto ha avuto una parabola amplissima. Per 30 anni ci sono state responsabilità non<br />
viste dalla Chiesa: si ha l’impressione che Pio X abbia organizzato la persecuzione degli<br />
ebrei”.<br />
Riguardo alla formazione dell’identità italiana, rispetto ad altre nazioni <strong>eu</strong>ropee, Galli<br />
della Loggia osserva che “anche la Francia ha avuto giacobini e realisti. Ma i realisti si<br />
sentivano francesi, figli della Francia, perché la Francia non è morta con la Rivoluzione. Si<br />
poteva essere francesi, anche se non si era rivoluzionari. Per 30 anni i cattolici hanno avuto<br />
difficoltà a sentirsi italiani perché c’era una frattura: l’identità era connotata di parte politica<br />
durante il fascismo, per cui è stato difficile condividere qualcosa, sentirsi italiani, se si faceva<br />
247
parte di un certo partito”.<br />
Un attempato e arzillo signore simpatizzante del fascismo ha osservato che le leggi<br />
razziali in Italia non furono tanto terribili, dal momento che si limitarono ad emarginare gli<br />
ebrei e diventarono esecutive dolo dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando i tedeschi<br />
invasero l’Italia da occupanti e non più da alleati.<br />
Galli della Loggia risponde che “le leggi italiane erano punitive sul piano legale e<br />
spietatamente applicate sul piano della discriminazione. Portarono gli ebrei ad essere paria,<br />
che non potevano avere proprietà, per cui dovettero cercare prestanome. Non potevano avere<br />
radio e accedere alle scuole. I professori universitari e impiegati pubblici furono licenziati<br />
dall’oggi al domani. C’erano molti alti ufficiali ebrei. Un colonnello ebreo si sparò un colpo<br />
in alta uniforme. Non ci fu sterminio fisico degli ebrei come in Germania. In Italia si<br />
fermarono a livello 900 nella gravità dei procedimenti persecutori; mentre altrove raggiunsero<br />
quota 2.000”. Galli della Loggia invitò l’interlocutore a leggere una fotocopia - che lui gli<br />
avrebbe spedito - della Gazzetta Ufficiale che pubblicò le leggi del 1938.<br />
In definitiva, “la memoria condivisa come atto fondante di una società civile” va<br />
ancora scritta. Galli della Loggia ha scritto un libro nel 1996 intitolato “La morte della<br />
patria”, in cui esprime la fine del sentimento nazionale dopo l’8 settembre 1943, che aprì la<br />
strada alla guerra civile in Italia. Attualmente, il presidente Ciampi cerca di recuperare<br />
l’epopea risorgimentale e di creare l’unità spirituale con il coinvolgimento della Chiesa. La<br />
reazione degli italiani alla strage di Nassirya indica che lo “spirito nazionale” è maturato. Per<br />
essere una comunità politica, bisogna avere una memoria condivisa, una condivisione delle<br />
regole dello stare insieme oggi, che non comporta la “sintonia” su quanto è accaduto in<br />
passato. La ricostruzione storica del passato spetta agli storici e non ai politici. La storia<br />
italiana è fatta di forti disaccordi e le ricostruzioni storiche “posticce” non competono ai<br />
politici, anche se essi possono averne bisogno per motivi politici, di pacificazione o altro.<br />
Mazzini morì sotto falso nome perché la polizia italiana lo accusava di essere un pericoloso<br />
sovversivo.<br />
Alla domanda: “La Repubblica italiana è fondata sulla resistenza e<br />
sull’antifascismo?”, Galli della Loggia risponde: “E’ smentibile che questo fatto abbia<br />
prodotto sintonia tra DC e PC fino agli anni ’60. La DC era accusata dal PC di essere clerico-<br />
fascista e di preparare il fascismo, mentre durante la resistenza si celebrarono le ‘nozze’ tra<br />
DC e PC, in nome dell’antifascismo. Pio XII scomunicò i comunisti nel ’48, secondo la<br />
formula: con Cristo o contro Cristo. Teneva conto che i comunisti erano antifascisti e che ci<br />
fu collaborazione tra DC e PC all’insegna dell’antifascismo, anche se nessuno si fidava degli<br />
248
altri e c’erano tante tensioni? Non è forse casuale che, in seguito, il più importante uomo<br />
politico della DC, scelto da De Gasperi a 26 anni come sottosegretario alla Presidenza del<br />
Consiglio, sia stato accusato di essere il capo della mafia.<br />
L’Italia, a differenza della Germania, non fu raggiunta dall’Armata Rossa, per cui non<br />
fu divisa in due politicamente e militarmente, anche se i comunisti volevano continuare la<br />
rivoluzione e il governo che si costituì in seguito istituì misure di polizia e spionaggio politico<br />
per il legame del PC con Mosca. L’Italia fu occupata dagli anglo-americani, per cui cadde<br />
nella sfera di influenza degli USA. La Resistenza ha dato l’immagine di un paese<br />
politicamente reattivo, che ha organizzato un’alternativa al fascismo. Si può quindi sostenere<br />
che l’Italia è una Repubblica fondata sulla Resistenza, con tante contraddizioni: comunisti e<br />
cattolici combatterono un nemico comune, ma sapendo che dopo avrebbero iniziato una lotta<br />
politica tra di loro.<br />
La sinistra dà una versione di comodo del passato, caramellosa, del tipo: ‘Eravamo<br />
tutti uniti’, mentre il PC voleva continuare la rivoluzione”.<br />
Possiamo osservare, al riguardo, che non sappiamo quali documenti a suo tempo<br />
l’onorevole Cossutta avesse letto a proposito dell’atteggiamento del Partito Comunista sulle<br />
foibe, documenti che - egli ha assicurato - testimoniano come il PCI avesse sempre detto la<br />
verità. Non sappiamo quale fosse quella verità e quando fu detta e da chi, ma siamo propensi<br />
ad affermare che sia lui ad avere ragione nella disputa con Violante e Fassino, che hanno<br />
parlato di un “errore”, formula macabramente simile a quella sui “compagni che sbagliano”.<br />
Voler negare o giustificare il massacro degli italiani nell’Istria e in Dalmazia non fu, infatti,<br />
un errore, ma l’elemento essenziale di un atteggiamento politico che rispondeva a una logica<br />
impeccabile. Era una posizione che si ricollegava coerentemente al passato del PCI, posizione<br />
di soggezione adorante a Stalin e al suo disegno di estendere l’egemonia sovietica a tutta<br />
l’Europa. Di quel disegno le bande di Tito costituivano una pedina indispensabile perché<br />
l’URSS mirava ad affacciarsi sull’Adriatico in preparazione di altre conquiste (aveva sperato<br />
di sostituirsi all’Italia in Libia).<br />
Non fu un errore la lettera con cui il capo del PCI, quale vicepresidente del Consiglio,<br />
ingiungeva il 7 febbraio 1945 al presidente del Consiglio Ivanhoe Bonomi di dare ordini al<br />
Comitato di liberazione della Venezia Giulia di non opporsi alla conquista comunista<br />
jugoslava, pena una nuova guerra civile. In ogni caso i comunisti italiani non solo non<br />
avrebbero combattuto contro gli occupanti ma - minacciava il “Migliore” - avrebbero<br />
collaborato con loro. Non fu un errore il proclama firmato da Palmiro Togliatti con cui il 30<br />
aprile 1945 esortava i triestini ad “accogliere le bande jugoslave e collaborare con loro nel<br />
249
modo più assoluto”. Non fu un errore la proposta che Togliatti attribuì a Tito, secondo la<br />
quale costui avrebbe magnanimamente rinunciato ad una Trieste che non gli poteva<br />
appartenere contro la cessione da parte italiana di Gorizia che “secondo il nostro ministero<br />
degli Affari esteri è città in prevalenza slava”. Non fu un errore l’ignobile accoglienza<br />
preparata ai nostri profughi istriani dai ferrovieri comunisti di Ancona e Bologna, che si<br />
rifiutarono di assisterli. Chi se non le massime istanze di quel partito potevano aver instillato<br />
un simile inumano odio? Parlare di “errori” è riduttivo, perché non di errori si trattava, ma di<br />
una deliberata opera di distruzione della nazionalità per esaltare l’ideologia comunista e lo<br />
stato che ne era la realizzazione. Alla luce dell’ideologia, quegli “errori” erano qualcosa di cui<br />
andare fieri, non di cui vergognarsi. E, infatti, Cossutta non se ne vergogna affatto, perché non<br />
conosce perfettamente la storia del partito e di tutto il movimento comunista. È concepibile<br />
che non la conoscano, o l’abbiano dimenticata, le ex speranze della Fgci (Federazione<br />
giovanile comunista italiana)? Non dovrebbero limitarsi a onorare - con cinquant’anni di<br />
ritardo! - i poveri morti delle foibe e i profughi adriatici, ma condannare senza se e senza ma<br />
chi volle ed esaltò quei crimini contro tutto il popolo italiano. Se non lo fanno - ed è<br />
improbabile che lo facciano - continuano a dar ragione a Cossutta.<br />
“Riportare alla memoria quei fatti è oggi un obbligo morale che si impone alla<br />
coscienza civile della nazione”. Si conclude così un lungo e dettagliato articolo dedicato<br />
all’“orrore assoluto” delle foibe, che appare sul numero di marzo 2004 di Civiltà Cattolica. È<br />
una presa di posizione chiara fin dal titolo (“Massacro delle foibe e ‘silenzio di Stato’”), che<br />
di fatto esprime la posizione della Santa Sede sull’argomento. Lo storico gesuita Giovanni<br />
Sale, sulla base di nuovi documenti d’archivio, scrive che “per lunghi anni si è voluto<br />
rimuovere, cancellare quei fatti che colpirono migliaia di cittadini italiani (forse addirittura<br />
diecimila) nella maggior parte dei casi colpevoli soltanto di essere italiani”.<br />
La strage, perpetrata dai partigiani titini in quaranta giorni, nel maggio-giugno 1945,<br />
rispondeva, secondo Civiltà Cattolica, “ad una precisa politica di ‘pulizia etnica’ anti-italiana<br />
messa a punto dai capi comunisti jugoslavi”. E se certamente alcuni degli “infoibati” furono<br />
fascisti o collaborazionisti, “la maggior parte degli uccisi erano semplici cittadini, alcuni dei<br />
quali addirittura antifascisti notori”. A questo proposito padre Sale cita una relazione di un<br />
avvocato triestino, giunta in Vaticano il 2 giugno 1945, dove si descriveva così la situazione<br />
della città giuliana: “In città vi è un’atmosfera di terrore. La città stessa è percorsa da forti<br />
pattuglie di partigiani, armati fino ai denti, vestiti come straccioni, che fanno praticamente<br />
quello che vogliono. Sono stati arrestati e messi in campi di concentramento moltissimi<br />
antifascisti e in genere tutte le persone, soprattutto gli intellettuali, che per non essersi<br />
250
compromessi col fascismo avrebbero potuto diventare i capi naturali degli italiani della<br />
Venezia Giulia”.<br />
La parte più interessante dell’articolo di Civiltà Cattolica è quella dedicata ai motivi<br />
che hanno portato al “silenzio di Stato” su questo “genocidio nazionale”. “Perché tale<br />
vergognoso silenzio - si chiede la rivista dei gesuiti - da parte di uno Stato che ha sempre<br />
ricordato e commemorato i propri caduti per la patria?”. I motivi sono tre. Il primo è<br />
determinato dalla necessità dell’Occidente di blandire la Jugoslavia dopo la sua rottura con<br />
l’URSS di Stalin: “La spiegazione data da Tito già all’indomani dei massacri su quegli<br />
‘spiacevoli fatti’ - scrive padre Sale - divenne di fatto una sorta di versione ufficiale che la<br />
diplomazia occidentale (compresa quella italiana) accettò passivamente”. Il secondo motivo è<br />
legato alla richiesta avanzata dal regime di Tito di estradare centinaia di soldati e di ufficiali<br />
italiani accusati di aver compiuto crimini di guerra durante il periodo dell’occupazione<br />
nazifascista della Jugoslavia nel 1941-43. Una richiesta che “imbarazzava il governo di Roma<br />
perché la maggior parte degli ufficiali indicati nelle liste era stata immessa nel ricostruito<br />
esercito italiano, mentre altri occupavano addirittura posti di rilievo nell’amministrazione<br />
dello Stato”, come nel caso dell’onorevole Achille Marazza, sottosegretario alla Pubblica<br />
Istruzione. L’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi ritenne dunque “opportuno<br />
non sollevare la questione delle foibe nella speranza che anche quella sui presunti crimini di<br />
guerra compiuti dagli italiani venisse in qualche modo ‘insabbiata’”. E così di fatto avvenne:<br />
l’Italia acconsentì di dimenticare i massacri delle foibe “in cambio dell’assoluzione morale<br />
concessa in sede internazionale per le ‘irregolarità’ compiute dai propri soldati durante la<br />
guerra”.<br />
Il terzo motivo del “silenzio” è attribuito da Civiltà Cattolica ai “partiti di sinistra, in<br />
particolare il PCI”, che “fecero di tutto perché negli anni del dopoguerra non venisse riaperto<br />
il capitolo delle foibe, a motivo delle gravi responsabilità che il partito di Togliatti ebbe in<br />
quelle vicende”. Il “Migliore” aveva infatti definito l’occupazione dei territori giuliani da<br />
parte degli jugoslavi “un fatto positivo di cui dobbiamo rallegrarci e che dobbiamo in tutti i<br />
modi favorire”.<br />
Così il “silenzio di Stato” fu imposto, conclude la rivista dei gesuiti “non soltanto dalla<br />
‘cattiva coscienza’ dei comunisti collaborazionisti col regime di Tito, ma anche dalla classe<br />
politica in quegli anni al potere in Italia”, perché “dimenticare quei terribili fatti in realtà<br />
faceva comodo a tutti”.<br />
Oggi il PC non si identifica più con Lenin, ormai “buttato a mare”, ma ha paura di<br />
perdere l’ultima parte forte della propria identità storica e di collassare. L’aggancio alla<br />
251
Resistenza diventa quindi essenziale al PC per il recupero di radici storiche che gli<br />
conferiscano un’identità. Il timore espresso da Bertinotti di una “deriva revisionista”, se si va<br />
a scalfire un certo paradigma “rivoluzionario”, va visto nel quadro più ampio del timore di<br />
perdere un’identità storica.<br />
Il 16 marzo 2004 il Senato approva a larga maggioranza con voto bipartisan,<br />
l’istituzione del 10 febbraio come giorno della memoria per le vittime delle foibe e per<br />
l’esodo di fiumani e istriani dalle loro terre. Rifondazione Comunista ha espresso un voto<br />
contrario “per non mettere sullo stesso piano fascismo e antifascismo”.<br />
Possiamo costruire l’identità nazionale sulla memoria e sulla storia?<br />
In base alle riflessioni sopra esposte, potrebbe risultare difficile credere di poter<br />
costruire un’identità nazionale sulla base della memoria e della storia, in quanto non c’è<br />
condivisione sulla memoria storica, a causa del “filtro” di diverso colore che ciascun<br />
movimento utilizza per guardare la realtà dei fatti concreti, dei personaggi-chiave, dello<br />
svolgimento delle azioni. Lo stesso dubbio concerne la possibilità di scardinare i pregiudizi.<br />
Se è vero che il pregiudizio è spesso radicato nella rigidità della personalità e quindi è difficile<br />
rimuoverlo, è anche vero che si può stringere d’assedio il pregiudizio e farlo crollare o<br />
contenere con una politica sociale adeguata.<br />
La stessa politica sociale può essere estesa alla formazione dell’identità locale,<br />
regionale, nazionale, <strong>eu</strong>ropea e planetaria, come ho esposto nel corso del libro.<br />
Come soggetti che vivono in un contesto familiare e sociale, abbiamo un’identità e<br />
siamo il frutto di un percorso evolutivo, che affonda le radici nelle esperienze del passato,<br />
anche se siamo proiettati verso le mete future. Anche quando vogliamo disidentificarci dal<br />
passato, cambiando la nostra storia, dobbiamo fare i conti con il nostro passato, perché è ad<br />
esso che abbiamo attinto le nostre conoscenze, i nostri valori, le nostre convinzioni, i nostri<br />
scopi e obiettivi per il futuro.<br />
In quanto appartenenti ad una comunità locale, regionale, nazionale, <strong>eu</strong>ropea,<br />
planetaria, la nostra identità si espande fino ad includere il nostro senso di sé in quanto<br />
membri di un nucleo familiare ristretto e allargato, di una città, di una regione, di una nazione,<br />
di un continente, di un pianeta. C’è chi si ferma a sentirsi parte di una famiglia e di una città e<br />
c’è chi estende la pluriappartenenza a sentirsi parte di due nazioni diverse, essendo nato da<br />
una parte e vissuto da un’altra.<br />
Il nocciolo della questione consiste nella definizione di quali radici hanno formato la<br />
nostra identità e di quali radici sono importanti e formano la nostra identità attuale, dando una<br />
252
configurazione a convinzioni e valori. Tale identità può essere parzialmente o totalmente<br />
diversa da quella che avevamo in passato, 10, 20, 30, 50 anni fa. Questo discorso identitario<br />
vale sia per l’identità individuale, sia per quella nazionale, in quanto collettività che ha una<br />
memoria storica.<br />
Il rischio di slittare verso il revisionismo, in un tentativo nostalgico di recuperare una<br />
memoria storica di grandezza o megalomania fascista rinvia ad un analogo rischio di<br />
incappare nell’egemonia marxista. In entrambe queste polarità, il “filtro” pregiudiziale si<br />
frappone in modo massiccio nello sbarrare la strada ad una visione plurilogica dei fatti.<br />
Durante il Risorgimento italiano, essere clericali equivaleva ad essere contrari all’unità<br />
d’Italia e all’identità italiana, in quanto lo Stato Pontificio, che possedeva il potere temporale<br />
e spirituale - il Pontefice era ed è un capo di stato - e deteneva il potere sul clero cattolico, era<br />
contrario alla formazione di uno stato italiano unitario e indipendente. L’anticlericalismo si è<br />
sviluppato in larga parte negli ambienti intellettuali che erano animati da spirito patriottico,<br />
anche se c’erano intellettuali di spicco, come Vincenzo Gioberti - l’abate teologo della corte<br />
di Torino che con abile retorica delineò una possibile consociazione di patriottismo e<br />
religione, confidando nel sorgere del mito neoguelfo - che prospettavano una visione<br />
federalista dell’unità d’Italia. Delineando una fondamentale corrispondenza fra il popolo<br />
italiano e il papato depositario dell’idea cattolica, Gioberti fece coincidere la grandezza<br />
d’Italia con la grandezza del papato: la sua decadenza derivava dall’essersi lasciata fuorviare<br />
dal pensiero acattolico della Francia. Secondo Gioberti, nel ristabilito accordo con l’idea<br />
cattolica, l’Italia avrebbe ritrovato il suo primato morale e civile e la missione nel mondo. Il<br />
quadro idilliaco di quel programma che venne battezzato “neoguelfo” prefigurava l’Italia in<br />
stretta confederazione attorno al papato e sotto la sua presidenza, un felice accordo fra<br />
aspirazioni di popoli e politica di principi, mediante istituzioni non parlamentari, ma<br />
semplicemente consultive, unione economica tra i diversi stati, riforme consone ai bisogni dei<br />
popoli secondo la tradizione settecentesca.<br />
Contro il neoguelfismo fu soprattutto la Toscana, la culla del neoghibellinismo, ossia<br />
di una ventata di acceso anticlericalismo democratico, che ebbe i suoi più forti esponenti in<br />
Francesco Domenico Guerrazzi e nel letterato e drammaturgo Giovambattista Niccolini<br />
(1782-1961), il quale nella sua tragedia Arnaldo da Brescia ritornava alla nota tesi del<br />
Machiavelli, e al papato liberale del Gioberti opponeva il cruento quadro di un papato piovra<br />
d’Italia. Più bonariamente, Giuseppe Giusti (1809-1820) canzonava l’ideale giobertiano e<br />
neoguelfo nella poesia Il papato di prete Pero.<br />
Meno anticlericale, ma democraticamente più proficua e profonda - a dispetto dello<br />
253
scarso numero di seguaci - era l’opposizione del gruppo radicale, che ebbe il suo massimo<br />
centro in Lombardia e i propri corifei in Carlo Cattaneo (1801-1869) e in Giuseppe Ferrari<br />
(1811-1876). Essi si opponevano al programma semplicemente riformista del partito<br />
moderato e volevano l’avvento della repubblica. Tuttavia, non accettavano l’unità voluta dal<br />
Mazzini: più democratici di quest’ultimo, essi asserivano la necessità di una repubblica<br />
federale, la quale non era la federazione di stati auspicata dai moderati, bensì un ordinamento<br />
costituzionale speciale, che lasciasse ampie possibilità di autogoverno ai comuni, alle<br />
province, alle regioni. Inoltre, se il Cattaneo poneva come ideale ultimo da raggiungere la<br />
costituzione degli Stati Uniti d’Europa, il Ferrari dava al proprio programma democratico un<br />
chiaro contenuto sociale, auspicando una rivoluzione socialista.<br />
Il rifiuto dell’eredità culturale del cristianesimo.<br />
L’equivalenza complessa, che metteva sullo stesso piano l’essere cattolici e l’essere<br />
contrari alla formazione di un’identità nazionale italiana e, viceversa, l’essere laici<br />
anticlericali e l’essere promotori di un’identità italiana, ha fatto scattare un “meccanismo” di<br />
rifiuto dell’eredità culturale del cristianesimo, ritenendola foriera di avversione verso lo stato<br />
nazionale unitario e verso la formazione di una coscienza e di una identità nazionale, in una<br />
sorta di competitività in cui erano in gioco un territorio da conquistare e il consenso degli<br />
italiani divisi da sbarramenti politici e culturali, nei vari stati e statarelli in cui era polverizzata<br />
la Penisola.<br />
Poiché il Papa deteneva il potere temporale, politico, sui suoi territori e in tutta Italia,<br />
attraverso le parrocchie e le diocesi, si è sviluppata una contrapposizione tra Chiesa e Stato,<br />
che era in realtà contrapposizione tra due Stati che si contendevano il controllo del territorio<br />
italiano. La competizione si configurò come avversione reciproca, in cui si fronteggiavano<br />
due culture sempre più contrapposte e distanti: quella laica e quella cattolica.<br />
In questa logica del “Chi non è con me, è contro di me”, si è radicata anche<br />
l’avversione per il “contenuto” - il cristianesimo - oltre che per il “contenitore”, ossia<br />
l’istituzione ecclesiastica in quanto organismo politico dotato di potere e di controllo. Questo<br />
tipo di potere si configurava come Stato etico che controllava la vita e le coscienze dei<br />
cittadini. La sua influenza politica era quindi totalizzante.<br />
Con la Rivoluzione francese del 1789 si è imposta l’idea della separazione tra potere<br />
politico e religioso, ma in Italia si è verificata un’“anomalia”, in quanto lo Stato Pontificio<br />
risiedeva all’interno del territorio italiano e, pertanto, era più difficile separare la realtà<br />
politica da quella religiosa. Si è pensato di agevolare questa separazione ricorrendo alla lotta<br />
254
politica e alle armi, fino alla presa di Porta Pia.<br />
Il governo italiano, quando a Parigi fu proclamata la decadenza dell’impero e sorse il<br />
nuovo regime repubblicano (4 settembre 1870), non si sentì più vincolato dalla convenzione<br />
di settembre e comunicò alle potenze <strong>eu</strong>ropee la sua intenzione di occupare Roma, garantendo<br />
la piena libertà spirituale del pontefice. In tale occasione Pio IX raccolse i tristi frutti della sua<br />
politica: dal 1869 era riunito il Concilio Vaticano per proclamare il dogma dell’infallibilità<br />
pontificia, e ciò aveva irritato le potenze cattoliche, spingendo la stessa Austria a rompere il<br />
concordato che la legava alla Santa Sede. Nessuna obiezione pertanto venne sollevata alla<br />
dichiarazione italiana e l’11 settembre, fallite le ultime trattative pacifiche col papa (una<br />
lettera personale di Vittorio Emanuele II aveva ricevuto da Pio IX un non meno intransigente<br />
non possumus), un corpo dell’esercito italiano, al comando del generale Raffaele Cadorna,<br />
varcò la frontiera pontificia. Il 20 giunse sotto le mura di Roma e aprì con le artiglierie una<br />
breccia presso Porta Pia; Pio IX, sentendo che ormai era inutile resistere e non volendo<br />
spargere altro sangue (si erano avuti 200 morti nelle truppe italiane e 69 in quelle pontificie),<br />
fece cessare la resistenza. Il Cadorna lasciò fuori dall’occupazione la Città Leonina, ma il<br />
Vaticano, preoccupato delle condizioni dell’ordine pubblico, ne chiese esso stesso<br />
l’occupazione. Mentre il papa si rinchiudeva nel Palazzo Vaticano, Roma con plebiscito del 2<br />
ottobre 1870 a stragrande maggioranza decideva di unirsi alla patria italiana. Nel luglio 1871<br />
il governo e la corte si trasferivano nella nuova capitale del Regno d’Italia.<br />
La cosiddetta “questione romana” non era però del tutto risolta; piuttosto, aveva<br />
mutato ora aspetto. Il Papa rinnovò i fulmini della scomunica che periodicamente lanciava<br />
contro la dinastia dei Savoia e il governo italiano fin da quando, nel 11860, le Marche e<br />
l’Umbria erano state unite all’Italia; l’aristocrazia romana, nella sua maggioranza, prese il<br />
lutto per l’oltraggio fatto alla Santa Sede e i cattolici fecero il divorzio dalla vita politica<br />
italiana, obbedendo al non expedit espresso dai supremi organi vaticani circa la loro<br />
partecipazione alle elezioni (1874). Si creava così una frattura tra il Regno d’Italia e i cattolici<br />
- per lo meno quelli attivi e militanti - che ne facevano parte. Però il tempo non avrebbe<br />
mancato, alla lunga, di colmare il fossato, grazie anche a quel “monumento di sapienza<br />
giuridica” (sono parole di Benedetto Croce), che il 13 maggio 1871 il Parlamento italiano<br />
elevò votando la cosiddetta legge delle guarentigie.<br />
Tale legge non solo garantì il libero esercizio al Papa della sua funzione di capo della<br />
Chiesa cattolica, riconoscendo l’extraterritorialità dei palazzi del Vaticano, del Laterano e<br />
della villa di Castel Gandolfo, resi pertanto immuni dalla giurisdizione dello stato italiano, ma<br />
fece trionfare il principio cavouriano della separazione tra Stato e Chiesa, con la rinuncia da<br />
255
parte del Regno d’Italia a tutti i privilegi giurisdizionali, che i precedenti sovrani avevano<br />
avuto, ad eccezione del placet (assenso statale alla nomina dei vescovi) e dell’exequatur<br />
(ratifica statale degli atti amministrativi ecclesiastici). Vennero infine riconosciuti gli onori<br />
sovrani al pontefice e sul bilancio dello Stato fu inscritta una dotazione annua, pari a quella<br />
che l’ex Stato Pontificio versava per il mantenimento della corte papale.<br />
La Santa Sede rifiutò di riconoscere la validità della legge delle guarentigie e, dopo la<br />
tempesta del 1870, nel mutato clima internazionale, incominciò a trovare benevolo ascolto<br />
alle sue proteste presso alcune potenze <strong>eu</strong>ropee. Ma il leale e scrupoloso mantenimento della<br />
legge, divenuta per il rifiuto papale atto unilaterale, da parte dei successivi governi italiani,<br />
impedì che questa nuova fase dell’annosa questione romana degenerasse in pericolo per<br />
l’unità d’Italia e creò le premesse attraverso le quali poté avvenire il lento svuotamento della<br />
questione stessa e la riconciliazione dei cattolici alla vita politica italiana.<br />
I fronti politico-militari che si erano creati per formare l’unità d’Italia conservarono<br />
tuttavia la separazione tra due culture: quella laica e quella cattolica, in cui spesso essere laici<br />
equivaleva ad essere contrari o ostili non tanto e non solo alla Chiesa come istituzione politica<br />
- il contenitore - ma anche al contenuto, il cristianesimo in quanto religione. In tal modo<br />
proprio quella struttura - contenitore - che si è impegnata a diffondere il cristianesimo in<br />
quanto religione, paradossalmente, ha favorito l’avversione verso il contenuto, la religione,<br />
bloccandone la conoscenza e l’accesso diretto. L’avversione verso il clero come istituzione<br />
politica gerarchizzata e come rappresentanza religiosa ha generato una sorta di “fobia” per la<br />
religione cristiana come insegnamento di Cristo e messaggio di salvezza. L’istituzione<br />
politico-temporale sembra aver spento o ucciso, per molti, l’originario invito della buona<br />
novella. Si è arrivati al rifiuto della religione e della cultura cristiana in quanto veicolate da<br />
una realtà politica in competizione con gli interessi dell’identità nazionale unitaria. Di qui la<br />
frattura tra le due Italie: quella dell’unità nazionale e quella della “conservazione”,<br />
frammentata in “regionalismi” e “localismi”. Ma mentre in Francia i giacobini e i realisti si<br />
sentivano comunque francesi, in Italia i veneti, i friulani e i trentini si sentivano austriaci, i<br />
napoletani erano borbonici ecc. a seconda di chi reggeva le sorti dello stato.<br />
Pur essendoci stati alcuni politici – pur essendo cattolici -che hanno lottato per la<br />
formazione di uno stato nazionale, la diffidenza verso l’eredità culturale cristiana trasmessa<br />
dal clero ha contrassegnato la concezione della “laicità dello stato”. La cultura del<br />
cristianesimo è stata in tal modo estromessa dalla concezione dello stato, nella separazione<br />
della Chiesa dallo Stato.<br />
Occorre tuttavia osservare che l’identità italiana non è incompatibile con il<br />
256
cristianesimo in quanto eredità culturale e nemmeno con l’identità regionale e locale<br />
emergente dalla dimensione collettiva in cui si è calati in loco; ma neppure con l’identità<br />
<strong>eu</strong>ropea che affonda le radici nella memoria e nella storia comune del popolo <strong>eu</strong>ropeo. Tutte<br />
queste identità rientrano “a pari merito” e contemporaneamente nel concetto di<br />
pluriappartenenza.<br />
Anche l’interpretazione della Bibbia - su cui si fonda la propria identità in quanto<br />
cristiani, per chi è credente in Cristo, ma anche per i laici che apprezzano la cultura del<br />
cristianesimo in quanto religione, e non in quanto istituzione politica e clericale - richiede<br />
buon senso e plurilogica, per non incorrere in pregiudizi fuorvianti. Ad esempio, Gesù<br />
propone la beatitudine: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli” (Mt 5, 3).<br />
I destinatari sono gli apostoli, cioè tutti coloro che hanno scelto di seguire Cristo e non<br />
semplicemente le folle. Per capire la proposta di Gesù, è necessario sperimentarla e viverla.<br />
Chi sono i poveri secondo il pensiero di Gesù? La povertà in spirito è una disposizione<br />
interiore, non necessariamente legata a una condizione sociale ed economica. È la coscienza<br />
del bisogno di Dio e dei suoi doni. Dopo la pesca miracolosa, Luca dice che gli apostoli<br />
lasciarono tutto e lo seguirono (Lc 5, 11). Così anche Matteo che era seduto sul banco delle<br />
imposte: “Egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì” (Lc 5, 28). Nel contesto evangelico si dice<br />
che la condizione necessaria per seguire Gesù è questa: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i<br />
suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 33). Certo, questo non vuol dire che<br />
dobbiamo buttare all’aria tutto quello che possediamo e ridurci in miseria. Gesù non ha mai<br />
disprezzato la ricchezza, ma ha denunciato i rischi deleteri che essa può avere,<br />
nell’attaccamento morboso che si manifesta in certi casi, come se fosse la fonte di tutte le<br />
proprie sicurezze.<br />
Povero in senso evangelico è colui che, illuminato dalla parola di Cristo, dà ai beni il<br />
loro giusto valore. Li apprezza, li stima, sa che sono un dono di Dio, ma non se ne appropria,<br />
capisce che non gli appartengono, si rende conto di essere solo un amministratore e li investe<br />
in conformità ai progetti del “titolare”. Tutto ha ricevuto in dono, tutto trasforma in dono. Il<br />
povero è colui che si fa simile al Padre che sta nei cieli il quale, pur possedendo tutto, è<br />
infinitamente povero perché non trattiene nulla per sé: è dono totale.<br />
La tematica del pregiudizio, talvolta invalicabile, che impone una visione laicistica<br />
della cultura, per cui tutto ciò che ha attinenza con il cristianesimo viene rifiutato anche sotto<br />
il profilo semplicemente culturale, sembra particolarmente attuale anche in vista<br />
dell’integrazione dell’Europa che, come ho più volte ribadito, non può essere solo “unione di<br />
mercati” e “contratti commerciali in comune”.<br />
257
Ci sono passaggi difficili, ma anche necessari per far crescere un partito, che non si<br />
arricchisce con gli yes men, ma semmai con chi vuole proporre ed indicare soluzioni<br />
alternative.<br />
Le Figaro del 30 luglio 2004 esaminava le qualità e i punti deboli dei candidati<br />
americani della Casa Bianca per le elezioni presidenziali del 2004, dicendo di John Kerry, il<br />
candidato democratico, che “il ne possède tout d’abord pas le charisme étonnant d’un Bill<br />
Clinton ou l’aura naturelle d’un John F. Kennedy. E dans un imaginaire politique américain<br />
qui préfère le caractère à l’intelligence, et la force de volonté a la compétence tecnique, Kerry<br />
apparaît souvent comme une caricature de un p<strong>eu</strong> coincé ». E Jeff Jacoby<br />
commenta crudelmente nel Boston Globe : « La verité, c’est que Kerry, le politicien de 60<br />
ans, est dépourvu de tout courage politique e c’est pour cette raison qu’il doit en emprunter<br />
tellment a Kerry le soldat de 25 ans ».<br />
L’immaginario politico americano preferisce il carattere all’intelligenza e la forza di<br />
volontà alla competenza tecnica. Il coraggio politico di cui il Kerry di 60 appare sprovvisto,<br />
secondo Jacoby, viene preso abbondantemente in prestito dal soldato di 25 anni, al Kerry che<br />
combatté in Vietnam.<br />
E, per quanto concerne l’Europa, il coraggio politico può esprimersi in una visione<br />
dell’Europa in cui la sua eredità storico-culturale viene riconosciuta e assunta nella sua<br />
essenza identitaria senza preclusioni laicistiche, pur conservando la separazione tra politica e<br />
religione. La cultura cristiana, focalizzata sulla centralità della persona, non va confusa né con<br />
l’istituzione ecclesiastica, né con il clericalismo, e nemmeno con un partito o una politica.<br />
Una Grande Famiglia ha anche un’identità, fondata su valori condivisi e radici<br />
storiche comuni. Una famiglia in cui si parlasse esclusivamente di profitti, investimenti, Pil e<br />
interessi commerciali sarebbe profondamente dissestata o disgregata in partenza, fin nelle<br />
premesse. La coesione istituzionale va rintracciata anche ad altri livelli, che coinvolgono<br />
valori, convinzioni, tradizioni, “miti familiari” ecc. e richiede una particolare attenzione verso<br />
queste componenti, per non costruire un grande castello sulla sabbia. Vediamo dunque come<br />
si è profilato “storicamente” il nuovo assetto dell’Europa del 2004 alla luce delle decisioni<br />
“cruciali” degli elettori.<br />
258
CAPITOLO VI<br />
DOVE STIAMO ANDANDO?<br />
IL FUTURO DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA<br />
Il sogno dell’Europa unita in una Grande Famiglia sembra svanito dopo il voto<br />
elettorale che ha chiamato alle urne il 12 e 13 giugno i 25 Paesi che includono anche 10<br />
nuovissimi componenti? Qualcuno sembra propendere per il sì. Tuttavia, possiamo fare<br />
alcune riflessioni, prendendo spunto dall’articolo che Livio Caputo, ex sottosegretario al<br />
Ministero degli Esteri, ha pubblicato su Il Gazzettino del 15 giugno 2004:<br />
La domanda è brutale, ma i risultati delle elezioni per il Parlamento <strong>eu</strong>ropeo la impongono.<br />
Quale può essere il futuro di un’Unione in cui la percentuale dei votanti per il suo unico organismo<br />
veramente rappresentativo è scesa, nella scia dell’allargamento a Est, al minimo storico del 44,2%<br />
(contro il 63% del 1979 e il 49,8% nel 1999) e in cui gli <strong>eu</strong>roscettici guadagnano quasi ovunque<br />
vistosamente terreno? Si dirà che, nonostante tutto, l’aula di Strasburgo continuerà a essere dominata<br />
dal Partito Popolare (279 seggi) e dal Partito Socialista (201), tradizionalmente favorevoli<br />
all’integrazione <strong>eu</strong>ropea, e che perciò il nuovo Parlamento nel suo insieme continuerà a spingere nella<br />
direzione di sempre. Ma ciò è vero fino a un certo punto.<br />
Nel PPE, per esempio, stanno acquistando forza partiti come i Conservatori britannici e le<br />
formazioni di centro-destra ceche e ungheresi, oggi all’opposizione, che di <strong>eu</strong>ropeista hanno ben poco<br />
e che non mancheranno perciò di contrastare la spinta dei tedeschi, dei francesi e degli italiani.<br />
La verità è che in Europa una grande massa di cittadini, pur dando in genere per acquisito<br />
quanto l’Unione ha fatto per loro, considera con diffidenza un suo ulteriore “approfondimento”, specie<br />
quando contrasta con i suoi interessi particolari e prevede nuove cessioni di poteri di sovranità a quella<br />
che è chiamata una burocrazia senza volto.<br />
Si dice anche che nella maggioranza dei Paesi gli elettori che sono andati alle urne non si<br />
sono, in realtà, espressi contro l’“unione sempre più stretta” e “l’Europa che parla con una voce” sola<br />
previste dalla cosiddetta bozza Giscard, ma hanno semplicemente approfittato dell’occasione per<br />
esprimere la loro insoddisfazione per l’operato dei governi in carica. Questo è vero nella Francia<br />
chiracchiana come nella Germania rosso-verde, nella Gran Bretagna laburista come nel Portogallo<br />
259
socialdemocratico, nell’Olanda conservatrice come nella Repubblica Ceca socialista, nell’Ungheria<br />
del nuovo centro-sinistra come (anche se in misura minore che altrove) nell’Italia della Casa delle<br />
Libertà. Uniche eccezioni, la Spagna socialista e la Grecia conservatrice, dove i governi eletti da poco<br />
godono ancora della tradizionale luna di miele. Il guaio è che, tra pochi giorni, toccherà proprio a<br />
questi governi “bastonati” dagli elettori ritentare il varo della nuova Costituzione fallito nel dicembre<br />
scorso a Bruxelles, con tutti i nuovi condizionamenti che il voto ha creato. Come potrà per esempio<br />
Tony Blair sfidare la sua opinione pubblica e apporre la firma a un documento che preveda<br />
l’abolizione del voto all’unanimità su politica estera, politica fiscale e politica sociale? Come potranno<br />
i governi dei nuovi Paesi membri dell’Europa dell’Est accettare ulteriori trasferimenti di sovranità a<br />
Bruxelles, quando i loro cittadini contestano perfino quelli già avvenuti? In ogni caso, è improbabile<br />
che, in almeno una decina di Paesi, una Costituzione forte, come la vogliono gli <strong>eu</strong>ropei, riuscirebbe a<br />
passare il test dei referendum; e, a meno di non cambiare le regole in corsa, essa dovrà essere ratificata<br />
da tutti i 25 prima di entrare in vigore.<br />
I Capi di Stato e di governo che stanno per riunirsi si troveranno perciò in una situazione<br />
particolarmente difficile. O si rassegneranno ad approvare un documento “al ribasso”, pieno di toppe e<br />
di compromessi, quale la presidenza italiana si rifiutò di avallare, o rinvieranno il problema di altri sei<br />
mesi rischiando di perdere il treno, o in un sussulto di orgoglio <strong>eu</strong>ropeista lanceranno una sfida alle<br />
rispettive opinioni pubbliche, cercando di imporre ancora una volta dall’alto - come fu fatto per il<br />
Mercato Unico e per Maastricht - un decisivo passo avanti sulla via dell’integrazione. Ma stavolta la<br />
scommessa potrebbe anche fallire.<br />
Oltre a decidere sulla Costituzione, il Consiglio Europeo dovrebbe anche designare il<br />
successore di Romano Prodi alla presidenza della Commissione. Sia per la (non scritta) legge<br />
dell’alternanza, sia in considerazione della vittoria dei Popolari, dovrebbe essere un uomo di centro-<br />
destra. Ma, con l’eccezione del democristiano lussemburghese Juncker, tutti i candidati più quotati<br />
sono usciti male dalle elezioni, rafforzando i veti incrociati e complicando ulteriormente i giochi.<br />
Un’altra conseguenza negativa di questa tornata elettorale è di ridare fiato a coloro che<br />
considerano l’allargamento non la tanto sognata riunificazione del continente, ma un ostacolo alla<br />
creazione di una Unione veramente coesa e capace di trasformarsi, con il tempo, in un gigante politico.<br />
Il fatto che, con l’eccezione di Cipro e di Malta, nei nuovi Paesi membri tre elettori su quattro se ne<br />
siano rimasti a casa significa che l’Unione è, nel migliore dei casi, poco sentita, e nel peggiore vista<br />
con ostilità. Purtroppo, specie con tutte le clausole di salvaguardia inserite nei trattati di adesione,<br />
passerà molto tempo prima che questi sentimenti negativi possano modificarsi e che i Quindici e i<br />
Dieci si sentano a loro agio sotto lo stesso tetto.<br />
Un ulteriore approfondimento dell’Unione Europea sembra essere considerato con<br />
diffidenza da chi considera una minaccia ai propri interessi nuove cessioni di poteri di<br />
260
sovranità a quella che viene identificata come una “burocrazia senza volto”. Tuttavia, la<br />
Grande Famiglia può anche offrire molte tutele, che i nuovi Paesi appena entrati nell’Unione<br />
non hanno ancora avuto la possibilità di verificare, e consolidare nella propria esperienza i<br />
benefici di una “Unione più stretta”. Passerà ancora molto tempo, come prefigura Caputo,<br />
prima che i sentimenti negativi degli elettori dei nuovi Paesi membri, che sono rimasti a casa<br />
in tre su quattro, possano modificarsi e che i Quindici e i Dieci si sentano a loro agio sotto lo<br />
stesso tetto?<br />
Costruire la cultura <strong>eu</strong>ropea<br />
Per condurre le persone in organizzazioni dotate di senso, in grado cioè di attraversare<br />
il percorso individuato o di sfruttare appieno le opportunità presenti, secondo la formulazione<br />
di Nicholls, bisogna definire la visione dell’organizzazione, la sua missione, il suo percorso o<br />
strategia e la sua struttura. In altre parole, come ho accennato in precedenza, per costruire la<br />
cultura, bisogna rispondere a questioni come: cosa fa questa organizzazione? Qual è il mio<br />
posto in essa? Come verrà valutato e giudicato? Che cosa ci si attende da me? Per quali<br />
ragioni dovrei dare il mio impegno?<br />
Per definire la visione e missione, si risponde alle domande: cosa fa l’organizzazione e<br />
per quali ragioni dovrei dare il mio impegno individuale?<br />
Per definire percorso e struttura, si risponde alle altre domande: qual è il mio posto in<br />
essa? Che cosa essa si attende da me? Come verrò valutato e giudicato?<br />
Per ottenere la condizione desiderata in rapporto alla missione del gruppo, in certi<br />
particolari ambienti e culture, può essere necessario predisporre percorsi o “punti di tensione”<br />
multipli, in relazione alla condizione attuale in cui quegli ambienti e quelle culture si trovano.<br />
Occorre tener presente che l’espressione della missione del gruppo in un dato<br />
ambiente seguirà un percorso particolare, in un contesto culturale specifico. In altri termini,<br />
per acquisire la condizione desiderata in Polonia, piuttosto che in Italia, potrebbe essere<br />
necessario introdurre modifiche in concetti di “profitto”, “pianificazione”, “competenza<br />
transculturale” ecc.<br />
Inoltre, è necessario ricorrere, in contesti diversi, a sistemi di capacità e di azioni<br />
diverse per realizzare un identico valore distintivo. Negli USA, ad esempio, le capacità<br />
“pubblicitarie” e di “pubbliche relazioni” sono più importanti di quella di “pianificazione”,<br />
rispetto ad altri continenti.<br />
Ambienti e culture diverse richiederanno tendenzialmente percorsi diversi, per cui<br />
occorrerà rafforzare o sviluppare valori, capacità e/o azioni diversi per raggiungere gli<br />
261
obiettivi.<br />
La costruzione della cultura, come ho già esposto in altra sede, esige una risposta alle<br />
seguenti fondamentali questioni: quale è la visione più ampia che l’organizzazione sta<br />
perseguendo?; qual è la missione in rapporto alla visione e alla comunità di cui intende servire<br />
i bisogni?; quali sono il percorso e la strategia che l’organizzazione intende seguire per<br />
perseguire la propria missione?; qual è la sua struttura in termini di compiti fondamentali e<br />
relazioni necessarie per realizzare la propria strategia? Solo dopo aver raggiunto un consenso<br />
comune su queste domande si può cominciare a fare passi concreti.<br />
Per creare un mondo al quale le persone vogliano appartenere ci vuole la capacità di<br />
individuare i percorsi da seguire per raggiungere la visione che ci siamo prospettati e per<br />
creare strutture organizzative in grado di supportare il cammino lungo questi percorsi. Per<br />
stabilire i percorsi e la cultura in grado di creare quell’organizzazione dotata di senso capace<br />
di realizzare una visione organizzativa condivisa, occorrono le abilità di leadership cosiddette<br />
di tipo “macro”.<br />
Allora, come possiamo predisporre il terreno in modo che i Quindici e i Dieci nuovi<br />
componenti della Famiglia Europea si sentano a loro agio nella loro Casa?<br />
La risposta è tutt’altro che semplice, ma sostenere che ciò dipende dalla politica<br />
culturale, sociale e scolastica, anziché dall’insistenza sul PIL e sulla politica economica, mi<br />
sembra doveroso, per poter entrare nel nocciolo della questione. Lo smantellamento dei<br />
pregiudizi che dividono i componenti della Grande Famiglia Allargata mi sembra il tema<br />
centrale da trattare in proposito.<br />
Gli entusiasmi nell’ex cortina di ferro sembrano essersi spenti da tempo. Se l’adesione<br />
alla NATO ha segnato la fine di un’epoca di sofferenze, quella all’Unione Europea è stata<br />
solo la successiva logica conseguenza. “Mica possiamo essere nuovamente risucchiati verso<br />
Est, verso l’Asia”, è il ritornello più popolare da Tallinn a Budapest.<br />
L’entrata nell’UE è stata, quindi, più per convenienza politico-economica che per reale<br />
convinzione di costruire una “grande Europa” dei diritti, dei valori, dei popoli? Con<br />
ragionevole probabilità, i nuovi Dieci Paesi che sono entrati nella Grande Famiglia Europea<br />
non sono stati adeguatamente preparati da una politica”educativa”.<br />
Lo storico debito verso questa sfortunata gente è stato colmato il primo maggio 2004<br />
ma adesso viene il difficile: lavorare con loro a contatto di gomito e farli crescere nell’ideale<br />
<strong>eu</strong>ropeo. Occorre trasmettere loro dialogo e scambi culturali, desiderio e volontà di sentirli<br />
radicati e appartenenti alla nuova Casa Europea, e non “inquilini” di un condominio in cui<br />
nessuno si conosce e tutti si fanno i fatti loro.<br />
262
La formazione dello “spirito <strong>eu</strong>ropeo”<br />
L’esperienza di integrazione dei tedeschi dell’Est post caduta Muro di Berlino<br />
dovrebbe aver pur insegnato qualcosa. Ed invece, si ha la sensazione che - malgrado i lunghi<br />
negoziati, trattative e quant’altro - la conoscenza della realtà socio-psicologica dei nuovi Dieci<br />
membri abbia non poche lacune. Lo stesso vale per i politici continentali che non si rendono<br />
conto di quanto sia rischioso proporre l’approvazione tramite referendum della nascente<br />
Eurocostituzione, prima che i nuovi fratelli si sentano “a casa loro”.<br />
I dati di affluenza alle urne nel week-end (Slovacchia 17%; Polonia 20%; Lituania<br />
24%; Estonia 26%; Repubblica Ceca 29%) rispecchiano situazioni note già dalle<br />
consultazioni di adesione all’UE nel 2003. Allora i vari legislatori locali si inventarono le<br />
regole più strane per garantirsi da spiacevoli sorprese, eliminando, in alcuni casi, persino il<br />
quorum. Due sembrano essere le ragioni: ad Est lo scollamento tra la società civile e la<br />
politica è netto e dura dagli anni dell’instaurazione del comunismo; la gente sembra non avere<br />
assolutamente capito il ruolo del Parlamento <strong>eu</strong>ropeo e come funziona la complessa macchina<br />
burocratica di Bruxelles.<br />
In questa realtà il grido degli <strong>eu</strong>roscettici polacchi: “No ad un’altra Unione come<br />
l’URSS” diventa tremendamente efficace. Anche perché l’UE ha posto condizioni<br />
impegnative ai Dieci. Per molti, soprattutto fra le classi lavoratrici, essere parte dell’Unione<br />
significa nel prossimo futuro tirare essenzialmente la cinghia e fare ulteriori sacrifici. Ecco, in<br />
sintesi, quale può essere un’altra delle ragioni della vittoria degli <strong>eu</strong>roscettici e delle nette<br />
sconfitte dei governi, che hanno gestito l’adesione all’UE.<br />
Un caso a parte è la “grande malata”, la Polonia, il quinto Paese più influente dell’UE,<br />
che il 13 giugno doveva eleggere ben 54 deputati. Il 2 maggio il premier Miller si è dimesso.<br />
Il primo ministro incaricato Marek Belka è stato bocciato già una volta alla Dieta e si<br />
ripresenterà per la fiducia il 24 giugno. Spaventosa alle <strong>eu</strong>roelezioni è stata la sconfitta dei<br />
partiti di governo con una imperiosa avanzata degli <strong>eu</strong>roscettici e dei conservatori, ma con il<br />
contenimento del partito xenofobo “Samoborona” che ha ottenuto il 13% contro il 25% delle<br />
preferenze di voto nei sondaggi del mese di maggio. Varsavia sembra di primo acchito una<br />
mina sulla strada dell’Eurocostituzione. Non può fare ulteriori concessioni. “O Trattato Nizza<br />
o morte” è lo slogan corrente.<br />
D’altro lato, il regresso del partito di Haider in Austria, malgrado la svolta a destra<br />
dell’Europa, sembra indicare che gli estremismi xenofobi hanno lasciato il posto ad<br />
orientamenti più accorti e strategicamente più efficaci.<br />
La matematica non si trasferisce mai in fotocopia nella politica; ma i numeri<br />
263
significano pur sempre qualcosa, se non altro in termini di tendenza, e ignorarli sarebbe<br />
miope. Ma al di là dei numeri, dello scarso coinvolgimento nel destino dell’Europa, come se<br />
fosse un’entità a sé stante che si vuole tenere lontana dalla quotidianità del vivere, o come se<br />
costituisse un ostacolo alle proprie realizzazioni, c’è il problema della formazione dello<br />
“spirito <strong>eu</strong>ropeo”, che non si ottiene spingendo gli elettori a votare, bensì costituendo lo<br />
“spirito di gruppo” e risvegliando il bisogno di radicamento e di appartenenza nella nuova<br />
Casa Europea.<br />
Gli astenuti sono infatti risultati il vero vincitore delle elezioni: le urne sono state<br />
disertate dal 55% degli <strong>eu</strong>ropei, con il peggiore risultato nella storia dell’Assemblea di<br />
Strasburgo dal 1979 (prima tornata elettorale). A deludere sono stati soprattutto i Dieci nuovi<br />
stati membri, che - ad eccezione di Cipro e Malta - hanno nettamente steccato la prima uscita,<br />
con una media di votanti del 26,7% che ha gelato entusiasmi ed aspettative generate<br />
dall’altissima partecipazione ai referendum per l’adesione all’UE. Tra i nuovi Paesi spicca in<br />
negativo il dato della Polonia (il più grande tra i Dieci, con circa 40 milioni di abitanti), dove<br />
ha votato appena il 20%. Nei Quindici Paesi della “vecchia UE” le cose sono andate un po’<br />
meglio, e la media dei votanti si è attestata al 49,1% (poco lontana dal 49,8% del 1999), con<br />
picchi del 90,8% in Belgio (dove si è votato però anche per le regionali), del 90% in<br />
Lussemburgo (dove si sono svolte anche le politiche) e del 73,5% in Italia. Preoccupanti<br />
invece il 43% di Francia e Germania e il 38,9% della Gran Bretagna.<br />
Sulle elezioni italiane, soprattutto amministrative, contemporanee a quelle <strong>eu</strong>ropee del<br />
2004, è stato detto che la lezione vera di questo voto è che le rendite di posizione non pagano,<br />
e che le vittorie non arrivano per investiture dall’alto, ma si devono conquistare sul campo.<br />
Sudandosele tutte, e non solo nel giorno delle elezioni, ma anche e soprattutto durante gli anni<br />
di legislatura. Altrimenti, su quel campo non resta che contare i caduti.<br />
Riguardo all’Europa allargata ad Est si può dire che è mancato il “lavoro sudato” di<br />
assorbimento nella nuova entità, arando il terreno culturale e sociale non tanto con una<br />
campagna propagandistica dell’ultima ora, quanto con un attivo coinvolgimento emozionale e<br />
una disseminazione di valori condivisi e radici comuni.<br />
Il risultato elettorale in Gran Bretagna<br />
Il giornalista Caprarica, presentando al telegiornale le prime proiezioni dei risultati<br />
elettorali, ha definito “guastatori” i nuovi rappresentanti del Partito dell’Indipendenza del<br />
Regno Unito, che si insedieranno a Bruxelles.<br />
Il Labour party di Tony Blair scivola addirittura al terzo posto, battuto nelle<br />
264
contemporanee elezioni locali sia dai conservatori sia dai liberali e “finito” nel conteggio<br />
<strong>eu</strong>ropeo dalla “esplosione” del partito della protesta, l’inedito UKIP, ovvero Partito<br />
dell’Indipendenza del Regno Unito, propagatore del più diretto messaggio anti<strong>eu</strong>ropeo.<br />
Prima la batosta alle elezioni amministrative, con il partito finito dietro anche i liberal-<br />
democratici, poi la seconda legnata delle <strong>eu</strong>ropee con i laburisti in calo di 5 punti - quattro in<br />
meno dei conservatori - e con gli indipendentisti dell’UKIP al terzo posto dopo aver superato<br />
i liberal-democratici. Non una sconfitta come alle amministrative, ma un duro segno di<br />
sfiducia ed un ammonimento al premier che ha sempre immaginato la Gran Bretagna come<br />
uno dei perni centrali del sistema politico <strong>eu</strong>ropeo mentre, per la prima volta dalla sua<br />
elezione, si trova con la maggioranza dell’opinione pubblica <strong>eu</strong>roscettica.<br />
La consistenza del pericolo ha fatto scendere in campo i big del partito e del governo.<br />
Una sorta di operazione preventiva e protettiva prima che si scatenasse una possibile gara al<br />
“Blair deve lasciare”. Anche il Cancelliere dello scacchiere Gordon Brown ha fatto sentire<br />
con calore la sua voce in difesa di un premier che per ora rappresenta ancora la miglior carta<br />
che il partito possa giocare per conquistare un terzo mandato popolare.<br />
L’onda di <strong>eu</strong>roscetticismo ha ritrovato slancio e motivazioni che, per la verità, non<br />
erano mai venute del tutto meno, a cominciare dalla repulsione verso l’<strong>eu</strong>ro e verso tutto<br />
quello che sa di <strong>eu</strong>roburocratico. Temi che ora i 12 parlamentari <strong>eu</strong>ropei dell’UKIP hanno<br />
promesso di rilanciare e di riportare al centro del dibattito politico, spiazzando i conservatori<br />
che avevano trovato un equilibrio interno sotto la leadership di Michael Howard, legato ad<br />
una politica non aggressiva dopo anni di lacerazioni su Europa sì o Europa no. Una bandiera<br />
di lotta alzata per tanto tempo da Margareth Thatcher ed ora passata nelle mani del giovane<br />
partito indipendentista, che proprio il 14 giugno 2004 ha annunciato che si organizzerà per<br />
diventare un movimento di massa.<br />
“Per piacere, ora non chiamateci più ‘altri’”, ha infatti detto, sull’onda del suo<br />
successo, Roger Knapman, il leader del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP),<br />
che non può essere più relegato nella generica categoria che raggruppa tutti i partiti minori<br />
britannici. Dal giorno delle elezioni <strong>eu</strong>ropee in Gran Bretagna, l’UKIP è la terza forza politica<br />
britannica rappresentata nell’<strong>eu</strong>roparlamento, dopo una cavalcata che ha dato agli <strong>eu</strong>roscettici<br />
una vera roccaforte a Bruxelles con ben 12 seggi rispetto ai 3 ottenuti nel 1999. L’obiettivo di<br />
Knapman è chiaro: “Vogliamo ridare ai britannici il loro Paese”, ha dichiarato il leader<br />
durante una conferenza stampa tenuta a Londra. E poi, in vista del summit dei paesi UE sulla<br />
Costituzione, il partito ha presentato un poster con un messaggio a Blair: “Non firmare la<br />
costituzione, Tony. La Gran Bretagna dice No”.<br />
265
Fondato nel 1993 alla London School of Economics da alcuni membri della lega anti-<br />
federalista, l’UKIP ha scavalcato i liberal-democratici con il 16,1% delle preferenze contro il<br />
14,9%. Un vero terremoto politico che ha visto inoltre rafforzarsi altri partiti minori come il<br />
British National Party (BNP, estrema destra) che ha raccolto oltre 800mila voti (4,9%) e il<br />
“Respect-The Unity Coalition” del deputato ex laburista George Galloway, cacciato dal<br />
Partito per aver sostenuto Saddam Hussein, che è arrivato all’1,5%.<br />
Solo un inglese su quattro se l’è sentita, dunque, stavolta, di votare per il partito di<br />
Tony Blair. Colpa dell’Iraq? In buona parte, senza dubbio: il ruolo del premier è stato molto<br />
diverso, più attivo e più “esposto” di quello dei governanti <strong>eu</strong>ropei che hanno appoggiato<br />
l’America in Iraq per lealtà di alleati o per vecchia gratitudine, dopo averle dato buoni<br />
consigli in genere non accolti. È dunque l’“antiamericanismo” il motore degli <strong>eu</strong>ropei? Non lo<br />
è, e lo dimostra il risultato parallelo della Germania. Al contrario del premier laburista, il<br />
cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröeder aveva capeggiato fin dall’inizio il “fronte<br />
del no”, affrontando la rottura con Washington, cavalcando le inquietudini dei pacifisti e i<br />
sussulti di orgoglio nazionale ed <strong>eu</strong>ropeo. Era riuscito con questo a salvarsi in extremis nelle<br />
elezioni nel 2002, per una manciata di voti. Ma ha continuato a governare come prima e<br />
adesso gli è stato recapitato il conto: poco più del 21%, il minimo nella storia centenaria della<br />
SPD, meno della metà dell’opposizione democristiana. Una catastrofe pari o addirittura<br />
superiore a quella della Gran Bretagna. Londra e Parigi si guardano costernate a vicenda.<br />
Il risultato elettorale in Germania<br />
Gerhard Schröeder ha firmato domenica 12 giugno 2004 la peggiore disfatta elettorale<br />
nella storia della SPD, ma sa di non avere alternative alle riforme e il 14 giugno ha giurato<br />
che il governo non cambierà rotta. E un portavoce governativo ha smentito ogni ipotesi di<br />
rimpasto. Per l’opposizione il Cancelliere è arrivato al capolinea e in mancanza della fiducia<br />
degli elettori la cosa migliore che potrebbe fare sarebbe dimettersi.<br />
Una caduta così nella polvere non se l’aspettava nessuno tra i social-democratici: alle<br />
<strong>eu</strong>ropee la SPD ha perso oltre nove punti arrivando a meno della metà dei voti della CDU-<br />
CSU, e alle regionali in Turingia è arrivata a un terzo della CDU che pure ha perso otto punti.<br />
Il verdetto elettorale suona: 21,5% alle <strong>eu</strong>ropee per la SPD, contro il 30,7% del ’99, e 44,5%<br />
per la CDU-CSU (48,7% nel ’99). In Turingia la SPD scivola al 14,5% (18,5%) contro il 43%<br />
della CDU (51%), che nonostante il calo difende la maggioranza assoluta in seggi al<br />
parlamento regionale e può quindi continuare a governare da sola. Per i rapporti di forza a<br />
livello federale, la situazione al Bundesrat, la camera alta delle regioni, resta invariata: la<br />
266
maggioranza ce l’ha sempre l’opposizione e il governo rosso-verde ha bisogno del suo placet<br />
per far passare le sue leggi.<br />
Il 14 giugno 2004 tutti i partiti si sono riuniti per esaminare il voto, e i giornali<br />
commentano senza fronzoli la inequivocabile debacle SPD. Il “Crepuscolo del Cancelliere”,<br />
commenta la Frankfurter Allgemeine Zeitung, mentre per la Suedd<strong>eu</strong>tsche Zeitung Schröeder<br />
è diventato un’ipoteca per il partito: qualsiasi cosa faccia agli elettori non va giù, e la SPD è<br />
diventata il Partito del Capro Espiatorio della Germania.<br />
La sconfitta è amara ma il governo non farà marcia indietro sulla strada delle riforme<br />
del welfare, ha annunciato Schröeder. “Posso e voglio portare avanti solo questa politica”, ha<br />
detto ribadendo ancora una volta di far dipendere la sua sorte politica dal successo<br />
dell’Agenda 2010. Dello stesso tenore le dichiarazioni del neoleader SPD Franz<br />
Muentefering, succeduto a Schröeder tre mesi prima nel tentativo di arginare la frana di<br />
consensi nel partito. “Muente”, com’è soprannominato, si è mostrato tetro in volto a una<br />
conferenza stampa e ha dato fondo a tutto il repertorio lessicale per descrivere la disfatta: da<br />
disastro a tramonto, passando per una divagazione calcistica ispirata dalla partita Francia-<br />
Inghilterra.<br />
Per l’opposizione CDU-CSU, Schröeder ha perso la sua base elettorale e la cosa<br />
migliore sarebbe che si dimettesse. Per il premier bavarese Edmund Stoiber, la SPD dovrebbe<br />
chiedersi se vuole, e può, ancora continuare a governare. La leader della CDU, Angela<br />
Merkel, ha parlato di “disastro” per Schröeder, ma ha detto anche di non credere che la<br />
legislatura finirà prima del previsto nel 2006. Per elezioni anticipate si è detto invece<br />
apertamente il leader liberale Guido Westerewelle, la cui FDP ha vinto il 6,1% alle <strong>eu</strong>ropee<br />
(rimettendo piede dopo dieci anni a Strasburgo), tanto quanto i post-comunisti della PDS.<br />
I Verdi invece, al governo con la SPD, da un lato esultano per la loro vittoria (un salto<br />
dal 6,4% all’11,9% alle <strong>eu</strong>ropee), e dall’altra piangono per la sconfitta dell’alleato: i principali<br />
esponenti hanno usato il guanto di velluto col partner umiliato e promesso la loro solidarietà<br />
sulla via delle riforme.<br />
Il risultato elettorale in Francia<br />
In Francia Jean-Pierre Raffarin è muto come un pesce. In compenso il traballante<br />
primo ministro - ancora una volta bistrattato dalle urne - ha dato fiato alle trombe per la<br />
clamorosa vittoria dei “bl<strong>eu</strong>” sugli inglesi agli <strong>eu</strong>ropei di calcio. Ed è polemica.<br />
“E’ una cinica forma di disprezzo nei confronti degli elettori il commento sulla<br />
nazionale e il silenzio sul risultato delle urne”, tuona il leader socialista François Hollande, al<br />
267
settimo cielo perché grazie al 28,89% dei voti il suo PS è di nuovo “il primo partito di<br />
Francia” e capeggia un’opposizione di sinistra ridiventata maggioranza.<br />
“L’assordante silenzio” di Raffarin sulle <strong>eu</strong>ropee si spiega ovviamente con il<br />
disastroso risultato dell’UMP. Che delusione per il presidente Jacques Chirac: ha fondato due<br />
anni fa quel partito (sulle ceneri dell’RPR gollista) con l’ambizione di farne la casa comune di<br />
tutto il fronte moderato e si ritrova adesso con una formazione che ha sì la maggioranza<br />
assoluta in parlamento ma alle <strong>eu</strong>ropee ha incamerato appena il 16,63% dei suffragi. Meglio<br />
dunque glissare sul responso delle urne, meglio mandare invece un bel telegramma ai<br />
fuoriclasse francesi del pallone, con “calorose congratulazioni” soprattutto per Zidane e<br />
Barthez “protagonisti di due imprese decisive”: così Raffarin può sentirsi più in sintonia con i<br />
connazionali che in quantità industriale (57,2%) hanno boicottato i seggi ma non la super-<br />
partita in tv contro l’Inghilterra.<br />
La strategia è chiara: il premer vuole “guardare avanti” archiviando - come qualcosa<br />
che non lo tocca - la sonora disfatta della domenica elettorale, un bis del rovescio già sofferto<br />
alle regionali di marzo. In fondo il dribbling è possibile perché da qui alle presidenziali e<br />
legislative del 2007 non ci sono altri scomodi incontri ravvicinati con gli elettori.<br />
Un sondaggio realizzato in concomitanza con le <strong>eu</strong>ropee ha indicato che il 51% dei<br />
francesi vorrebbe un nuovo primo ministro ma nemmeno dopo l’<strong>eu</strong>ro-batosta Chirac sembra<br />
disposto a cacciare l’impopolare Raffarin. Secondo alcuni commentatori politici, la ragione è<br />
semplice: non ha un ricambio valido sotto mano. Il fido Dominique de Villepin? Prima deve<br />
“crescere” come ministro degli Interni. Il delfino Alain Juppé? È spacciato a causa dei guai<br />
con la giustizia per un filone della “tangentopoli sulla Senna”. L’unico ingombrante cavallo di<br />
razza che scalpita nel centrodestra - il superministro dell’Economia Nicolas Sarkozy - non è<br />
proponibile perché si sa che ha un solo obiettivo: vuole la poltrona di presidente e Chirac non<br />
si fida di qualcuno intento soprattutto a manovrare per fargli le scarpe.<br />
Raffarin appare quindi “condannato” a restare nel prevedibile futuro a Palazzo<br />
Matignon, con ogni probabilità alla guida di una compagine ancora una volta rimpastata, forse<br />
con una più forte presenza di vip dell’UDF, il partito centrista che con il cattolico François<br />
Bayrou al timone è salito la domenica delle elezioni all’11,94%. Juppé, presidente uscente<br />
dell’UMP, sempre secondo alcuni commentatori politici, punta adesso proprio a questo:<br />
riagganciare il frondista Bayrou, allettarlo con poltrone ministeriali, convincerlo che soltanto<br />
riorganizzandosi e ricompattandosi il centrodestra potrà resistere alla spettacolare rimonta di<br />
una “gauche” balzata in testa con il 42,88% dei voti contro il 37,98 dello schieramento<br />
moderato.<br />
268
Uno sguardo al risultato elettorale in Europa<br />
Quando Blair e Schröeder guardano Chirac, dunque, non vi trovano consolazione. Poi<br />
guardano Roma, la capitale della “anomalia” e provano, forse per la prima volta, un po’ di<br />
invidia. Per non parlare dei nuovi arrivati: dei governi socialisti di Polonia, Repubblica Ceca,<br />
Ungheria. Altrettante disfatte storiche, in minima parte dovute al coinvolgimento marginale<br />
nella vicenda irachena: li ha condannati lo stato dell’economia, aggiunto alle inquietudini del<br />
cambiamento di status in Europa. In proporzioni non ancora note con altrettanta precisione,<br />
fenomeni analoghi si sono delineati nei paesi baltici. Per quanto riguarda la Spagna, “orfano”<br />
di Aznar, il Partido Popular ha dato qualche segno di ripresa dopo la batosta di marzo<br />
innescata dalla strage di Al Qaida. I socialisti subentratigli hanno mantenuto le posizioni: il<br />
malumore degli spagnoli si era già sfogato. È toccato semmai ai portoghesi con una rimonta<br />
protestataria della sinistra. Perfino i belgi hanno trovato l’occasione per protestare,<br />
convogliando, come i lontani parenti nell’ex Est il proprio malumore su liste nazional-<br />
populiste di estrema destra. Gli effetti di tutti questi spostamenti, proprio per la loro<br />
eterogeneità, si sono poi in buona parte compensati a vicenda, per cui il volto del nuovo<br />
Parlamento <strong>eu</strong>ropeo assomiglierà molto a quello del vecchio: la leadership rimarrà al<br />
centrodestra guidato dal PPE. In un’Europa superficialmente scombussolata, le istituzioni per<br />
il momento tengono; e in qualche caso anche le radici. A smentita della favola circa le<br />
instabilità dell’Italia “anomala”.<br />
In tutti i Paesi <strong>eu</strong>ropei i governi perdono e le opposizioni vincono. In Italia le<br />
opposizioni rosicchiano qualcosa e il governo tiene, malgrado la ragionevole flessione: una<br />
flessione prevista e prevedibile che colpisce senza pietà il partito del premier alle elezioni di<br />
metà termine, come sanno perfettamente gli americani nel cui Paese di norma il Presidente e il<br />
suo partito perdono questo test elettorale, cosa considerata fisiologica e per la quale nessuno<br />
si suicida o canta troppo vittoria. Controprova: tutti i partiti di governo <strong>eu</strong>ropei, dalla destra di<br />
Chirac alle sinistre di Blair e di Schröeder (e dunque senza alcuna distinzione fra chi ha<br />
partecipato e chi si è opposto alla guerra in Iraq) prendono delle mazzate che in Italia nessun<br />
partito di governo ha ricevuto.<br />
Un dato emergente dalle elezioni <strong>eu</strong>ropee che va evidenziato, indipendentemente dallo<br />
schieramento di partito, è che raddoppia la pattuglia delle donne a Strasburgo: sono 17 le<br />
donne elette, mentre nel ’99 furono 10 su 87 parlamentari italiani, cioè l’11,5%. Stavolta sono<br />
il 20,5%: 17 su 78.<br />
Il dialogo interno fa bene al governo. “E per capire questo metodo essenzialmente<br />
democratico si è attesa una sconfitta!”. È quanto sottolinea L’Osservatore romano,<br />
269
commentando l’esito delle elezioni e, in particolare, una dichiarazione del ministro<br />
Giovanardi - riportata da “Il Gazzettino” del 16 giugno 2004 -, per il quale appunto “la<br />
maggioranza si metterà attorno a un tavolo e discuterà di tutto, compreso della squadra di<br />
governo: parlare pacatamente è sempre utile alla coalizione”. Quanto all’esito del voto, per il<br />
quotidiano vaticano “mentre i seggi conquistati per l’<strong>eu</strong>roparlamento confermano il<br />
sostanziale equilibrio tra gli schieramenti, nel primo turno delle amministrative risulta una<br />
netta affermazione del centrosinistra”.<br />
Per quanto concerne le elezioni amministrative, Giustina Destro, di centrodestra,<br />
sindaco uscente di Padova (Veneto), in un’intervista pubblicata il 16 giugno 2004 su Il<br />
Gazzettino, dichiara: “Ho pensato solo a lavorare e comunicare con i fatti invece che con le<br />
chiacchiere, con la dietrologia, con la politica. Ho creduto che sarebbe bastato far vedere ai<br />
cittadini le cose fatte per ottenere il loro ringraziamento. Invece non è stato così”.<br />
Cos’altro serve? “Credevo che fosse più appagante sistemare una buca, aggiustare un<br />
marciapiede, installare un lampione, costruire strade e case, aiutare i più deboli; invece conta<br />
di più avere un progetto politico, un disegno di rapporti e strategie”.<br />
Il peso attribuito ai progetti politici va dunque attentamente valutato, al di là dei<br />
semplici fatti, che vengono interpretati a seconda del “filtro deformante” di ciascuno. Il<br />
pragmatismo va integrato con un disegno strategico di più ampio respiro, con una cultura<br />
organizzativa che preveda una risposta a domande relative all’identità e alla mission.<br />
270
LA NUOVA COSTITUZIONE E LA NUOVA EUROPA<br />
Il 19 giugno 2004 un grande sogno è diventato realtà.<br />
In una piovosa nottata belga di inizio estate - dopo un travaglio di ore - vede la luce la<br />
Costituzione <strong>eu</strong>ropea. È logico che ginecologi e levatrici di prima fila alzino i calici al cielo. È<br />
scontato che i primari alle spalle si limitino a sorrisi di circostanza. Perché sarà pur vero che<br />
con la nuova carta fondamentale si è posta una premessa forte per un miglior coagulo di<br />
nazioni e cittadini, ma sono tante le ferite non ancora cicatrizzate che l’evento ha messo in<br />
bella evidenza. I sei Paesi fondatori, ad esempio, non esistono più, così come il direttorio a tre<br />
Parigi-Londra-Berlino che Chirac ha cercato di far nascere in ogni modo. Nella due giorni<br />
brussellese, tra l’altro, sembra confermato che il laburista Blair va d’accordo più con<br />
Berlusconi che col socialista Zapatero. E che Chirac non intende consegnare posizioni di<br />
rilievo a chi non sia entrato nell’<strong>eu</strong>ro e in Schengen. Come a dire che anche Copenhagen e<br />
Stoccolma, oltre che Londra, sono considerate fuori gioco dall’Eliseo.<br />
Già si fanno i primi calcoli dell’intesa. Chi ha vinto e chi ha perso in questa prima<br />
kermesse comunitaria a 25? Ahern ci tiene a magnificare la presidenza irlandese, ma la<br />
stampa internazionale non è d’accordo. “Troppi cedimenti a Londra”, accusano francesi e<br />
tedeschi. “Non ha tenuto conto delle richieste dei Paesi più piccoli”, caricano da Vienna,<br />
Praga e Helsinki. La sua felicità per il varo di un testo “comprensibile anche all’uomo della<br />
strada” ha fatto roteare gli occhi persino agli addetti ai lavori, stesi dal fitto reticolo di<br />
percentuali sulla doppia maggioranza. Ma, al di là degli irlandesi che alla fine il traguardo<br />
l’hanno toccato, sia pure a tentoni, chi ha vinto e chi ha perso nella “battaglia di Bruxelles”?<br />
Il giornalista Alessandro M. Caprettini, inviato a Bruxelles per Il Giornale, fa una<br />
sintesi dei risultati in un articolo dal titolo “Vincitori e vinti della battaglia <strong>eu</strong>ropea”:<br />
BLAIR. In quasi tutte le cronache giornalistiche di ieri si dava il premier britannico come<br />
l’uomo che alla fine ha più fieno in cascina. Politica estera e di difesa restano materie in cui la Gran<br />
Bretagna può continuare a marciare senza condizionamenti comunitari. Ma anche su fisco, giustizia e<br />
politica sociale, di fatto, ha costruito una muraglia sulla Manica. Non solo: non voleva l’anti-USA<br />
Verhofsdadt alla guida della Commissione e l’ha fatto secco al primo colpo.<br />
CHIRAC. Forse credeva davvero che la sua intesa con Schröeder potesse bastare a segnare la<br />
direzione di marcia, perché tanto “l’intendenza avrebbe seguito”, come da napoleoniche certezze. Ha<br />
fatto la voce grossa e a tratti ha fatto trasparire una arroganza figlia, probabilmente, dell’irritazione per<br />
il non riuscire a condurre le cose come avrebbe voluto. Già qualcuno gli rimproverava le condizioni<br />
271
troppo favorevoli concesse a Nizza a Spagna e Polonia pur di chiudere l’argomento. Adesso si è fatto<br />
nuovi nemici, tra cui il Vaticano che non ha gradito il no all’inserimento dei valori cattolici nella carta,<br />
motivato col laicismo vittorioso oltralpe da ormai 100 anni.<br />
BERLUSCONI. Lo avevano tacciato di incapacità per la mancata stipula della Costituzione<br />
alla fine del dicembre scorso e ora è chiaro a tutti che a impedire quel risultato non furono le sue<br />
presunte scarse qualità diplomatiche, ma il braccio di ferro sotto il pelo dell’acqua tra Londra e Parigi.<br />
Molte delle soluzioni adottate ieri, poi, si sono delineate grazie all’azione sua e di Frattini. E inoltre a<br />
Bruxelles si è formalizzata di fatto la sua nomina a leader dello schieramento di centro-destra in<br />
Europa. Visto che è stato lui, a nome di tedeschi della CDU, degli spagnoli del Pp,dei conservatori<br />
britannici a proporre Patten a guida della Commissione.<br />
PRODI. Più d’uno ieri ha ricordato le proteste e le lamentazioni del professore contro i rischi<br />
di una intesa al ribasso, fatti risuonare lungo l’arco della presidenza italiana. Da ieri alla commissione<br />
hanno limato le unghie sul Patto di Stabilità, si sono fatti passi da gambero sulle materie da trattare a<br />
maggioranza ed è rispuntato fuori addirittura un doppio diritto di veto (anche i piccoli possono<br />
chiamarsi fuori da certe intese). Eppure Prodi ha parlato di “risposte molto più avanzate di quelle che<br />
mi aspettavo” e ha agitato a lungo il turibolo. Sarà perché si sente ormai in corsa per un premierato o<br />
perché non ha seguito passo passo i 383 articoli di un documento che più che una Costituzione pare un<br />
regolamento condominiale dei più arzigogolati?<br />
conta.<br />
Tra pareri contrastanti e contraddizioni, l’Europa comunque va avanti ed è ciò che<br />
Nel giorno in cui si celebra, con toni spesso enfatici, la nascita della Costituzione<br />
<strong>eu</strong>ropea, c’è chi esce dal coro per esprimere critiche alla Carta fondamentale sulla quale si<br />
modellerà il nuovo Vecchio Continente. Ed è, quello degli scettici, un partito assolutamente<br />
trasversale che quindi non tiene minimamente conto dell’appartenenza a un dato schieramento<br />
o coalizione.<br />
Il più acceso “anticostituzionalista” è sicuramente il leghista Roberto Calderoli.<br />
“Sembra un certificato di morte” è il suo primo giudizio. “Un certificato veramente brutto -<br />
prosegue - in cui, neppure nel momento del decesso, si è avuto il coraggio di un gesto<br />
d’orgoglio con cui affermare il valore delle radici, delle culture, delle identità dei vari popoli.<br />
Neppure le radici cristiane sono state accettate, bel sistema per affrontare il terrorismo e il<br />
fanatismo religioso che hanno dichiarato guerra all’Occidente!”. In forza di queste<br />
considerazioni, il vice-presidente del Senato sostiene la necessità di un referendum. “Bisogna<br />
sottoporre subito la Costituzione <strong>eu</strong>ropea al giudizio del popolo - propone Calderoli - visto<br />
che essa tocca la sovranità del popolo e solo il popolo può decidere in tal senso. I cittadini<br />
272
devono poter dire sì o no alla Costituzione, è una questione fondamentale visto che viene<br />
toccata la sovranità del popolo”.<br />
Quasi altrettanto duro è Daniele Capezzone, il quale invita a confrontare “la chiarezza,<br />
la semplicità, il linguaggio della Costituzione americana con il mostriciattolo” varato a<br />
Bruxelles: “Da una parte un testo fatto per essere vissuto, compreso e diffuso nelle piazze,<br />
nelle taverne, nelle chiese, per creare il senso di un’appartenenza comune; dall’altra, un<br />
incomprensibile papocchio di burocrati per altri burocrati”. Per il segretario dei Radicali<br />
“questa Costituzione, questa Unione Europea, questa realtà sono non solo lontane, ma<br />
contrarie al mito e alla speranza di Ernesto Rossi, Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni ed al<br />
loro Manifesto di Ventotene”.<br />
Più blande, ma non per questo meno convinte, le critiche di Oliviero Diliberto, che<br />
definisce “debole” la nuova Carta costituzionale. “Ci sono ancora diversi punti da verificare,<br />
come quello relativo ai meccanismi di modifica - osserva il leader dei Comunisti italiani - e<br />
noi insisteremo perché vi siano più riferimenti alle questioni sociali e perché vi sia un articolo<br />
simile all’11 della nostra Costituzione sulla pace”. I DS, per bocca di Marina Sereni, non<br />
nascondono “gli ostacoli ancora da superare”, mentre infine Gustavo Selva (AN), pur<br />
esprimendo compiacimento, sottolinea come non si tratti “di una Magna Charta dei valori e<br />
dei diritti”.<br />
La soddisfazione per l’accordo sulla Costituzione <strong>eu</strong>ropea è dunque generale; con<br />
l’eccezione di radicali e leghisti. Tuttavia, accanto a un sentimento che accomuna<br />
maggioranza e opposizione, c’è il rammarico per il mancato riferimento alle comuni radici<br />
cristiane, uno stato d’animo che si rintraccia in entrambi gli schieramenti. Se ne fanno<br />
interpreti il vicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini, che rivendica il lavoro svolto dalla<br />
Convenzione della quale ha fatto parte, e il presidente della Camera Pier Ferdinando Casini.<br />
Ma anche Clemente Mastella di AP-UDEUR e Maurizio Lupi di Forza Italia.<br />
Fini ricorda comunque che a Bruxelles “è stato conseguito un obiettivo fondamentale<br />
per il futuro dei popoli d’Europa”. Casini auspica che “l’Europa sia in condizione di parlare<br />
con una voce sola, in particolare sul versante della politica estera, della difesa e della<br />
sicurezza, pilastri essenziali per costruire un’Unione credibile e protagonista nella difficile<br />
fase che il mondo sta vivendo”.<br />
Il presidente del Senato, Marcello Pera, sottolinea come la firma sotto la Carta <strong>eu</strong>ropea<br />
sia soprattutto “utile più per ciò che evita che non per ciò che permette: evita un ritorno<br />
all’indietro, ma non promette ancora una vera Unione Europea”.<br />
Il Vaticano esprime “rammarico” per la mancata citazione del cristianesimo nel<br />
273
trattato costituzionale <strong>eu</strong>ropeo: un “misconoscimento dell’evidenza storica” e dell’“identità<br />
cristiana” dei popoli del continente.<br />
Parole severe, pronunciate il 19 giugno 2004 dal portavoce Navarro-Valls ed<br />
esplicitamente indirizzate ai “governi” che si sono opposti a quella citazione. Il portavoce non<br />
li ha nominati, ma si tratta di Francia, Belgio, Finlandia e Svezia.<br />
Navarro-Valls ha pure ringraziato i governi dell’altra sponda, cioè quelli che si sono<br />
battuti per la citazione, anche qui senza fare nomi. Si tratta di Italia, Polonia, Slovacchia,<br />
Repubblica Ceca, Malta, Lituania e Portogallo, che a metà maggio hanno scritto alla<br />
presidenza di turno irlandese per proporre la menzione delle radici cristiane nel preambolo<br />
della Carta.<br />
Le parole forti del “rammarico” si spiegano con la lunga battaglia per quella citazione<br />
- è durata due anni e mezzo - combattuta personalmente da Papa Wojtyla. La sua prima<br />
protesta per come andavano le cose la fece nel gennaio del 2002: il Papa esprime “tristezza” e<br />
considera “ingiusto e sbagliato” che la Dichiarazione di Laeken - che dà avvio all’iter<br />
costituzionale - non abbia citato le religioni tra i partner da consultare in vista della<br />
Costituzione. Già nel dicembre del 2000 aveva denunciato il fatto che la Carta <strong>eu</strong>ropea dei<br />
diritti (approvata dal vertice di Nizza) non avesse fatto “neppure un riferimento a Dio”.<br />
Giovanni Paolo II è tornato più volte ad insistere sull’argomento. Tra luglio e agosto<br />
del 2003, in particolare, il Pontefice è intervenuto per sette domeniche consecutive:<br />
“Riconoscere esplicitamente le radici cristiane dell’Europa diventa per il continente la<br />
principale garanzia di futuro”.<br />
Nel febbraio 2004 il cardinale Walter Kasper, inviato del Papa in Russia, incontra il<br />
Patriarca ortodosso Alessio II e spiega che Giovanni Paolo II vorrebbe che le due Chiese<br />
“facessero di tutto per collaborare, soprattutto in Europa, al rafforzamento delle radici<br />
cristiane indebolite dal secolarismo”.<br />
Alla vigilia della decisione di Bruxelles, l’ultimo appello di Wojtyla: l’Europa<br />
“avviata verso un nuovo ordine” sta cercando un modo per “manifestare espressamente le<br />
proprie radici cristiane”.<br />
Fiato sprecato, si direbbe. Da qui il “rammarico”, ma prudentemente stemperato con<br />
due note di “soddisfazione”, perché il Trattato non solo è una “tappa” storica, ma anche<br />
contiene buone “disposizioni” per le Chiese.<br />
Dunque la Santa Sede “esprime soddisfazione per questa nuova e importante tappa nel<br />
processo di integrazione <strong>eu</strong>ropea, sempre auspicata e incoraggiata dal romano pontefice”.<br />
Altro “motivo di soddisfazione” è l’“inserimento nel Trattato della disposizione che<br />
274
salvaguarda lo status delle confessioni religiose negli stati membri e impegna l’Unione a<br />
mantenere con esse un dialogo aperto, trasparente e regolare, riconoscendone l’identità e il<br />
contributo specifico”: tutto questo è nell’articolo 51.<br />
Ed ecco la protesta: “La Santa Sede non può tuttavia non esprimere rammarico per<br />
l’opposizione di alcuni governi al riconoscimento esplicito delle radici cristiane dell’Europa.<br />
Si tratta di un misconoscimento dell’evidenza storica e dell’identità cristiana delle<br />
popolazioni <strong>eu</strong>ropee”.<br />
Dopo la protesta contro i governi della cattolica Francia e del cattolicissimo Belgio - il<br />
Papa non se la può certo prendere con Finlandia e Svezia, che sono luterane - viene il<br />
riconoscimento per la Polonia, l’Italia e gli altri cinque: “Vivo apprezzamento e gratitudine -<br />
dunque - a quei governi che, nella consapevolezza del passato e dell’orizzonte storico in cui<br />
prende forma la nuova Europa, hanno lavorato per dare concreta espressione alla sua<br />
riconosciuta eredità religiosa”.<br />
Ma per la menzione del cristianesimo si era adoperato anche il presidente della<br />
Commissione Europea Romano Prodi e si era battuto il leader della CSU Stoiber e tanti altri<br />
sparsi per l’Europa. Il portavoce non dimentica nessuno: “Non va dimenticato il forte<br />
impegno profuso da varie istanze per fare menzionare il patrimonio cristiano dell’Europa in<br />
tale Trattato”.<br />
Vediamo dunque come funzionerà la nuova Europa, sapendo che il “Trattato<br />
Costituzionale” entrerà in vigore dal 2009 dopo che sarà ratificato dai 25 Paesi. Il Giornale<br />
del 20 giugno 2004 ha preparato dieci risposte a dieci domande. Le riporto integralmente:<br />
1. Che cosa vuol dire che l’Unione Europea ha una Costituzione, e quando entrerà in vigore?<br />
I governi dei 25 paesi dell’UE riuniti in “conferenza intergovernativa” a Bruxelles, hanno approvato, il<br />
18 giugno, un “Trattato costituzionale” che unifica e supera tutti i precedenti trattati, da quelli più<br />
lontani di Roma del 1957, successivamente modificati a più riprese, fino ai più recenti di Maastricht e<br />
di Nizza, in un documento organico in cui vengono fissate le istituzioni <strong>eu</strong>ropee, i loro compiti, il loro<br />
modo di operare. Si tratta di un trattato internazionale, che per entrare in vigore dovrà essere ratificato<br />
da tutti e 25 i Paesi firmatari, senza eccezioni, alcuni procederanno alla ratifica per via parlamentare,<br />
altri mediante referendum popolare. Se tutti gli Stati membri della UE ratificheranno il trattato, questo<br />
entrerà in vigore a partire dal 2009 per alcuni aspetti e dal 2014 per altri. Fino a quel momento, l’UE<br />
continuerà a funzionare come oggi, con i trattati vigenti. È sostanzialmente un compromesso tra la<br />
visione “federalista”, sostenuta da Francia e Germania, e la visione “intergovernativa”, sostenuta<br />
principalmente dalla Gran Bretagna. Parigi e Berlino hanno avuto la Costituzione; Londra, la<br />
275
Costituzione che voleva.<br />
2. Perché adesso è stato possibile raggiungere un accordo che era sfuggito sei mesi fa alla<br />
presidenza semestrale italiana?<br />
Durante la presidenza italiana furono risolte tutte le controversie minori, ma sui pochi fondamentali<br />
punti rimasti le divergenze erano insanabili, sia per la rigida posizione dei governi di Spagna e di<br />
Polonia, che adesso sono stati sostituiti da altri più disposti a un compromesso, sia perché sei mesi fa<br />
le tensioni tra i governi <strong>eu</strong>ropei erano molto forti a causa delle recenti spaccature sulla questione<br />
irachena, largamente superate in questa prima metà di giugno da tre iniziative convergenti: il viaggio<br />
di Bush in Europa, le nuove risoluzioni del Consiglio di sicurezza sull’Iraq, il vertice G8. Ma è stato<br />
soprattutto il risultato delle elezioni <strong>eu</strong>ropee a consigliare un po’ a tutti i leader di fare uno sforzo per<br />
dare credibilità al progetto <strong>eu</strong>ropeo.<br />
3. Che cosa prevede la Costituzione per il Parlamento Europeo?<br />
Il Parlamento Europeo, che è l’unico organo dell’UE eletto dai cittadini, avrà più poteri rispetto al<br />
passato. Esso eserciterà, insieme al Consiglio <strong>eu</strong>ropeo, la funzione legislativa e quella di bilancio,<br />
avendo l’ultima parola su tutte le spese dell’Unione. Esso elegge il presidente della Commissione, con<br />
una specie di voto di fiducia dato teoricamente per cinque anni. Ratifica la nomina del ministro degli<br />
Esteri e dei membri della Commissione. Una novità, rispetto alla bozza preparata da Giscard<br />
d’Estaing, è che potrà raggiungere un massimo di 750 membri (quando entreranno tre nuovi membri) e<br />
gli Stati, in base alla popolazione, avranno un minimo di sei deputati e un massimo di 96. La<br />
Germania ha dovuto cedere pochi seggi.<br />
4. Che cosa prevede la Costituzione per il Consiglio Europeo?<br />
Il Consiglio è stato istituzionalizzato e diventa l’organo centrale decisionale dell’UE. È formato dai<br />
capi di Stato e di governo dei Paesi membri, dal suo presidente e dal presidente della Commissione. Il<br />
ministro degli Esteri partecipa alle sue riunioni. Fornisce all’UE gli impulsi necessari al suo sviluppo e<br />
definisce orientamenti e priorità politiche. Il suo rilevante potere politico costituisce un limite alla<br />
visione strettamente federale, quale era sostenuta da Germania e Francia. Esso rappresenta la visione<br />
intergovernativa dell’UE.<br />
5. Quali sono i compiti del presidente del Consiglio Europeo?<br />
Una delle maggiori novità è l’istituzione della figura del Presidente del Consiglio Europeo, eletto dal<br />
Consiglio stesso per la durata di 30 mesi e rinnovabile una volta. Viene così a cessare la presidenza a<br />
rotazione semestrale. Con questo, la Costituzione intende creare una figura che dia al Consiglio stesso<br />
continuità e coerenza. Rappresenta all’esterno l’UE ma senza pregiudicare le responsabilità del<br />
ministro degli Esteri.<br />
6. Quali sono i compiti del Consiglio dei ministri?<br />
È composto da un rappresentante a livello ministeriale per ogni Stato membro (per esempio i ministri<br />
dell’Economia o dell’Agricoltura, ecc.). Ad eccezione del Consiglio dei ministri degli Esteri, la<br />
presidenza di ogni singolo Consiglio viene esercitata a rotazione ugualitaria da un gruppo di tre Paesi<br />
276
per 18 mesi. Verrà così a cessare la rotazione semestrale con i presidenti appartenenti al Paese che<br />
esercitava la presidenza semestrale. In questo modo si vuole assicurare più collegialità e più<br />
continuità.<br />
7. Come decide il Consiglio dei ministri?<br />
Questo punto è stato lo scoglio maggiore per l’approvazione della Costituzione. A partire dal 2009,<br />
ogni decisione sarà presa con l’accordo del 55% degli Stati membri, ma con un minimo transitorio di<br />
15 purché rappresentino almeno il 65% della popolazione complessiva dell’UE. Quando le decisioni<br />
riguardano provvedimenti che sono proposti dalla Commissione o dal ministro degli Esteri, per la<br />
maggioranza occorrono il 72% degli Stati, pari ad almeno il 65% della popolazione. Resta comunque<br />
in vigore, su richiesta soprattutto della Gran Bretagna, che è stata irremovibile, il diritto di veto in<br />
tema di fiscalità, mentre ci sono formule di maggioranza diverse per la cooperazione giudiziaria, la<br />
politica sociale e quella estera. Sono facilitate, in alcuni settori, le cooperazioni rafforzate.<br />
8. Che cosa prevede la Costituzione per la Commissione?<br />
La Commissione risulta meglio definita e circoscritta nei suoi compiti, che con il passare del tempo si<br />
erano di fatto molto dilatati. In linea generale, promuove l’interesse generale dell’UE mediante<br />
appropriate iniziative. Verifica il rispetto della Costituzione e l’applicazione del diritto comunitario in<br />
tutti i Paesi membri sotto il controllo della Corte di giustizia. Promuove l’attività legislativa eccetto<br />
che per gli atti che la Costituzione riserva ad altri organi. Rappresenta all’esterno l’UE eccetto che per<br />
la politica estera e di difesa. È composta da un commissario per ogni Paese membro, ma solo fino alla<br />
seconda legislatura dopo la ratifica della Costituzione. Successivamente - presumibilmente dal 2014 - i<br />
suoi componenti saranno ridotti ai due terzi degli Stati membri, salvo diversa futura decisione<br />
all’unanimità del Consiglio <strong>eu</strong>ropeo. La composizione della Commissione è stata uno dei punti più<br />
controversi perché ogni Paese membro vorrebbe avere un rappresentante, ma l’elevato numero<br />
complessivo è ritenuto un ostacolo all’efficienza di questo organismo. L’assenza futura di alcuni Stati<br />
dovrà abituare ad accettare decisioni “<strong>eu</strong>ropee”. Il presidente della Commissione, eletto<br />
dall’Europarlamento su proposta del Consiglio <strong>eu</strong>ropeo, sceglie i commissari e può nominare dei<br />
vicepresidenti della Commissione. La Costituzione attribuisce più poteri alla Commissione nella<br />
sorveglianza dei conti pubblici nella sola fase di verifica di deficit eccessivo, ma non in quella sulle<br />
misure per ridurlo. Ai paesi dell’<strong>eu</strong>rozona è attribuito il potere di valutare l’ingresso di nuovi membri.<br />
È stata allegata al testo del Trattato una dichiarazione in cui si riafferma l’impegno a rispettare il<br />
dettato del Patto di Stabilità. È stata questa una vittoria dei Paesi che chiedevano maggiore flessibilità<br />
per il Patto e, quindi, maggiore autonomia per le politiche economiche nazionali.<br />
9. Quali sono i compiti del ministro degli Esteri?<br />
Anche questa figura è una delle maggiori novità introdotte. Egli contribuisce all’elaborazione di una<br />
politica estera, di sicurezza e di difesa comune; presiede il Consiglio Affari Esteri; è di diritto<br />
vicepresidente della Commissione. Viene eletto dal Consiglio <strong>eu</strong>ropeo d’accordo con il presidente<br />
della Commissione, e la nomina viene ratificata dall’Europarlamento. Solo la prassi deciderà chi sarà<br />
277
il vero rappresentante dell’UE sui temi di politica estera e di difesa: se il presidente del Consiglio<br />
<strong>eu</strong>ropeo o il ministro degli Esteri.<br />
10. Come ha reagito il Vaticano?<br />
Con soddisfazione per l’approvazione della Costituzione, ma con “rammarico” per l’opposizione di<br />
alcuni Stati al riconoscimento esplicito delle radici cristiane dell’Europa. Così ha detto il portavoce<br />
vaticano Joaquin Navarro-Valls. Ma l’Osservatore Romano ha parlato di “un’Europa dalla memoria<br />
sbiadita”, quella che non ha voluto inserire nella sua Costituzione un richiamo alle radici cristiane del<br />
continente, come avevano chiesto Italia, Polonia e altri cinque Paesi. Decisiva, fin dall’inizio, è stata<br />
l’opposizione della Francia. Nel primo paragrafo del testo finale - ampiamente rimaneggiato - compare<br />
un riferimento “all’eredità culturale, religiosa ed umanistica dell’Europa”.<br />
La battaglia per l’affermazione delle radici cristiane è dunque definitivamente persa ad<br />
opera soprattutto della cattolica Francia che rivendica la sua tradizione laica poggiante sulla<br />
Rivoluzione Francese, e del cattolicissimo Belgio? Oppure queste nazioni, nel loro Viaggio<br />
evolutivo, dimostrano di essere ancora alla ricerca di sé, non avendo ritrovato la loro identità?<br />
Emanuele Severino, 75 anni, insegna Ontologia fondamentale nella Facoltà di Filosofia del<br />
San Raffaele e scrive un articolo sul Corriere della Sera del 20 giugno 2004 intitolato<br />
“Quello spirito critico che viene da Atene”:<br />
Se c’è, in che cosa consiste lo “spirito <strong>eu</strong>ropeo”? La Costituzione <strong>eu</strong>ropea appena approvata lo<br />
rispecchia? Si possono dare subito le risposte.<br />
Lo “spirito <strong>eu</strong>ropeo” è lo “spirito critico”.<br />
E nessuna Costituzione, inevitabile frutto di compromessi, può rispecchiare lo “spirito critico”.<br />
Al senso di quest’ultima espressione, tuttavia non si accede facilmente.<br />
Lo spirito critico è lo spirito dell’Europa perché, comparso a un certo punto della storia<br />
dell’uomo, in Grecia, si è allargato sino a dominare tutti gli eventi del continente <strong>eu</strong>ropeo, e<br />
nonostante tutto tende oggi a estendersi sull’intero pianeta. Nessun altro “spirito” è stato in grado di<br />
far questo.<br />
Per millenni gli uomini vivono nel mito, cioè accettando le consuetudini culturali della società<br />
in cui vivono o, prima ancora, facendosi guidare dai loro impulsi. Poi, cinque secoli prima di Cristo,<br />
nell’antico popolo greco viene alla luce la volontà di dubitare di ogni consuetudine e di ogni impulso,<br />
e di respingere tutto ciò che si lascia respingere.<br />
A questa volontà i Greci hanno dato il nome di “filosofia”. “Filosofia” è sinonimo di “spirito<br />
critico”. O ne è la radice. Respingendo i “sepolcri imbiancati” ed esaltando la “retta intenzione” Gesù<br />
278
è un grande sostenitore dello spirito critico - anche se sarà tradito da molti che si porranno al suo<br />
seguito. Il cristianesimo autentico è la religione filosofica per eccellenza, si è detto. Ed è giusto, per<br />
quel tanto che il cristianesimo è critica dei sepolcri. Alla base della libertà, della democrazia, del<br />
rispetto della dignità dell’uomo, che la Costituzione <strong>eu</strong>ropea dichiara di promuovere, c’è quello<br />
spirito, cioè la lotta contro le antichissime e le più recenti tirannidi che esigono la cieca accettazione<br />
dei loro comandi.<br />
L’atteggiamento critico si estende sin dove gli è possibile. Non si ferma sin quando gli è<br />
possibile detronizzare tiranni e abbattere idoli. Si ferma cioè solo dinanzi all’innegabile - l’innegabile<br />
autentico è la verità -. “Filo-sofia” significa, alla lettera, “cura per ciò che è luminoso (saphés)”; e la<br />
verità è per essenza ciò che si mantiene nella luce.<br />
Tutte le forme della cultura e della civiltà <strong>eu</strong>ropea tengono al loro centro questa volontà di<br />
verità. Che non può essere regolata da leggi esterne - e in questo senso è “anarchica” -, ma solo dalla<br />
legge che prescrive di respingere tutto ciò che può esser respinto - e in questo senso è sommamente<br />
non anarchica -. È palese l’anima comune della verità, della scienza moderna e della crescente<br />
razionalizzazione dell’agire in Europa. E anche dell’arte <strong>eu</strong>ropea - la quale conduce sì nel sogno, ma<br />
perché ha costantemente dinanzi i connotati della veglia, cioè della verità del mondo, da cui vuol<br />
prendere provvisorio o definitivo congedo .<br />
Il rapporto alla verità divide gli uomini perché di fronte a essa ogni individuo deve essere solo<br />
e perdere in qualche modo di vista quel che fanno gli altri. Non guardava in questa direzione Gesù,<br />
quando diceva di esser venuto a portare la spada? Nessuna meraviglia se, a differenza di quanto<br />
accade negli Stati Uniti, gli Stati Europei, come le antiche città greche, e ripetendo la diaspora degli<br />
individui rispetto alla verità, siano così differenti, divergenti, in lotta e liberi gli uni dagli altri. Una<br />
libertà, questa, che non ha nulla a che vedere con le degenerazioni dello spirito critico, come la libertà<br />
che è licenza delle masse <strong>eu</strong>ropee e occidentali, o come l’inerzia culturale che trasforma in un dogma<br />
lo stesso spirito critico. Del quale il cristianesimo, nel suo sviluppo storico, è stato un grande nemico.<br />
Si comprende quindi che cosa stia al fondo delle riserve di chi avrebbe dovuto inserire nella<br />
Costituzione Europea il riconoscimento delle nostre “radici cristiane”. È breve il tragitto che<br />
(indipendentemente dalle intenzioni) conduce da questo riconoscimento a quello della sopravvivenza<br />
di tali radici e dunque al riconoscimento che l’Europa è uno Stato cristiano - con l’inevitabile<br />
conseguenza che una condotta di vita non cristiana sarebbe una violazione della Costituzione <strong>eu</strong>ropea -<br />
. È un’affermazione dello spirito critico che l’Europa non abbia i suoi “Patti Lateranensi”.<br />
Fuori discussone, dunque, l’importanza della Costituzione Europea. Ma è ancora un passo<br />
formale. Più decisivo è come l’Europa possa disporre, sul piano della politica estera, di una “capacità<br />
operativa ricorrendo a mezzi civili e militari” (art. 40 della Costituzione).<br />
L’Europa non può allontanarsi dagli Stati Uniti, ma può esserne un interlocutore credibile e<br />
dunque un valido alleato solo se è militarmente forte. Penso alla forza che, in un mondo sempre più<br />
pericoloso, non può essere improvvisa, e che però esiste già, ed è l’armamento nucleare russo. Europa<br />
279
e Russia stanno già da tempo riavvicinandosi.<br />
Come potrebbe essere diversamente? Se si prospetta l’aggregazione della Turchia all’Europa,<br />
come ignorare, oltre al resto, che lo “spirito critico” ha condotto in Russia al tramonto del comunismo?<br />
Detto questo, il passo più decisivo incomincia a questo punto: gettar luce nell’abisso<br />
inesplorato da cui lo “spirito critico” è emerso.<br />
Sono pienamente d’accordo con Severino nel sostenere che Gesù fosse un grande<br />
sostenitore dello spirito critico e anche per questo è finito sulla Croce con un’accusa politica,<br />
oltre che religiosa. Condivido anche l’affermazione che il cristianesimo autentico è la<br />
religione filosofica per eccellenza e, in quanto tale, affascina molti intellettuali. Alla base<br />
della libertà, della democrazia, del rispetto della dignità dell’essere umano - uomo e donna -<br />
che la Costituzione <strong>eu</strong>ropea dichiara di promuovere c’è quello spirito, “cioè la lotta contro le<br />
antichissime e le più recenti tirannidi che esigono la cieca accettazione dei loro comandi”,<br />
come sottolinea Severino.<br />
L’atteggiamento critico si ferma solo davanti all’innegabile, cioè la verità che “è per<br />
essenza ciò che si mantiene nella luce”. Gesù ha detto: “La verità vi renderà liberi”. La<br />
volontà di verità non può essere regolata da leggi esterne, ma solo dalla legge che prescrive di<br />
respingere tutto ciò che può essere respinto.<br />
Rilevante è l’accenno di Severino alle degenerazioni dello spirito critico, come la<br />
libertà che è licenza delle masse <strong>eu</strong>ropee e occidentali o come l’inerzia culturale che<br />
trasforma in un dogma lo stesso spirito critico. Dire infatti che “tutto è relativo” rappresenta<br />
una “pura verità assiomatica” equiparabile agli stessi dogmi che il relativismo filosofico e<br />
culturale intende abbattere. Secondo Severino, al fondo delle riserve di chi avrebbe dovuto<br />
inserire nella Costituzione <strong>eu</strong>ropea il riconoscimento delle nostre “radici cristiane” non ci<br />
sarebbero le degenerazioni dello spirito critico sopra citate, in particolare il relativismo<br />
culturale, bensì il “sospetto” che ci sia un breve tragitto che conduce da questo<br />
riconoscimento a quello della sopravvivenza di tali radici e dunque al riconoscimento che<br />
l’Europa è uno Stato cristiano, con l’inevitabile conseguenza che una condotta di vita non<br />
cristiana sarebbe una violazione della costituzione <strong>eu</strong>ropea. In breve, secondo questa ipotesi,<br />
sarebbe corto il percorso che porta all’istituzione di uno stato teocratico, di antica memoria,<br />
con richiami ai “roghi” e alla caccia alle “streghe”. Ma tutto ciò che viene temuto da Severino<br />
è esattamente l’opposto dello “spirito critico” sostenuto da Gesù. Molti seguaci di Gesù hanno<br />
tradito questo “spirito critico” e il cristianesimo come “religione filosofica per eccellenza”,<br />
forse a cominciare dallo stesso soldato romano Paolo di Tarso, che è stato sbalzato da cavallo<br />
280
mentre si recava a Damasco a perseguitare i cristiani e che è rimasto un “soldato romano”<br />
anche dopo la conversione al cristianesimo, conservando la foga tipica dei militanti e negando<br />
voce in capitolo alle donne da sottomettere e zittire, secondo un “codice relazionale” di tipo<br />
up/down, dominante/dominato.<br />
Ritengo che proprio l’affermazione dello “spirito critico” dell’Europa salvaguardi le<br />
future generazioni da queste aberrazioni. E proprio all’insegna di questo “spirito critico” non<br />
possiamo sottoscrivere la temuta retrocessione sul cammino che porterebbe a riconoscere una<br />
condotta di vita non cristiana come anti-costituzionale.<br />
Il ministro degli Esteri Frattini ha detto, in un’intervista rilasciata al Corriere della<br />
Sera del 20 giugno 2004, “che noi, più di altri Paesi, ci siamo battuti fino all’ultimo per<br />
cambiare il testo del preambolo. La nostra proposta in extremis era quella di aggiungere due<br />
sole parole: ‘notamment chrétienne’, ‘in particolare cristiana’, subito dopo il passaggio che<br />
richiama ‘l’eredità religiosa’. Ma abbiamo incontrato un’opposizione pregiudiziale che<br />
risponde a una concezione di laicismo invalicabile. Belgio, Francia, Finlandia ci hanno fatto<br />
sapere che in nessun caso si poteva accettare la nostra idea, salvo mettere a rischio l’esistenza<br />
stessa del preambolo”. Più avanti, Frattini aggiunge: “E’ vero, comunque, che Chirac<br />
pubblicamente ha dichiarato che la Francia ha risolto da tempo la questione Stato-Chiesa.<br />
Noi, però, volevamo approfondire il richiamo storico alla tradizione religiosa che in ogni caso<br />
rimane nel preambolo e che, anzi esce rafforzata rispetto alla prima versione elaborata nella<br />
Convenzione di Giscard d’Estaing”.<br />
La concezione del “laicismo invalicabile” di Francia, Belgio, Finlandia rappresenta un<br />
“filtro” pregiudiziale che rispecchia una visione dicotomica, dualistica della realtà del tipo<br />
o/o. In altre parole, dove c’è Stato, non può esserci posto per un’identità che sia supportata da<br />
una storia condivisa anche nelle radici cristiane.<br />
La domenica 20 giugno all’Angelus il Papa Giovanni Paolo II esclama, rammaricato:<br />
“Non si tagliano le radici dalle quali si è nati”. Il Papa si era battuto negli ultimi due anni e<br />
mezzo “per evitare la nascita di un’Europa senza anima”. Tuttavia, nell’articolo 51 viene<br />
messo in luce il contatto dell’Europa con le Chiese nazionali.<br />
Infine, è opportuno osservare che è giusto coinvolgere i Parlamenti nazionali e<br />
chiedere un’ulteriore investitura popolare circa l’approvazione della Costituzione. Già in<br />
precedenza mi sono espressa a favore di questa linea “comunicativa”. Non sarebbe<br />
“dialogico” dare l’impressione ai cittadini inglesi, per esempio, che l’Europa possa<br />
tranquillamente fare a meno di loro, andando avanti qualunque sia l’esito del referendum.<br />
Occorre piuttosto diffondere una cultura di “inclusione” della Gran Bretagna nelle vicende<br />
281
<strong>eu</strong>ropee e di smantellamento dei pregiudizi reciproci, dando una forte spinta in termini di<br />
comunicazione al valore storico della Costituzione.<br />
I vertici successivi sanciscono il consolidamento dell’alleanza con gli USA, quale<br />
presagio di un “fronte unico” nella lotta al terrorismo internazionale.<br />
282
L’INTESA USA-EUROPA SI RAFFORZA<br />
Il vertice USA-UE di Shannon (Irlanda) riavvicina il presidente americano George W.<br />
Bush all’Europa.<br />
“Le divergenze sull’Iraq sono superate”, ha detto Bush. Egli ottiene dall’Unione<br />
Europea una dichiarazione di “appoggio pieno e duraturo al popolo dell’Iraq”, e impegni<br />
all’assistenza del governo iracheno ed interim e alla riduzione del debito.<br />
Ma Bush deve trangugiare, nel documento congiunto, un appello “al pieno rispetto”<br />
delle Convenzioni di Ginevra sul trattamento dei prigionieri.<br />
Dopo la rinuncia all’ONU della proroga dell’esenzione degli americani dalla<br />
giurisdizione della Corte Penale Internazionale, è un altro pegno pagato dagli Stati Uniti allo<br />
scandalo degli abusi inferti a detenuti iracheni da soldati americani.<br />
Nella cornice del parco del Castello di Dromoland, l’annuale vertice UE-USA, prima<br />
tappa della missione <strong>eu</strong>ropea del presidente americano, si svolge lontano dalla contestazione<br />
di migliaia di manifestanti, che riescono, comunque, a mobilitare un terzo delle forze di<br />
sicurezza irlandesi e a ritardare la conferenza stampa finale, bloccando gli autobus dei<br />
giornalisti.<br />
È un vertice UE-USA storico per alcuni aspetti, come ricorda il premier irlandese<br />
Bertie Ahern, presidente di turno del Consiglio Europeo, perché è il primo dopo<br />
l’allargamento dell’Unione e dopo il varo della Costituzione.<br />
Bush se ne dichiara, comunque, soddisfatto anche se le conclusioni sull’Iraq non fanno<br />
riferimento a un ruolo dell’ONU e non contengono cifre sulla riduzione del debito: la “forza”<br />
e la “profondità” delle relazioni UE-USA, osservano Ahern e il presidente della Commissione<br />
Europea Romano Prodi, ne escono confermate, nella comprensione “delle sfide comuni”. E il<br />
presidente americano ribadisce che “le differenze del passato sono superate”: si congratula<br />
con l’UE per l’allargamento, spezza una lancia per l’adesione della Turchia.<br />
La discussione con l’UE sull’Iraq è stata - dice Bush - “costruttiva”. E, tra oggi e<br />
domani, il presidente spera di ottenere dalla NATO una risposta “positiva” alla richiesta<br />
venuta dal premier iracheno Iyad Allawi d’assistenza tecnico-militare (addestramento e<br />
equipaggiamento) alle forze di sicurezza irachene. La NATO, dice Bush, ha “la possibilità e la<br />
responsabilità di aiutare l’Iraq a sconfiggere la minaccia terroristica”.<br />
Il suo intervento, che sarà sancito dai leader, potrà accelerare l’uscita di scena dei<br />
contingenti americano e internazionale: “Prima gli iracheni sono pronti a garantire la loro<br />
sicurezza prima noi possiamo venircene via. Ma non ce ne andremo finché la missione non<br />
283
sarà compiuta”.<br />
La dichiarazione comune UE-USA sull’Iraq echeggia la risoluzione 1546 delle<br />
Nazioni Unite, varata all’unanimità l’8 giugno 2004: esprime sostegno comune alla missione<br />
della forza multinazionale in Iraq, su invito dell’esecutivo iracheno, per combattere il<br />
terrorismo e mantenere la sicurezza e la stabilità nel Paese, oltre che per proteggere la<br />
presenza dell’ONU.<br />
Il documento, definito “d’appoggio al popolo dell’Iraq”, incoraggia l’accettazione<br />
delle richieste di Allawi, indirizzate all’Alleanza Atlantica, senza però citare la NATO.<br />
Sulla riduzione del debito estero iracheno, “cruciale perché il popolo iracheno abbia<br />
l’opportunità di costruire un paese libero e prospero”, il documento dice che essa “dovrebbe<br />
essere fornita in collegamento con un programma del Fondo Monetario Internazionale” per<br />
l’economia irachena e dovrebbe essere “sufficiente ad assicurarne la fattibilità, tenendo conto<br />
delle recenti analisi” dell’FMI.<br />
Il testo sull’Iraq è quello che richiama più attenzione, fra la ridda di documenti comuni<br />
pubblicati da UE e USA: molti testi concordati sono analoghi (e in larga parte ricalcano)<br />
quelli sugli stessi temi adottati, il 10 giugno, al Vertice del G8.<br />
Il vertice di Istanbul.<br />
I 26 Paesi della NATO hanno raggiunto un “accordo preliminare” sull’assistenza da<br />
fornire all’Iraq nell’addestramento del suo nascente esercito. Risultato ben lontano dal<br />
desiderio di Bush, che sperava in un contributo militare concreto. Contributo che il presidente<br />
francese Chirac ha escluso categoricamente chiudendo di fatto la questione.<br />
L’intesa, annunciata in una breve dichiarazione scritta dal segretario generale della<br />
NATO Jaap de Hoop Scheffer, dovrà essere approvata dai capi di stato e di governo che si<br />
riuniscono il 28 e il 29 giugno 2004 a Istanbul per il vertice della NATO. L’accordo raggiunto<br />
in sostanza già il 25 giugno, ma messo a punto solo il 26 giugno dopo varie riunioni del<br />
Consiglio atlantico consiste nel “rispondere positivamente alla richiesta del governo ad<br />
interim iracheno di assistenza nell’addestramento delle proprie forze di sicurezza”.<br />
Secondo una fonte, saranno i premier e le loro delegazioni a mettere a punto il testo<br />
finale su cui la Francia continua a fare resistenza pur di ottenere il minor impegno possibile da<br />
parte dell’Alleanza.<br />
L’arrivo, la sera del 26 giugno, del presidente USA Bush ad Ankara e la due giorni del<br />
summit della Nato a Istanbul sono stati preceduti da inquietanti segnali. Il 26 giugno una<br />
bomba di debole potenza è esplosa su un cavalcavia del quartiere <strong>eu</strong>ropeo di Bahcelievler a<br />
284
Istanbul, senza provocare feriti. La bomba era collocata alla base di un cartello che recava la<br />
scritta “NATO assassina” a cui era stata aggiunta la sigla “KP-IO”, una sigla sconosciuta che<br />
presumibilmente fa riferimento ad una nuova formazione di estrema sinistra (dato che “KP”<br />
può significare Partito Comunista). L’ordigno è esploso mentre alcuni poliziotti, allertati da<br />
una telefonata, stavano circondando il cavalcavia ed isolando la zona dal traffico.<br />
Nel frattempo ad Ankara sono state dispiegate gran parte delle misure di sicurezza<br />
predisposte per proteggere la sicurezza del presidente americano e del suo seguito, fra cui il<br />
segretario di stato Colin Powell ed il consigliere per la sicurezza nazionale Condoleeza Rice.<br />
Il clima generale in Turchia è di apprensione per possibili attentati, tanto che si<br />
moltiplicano i falsi allarmi-bomba. Mentre in genere - secondo quanto riportano vari media<br />
turchi - la popolazione “dà il benvenuto a Bush, con riserve sulla sua politica estera”.<br />
Al vertice dell’Alleanza Atlantica a Istanbul sono stati prodotti tre documenti. Il primo<br />
riguarda l’Afghanistan, ed è stato il più impegnativo e concreto. Il secondo si riferisce all’Iraq<br />
e il terzo a una enunciazione di principi, la “dichiarazione di Istanbul” sulla “sicurezza in una<br />
nuova era”, che per natura sua è importante ma non contiene scadenze di calendario né cifre<br />
né date. Nel documento si riafferma la necessità di dare una risposta alle “sfide del<br />
ventunesimo secolo: la difesa collettiva rimane l’obiettivo base dell’Alleanza, ma ora i<br />
pericoli emanano da un’area più vasta che in passato e includono il terrorismo e la<br />
proliferazione delle armi di distruzione di massa”. Quello che rimane è il “carattere unico di<br />
legami fra le due sponde dell’Atlantico, quelli di un’alleanza fondata sui principi della<br />
democrazia, della libertà individuale e del primato della legge”.<br />
Sull’Afghanistan, invece, ci sono enunciazioni abbastanza precise, anche se non come<br />
sperava Bush, che fino all’ultimo ha premuto sui colleghi perché dall’incontro nella metropoli<br />
turca uscisse una “lista” degli impegni e una precisa tabella di marcia. Le decisioni sono<br />
invece soprattutto di principio. La NATO dà il proprio benestare all’allargamento della<br />
missione ISAF in Afghanistan sotto il mandato dell’ONU, e manderà rinforzi: 3.000 o 3.500<br />
uomini oltre ai 6.500 che già ci sono, fino a un tetto massimo di 10.000. I nuovi distaccamenti<br />
si chiameranno PRT, vale a dire Squadre di Ricostruzione Provinciale, e saranno per ora<br />
quattro in altrettante province afghane al di fuori di Kabul e Kunduz: ogni “squadra” consterà<br />
di qualche centinaio di militari. Ne sono state delineate per ora quattro, due a guida britannica,<br />
uno sotto comando tedesco e una affidata all’Olanda. Il turno dell’Italia dovrebbe venire forse<br />
in autunno, quando l’operazione verrà estesa ad altre province verso il confine con l’Iraq. È<br />
confermato che per i nostri è “prenotato” lo Herat.<br />
I distaccamenti opereranno, a quanto pare, sotto la bandiera dei rispettivi Paesi. Non<br />
285
sembra essere “passato”, infatti, il progetto americano di fare intervenire in Afghanistan la<br />
nascente “forza di reazione rapida” dell’Alleanza, sotto bandiera NATO. Si è opposta la<br />
Francia, perché, ha sottolineato Chirac, “la vocazione di questa forza è di agire quando ci<br />
sono crisi ufficialmente riconosciute, e questo non è il caso dell’Afghanistan”. È stato solo un<br />
esempio dei dissapori tra Parigi, spalleggiata da Berlino, e Washington, con l’appoggio della<br />
maggioranza dei Paesi membri. Nonostante l’intensa attività diplomatica degli ultimi mesi<br />
l’uomo dell’Eliseo non ha ammorbidito la sostanza del suo dissenso né i suoi toni, più<br />
apertamente a proposito dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, che Bush ha<br />
caldeggiato in questi giorni quasi in ogni suo intervento, sia al summit <strong>eu</strong>roamericano in<br />
Irlanda, sia nella sua visita ad Ankara, sia durante il vertice di Istanbul. Chirac gli ha mandato<br />
a dire che si tratta di un problema <strong>eu</strong>ropeo, di cui il presidente americano non dovrebbe<br />
impicciarsi, “perché sarebbe come se l’Unione Europea pretendesse di spiegare agli Stati<br />
Uniti come essi devono gestire i loro rapporti con il Messico”. Il processo sarà, qualunque<br />
cosa dica Bush, “lungo e difficile, anche se non per questo infinito”.<br />
Alcuni mesi dopo, la Francia socchiude la porta all’ingresso della Turchia nell’Unione<br />
Europea. “Vogliamo che il fiume dell’Islam irrompa nella nostra società laica?”: in<br />
un’intervista pubblicata il 23 settembre 2004 dal Wall Street Journal il premier francese Jean<br />
Pierre Raffarin ha inquadrato in questi termini la questione. Il dubbio del primo ministro è<br />
sulla compatibilità di un grande Paese musulmano come la Turchia con i “valori” <strong>eu</strong>ropei. “Il<br />
punto non sono gli impegni presi dal governo di Ankara - ha osservato Raffarin -, il punto<br />
sono gli atteggiamenti della società turca”. “Non stiamo dubitando della buona fede del<br />
(primo ministro) Erdogan - ha spiegato il premier francese -, ma ci chiediamo fino a che<br />
punto i governi di oggi e di domani possano far sì che la società turca abbracci i valori <strong>eu</strong>ropei<br />
dei diritti umani”. Non un “no” secco ad Ankara, ma un freno senza dubbio alle sue<br />
aspirazioni di aggregarsi presto all’Unione. La visita di Erdogan a Bruxelles il 23 settembre<br />
2004 verte proprio su questo tema. “La Francia per prima nel 1963 ha sollevato la questione<br />
(dell’ingresso della Turchia) con il generale De Gaulle - argomenta Raffarin - ora non<br />
pensiamo di dover dire ad Ankara che le porte d’Europa sono per sempre chiuse”. Ma certo,<br />
conclude il premier, il processo di avvicinamento dovrà essere lento e graduale: almeno dieci<br />
anni perché tutti gli ostacoli siano superati.<br />
Erdogan, in una conferenza stampa a Bruxelles, ha cominciato osservando che “non<br />
gli risulta” che l’Europa “sia un club cristiano”, quanto piuttosto, “un’unione multiculturale”.<br />
L’Unione Europea, vista da Ankara, “rappresenta civilizzazioni diverse che si integrano<br />
insieme”. “Abbiamo fatto i compiti - ha aggiunto Erdogan - e ora, ce lo ha detto il<br />
286
commissario Verh<strong>eu</strong>gen, non ci sono più cose da regolare”. Il premier turco, non senza una<br />
certa teatralità, si è fatto garante, nell’incontro a porte chiuse con gli <strong>eu</strong>roparlamentari, delle<br />
riforme e del cambiamento nel suo Paese. “Finché io sarò al governo posso assicurare che<br />
l’adulterio non sarà mai reato. Certo, non posso dire che cosa succederà quando non sarò più<br />
lì”.<br />
Il 29 giugno 2004, Bush, nel discorso che lo rappresenta televisivamente con il<br />
Bosforo sullo sfondo, dichiara che “l’Europa non è un club cristiano”.<br />
Al riguardo, vorremmo osservare innanzitutto che spetta agli <strong>eu</strong>ropei stabilire se<br />
l’Europa è o no “un club cristiano” e che una tale definizione da parte del presidente di un<br />
altro continente costituisce una interferenza inaccettabile. Inoltre, la definizione di “club”<br />
attribuita all’Europa costituisce un insulto alla sua Identità di Famiglia in cui ci sono 25<br />
Fratelli, e uno svilimento della sua “natura integrata”. Nessun paese, né gli USA né la<br />
Turchia, può arrogarsi il diritto di scalfire questa solida Identità con una “prosaica”<br />
definizione. In Europa siamo tutti Fratelli Cristiani, anche i “laici francesi” che pur<br />
provengono da un’eredità cattolicissima. E la Francia è un’altra Patria per gli italiani.<br />
D’altro lato, impugnare la definizione dell’Europa come se si trattasse di un’entità che<br />
“non è un club cristiano” appare anche come una manipolazione non giustificabile del<br />
concetto di identità <strong>eu</strong>ropea. Chi ha interesse a diffondere una simile definizione? Chi ha<br />
interesse a servirsene per raggiungere i propri obiettivi? Allora, è un tragico errore lasciar<br />
perdere questa “identità cristiana” non tanto nel preambolo della Costituzione, ma<br />
essenzialmente nella coscienza o consapevolezza di noi <strong>eu</strong>ropei. Non reagire di fronte alla<br />
manipolazione della nostra identità equivale a farsi mettere i piedi in testa. Allora, non<br />
scandalizziamoci se non solo Adel Smith, ma molti altri, un esercito di “altri”, strapperanno il<br />
crocifisso dalle aule scolastiche o lo scaraventeranno fuori dalla finestra degli ospedali.<br />
D’altronde, “reagire” non vuol dire proclamare le crociate, secondo la logica dualistica<br />
e gerarchica che domina tanta parte degli uomini e del clero - fatto di uomini -, bensì<br />
diventare criticamente consapevoli di queste manipolazioni e fronteggiarle adeguatamente,<br />
senza alcun bisogno di ricorrere a guerre di religione.<br />
In secondo luogo, il riconoscimento della propria identità è un fatto squisitamente<br />
individuale e nessuno può sostituirsi al diretto interessato per suggerirgli di riconoscersi in<br />
una certa identità.<br />
Infine, il fatto che un presidente USA precisi che “l’Europa non è un club cristiano”<br />
suona come una sconfitta per l’Europa che non ha posto le sue radici cristiane nel preambolo<br />
della Costituzione, aprendo implicitamente un varco di vulnerabilità agli “attacchi identitari”.<br />
287
Pertanto, gli <strong>eu</strong>ropei sono invitati a non subire passivamente il trattamento riservato alle<br />
“pecorone” e a farsi assertori fieri e orgogliosi della loro identità cristiana, anche “a dispetto”<br />
del mancato riconoscimento “ufficiale” nella Costituzione.<br />
L’analogia usata da Bush, che paragona il processo di democratizzazione della Turchia<br />
a quello degli USA, quando abolirono la schiavitù, è valida fino ad un certo punto, nel senso<br />
che gli USA seguirono un percorso interno di democratizzazione in un processo di<br />
integrazione tra culture in cui non era prevista la Jihad. Se Bush tiene conto di questa<br />
“differenza che fa la differenza”, non può fare paragoni di questo genere.<br />
Molto freddi, infine, i francesi anche sul progetto di impegno collettivo della NATO<br />
per l’addestramento delle forze armate del nuovo regime iracheno, che ha ricevuto le<br />
consegne dagli americani il 28 giugno 2004, con due giorni di anticipo sulla famosa data del<br />
30 giugno, allo scopo evidente di accelerare il processo diplomatico, di prevenire un assalto a<br />
sorpresa della guerriglia durante la cerimonia di insediamento e di consentire a Bush di<br />
trasmettere al pubblico americano l’impressione che stia per cominciare lo “sganciamento”<br />
USA da Baghdad proprio mentre si rende necessario, invece, l’invio di ulteriori rinforzi.<br />
Il premier Allawi lancia un messaggio chiaro alla resistenza: “Non scorderemo mai chi<br />
è stato contro di noi”.<br />
L’annuncio è stato, infine, una forma di pressione diplomatica. Della decisione era a<br />
conoscenza la sola Gran Bretagna, e Bush ha annunciato che il trasferimento era cosa fatta<br />
durante la seduta con un segnale convenuto con Tony Blair. Un incoraggiamento deve venirne<br />
anche agli alleati <strong>eu</strong>ropei; ma anche in questo caso la Francia si è incaricata di smorzare gli<br />
entusiasmi, ribadendo la propria contrarietà a che le operazioni di addestramento avvengano<br />
su suolo iracheno (come si è invece raccomandato il neopresidente Allawi) e il proprio veto a<br />
che ciò accada sotto la bandiera della NATO.<br />
Il sostegno che l’Unione Europea ha concordato con gli Stati Uniti per la ricostruzione<br />
dell’Iraq nel vertice del 27 giugno 2004 in Irlanda è anche il frutto di una nuova strategia. Il<br />
presidente di turno irlandese e il presidente della Commissione Prodi, forse “acido” l’anno<br />
precedente con la Casa Bianca nell’analogo incontro annuale svoltosi a Washington,<br />
schierandosi con Parigi e Berlino, hanno rappresentato una Unione in cui si è appannato il<br />
timbro alternativo, se non antagonistico, agli Stati Uniti, che Chirac e Schröeder miravano a<br />
imprimerle.<br />
Chirac, pensando a una Europe puissance mirava forse a farne d’intesa con Schröeder<br />
una entità politica e militare che parlasse francese. Si sono rassegnati a una costituzione in cui<br />
si riflette una Europa che, mantenendo il veto di ogni membro su politica estera, difesa, fisco<br />
288
e giustizia, non sarà “potere politico”. Nell’immediato, volevano far succedere a Prodi un loro<br />
uomo come il premier belga, ma a nome di tanti altri sono stati stoppati da Blair e Berlusconi.<br />
Subita la battuta d’arresto nell’Unione, Parigi, affiancata da Berlino ma con profilo più<br />
basso, sembra rifarsi nella NATO, al vertice dei capi di stato e di governo che si apre il 28<br />
giugno 2004 a Istanbul. L’incontro si presenta come un’occasione storica per l’alleanza per<br />
definire la propria missione nella nuova situazione internazionale dopo la fine della guerra<br />
fredda. Il Patto Atlantico è nato e cresciuto per la difesa dell’Europa davanti a un avversario,<br />
l’Unione Sovietica, ora scomparso. Adesso la minaccia alla sicurezza dei suoi membri viene<br />
dal terrorismo fondamentalista islamico, come si è visto a New York, a Madrid, a Istanbul,<br />
mentre le stragi quotidiane in Iraq e le prevedibili difficoltà del nuovo governo in tema di<br />
sicurezza, con in più il conflitto israelo-palestinese, mettono a repentaglio l’intera regione.<br />
Non solo alla luce della richiesta di aiuto espressa dal premier iracheno per l’addestramento<br />
del suo nuovo esercito e per “assistenza tecnica”, cioè logistica, armamenti, tecnologia, la<br />
NATO dovrebbe affrontare scelte decisive: andare “fuori area o fuori gioco”: agire oltre i<br />
territori dei suoi membri o contare sempre di meno.<br />
Dopo l’11 settembre, si ebbe la decisione americana di ignorare la decisione NATO di<br />
far scattare la clausola del “tutti per uno, uno per tutti”, preferendo coalizioni ad hoc per non<br />
restare impigliati nel faticoso processo di consenso dell’Alleanza. Ma dopo l’attacco<br />
all’Afghanistan e la cacciata dei talebani, la NATO, d’intesa con l’ONU, si è impegnata in<br />
quel paese, e continuerà a impegnarsi come ha chiesto adesso Karzai: in questo senso, è già<br />
fuori area, come lo è anche nel Kosovo. Per l’Iraq, la risoluzione ONU 1546 approvata nel<br />
giugno 2004 parla della possibilità di appellarsi a “organizzazioni regionali” per la<br />
stabilizzazione: dunque la NATO, ben sedici dei cui 26 membri sono comunque già con dei<br />
reparti in Iraq a titolo individuale.<br />
Davanti a queste scelte la Francia ribadisce il suo no: “né una bandiera né una<br />
mostrina della NATO in Iraq”, afferma Chirac, proprio perché avverte la posta in gioco: una<br />
ridefinizione di grande portata della NATO, del cui comando militare integrato non fa parte,<br />
custodendo l’eredità gollista. L’occasione sarà mancata, e la questione immiserita in<br />
“distinguo” posti dallo stesso Chirac, manifestando una certa disponibilità ad aiutare l’Iraq:<br />
addestramento sì, ma non in suolo iracheno, forse in qualche paese NATO come Italia e<br />
Germania; non un istruttore, non un uomo né un mezzo con insegne NATO in Iraq. Come se<br />
gli incendi nell’area non riguardassero anche l’Europa. Nel Medio Oriente è invece in gioco<br />
anche la sicurezza dei paesi NATO - la Turchia è nell’occhio del ciclone - e di un’Unione<br />
Europea in parte immemore: ben di più che nel Kosovo, dove soprattutto su pressioni francesi<br />
289
la NATO è intervenuta nel 1999 restandovi impantanata e ancora senza soluzioni in vista.<br />
D’altronde, l’instabilità appare come una condizione generale del dopoguerra e<br />
occorre fronteggiarla. In Italia dal 1945 al 1948 sono stati uccisi 30.000 italiani. In Kosovo<br />
dopo cinque anni ci sono uccisioni e stragi e in Afghanistan dopo tre anni si uccidono militari<br />
della peace-keeping e gente del posto.<br />
290
L’EUROPA DÀ IL PRIMO SÌ ALLA TURCHIA<br />
La proposta di mete elevate ma ragionevoli, come il consolidamento dell’intesa tra<br />
Europa e USA, basata sulla rispettiva crescita politica, economica e sociale e sul vicendevole<br />
rispetto, su un piano paritario, ci porta a definire i dettagli di un “problema” a cui si è già<br />
accennato, raccogliendo innanzitutto le informazioni necessarie.<br />
La Commissione <strong>eu</strong>ropea dà il via libera all’adesione della Turchia all’Europa.<br />
Stretta tra la paura di destabilizzare la Turchia e quella di destabilizzare l’Europa, la<br />
Commissione di Bruxelles ha scelto una raccomandazione grondante di “se” e di “ma” per<br />
l’apertura con Ankara dei negoziati di adesione. Ai capi di Stato e di governo che<br />
prenderanno nel dicembre 2004 la decisione finale viene recapitata la testimonianza di un<br />
tormento ancora non risolto.<br />
Franco Venturini scrive sul Corriere della Sera del 7 ottobre 2004:<br />
(dovrebbe esserci una rivoluzione, ha detto Erdogan) la risposta è no”.<br />
Le cautele dell’Europa.<br />
Consideriamo allora come si sono concretizzate le “cautele” dell’Europa, enumerando<br />
le otto raccomandazioni di Bruxelles:<br />
1. Sono stati fatti sostanziali progressi nel processo di attuazione delle riforme<br />
politiche, ma non tutte sono ancora in vigore.<br />
2. Tolleranza-zero nella lotta alla tortura, consolidamento delle misure sulla libertà di<br />
espressione, libertà religiosa, diritti delle donne.<br />
3. La Commissione considera che la Turchia rispetti sufficientemente i criteri politici e<br />
raccomanda che vengano aperti negoziati di adesione.<br />
politiche.<br />
4. Primo pilastro dei negoziati, il monitoraggio da vicino dei progressi delle riforme<br />
5. Nel caso di serie e persistenti violazioni dei principi di libertà, democrazia, rispetto<br />
dei diritti umani e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto saranno sospesi i negoziati.<br />
6. Secondo pilastro sarà la complessità e particolarità dei negoziati, nel quadro di una<br />
conferenza intergovernativa dove le decisioni richiedono unanimità.<br />
7. Terzo pilastro sarà il dialogo politico e culturale, in cui la società civile avrà un<br />
ruolo importante.<br />
8. L’esito delle trattative è indeterminato, ma deve essere assicurato che la Turchia<br />
rimanga pienamente ancorata alle strutture <strong>eu</strong>ropee.<br />
Ma come si è arrivati all’apertura del negoziato?<br />
“Missione compiuta”, si lascia andare, soddisfatto, il tedesco Günter Verh<strong>eu</strong>gen,<br />
commissario all’allargamento, sorridendo al presidente Romano Prodi che gli siede al fianco<br />
dopo la presentazione ai capigruppo dell’Europarlamento del sì della Commissione al via<br />
dell’apertura del negoziato con la Turchia per il suo ingresso nella Unione Europea. Un sì che<br />
è risuonato parecchie altre volte nel dibattito che è seguito nell’aula di Bruxelles, ma che è in<br />
realtà così ancorato a richieste di verifiche da apparire più una operazione di salvataggio che<br />
un via libera.<br />
Lo stesso Romano Prodi del resto ha tenuto a precisare di avere avuto incarico dal<br />
Consiglio (e cioè dai capi di Stato e di Governo) di verificare se ci fossero o no le condizioni<br />
per metter su il tavolo delle trattative. Come a dire che lui, se è entrato nella vicenda, è solo<br />
per caso. Ha avuto una direttiva e si è limitato ad eseguirla.<br />
E comunque sia, non è stato per nulla facile arrivare al semaforo verde. Almeno tre<br />
292
commissari - la spagnola De Palacio, l’austriaco Fischler e il francese Lamy - anche nei giorni<br />
precedenti, hanno storto e non di poco il naso. Più di loro ha fatto l’olandese Frits<br />
Bolkenstein, commissario al Commercio interno, il quale ha anzi fatto mettere il 6 ottobre<br />
2004 a verbale la sua contrarietà, diversamente dagli altri che, sia pur critici, alla fine hanno<br />
fornito il loro sì all’apertura del negoziato.<br />
Non che nell’aula dell’Europarlamento sia andata poi meglio. Anche qui sono fioccati<br />
lo stesso giorno parecchi sì, ma pochi davvero convinti: quello del socialdemocratico tedesco<br />
Schulz (a cui l’<strong>eu</strong>rodeputato Antonio Tajani si è rivolto sorridente, dicendo di aver apprezzato<br />
il suo trovarsi al fianco di Berlusconi), quello del verde Cohn-Bendit e pochi altri. Molti però<br />
i via libera condizionati, molte le richieste di ulteriori paletti, moltissime le perplessità. Ha<br />
prevalso comunque la ragion politica, la difficoltà di accendere un semaforo rosso dopo aver<br />
accettato la richiesta di Ankara. Così se si sono sentiti solo tre secchi no - un francese ha fatto<br />
presente che non si dovrebbe neppure dialogare in presenza di truppe turche in un Paese<br />
dell’Unione come Cipro, un olandese ha lamentato come sarà più facile vedere moschee a<br />
Bruxelles che chiese cristiane a Istanbul e un nazionalista fiammingo ha previsto una spesa di<br />
28 miliardi di <strong>eu</strong>ro l’anno, più di quanto pagato per l’ingresso degli ultimi 10 soci - e se il<br />
capogruppo del PPE il tedesco Poettering, ha suggerito un passaggio preliminare ad un<br />
“partenariato privilegiato”, gran parte della compagnia ha recitato un copione scontato: sì, ma<br />
piano piano.<br />
La Commissione stessa del resto - tanto con Prodi che con Verh<strong>eu</strong>gen - aveva deciso<br />
di indicare questa strada.<br />
Nel documento che verrà recapitato al successivo consiglio dei capi di Stato e di<br />
Governo, si riferirà infatti che Ankara rispetta gli standard richiesti da Bruxelles in base al<br />
Trattato di Copenhagen, ma che a questo punto, nelle trattative che si possono aprire (e che se<br />
non ci saranno controindicazioni dovrebbero portare la Turchia nella UE fra non meno di 10-<br />
15 anni) devono essere definiti: un monitoraggio annuale delle riforme che Ankara deve fare,<br />
una serie di negoziati molto complessi e l’intensificarsi di un dialogo culturale. Fuori dagli<br />
schemi burocratici, si tratta di capire se i turchi dopo aver fatto leggi “democratiche” (no alla<br />
tortura, rispetto della condizione femminile, libertà religiosa) le fanno rispettare o no. Perché<br />
ad esempio proprio riguardo alla tortura, Verh<strong>eu</strong>gen ha dovuto ammettere che la situazione<br />
ancora presenta zone d’ombra. Meno spinose le questioni relative invece a Bulgaria e<br />
Romania (dovrebbero entrare nel 2007 ma Bucarest è in netto ritardo) e Croazia (avvio della<br />
trattativa nel gennaio del 2005). Ma il nodo vero resta Ankara: non si tratta solo di un Paese<br />
geograficamente <strong>eu</strong>ro-asiatico né di una nazione a stragrande maggioranza musulmana. Ma di<br />
293
un possibile nuovo socio che, coi suoi 80 milioni d’abitanti oggi, 100 tra dieci anni,<br />
diverrebbe di fatto il più importante membro dell’Unione Europea a 29.<br />
E ciò determinerebbe, di fatto, uno spostamento degli equilibri a favore dell’eventuale<br />
peso politico e decisionale della Turchia all’interno delle istituzioni <strong>eu</strong>ropee, con<br />
l’affermazione di un nuovo impero (romano?) d’oriente. Sarebbe infatti illusorio ritenere che<br />
la Turchia, con la sua storia imperiale, scelga di restare nella parte dell’Unione ipotizzata dal<br />
giornalista Venturini, precedentemente citato, “più simile ad una zona di libero scambio dalle<br />
ambizioni ridotte”. L’altra parte dell’Unione “più integrata e più presente sulla scena<br />
internazionale”, come ipotizza lo stesso giornalista, verrebbe “di fatto” oscurata dalla<br />
preponderanza numerica, compattata da tradizioni millenarie e ancorata ad un passato<br />
glorioso della Turchia.<br />
La priorità dell’Europa è l’unione politica o l’allargamento dei mercati?<br />
Sondando le reazioni dei vari governi <strong>eu</strong>ropei, possiamo avere un quadro globale della<br />
dinamica in atto.<br />
Soddisfazione, apprezzamento ma anche scetticismo costituiscono la cornice della<br />
trattativa. Le porte dell’Europa aperte alla Turchia hanno destato reazioni diverse nelle<br />
capitali del Vecchio Continente, dove prevale comunque l’idea di lanciare un segnale al<br />
mondo islamico.<br />
ITALIA. Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha rilevato che la Commissione UE<br />
“ha riconosciuto i progressi” della Turchia nel rispetto dei criteri politici di Copenhagen.<br />
Quindi il governo italiano esprime “apprezzamento e soddisfazione” per il primo sì<br />
all’apertura dei negoziati per l’ingresso di Ankara nella UE. Frattini è convinto che<br />
“contribuiremo così a mantenere saldamento ancorato all’Europa un partner d’interesse<br />
strategico come la Turchia”. Dello stesso parere il ministro per il Commercio con l’estero<br />
Adolfo Urso che sottolinea come “la Turchia sia una miniera per il made in Italy”. L’export<br />
italiano continua a crescere. . Fuori dal<br />
coro soltanto la Lega che parla di gesto grave e insensato. “La Turchia - ha detto<br />
l’<strong>eu</strong>rodeputato Mario Borghezio - resta la patria della negazione dei diritti umani”.<br />
FRANCIA. Il Paese è diviso: da un lato la Francia ufficiale che è favorevole,<br />
dall’altro la gente comune che è ampiamente contraria. Secondo un recente sondaggio, il 56%<br />
dei francesi si oppone all’ingresso della Turchia in Europa. Il presidente Jacques Chirac è<br />
personalmente favorevole ad aprire le porte ad Ankara anche se, come ha ricordato pochi<br />
294
giorni prima nel vertice a Strasburgo con Gerhard Schröeder, i francesi dovranno poter dir la<br />
loro sull’adesione della Turchia all’UE e comunque su qualsiasi altro allargamento<br />
successivo. In quell’occasione, Chirac aveva anche annunciato che il governo avrebbe<br />
studiato una modifica costituzionale per permettere ai cittadini di pronunciarsi attraverso un<br />
referendum. E il 6 ottobre 2004 lo ha ribadito: “I negoziati dureranno almeno dieci o quindici<br />
anni” e nel frattempo la Costituzione “prevederà che ogni allargamento, oltre a quelli già<br />
esistenti, implicherà la decisione dei cittadini francesi attraverso una consultazione<br />
referendaria”.<br />
GERMANIA. Dal governo rosso-verde di Berlino, grande avvocato della causa turca<br />
in Europa, arriva il plauso alla decisione di Bruxelles. Critica invece l’opposizione cristiano-<br />
democratica secondo la quale l’UE è ancora impegnata a smaltire l’ingresso dei nuovi Stati<br />
membri e non ce la farebbe a digerire un nuovo allargamento di queste dimensioni. Per<br />
l’Europa, dicono CDU e CSU, significherebbe anche la fine della prospettiva di un’unione<br />
politica. Ma il Governo del cancelliere Schröeder è entusiasta anche se si attendono tempi<br />
lunghi: “Le trattative - ha detto un portavoce - saranno condotte con l’obiettivo<br />
dell’adesione”. Dietro la posizione del governo si nasconde soprattutto un calcolo politico: la<br />
Germania ospita la maggiore comunità turca di Europa (sono 2,2 milioni) e, di questi, la<br />
maggioranza vota rosso-verde.<br />
GRAN BRETAGNA. Anche da Londra arriva il plauso al primo passo della Turchia<br />
verso l’Unione. “Ankara ha fatto grandi cambiamenti negli ultimi anni - ha detto il ministro<br />
degli Esteri Jack Straw - promuovendo le riforme che l’UE aveva chiesto. L’UE ora deve<br />
mantenere gli impegni”. Se la Turchia può contare su un alleato di peso in Europa, questo è la<br />
Gran Bretagna, che voleva addirittura meno paletti all’adesione turca. Londra è infatti<br />
contraria a “trattamenti speciali” per Ankara e a ogni limitazioni della circolazione dei<br />
lavoratori turchi in Europa.<br />
La scelta del governo Chirac di studiare una modifica costituzionale per consentire ai<br />
cittadini francesi di pronunciarsi sull’ingresso di nuovi Paesi, oltre a quelli già esistenti,<br />
appare ponderata e illuminata. Un’Europa troppo grande finirebbe infatti per subire le<br />
traversie disgreganti dell’Impero romano. Sull’onda delle paure o degli interessi economici di<br />
trovare nuovi mercati redditizi, non dobbiamo allargare a dismisura la nostra Unione Europea.<br />
In un documento di sedici pagine che fa il punto sui progressi registrati, la<br />
Commissione rileva, innanzitutto, che l’entrata dei nuovi dieci Stati, a maggio 2004, “ha<br />
rinforzato l’unità del continente <strong>eu</strong>ropeo” e che “gli argomenti storici e politici a favore<br />
dell’allargamento sono eloquenti”.<br />
295
Ma dobbiamo valutare altri argomenti storici e politici che sono sfavorevoli<br />
all’allargamento ulteriore dell’Europa, se vogliamo che diventi protagonista degli equilibri<br />
internazionali e della pace mondiale, e non disgregata e impegnata a tenersi in piedi mentre<br />
vacilla di qua e di là senza baricentro e spina dorsale, come è stata fino ad oggi.<br />
Dobbiamo inoltre tener presente che un interlocutore competitivo interpreta le<br />
concessioni immediate come un segno di debolezza. Solo nelle situazioni più collaborative, in<br />
cui la relazione è già sicura, si può concedere in modo più diretto, supponendo che<br />
l’interlocutore non scambi disponibilità con debolezza.<br />
Un’Europa consapevole della sua identità e del suo ruolo storico non può espandersi a<br />
dismisura, se non smagliandosi e perdendo la sua compagine, oltre alla credibilità,<br />
all’affidabilità e al prestigio. Sono pertanto pienamente d’accordo con Chirac e con i Paesi<br />
che proporranno il referendum quale condizione di accesso della Turchia.<br />
È indispensabile una consultazione degli elettori.<br />
D’altro lato, sul versante turco, nemmeno il referendum popolare previsto dalla<br />
Francia (e da altri paesi) sulla adesione della Turchia sarebbe legittimo secondo Erdogan. “Un<br />
referendum sarebbe una decisione ingiusta, perché per nessun altro Paese è stato fatto<br />
altrettanto nell’UE”, ha affermato suggerendo ai governi <strong>eu</strong>ropei meno disposti verso Ankara<br />
(come Francia, Germania, Olanda, Spagna ed Ungheria) di proseguire con una politica filo<br />
turca senza curarsi degli orientamenti delle popolazioni. “Nessun leader politico è eterno: se è<br />
convinto di una sua politica va fino in fondo e se sbaglia paga con la sconfitta elettorale”, ha<br />
sottolineato il premier turco.<br />
Ma chi non si cura degli orientamenti delle popolazioni è un dittatore, che prima o poi<br />
finirà defenestrato. La nostra democrazia richiede la consultazione da parte dei cittadini. Non<br />
si tratta di discriminare un Paese o un altro, né tantomeno di cercare “scontri di civiltà”, bensì<br />
di concentrarsi sulle priorità da parte di una Europa che deve ancora diventare una Unione<br />
attraverso l’abbattimento delle barriere del pregiudizio. La priorità attuale per l’Europa è il<br />
consolidamento della sua struttura identitaria, in modo che giunga presto a parlare con una<br />
sola voce in politica estera, nella difesa e in altri settori di importanza strategica. Come potrà<br />
essere un’alleata affidabile degli USA nella lotta al terrorismo, se non diventa un colosso alla<br />
pari con gli USA?<br />
Esplorando e rafforzando la coesione su interessi, valori e necessità, si può procedere<br />
a discutere le forme e i modi operativi per raggiungerli insieme.<br />
La forza della collaborazione aumenta se questo nucleo di interessi e valori condivisi è<br />
296
espresso nella forma di una “vision” comune, cioè di una dettagliata e suggestiva immagine<br />
che rappresenti uno scenario futuro ideale e motivante, raggiungibile solo attraverso la<br />
cooperazione di tutte le parti coinvolte. L’immagine di una Europa coesa e forte, una sorta di<br />
colosso inespugnabile, alleata degli USA, incentiva a mettere in gioco tutte le proprie risorse<br />
per imboccare l’irto sentiero della lotta al terrorismo. La necessità di coalizzarsi contro il<br />
terrorismo spinge le parti a non considerare i propri interessi come distinti, ma come un tutto<br />
unico.<br />
Questa “vision” vivida e avvincente ha il potere di trasformare le parti negoziali in<br />
partner negoziali.<br />
L’appoggio dato a metà ottobre 2004 dagli USA, nella veste di Colin Powell, alla<br />
proposta italiana di insediare nell’ONU una “voce” che rappresenti tutta l’Europa è di buon<br />
auspicio in questo progetto “di lunga durata”.<br />
Occorre definire in modo preciso e chiaro il proprio obiettivo finale in modo da averlo<br />
sempre a fuoco durante l’elaborazione del processo che dovrà condurre dallo status quo al suo<br />
raggiungimento. Inoltre, ad ogni tappa del processo negoziale è necessario controllare i<br />
risultati ottenuti rispetto all’obiettivo finale in modo da poter costantemente apporre<br />
correzioni.<br />
Per diventare un colosso, l’Europa deve crescere nella riflessione sulla sua identità, sui<br />
suoi valori condivisi, che definiscono i suoi obiettivi congruenti con la sua identità, e non<br />
solo funzionali ad una strategia di mercato o di interesse politico, in funzione del voto<br />
elettorale della comunità turca presente in Europa. Concentrandosi soprattutto sulle<br />
conseguenze a breve termine delle questioni negoziali, infatti, si dimostra di soffrire di<br />
un’allarmante miopia.<br />
L’identità <strong>eu</strong>ropea.<br />
La democrazia si nutre dell’aperto e anche aspro confronto delle opinioni, ma alla base<br />
ci deve essere il dialogo.<br />
Una legge della cibernetica, la legge della varietà richiesta, dice che ciascun sistema,<br />
per adattarsi all’ambiente esterno, deve incorporare la variabilità tra i suoi controlli interni. Se<br />
si riduce la variabilità all’interno del sistema, il sistema non può far fronte alla variabilità<br />
dell’ambiente esterno. La diversità di punti di vista è la fonte principale di innovazione<br />
continua e di adattamento ai cambiamenti esterni. L’assenza di variabilità genera monoliticità,<br />
ma anche autocompiacimento, se le cose vanno bene o depressione, se le cose vanno male.<br />
Ma è stato dimostrato che in entrambi i casi si arriva alla stagnazione e al declino.<br />
297
Tuttavia, nella prospettiva di una moderna leadership e visione creativa, si staglia<br />
nettamente l’ingresso, in tutta la sua portata, del concetto di Identità, connessa ai valori o<br />
criteri più alti, di cui occorre prendere coscienza, per non essere risucchiati nel vortice della<br />
globalizzazione.<br />
In altre parole, ci può essere un conflitto interno sostenibile, che crea propulsione,<br />
spinta all’innovazione, alla crescita, all’adattamento ai cambiamenti esterni.<br />
Tuttavia, quando il conflitto si focalizza sui valori e sull’Identità, il sistema si logora<br />
ed è avviato al declino esattamente come un sistema totalmente privo di tensioni interne e,<br />
quindi, monolitico. È utile precisare che c’è assenza di tensione, quando la conflittualità<br />
interna viene soppressa, mettendo fuori gioco i “dissidenti”, perché in un “sistema sano” la<br />
diversità di punti di vista è tollerata o anche incoraggiata, cercando ovviamente di canalizzarla<br />
verso risultati utili.<br />
Allora, bisogna chiedersi: quali sono i modi di agire e i valori di riferimento dei<br />
componenti di un sistema? Conta più aumentare i ricavi/comprimere i costi o creare le<br />
condizioni per una sana integrazione e unità interna?<br />
L’Europa non è una sommatoria di PIL variamente distribuiti e nemmeno un contratto<br />
commerciale, in cui basti dimostrare di poter comprare prodotti <strong>eu</strong>ropei, per poter avere un<br />
passaporto identitario. L’Europa è innanzitutto una Grande Famiglia, in cui circolano valori,<br />
tradizioni, storia, relazioni che vanno a costituire una Identità Comune, una Grande Identità<br />
Europea.<br />
L’Europa non gioca perennemente in difesa o agli ordini di qualche altra potenza che<br />
detti le sue condizioni o pressioni. L’Europa è una grande potenza-immagine, capace di<br />
portare i suoi valori e la sua Identità al mondo, quale protagonista di pace negli equilibri<br />
internazionali. Per questo, non possiamo definire il problema dell’adesione di nuovi Paesi<br />
come un problema di PIL o di mercato, consapevoli che l’Europa dei popoli ha una missione<br />
di integrazione all’interno di sé, all’insegna dei valori condivisi, e nel mondo all’insegna della<br />
pace, della libertà e della democrazia. L’Europa non vuole lo scontro di civiltà e per questo<br />
consolida la sua Identità per poter interagire nella consapevolezza di essa, senza negare o<br />
ignorare le sue radici, e dialogando con tutti i Paesi che desiderano confrontarsi, in modo<br />
aperto e cordiale. L’Europa dei popoli non potrà essere una super potenza al pari degli USA,<br />
se non saprà ascoltare la voce dei suoi cittadini. Gli statisti <strong>eu</strong>ropei sono chiamati ad avere il<br />
senso dei cittadini, più che il senso dello Stato, inteso come Moloch dai regimi autoritari.<br />
Ignorando la volontà dei cittadini, ci si sottrae al compito di guida autorevole e illuminata.<br />
Secondo Scott, un piano efficace deve essere semplice, specifico e flessibile. Semplice,<br />
298
in quanto i suoi principi devono poter essere tenuti ben presenti dal negoziatore anche nei<br />
momenti più complessi e confusi della trattativa. Specifico, in quanto la genericità può<br />
ostacolare l’efficacia: la precisione è potere. Flessibile, perché deve lasciare spazio all’ascolto<br />
attivo della controparte e al cambiamento.<br />
Tenendo presente l’Identità dell’Europa e la sua aspirazione di essere protagonista<br />
degli equilibri internazionali e della pace nel mondo, ci facciamo portatori di un piano di<br />
integrazione basato sui valori condivisi e sulle radici storiche comuni e inalienabili e non<br />
consentiremo che il criterio commerciale o elettorale prenda il sopravvento sulla<br />
considerazione di interessi di immagine, di cultura e di civiltà.<br />
Erdogan, intervistato al TG1 serale il 30 ottobre 2004, ha spiegato le ragioni per cui la<br />
Turchia va considerata parte dell’Europa: “Perché in parte è già <strong>eu</strong>ropea; è un corridoio tra<br />
Europa e Asia; è un mercato che vale 4 miliardi di dollari l’anno; è entrata nella NATO; ha<br />
avuto accesso al trattato doganale di Helsinky e Copenaghen nel ‘92”. In questa scorsa<br />
geografico-economica e “burocratica” non c’è alcun accenno all’interculturalità che prende<br />
atto della ricchezza insita nella varietà, che non si propone l’omogeneizzazione e mira solo a<br />
permettere l’interazione più piena e fluida possibile tra le diverse culture. Come potranno<br />
gestire l’interculturalità cento milioni di turchi, che diventeranno molti di più al momento<br />
della decisione finale sul loro ingresso in Europa?<br />
Entrare in una logica interculturale è qualcosa di totalmente diverso dal mirare ad un<br />
“melting pot” (crogiolo) come quello effettuato in America da spagnoli, portoghesi e inglesi.<br />
Secondo la teoria del “crogiolo”, ogni differenza culturale si deve fondere in una nuova realtà<br />
e la fase multiculturale è transitoria, in attesa dell’omogeneizzazione. La multiculturalità<br />
indica una situazione transitoria e limitata nel tempo, dettata da necessità contingenti e non da<br />
scelta, mentre l’interculturalità rappresenta un atteggiamento costante, che prende atto della<br />
ricchezza insita nella varietà, che non si propone l’omogeneizzazione, il livellamento,<br />
l’appiattimento, l’uniformismo, e mira solo a permettere l’interazione più piena e fluida<br />
possibile tra le varie culture.<br />
Il crogiolo linguistico e culturale è certo più facile da gestire di quanto non lo sia una<br />
prospettiva interculturale. In effetti, l’omologazione semplifica il passaggio delle<br />
informazioni e la diffusione di valori omogenei, ma impoverisce in termini di pluralità di<br />
approccio ai problemi. L’Europa ha scelto con chiarezza un modello interculturale, anche se<br />
nei testi dell’UE compare la parola “multiculturale” e chi opera in questo continente deve<br />
tener conto di questa essenziale scelta strategica del nostro contesto socio-politico futuro.<br />
Pertanto, entrare in una prospettiva interculturale e formare alla comunicazione e, più<br />
299
in generale, a un atteggiamento interculturale non significa creare dei cloni di modelli altrui,<br />
anche se sono modelli dominanti come quello americano. La prospettiva interculturale<br />
considera storie e persone diverse e talvolta conflittuali in relazione tra loro, comprendendole,<br />
ma senza mai negare la legittimità delle singole identità culturali.<br />
Perciò, formare alla comunicazione interculturale implica formare:<br />
a) persone che consapevolmente scelgono quali modelli comunicativi e culturali<br />
accettare, tollerare o rifiutare a seconda delle situazioni in cui si trovano;<br />
b) operatori che sanno evitare i conflitti involontari dovuti alle differenze culturali;<br />
c) protagonisti di un mondo che alle pulizie etniche sostituisce la curiosità, il rispetto,<br />
l’interesse per soluzioni diverse da quelle proprie della sua cultura. 1<br />
La situazione comunicativa viene definita anche dalla scena culturale. Le persone<br />
vengono da scene diverse e conservano le regole e i valori del luogo culturale da cui<br />
provengono. Per portare un esempio di problemi comunicativi interculturali, in Turchia un<br />
dirigente italiano che accetta critiche, che ammette errori, ecc., può perdere la faccia ed essere<br />
ritenuto debole. 2<br />
Inoltre, l’argomento di cui parlano gli interlocutori, può non essere condiviso, in<br />
quanto i valori sottostanti ad esso non sono sempre condivisi nelle varie culture, anche se gli<br />
interlocutori possono dimenticarsene.<br />
Il ruolo dei partecipanti è un altro elemento di grave difficoltà: in ogni cultura lo<br />
status sociale viene attribuito e mantenuto secondo valori e regole proprie, spesso molto<br />
distanti, se non contrastanti, tra culture.<br />
Infine, un evento include i messaggi extralinguistici: gesti, mimica facciale, distanze<br />
interpersonali ecc. che sono all’origine di uno dei principali problemi della comunicazione<br />
interculturale.<br />
Ci sono anche scopi dichiarati e non. Le varie culture regolano in maniera diversa il<br />
ruolo in cui si possono rendere espliciti certi scopi. Si tratta di regole che coinvolgono valori<br />
fortemente marcati come la gerarchia, lo status, il rapporto uomo-donna. Il modo di velare o<br />
enfatizzare gli scopi cambia da cultura a cultura e anche all’interno della stessa cultura, della<br />
stessa famiglia.<br />
Ci sono poi gli atteggiamenti psicologici nei confronti degli interlocutori, della loro<br />
cultura, della loro azienda, istituzione, organizzazione, università: rispetto, ironia, diffidenza,<br />
ammirazione, sarcasmo ecc. che emergono nel testo linguistico e soprattutto nei linguaggi non<br />
verbali.<br />
1 Cfr. BALBONI P. E., Parole comuni, culture diverse, Marsilio, Venezia, 2003, p. 18<br />
2 Cfr. op. cit. p. 49 e 93<br />
300
La riflessione su tutti questi punti critici dell’interculturalità non può che stemperare i<br />
facili ottimismi sulla possibilità di un accorpamento di 100 milioni di persone in una Europa<br />
politica, unita da valori condivisi e da radici storiche comuni, e non solo da criteri di PIL, di<br />
ricchezza.<br />
Le questioni in gioco.<br />
Per creare consenso è necessario riconoscere, comprendere e n<strong>eu</strong>tralizzare gli eventi e<br />
le percezioni che possono far degenerare i conflitti rendendoli difficilmente negoziabili.<br />
conflitto.<br />
Nella negoziazione vengono indicate strategie per trasformare le diverse percezioni del<br />
Le strategie sono definite dall’insieme dei mezzi che il mediatore mette in atto per<br />
giungere allo scopo, ovvero il piano generale, il metodo o l’approccio adottati dal mediatore.<br />
Uno dei modi in cui i mediatori interpretano la condotta strategica è quello di<br />
descrivere che cosa intendono fare e in che modo tenteranno di farlo.<br />
Le tattiche sono tutte quelle condotte, che il mediatore pone in atto per acquisire<br />
informazioni utili per delineare le questioni della trattativa, le priorità nonché per favorire le<br />
mosse tra le parti volte a ridurre la loro distanza iniziale.<br />
Le tattiche possono essere comprese solo nel contesto del processo strategico,<br />
all’interno del piano delineato dal mediatore. Perciò non è infrequente che si osservino<br />
sovrapposizioni tra tattiche differenti e mediatori che adottano in modo differente le<br />
medesime tattiche.<br />
Una delle strategie usate nella negoziazione consiste nel n<strong>eu</strong>tralizzare la tendenza a<br />
percepire le questioni conflittuali come questioni di principio, promuovendo una valutazione<br />
economica delle questioni in gioco e quindi trasformando una questione indivisibile (morale)<br />
in una frazionabile (materiale). Thompson e Gonzales (1997) arrivano a sostenere che in<br />
molte negoziazioni le questioni dichiarate sacre e intoccabili in realtà sono ps<strong>eu</strong>dosacre, sono<br />
cioè trattabili a patto di ricevere una adeguata compensazione economica: “tutto ha un<br />
prezzo!”. Ad esempio, il parametrare a livello economico anche materie associate a valori<br />
fondamentali (ad esempio la salvaguardia dell’ambiente) ha permesso di rendere negoziabili,e<br />
quindi anche in qualche misura controllabili, dei problemi come quelli dell’inquinamento,<br />
destinati altrimenti ad arenarsi in una conflittualità irrisolvibile.<br />
Tuttavia, il ridurre ogni questione ad una valutazione economica degli elementi in<br />
gioco può rivelarsi estremamente pericoloso, in quanto fonte di gravi conflitti in futuro. Oscar<br />
Wilde ha detto: “Oggi si conosce il prezzo di tutto, ma non si conosce il valore di niente”.<br />
301
Forse è giunto il momento di connettersi ai valori, per non sprofondare nell’aridità culturale<br />
più totale.<br />
La negazione dei problemi sottostanti ad un conflitto incartandoli con un foglio di <strong>eu</strong>ro<br />
o di dollari o di voti elettorali appare un rimedio di breve durata destinato ad aprire in futuro<br />
nuovi fronti di lotta o di guerra. I finanziamenti americani a Bin Laden nel periodo<br />
dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan, o a Saddam Hussein durante la guerra Iraq-Iran<br />
possono rappresentare un monito a non perpetuare le valutazioni economiche delle questioni<br />
in gioco. Sono forse gli effetti dell’orientamento di ruolo femminile nello stile di gestione dei<br />
conflitti che ci portano ad essere consapevoli e dirette nell’esprimere i “veri problemi”,<br />
anziché a nasconderli o a presentarli in modo distorto, a suggerire di confrontarsi con piena<br />
responsabilità sull’ingresso della Turchia consultando anche il popolo <strong>eu</strong>ropeo.<br />
Il parametrare a livello economico una materia associata a valori, convinzioni, identità<br />
come l’ingresso di un Paese con tradizioni, cultura, storia, usanze, mentalità, ambizioni che si<br />
collocano in una dimensione diversa rispetto a quella <strong>eu</strong>ropea, appare estremamente arbitrario<br />
e foriero di conflitti futuri anche paralizzanti per la crescita e gli equilibri interni e<br />
internazionali dell’Unione Europea.<br />
L’approccio economico, secondo il quale ad ogni bene, o alle volte ad ogni principio,<br />
ad esempio il rispetto dell’ambiente, viene attribuito un valore monetario che è per eccellenza<br />
graduabile e divisibile, rende possibile un certo tipo di negoziazione, e quindi permette di<br />
gestire conflitti in modo incruento su questioni altrimenti intrattabili.<br />
Tuttavia, la possibilità di soluzioni intermedie e compromessi deve tener conto della<br />
complessità della realtà, quando entrano in gioco convinzioni e valori e il livello identitario, in<br />
cui le parti non si riconoscono. Qui non si tratta di volere l’unica mela divisibile, piuttosto che<br />
l’unica ciliegia indivisibile, per cui risulta semplice tagliare la mela in due pezzi per<br />
raggiungere un accordo. Si tratta piuttosto di far confluire all’interno di una realtà politica e<br />
istituzionale - l’Europa - un popolo con una cultura, tradizioni, usanze, identità, ambizioni<br />
radicate in una storia millenaria parallela a quella <strong>eu</strong>ropea.<br />
Ci sono “trappole sociali” che spingono i decisori a un certo comportamento che può<br />
offrire nell’immediato un beneficio o una ricompensa a chi lo mette in atto ma, nel contempo,<br />
far pagare a quest’ultimo un costo o una punizione nel lungo periodo. Tuttavia, anche quando<br />
gli effetti sul lungo periodo sono conosciuti fin dall’inizio, la gente tende a ignorarli. È ciò<br />
che si verifica, ad esempio, quando un individuo è consapevole dei rischi che corre fumando,<br />
ma decide comunque di continuare a fumare dato che la questione - decidere di smettere - si<br />
porrà quando sarà ora, cioè quando incomincerà a sentirsi male.<br />
302
Questa visione miope, che non vede più in là del naso, è estremamente deleteria<br />
soprattutto in politica, dove l’“effetto Bin Laden” e l’“effetto Saddam Hussein” sono<br />
imputabili anche ad una strategia di alleanze mal gestite, rivolte ad ottenere risultati<br />
immediati, ma che nel lungo periodo hanno fatto pagare un costo altissimo e si sono rivelate<br />
una “punizione” per gli USA.<br />
Quando il fumatore accanito che non vuole smettere di fumare si sente male, può già<br />
essere troppo tardi, come nel caso in cui sia presente un tumore in fase avanzata.<br />
La strategia americana di imbottire di dollari e di armi chiunque serva in un certo<br />
momento per combattere un certo “nemico” reale o presunto, senza curarsi della sua struttura<br />
di personalità, delle sue convinzioni e criteri e della sua cultura, ha già sortito effetti<br />
disastrosi, di cui la prossima “vittima” potrebbe essere proprio l’Europa.<br />
Qualcuno può obiettare che la motivazione che spinge ad avviare questo negoziato<br />
appare come bisogno di evitare problemi, in quanto lo “scontro di civiltà” può essere più<br />
costoso dell’accordo. La motivazione ad evitare perdite più che la motivazione ad acquisire<br />
vantaggi sembra il motore della negoziazione in questione. L’alternativa rappresentata<br />
dall’attacco è in prospettiva la meno vantaggiosa.<br />
Le parti devono quindi sviluppare una percezione così chiara dei costi del conflitto<br />
aperto da maturare la motivazione ad evitare queste perdite rendendosi disponibili a<br />
negoziare. Più limpida sarà questa percezione, prima decollerà la trattativa. Più chiaramente le<br />
due parti sapranno raffigurarsi le lunghe e pesanti conseguenze sul clima di un loro eventuale<br />
scontro profondo, prima saranno emotivamente pronte a sedersi attorno ad un tavolo. Si tratta<br />
di raffreddarsi tenendo ben presente il potenziale punitivo della controparte, specialmente nel<br />
lungo periodo.<br />
Tuttavia, occorre constatare che le decisioni prese in fretta senza valutare le<br />
conseguenze nel lungo periodo hanno quasi sempre provocato disastri: guerre, conflitti<br />
interminabili come quello in Medio Oriente tra israeliani e palestinesi. Il voler evitare ad ogni<br />
costo “per principio” uno scontro di civiltà, paradossalmente, può portare esattamente ciò che<br />
si vuole evitare prendendo una decisione affrettata, ostentando il potere punitivo della<br />
controparte.<br />
A questo punto, è doveroso precisare che tra le alternative estreme prospettate per il<br />
negoziato, ossia l’entrata della Turchia nelle istituzioni <strong>eu</strong>ropee in tempi brevi, valutando<br />
l’accesso solo in base al criterio del PIL e il mancato avvio del negoziato, esiste un punto<br />
intermedio di soluzione del “conflitto” che potrebbe coincidere con la costituzione di un<br />
partenariato privilegiato per la Turchia, che tuttavia non prevede il suo ingresso nelle<br />
303
istituzioni politiche.<br />
Pertanto, il comprendere e assecondare le posizioni e gli interessi della controparte<br />
senza sacrificare l’integrità della propria parte rientra nelle linee guida. Un’identità si evolve<br />
e si va plasmando nell’interazione. I paesi dell’Europa dell’Est in meno di sei anni hanno<br />
cambiato i loro riferimenti culturali. Ma ciò può essere esteso tale e quale ad un Paese come la<br />
Turchia con “credo”, tradizioni e ambizioni ben diverse da quelle dell’Europa dell’Est?<br />
Occorre tener presente che è arduo e pericoloso tentare di generare risorse con chi<br />
vuole solo conquistarle. Nella dinamica negoziale, è meglio dimostrarsi sempre per primi<br />
disponibili a correre il rischio di negoziare in modo cooperativo, salvo rimanere pronti a<br />
cambiare stile in conseguenze delle scelte della controparte.<br />
Con le parole di Pruitt e Lewis (1975), “i negoziatori che mantengono un alto livello di<br />
aspirazione e sono lenti nel fare concessioni evitano compromessi prematuri e si prendono<br />
carico dello sforzo che spesso è necessario per cercare un accordo che dia alti benefici<br />
comuni” 3 .<br />
Le elevate aspirazioni resistono meglio alla tentazione di accontentarsi di un mediocre<br />
accordo compromissorio. Inoltre, aspettandosi importanti risultati dalla trattativa, si è più<br />
motivati ad investire energie nell’impegnativo processo negoziale integrativo dove la qualità<br />
dell’accordo è proporzionale a quanto si mettono in gioco numerose attitudini quali: le abilità<br />
relazionali e comunicative, la tolleranza alla frustrazione e la capacità di problem-solving<br />
creativo.<br />
Negoziare un accordo soddisfacente.<br />
I negoziatori che sperimentano contemporaneamente e con la stessa spiccata intensità<br />
l’interesse per i propri rendimenti e quello per i rendimenti della controparte evitano sia il<br />
rischio di un approccio competitivo che è frutto di un’alta ambizione personale e del<br />
disinteresse verso la controparte sia il rischio di un approccio remissivo e compromissorio<br />
frutto di moderate aspirazioni personali e di una forte motivazione a compiacere la<br />
controparte.<br />
Secondo il Dual Concern Model, l’atteggiamento motivazionale che meglio sostiene la<br />
negoziazione integrativa è dato quindi da una forte ambizione personale combinata ad una<br />
pari attenzione ai rendimenti della controparte. Ne consegue che un negoziatore può puntare<br />
al raggiungimento del meglio per sé o per l’organizzazione o lo stato che rappresenta nella<br />
3 PRUITT D. G., LEWIS S. A., “Development of integrative solutions in bilateral negotiation” in Journal of Personality<br />
and Social Psychology 31, 1975, p. 622<br />
304
trattativa solo nella misura in cui egli è altrettanto genuinamente motivato a cercare di<br />
ottenere il meglio anche per la controparte.<br />
Per negoziare in modo integrativo, quindi, l’orientamento al sé e all’altro sono due<br />
dimensioni che devono decollare congiuntamente. Sarebbe più utile combinarli in un unico<br />
concetto e a questo scopo Jeffrey Rubin (1999) ha proposto la nozione di “individualismo<br />
illuminato”. L’individualista illuminato ha chiare e forti aspirazioni personali, ma sa che la<br />
controparte ha pari motivazioni e diritto a volere il meglio per sé. Inoltre è convinto che sia<br />
possibile e desiderabile lavorare insieme per raggiungere entrambi questi obiettivi. Mentre<br />
l’esclusivo orientamento al sé porta all’indipendenza e l’esclusivo orientamento agli altri<br />
porta alla dipendenza, ogni efficace processo di interdipendenza si basa sull’individualismo<br />
illuminato.<br />
In alcune culture, ad esempio in Pakistan, Colombia, Taiwan, è più naturale assumere<br />
un orientamento collettivistico, mentre in altre, ad esempio negli USA, in Gran Bretagna e nei<br />
Paesi Bassi, è più forte quello individualistico. Nelle prime prevale l’interesse verso la qualità<br />
e l’armonia delle relazioni anche a costo di ottenere scarsi rendimenti negoziali, mentre nelle<br />
seconde prevale l’interesse verso i risultati personali anche a costo di commettere ingiustizie.<br />
La strada maestra percorribile appare quella verso un approccio che integri le virtù di<br />
entrambi questi orientamenti culturali. La negoziazione è soprattutto un fenomeno relazionale,<br />
nonostante per molti anni sia stata studiata prettamente secondo una prospettiva economico-<br />
matematica.<br />
Gli elementi relazionali hanno una notevole influenza prima della negoziazione<br />
(reputazione, aspettative, percezioni, ecc.) durante il processo (fiducia, comunicazione,<br />
cooperazione, ecc.) e dopo (fidelizzazione, rispetto, affidabilità, ecc.). Pertanto la qualità della<br />
relazione tra le parti determina in larga misura la qualità dell’accordo a cui giungeranno<br />
negoziando.<br />
Nel determinare la relazione con la controparte contribuiscono i fattori cognitivi, che<br />
influenzano l’accuratezza della percezione degli interessi della controparte. Ad esempio, è<br />
emerso da una ricerca di Thompson e Hastie (1990) che essa è in genere vista come portatrice<br />
di interessi perfettamente speculari ai propri per cui tutto ciò che rappresenta un vantaggio per<br />
la controparte deve necessariamente costituire uno svantaggio per sé e viceversa. Ma anche i<br />
fattori affettivi sono rilevanti e sono costituiti principalmente dal potere, dalla fiducia e dalla<br />
positività del rapporto tra le parti (Pruitt, Carnevale, 1993).<br />
Anche quando la fiducia tra i negoziatori è scarsa, è comunque possibile tentare la<br />
negoziazione integrativa soprattutto se si adottano due accorgimenti (D<strong>eu</strong>tch, 1973; Fisher,<br />
305
1964). Il primo è la reversibilità delle proposte, secondo cui ogni parte deve sentirsi<br />
pienamente libera di ritirare in ogni momento le proprie offerte qualora non venissero<br />
reciprocate. Il secondo accorgimento è la frammentazione, secondo cui le parti abbattono i<br />
rischi della defezione aprendosi alla cooperazione a piccoli passi progressivi e attendono che<br />
ciascuno venga corrisposto prima di passare al successivo.<br />
È stata individuata una serie di condizioni che contribuiscono alla positività della<br />
relazione. La percezione di similarità negli atteggiamenti e nei valori (Byrne, 1977), il<br />
ritenersi appartenenti allo stesso gruppo soprattutto se si è in competizione con un gruppo<br />
esterno (Kramer, Brewer, 1984) l’avere sperimentato un successo nelle collaborazioni passate<br />
o perfino l’aver sperimentato un insuccesso a patto che la scelta di collaborare sia stata<br />
percepita come del tutto volontaria (Turner et Al., 1984), l’essere stati di aiuto alla controparte<br />
in passato (Gaertner et Al., 1990) e l’aspettativa di una futura relazione di reciproca<br />
dipendenza (Pruitt, Kimmel, 1977).<br />
Anche la struttura socio-economica e il sistema politico giocano un ruolo importante.<br />
È stato osservato, ad esempio, che stati che hanno lo stesso sistema politico manifestano un<br />
numero minore di percezioni negative reciproche (Gochman, 1993).<br />
Spesso si corre il rischio di confondere una negoziazione in cui è difficile trovare un<br />
pronto compromesso con una negoziazione impossibile. Nel 1978 a Camp David, Egitto e<br />
Israele si siedono al tavolo negoziale per trattare la pace, dopo che nel 1967, in soli sei giorni,<br />
Israele occupò l’intera penisola egiziana del Sinai. Da subito le posizioni negoziali espresse<br />
da Sadat e Begin appaiono incompatibili. Israele insiste a mantenere una parte del Sinai<br />
mentre l’Egitto vuole riacquisire la sovranità su tutta la penisola. Malgrado un accurato<br />
ridisegnare delle mappe, non emerge alcuna configurazione delle suddivisioni del Sinai<br />
reciprocamente accettabile. Anche una piccola porzione di territorio mantenuta da Israele fa<br />
scattare il rifiuto intransigente degli egiziani, mentre il ristabilimento del confine dov’era<br />
prima del 1967 provoca il veto degli israeliani. Se le due parti avessero avuto mete negoziali<br />
meno rigide ed ambiziose, avrebbero magari potuto accontentarsi di un semplice<br />
compromesso distributivo, del tipo concedere ad Israele il 50% di quella parte del territorio<br />
del Sinai che avrebbe voluto mantenere, e restituire il resto all’Egitto. Entrambi i Paesi<br />
sarebbero però rimasti parzialmente insoddisfatti da un accordo di questo tipo, rischiando di<br />
minare la solidità e la stabilità del processo di pace. Pertanto, la difficoltà ad intravvedere un<br />
immediato compromesso può costituire lo stimolo migliore per puntare ad un accordo<br />
integrativo, se c’è il supporto di adeguate risorse cognitive, emotive e relazionali.<br />
D’altro lato, è noto che il rango, l’identità e il peso dei mediatori giocano un ruolo<br />
306
determinante nella conduzione delle trattative. Un esempio paradigmatico è proprio lo storico<br />
incontro a Camp David nel 1978 tra Sadat e Begin, che poneva fine a 31 anni di guerra tra<br />
Egitto e Israele. In quell’occasione il ruolo di mediatore era giocato da Jimmy Carter, che<br />
godeva del ruolo e del rango di presidente della maggior potenza mondiale.<br />
I mediatori invitarono le parti ad andare oltre le proprie posizioni negoziali<br />
esplicitando la ragione per cui volessero il territorio del Sinai. Cos’era importante per Israele<br />
ed Egitto? Da questa domanda è emerso l’elemento fondamentale su cui si basa ogni accordo<br />
integrativo: la diversità tra le parti. Israele era interessato alla protezione e alla sicurezza dei<br />
propri confini: non voleva rischiare di avere i carri armati arabi ai limiti del proprio territorio,<br />
per cui vedeva nel possesso del Sinai una preziosa cintura di sicurezza contro aggressioni<br />
militari terrestri. L’Egitto era interessato all’orgoglio nazionale di rivedere finalmente la<br />
propria bandiera sventolare su tutte le proprie terre. Questo orgoglio era stato frustrato per<br />
secoli dal susseguirsi di dominazioni greche, romane, turche, francesi ed inglesi.<br />
Gli interessi erano sufficientemente diversi da non essere sovrapposti, per cui la<br />
negoziazione integrativa era possibile. Il territorio del Sinai ritornò del tutto sotto la sovranità<br />
egiziana, ma un’ampia area venne demilitarizzata per garantire la sicurezza di Israele. Nel<br />
Sinai oggi c’è la bandiera egiziana, con piena soddisfazione di quel popolo, e non ci sono<br />
carri armati arabi, con piena soddisfazione di Israele.<br />
In questo caso, la diversità di prospettive, di aspirazioni, di paure e di interessi è<br />
decisamente una risorsa tra gli esseri umani.<br />
Con il concetto di diversità tra le parti negoziali non si indica solo il fatto che esse<br />
desiderano ottenere dalla negoziazione cose diverse - caso non frequente -, ma soprattutto che<br />
esse mirino alle stesse cose con diversa intensità e quindi con diverse priorità.<br />
La diversità, quindi, è da ricercare sia nei possibili diversi obiettivi delle parti sia, e in<br />
modo più attento, nei diversi livelli di priorità che ciascuno attribuisce agli stessi obiettivi.<br />
La differenza, quindi, crea opportunità: quando tra le parti non c’è una perfetta<br />
sovrapposizione di interessi e priorità in relazione alle questioni negoziali, allora si apre lo<br />
spazio per una soluzione migliore rispetto al semplice compromesso, a patto che la diversità<br />
venga accettata e fatta emergere.<br />
Il negoziatore va oltre le globali dichiarazioni circa ciò che si vuole ottenere dal<br />
negoziato, del tipo “voglio il Sinai!”. Il processo prende quota solo quando gli interlocutori<br />
riescono ad esplicitare gli interessi, le aspirazioni e le paure sottostanti alle loro posizioni,<br />
dicendo ad esempio: “voglio la sicurezza o voglio l’onore”. Se le parti si scontrano ad un<br />
livello di semplici posizioni, finiscono per arroccarsi su di esse al punto di perdere di vista<br />
307
cosa veramente cercano dall’accordo. Per superare e approfondire le posizioni, bisogna porre<br />
la domanda “perché?”. Perché vuoi quello che chiedi? Che benefici ti assicura? Che rischi o<br />
perdite ti evita? Quali aspirazioni personali ti consente di perseguire?<br />
Per conoscere gli interessi della controparte, si possono proporre contemporaneamente<br />
varie soluzioni negoziali, ciascuna rappresentativa di una diversa configurazione di interessi.<br />
In base al gradimento che riscuotono, si potrà estrapolare per approssimazioni successive la<br />
struttura degli interessi e delle priorità della controparte.<br />
Uno degli ostacoli psicologici più consistenti al riconoscimento delle differenze tra sé<br />
e l’interlocutore è effetto dell’<strong>eu</strong>ristica del falso consenso (Dawes, 1989). Questa <strong>eu</strong>ristica,<br />
intesa come “scorciatoia mentale” per formulare velocemente giudizi senza impegnarsi in più<br />
complesse elaborazioni cognitive, spinge a formulare indebiti giudizi di similarità tra i propri<br />
interessi e quelli della controparte. Si assume a priori che in realtà “vogliamo tutti le stesse<br />
cose”, e “in fondo siamo tutti uguali” e che quindi sia uno sforzo inutile impegnarsi a sondare<br />
le possibili differenze.<br />
Il trade-off tra le questioni in gioco consiste essenzialmente nel processo per cui<br />
ciascuna delle parti cede sulle questioni prioritarie per la controparte in cambio di avere la<br />
meglio sulle questioni prioritarie per sé. In questo modo la diversità tra le parti può consentire<br />
di incrementare il rendimento negoziale comune dal momento che il guadagno che ciascuno<br />
ricava dalle concessioni che riceve è maggiore del costo di quelle che concede.<br />
Nel caso della Turchia, la questione prioritaria per sé è strettamente connessa con la<br />
sua crescita economica, in quanto si tratta di un Paese povero. Il sostegno economico che<br />
l’Europa può offrire alla sua economia va considerato come rendimento negoziale in cambio<br />
dell’appoggio alla questione prioritaria per l’Europa: l’affermazione della sua Identità storica<br />
e dei suoi valori condivisi e delle radici comuni, che non prevedono quindi l’ingresso della<br />
Turchia nelle istituzioni <strong>eu</strong>ropee.<br />
All’aumentare delle questioni sul tavolo negoziale, si alza la probabilità che le parti<br />
nutrano verso di esse interessi con priorità differenziali, consentendo così l’accordo<br />
integrativo. In altri termini, più questioni si considerano, più differenze emergono e più cresce<br />
il potenziale integrativo della trattativa. Bisogna quindi trasformare la struttura della trattativa<br />
da “mono-issue” a “multi-issue”. Talvolta, una questione è così emotivamente pregnante per i<br />
negoziatori da creare su di essa una focalizzazione che adombra le possibili altre questioni<br />
secondarie, nonostante sia proprio grazie a queste che spesso si raggiunge una soluzione più<br />
vantaggiosa.<br />
Nel caso in cui la trattativa apparisse irrimediabilmente di tipo “mono-issue”, le parti<br />
308
possono impegnarsi a far esplodere la questione in gioco. Si tratta di trasformare un’unica<br />
questione in più di una. Nel caso delle trattative tra Egitto e Israele, una questione<br />
apparentemente monolitica come il territorio del Sinai può esplodere in più questioni quali la<br />
sovranità, il controllo militare, ma anche lo sfruttamento di eventuali giacimenti, il diritto di<br />
transito, le facilitazioni per l’insediamento di coloni, ecc. Si potrebbe affermare che in ogni<br />
risorsa oggetto di trattativa si possono vedere tante caratteristiche quanti sono gli interessi di<br />
coloro che la guardano.<br />
Il modo più efficace per suddividere una questione in sotto-questioni è appunto quello<br />
di osservarla attraverso gli occhi, e quindi gli interessi e i valori delle diverse parti, scoprendo<br />
così che essa può rappresentare cose diverse e tra loro compatibili. La stessa questione può<br />
avere significati anche profondamente diversi per le parti in gioco.<br />
Maggiore è il numero di interessi profondi che le parti rivelano, più aumentano le<br />
possibilità di far esplodere la risorsa.<br />
Un conflitto non può essere pienamente risolto finché le parti non portano in superficie<br />
i loro interessi fondamentali (Burton, 1984).<br />
È raro trovare una questione assolutamente scomponibile. Pruitt e Rubin (1986)<br />
osservano che una singola questione può sempre scomporsi in almeno due componenti: la sua<br />
sostanza e la forma con cui viene discussa. Ad esempio, possono esserci casi in cui una parte<br />
sia disposta a cedere sul merito della questione a patto che la forma con cui si arriva alla<br />
decisione finale le permetta di salvare la faccia, ad esempio venendo coinvolta, ricevendo<br />
spiegazioni o scuse.<br />
Oltre all’allargamento delle questioni, si può ricorrere alle compensazioni specifiche e<br />
aspecifiche. Le prime rappresentano delle nuove risorse che vengono aggiunte al tavolo<br />
negoziale al fine di indennizzare la parte che ha fatto le concessioni più consistenti. La parte<br />
che rischia di uscire più impoverita dal negoziato riceve quindi delle risorse in grado di<br />
soddisfare interesse e obiettivi che sarebbero stati frustrati dalle concessioni fatte. Ciò è<br />
avvenuto, ad esempio, con la proposta del governo Sharon di indennizzare i coloni israeliani<br />
insediati nella striscia di Gaza e della Cisgiordania, dopo la decisione di ritirarsi da questa<br />
area, approvata dal Parlamento israeliano il 26 ottobre 2004. Si tratta di un passo storico nel<br />
processo di pace.<br />
Pertanto, un negoziatore ottiene ciò che chiede e l’altro riceve nuove risorse a titolo di<br />
indennizzo dei costi o dei rischi a cui si è esposto concedendo. Il potenziale integrativo della<br />
trattativa cresce nella misura in cui tale indennizzo richiede un basso costo per chi lo concede<br />
e rappresenta una compensazione interessante per chi lo riceve.<br />
309
Con le compensazioni aspecifiche, viceversa, una parte ottiene ciò che vuole mentre<br />
l’altra è ripagata attraverso qualche risorsa non in relazione con il tipo di questioni presenti<br />
sul tavolo negoziale. Così, mentre la compensazione specifica indennizza il negoziatore più<br />
disponibile alle concessioni cercando di soddisfare lo stesso tipo di interessi che egli ha<br />
sacrificato concedendo, la compensazione aspecifica soddisfa il negoziatore su un tipo diverso<br />
di interessi. Più si approfondisce la relazione e la conoscenza reciproca tra le parti, più diventa<br />
proponibile un allargamento che consenta questo tipo di compensazioni.<br />
Infatti, attraverso il “bridging”, nessuna delle parti negoziali ottiene ciò che<br />
originariamente chiedeva, ma viene sviluppata in modo creativo una nuova opzione in grado<br />
comunque di soddisfare gli interessi sottostanti alle richieste delle parti. Per operare il<br />
“bridging” è quindi necessario non rimanere invischiati nell’originaria e statica definizione<br />
del conflitto. Diventa pertanto indispensabile per le parti analizzare, rivelare e chiarire gli<br />
interessi e gli obiettivi che realmente vogliono soddisfare attraverso le proprie posizioni e le<br />
proprie richieste negoziali. Una volta posti sul tavolo tutti i desideri fondamentali dei<br />
negoziatori, è possibile avviare in modo cooperativo un processo creativo finalizzato a trovare<br />
una soluzione originale che lo soddisfi.<br />
Condizione preliminare per l’accettabilità di un accordo è la sua capacità di soddisfare<br />
più interessi di quelli realizzabili mediante il proprio BATNA (Best Alternative To the<br />
Negotiated Agreement), termine coniato da Roger Fisher, Bill Ury e Bruce Patton nel best-<br />
seller “Getting to YES” per descrivere l’alternativa che una parte potrebbe perseguire se<br />
l’accordo proposto non si realizzasse. Esso include la possibilità di abbandonare il tavolo<br />
della negoziazione, prolungare uno stallo, prendere contatto con altri potenziali<br />
“interlocutori”, cercare di formare nuove alleanze, ecc. Quindi il BATNA determina la zona<br />
del possibile accordo. La disponibilità ad abbandonare il tavolo della negoziazione per seguire<br />
il BATNA è in realtà l’arma più importante. È preferibile avere nella borsa una fantastica<br />
offerta di lavoro - piuttosto che una pistola - durante una trattativa con il proprio capo avente<br />
come oggetto la propria retribuzione.<br />
Non si dovrebbe solo stabilire con precisione il proprio BATNA, ma anche conoscere<br />
accuratamente quello dell’altra parte. Così facendo si possono evitare inutili e spiacevoli<br />
sorprese. Il potenziale accordo e il BATNA dovrebbero funzionare assieme, come fanno le<br />
lame delle forbici quando tagliano un pezzo di carta.<br />
L’interazione sempre maggiore tra popolazioni di cultura diversa ha fatto nascere<br />
problemi con una valenza sempre più marcatamente culturale. Ad esempio, si sono imposti<br />
problemi quali la difesa delle identità linguistiche e culturali particolari, i diritti delle<br />
310
minoranze, i diritti dell’essere umano, l’applicazione della sharia, l’uso del chador, i simboli<br />
sulle bandiere, l’unificazione dell’Europa e i suoi aspetti culturali, l’omogeneizzazione etnica<br />
forzata, la presenza del crocifisso nelle scuole, lo stato di diritto, i canali di informazione.<br />
Sembra che il pianeta sia impegnato in un colossale negoziato dove la posta in gioco è di<br />
ordine culturale. Si tratta infatti di conciliare l’affermazione di particolarismi estremi con la<br />
tendenza all’uniformismo globale.<br />
Il negoziatore deve poter identificare e superare non soltanto i conflitti interculturali<br />
che gravitano attorno agli individui, ma deve anche interrogarsi sugli aspetti giuridici, sui<br />
fondamenti del diritto altrui, e, se questi sono di matrice culturale, diventa difficile “essere<br />
morbidi con le persone” e “severi con il problema”, in quanto il problema si manifesta come<br />
soggettivo. È cioè legato all’uno o all’altro degli interlocutori e quindi è più difficile da<br />
isolare. In genere, infatti, non si negoziano le convinzioni personali, l’educazione dei propri<br />
figli o i propri gusti artistici come si negozia un contratto di locazione o l’acquisto di un<br />
terreno.<br />
Ci sono numerosi negoziatori, consulenti o funzionari, che non dedicano molto tempo<br />
a studiare gli individui o i problemi all’interno dei loro contesti. Tentare di integrare nei<br />
sistemi sociali in crisi comportamenti e leggi senza un’adeguata preparazione e senza un<br />
successivo monitoraggio è controproducente. Tuttavia, è auspicabile il processo di<br />
acculturazione alla democrazia e all’economia di mercato nei Paesi in transizione, in via di<br />
sviluppo, anche attraverso il contributo di diversi professionisti, mediatori interculturali e<br />
giuristi. Ciò non significa che l’esito finale debba essere necessariamente l’accorpamento<br />
all’Europa politico-istituzionale. Altri criteri si profilano, infatti, in una decisione così gravida<br />
di conseguenze per la stessa Unità dell’Europa.<br />
Il gioco si è aperto.<br />
Adesso che finalmente si è aperto il gioco, il 4 ottobre 2005 a Bruxelles, non son pochi<br />
a mettere le mani avanti. “Il sì alla Turchia? L’ingresso non è garantito né automatico, e il<br />
negoziato sarà lungo e difficile anche se deve essere equo”, comunica burbero da Londra Josè<br />
Durao Barroso, dove era al fianco di Blair e Putin per una sessione di lavori UE-Russia.<br />
Anche l’inquilino di Downing Street, che pure è stato tra i più efficaci sponsor di Erdogan,<br />
dice di “capire” le preoccupazioni che circolano nel Vecchio Continente per allargare i confini<br />
comuni fino all’Anatolia e si limita ad osservare l’importanza “del rispetto degli obblighi”<br />
messi nero su bianco a Lussemburgo e validi per tutti i contraenti.<br />
Sono tante, in buona sostanza, le regole d’oro che dovranno esser rispettate per<br />
311
l’adesione turca che, nel migliore dei casi, non avverrà prima del 2014. Intanto, come<br />
rammentava Barroso, il negoziato resta aperto: non implica cioè una automatica accettazione.<br />
Ancora, è previsto che per “gravi e continue violazioni” da parte turca su un numeroso elenco<br />
di temi, il dialogo possa essere bruscamente interrotto. Ancora, c’è la questione cipriota sulla<br />
quale si reclama “un proseguimento degli sforzi per un regolamento globale” delle relazioni e<br />
“ulteriori progressi nella normalizzazione del rapporto bilaterale”. Poi ci sono procedure da<br />
verificare attraverso continui screening da parte di Bruxelles. E infine, c’è la rielaborazione<br />
del capitolo “capacità di assorbimento” che Vienna ha fatto passare per un suo successo per<br />
cui, una volta rispettati tutti i paletti, l’Europa si interrogherà se può accogliere i 100-120<br />
milioni di turchi o se non sarà il caso di rinviare l’appuntamento nel tempo.<br />
Insomma di tagliole ce ne sono parecchie, fanno capire i leaders della UE mentre,<br />
come osserva il commissario alla concorrenza, il finlandese Olli Rehn, “le preoccupazioni<br />
legittime degli <strong>eu</strong>ropei devono esser bilanciate con i vantaggi per gli indirizzi strategici<br />
dell’Unione, specie in tema di stabilità e sicurezza”.<br />
Eppure tanto le mani avanti che gli inviti a guardare più in là, ai benefici che possono<br />
venire dall’intesa con Ankara, non paiono convincere più di tanto. Non solo nei territori dei<br />
25, ma anche a Bruxelles dove, ad esempio, l’Europarlamento non è per nulla soddisfatto che<br />
non ci sia una riga sull’eccidio di armeni e curdi. E dove persino un azzurro come il vice-<br />
presidente dell’aula Mauro trova che la Turchia si nasconda ancora dietro “troppe ambiguità”,<br />
chiedendosi se non andrà a finire “più che con una Turchia più evoluta, con una Europa più<br />
rassegnata”.<br />
Si spaccano orizzontalmente le grandi famiglie politiche continentali. A sinistra c’è chi<br />
esulta ma anche chi lancia segnali allarmati. A destra accade lo stesso. Josep Borrell, lo<br />
spagnolo presidente dell’Europarlamento, da Nicosia, a Cipro, chiedeva l’abbattimento<br />
dell’ultimo muro d’Europa. Ma se a Famagosta sarebbero anche disponibili, sulla costa turca<br />
le orecchie son rimaste tappate. In Italia, alla soddisfazione di tanti s’accoppia l’irritazione dei<br />
leghisti - pronti a chiedere un referendum e, come detto da Maroni “decisi ad opporsi con<br />
ogni mezzo”.<br />
La Lega Nord resta infatti, tra i partiti italiani, il principale oppositore all’apertura<br />
dell’UE alla Turchia. Il ministro delle Riforme Roberto Calderoli ha parlato dell’adesione di<br />
Ankara come di un attacco “al mondo occidentale e alle nostre radici cristiane”, promettendo<br />
che la Lega indirà un referendum sulla questione. Anche il ministro del Welfare Roberto<br />
Maroni ha promesso battaglia. E Giancarlo Pagliarini ha ricordato che la Turchia si ostina a<br />
negare l’esistenza stessa del genocidio armeno. Ma c’è anche la perplessità dell’ex ministro<br />
312
per i rapporti con la UE e mancato commissario a Bruxelles Rocco Buttiglione. Ricordando<br />
come i referendum sull’ingresso della Turchia “diano ad oggi prognosi infauste”, nota come<br />
sarebbe meglio non sottovalutare gli ostacoli ancora sul terreno: “Vanno considerati subito<br />
sennò ci si sbatte contro”.<br />
Ecco i passi principali del documento adottato il 3 ottobre 2005 dai ministri degli<br />
Esteri <strong>eu</strong>ropei per l’avvio dei negoziati di adesione della Turchia all’Unione Europea:<br />
1. Negoziati aperti. I negoziati sono un processo aperto il cui risultato non può essere<br />
garantito in anticipo. Potranno concludersi solo dopo che saranno stabilite le prospettive<br />
finanziarie per il periodo che si aprirà nel 2014;<br />
2. Sospensione dei negoziati. Avverrebbe in caso di violazione seria e persistente, da<br />
parte della Turchia, dei principi di libertà, di democrazia, di rispetto dei diritti umani,<br />
delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto sui quali si fonda l’UE;<br />
3. Rispetto del diritto UE. L’adesione implica l’accettazione del complesso delle norme<br />
e dei principi alla base del diritto dell’Unione;<br />
4. Capacità di assorbimento. La capacità dell’Unione di assorbire la Turchia è una<br />
considerazione importante nell’interesse generale dell’Unione e della Turchia;<br />
5. Cipro. L’UE chiede alla Turchia di proseguire negli sforzi per regolare la questione<br />
cipriota nel quadro dell’ONU e di progredire nella normalizzazione delle relazioni<br />
bilaterali con tutti gli Stati membri dell’UE;<br />
6. Procedure. I negoziati si svolgeranno in una conferenza intergovernativa e saranno<br />
preceduti da un lavoro di screening della Commissione.<br />
“Vittoria storica” per Ankara, ma i diplomatici frenano.<br />
La Turchia ce l’ha fatta, ha ottenuto quello che voleva. Il sospirato negoziato per<br />
l’adesione all’UE è finalmente partito senza alcun riferimento a quel “partenariato speciale”<br />
che costituiva l’incubo di Ankara e che l’Austria aveva sostenuto fino all’ultimo minuto.<br />
Esultano i politici, a partire dal premier Recep Tayyip Erdogan e dal suo vice Abdullah Gül<br />
(“una vittoria storica, anche se il cammino sarà lungo e difficile”); e manifestano <strong>eu</strong>foria gli<br />
ambienti economici, che si aspettano grandi flussi di investimenti stranieri in Turchia fin dalla<br />
fase negoziale - e destinata a durare un decennio - e una maggiore stabilità politica ed<br />
economica. La Borsa di Istanbul ha registrato questi umori, facendo segnare il 4 ottobre 2005<br />
un corposo +3,86% dopo il record di +5,70% della sera precedente.<br />
Anche i comuni cittadini turchi sono per lo più molto contenti, sebbene alcuni temano<br />
cedimenti su temi come il riconoscimento di Cipro o il genocidio degli armeni. La<br />
313
soddisfazione si traduce al momento in una crescita di consensi per il governo e verso la<br />
stessa Unione Europea, che negli ultimi tempi erano nettamente calati.<br />
Meno entusiasti appaiono invece i diplomatici turchi, che prevedono un irrigidimento<br />
del quadro negoziale e si preparato a colloqui irti di ostacoli. Il primo risiede nel concetto,<br />
rafforzato nel documento-quadro approvato a Lussemburgo, secondo cui l’UE dovrà<br />
verificare nel corso del negoziato la propria effettiva “capacità di assorbimento” della<br />
Turchia, un Paese che oggi conta più di 70 milioni di abitanti, che nel 2015 ne avrà almeno 80<br />
milioni e che nel 2020 potrebbe averne quasi 100 milioni. C’è poi il test di verifica, fissato già<br />
nel 2006, sull’apertura dei porti e aeroporti turchi alle nevi e agli aerei greco-ciprioti, oltre<br />
all’impegno di Ankara a riconoscere Cipro prima del suo accesso. I diplomatici turchi sono<br />
poi insoddisfatti del fatto che solo la presidenza di turno britannica ha garantito ad Ankara la<br />
conservazione del suo potere di veto nella Nato.<br />
Allargamento finito o infinito?<br />
Niente polemiche invece sulla ripresa dei negoziati con la Croazia il cui presidente<br />
Mesic spera a questo punto in un ingresso nella UE già nel 2008. E, almeno per ora, nessuna<br />
voce contraria all’avvio dei colloqui con Serbia e Montenegro per una “associazione” che è il<br />
primo passo da compiere in vista della richiesta di adesione. Anche se con Belgrado sono<br />
ancora aperti parecchi conti sui crimini di guerra.<br />
Fino a dove arriva l’Europa? Fino alla Vistola. Ancora un pizzico turbati - per la<br />
maggior parte - dall’annuncio giunto da Lussemburgo del “via” alle trattative coi turchi, i<br />
Popolari Europei (PPE) riunito il bureau politico del gruppo nel castello di Genval, hanno<br />
deciso che non se ne può più di marciare di allargamento in allargamento. E a precisa<br />
domanda del presidente del gruppo, il tedesco Hans Gert Poettering hanno risposto che la UE<br />
finisce in Polonia. Si mettano il cuore in pace bielorussi, ucraini, moldavi e quant’altri. Per<br />
loro, se del caso, sono partenariati privilegiati.<br />
Un coro unanime nel summit del maggior partito dell’Europarlamento - 268 deputati<br />
di 53 diverse formazioni - a differenza che su altre questioni in cui l’avvento della UE a 25 ha<br />
seminato non pochi impicci procedurali ma anche politici. Più sofferta, ad esempio, la<br />
questione del dialogo con l’Islam, posta dal vice-presidente del gruppo Cesa (UDC)che a<br />
questo punto, complice il dialogo coi turchi, diviene fondamentale. Non tutti erano d’accordo,<br />
ma alla fine è prevalso un largo sì: proprio Cesa guiderà un gruppo di lavoro che dovrà<br />
contattare i singoli governi arabi per aprire un canale di comunicazione. Si inizierà a<br />
Bruxelles a metà novembre 2005 con un megaconvegno al quale è stato invitato il presidente<br />
314
della Lega Araba e molti esponenti islamici, senza parlare degli ambasciatori di tutti i paesi<br />
interessati.<br />
315
RIFLESSIONI CONCLUSIVE<br />
La cultura è l’insieme dei modelli culturali messi in atto da un popolo per rispondere a<br />
bisogni naturali: nutrirsi, procreare, proteggersi dal freddo, vivere in gruppo ecc.<br />
Poiché siamo cresciuti all’interno dei modelli della nostra cultura, ne siamo<br />
generalmente inconsapevoli. Ci sembra ad esempio naturale, mentre è “culturale”, che ci sia<br />
un capofamiglia anziché una capofamiglia, che non si debba picchiare chi ha idee diverse<br />
dalle nostre. Ma sono passati pochi decenni dal fascismo, dove venivano dispensate bastonate<br />
o “purghe” a chi non pensava come dettava il regime dittatoriale. D’altro lato, negli stadi di<br />
calcio ci si picchia ancora oggi per tifo, e neppure per diversità di idee. È quindi utile saper<br />
osservare la propria cultura mentre si osserva quella altrui.<br />
Valori culturali diversi<br />
La vita quotidiana di un sempre maggior numero di individui è segnata<br />
dall’onnipresenza di alimenti, tessuti, materie prime, oggetti e simboli che hanno origine nelle<br />
aree più disparate del pianeta. Giornali, televisioni e reti telematiche informano tutto il mondo<br />
su conflitti distruttivi e su conquiste civili, su aspirazioni e su atrocità che in passato avevano<br />
soltanto pochi testimoni locali. Musica, sport, cinema, arti, design, moda e in genere tutta la<br />
cultura giovanile moltiplicano le varietà e le mescolanze di stili e di linguaggi provenienti<br />
dalle più diverse civiltà e tradizioni.<br />
La mappa o visione del mondo che ciascuno di noi ha non si identifica con il territorio,<br />
con la realtà oggettiva o, meglio, la realtà “indipendente” viene percepita in modo diverso,<br />
con rappresentazioni soggettive. Se è utile riconoscere che ogni individuo costituisce una<br />
propria, unica, personale mappa rappresentativa della realtà sulla base delle singole esperienze<br />
individuali connesse ai genitori, alla propria storia, agli affetti, avvenimenti ecc., è altresì<br />
opportuno aggiungere che la mappa di ciascuno di noi si viene formando anche in relazione<br />
all’ambito culturale e alla struttura sociale in cui siamo cresciuti e dove ci troviamo inseriti.<br />
Ad esempio, tra i valori culturali di fondo dei giapponesi c’è l’enryo, cioè la tendenza<br />
ad autocontrollarsi e a non esprimersi in maniera diretta, sia per non esibire le proprie<br />
emozioni e opinioni, sia per non rischiare un grave “peccato” culturale, quello di infastidire o<br />
offendere l’interlocutore.<br />
316
La struttura del “testo” o discorso asiatico permette ad esempio una serie di commenti<br />
prima di giungere, come in un movimento a spirale, a definire il vero argomento, il vero tema<br />
del testo.<br />
Viceversa, il testo anglosassone e scandinavo, ma in parte anche quello francese, è<br />
lineare, diretto: va straight to the point e tutte le informazioni accessorie che nel testo latino<br />
erano collocate in frasi secondarie, in digressioni, qui vengono poste di seguito. Il testo si<br />
presenta quindi come una serie di frasi brevi e semplici, con forte uso di ripetizioni che<br />
riprendono un termine della frase precedente. Le ripetizioni sono invece fortemente osteggiate<br />
in italiano.<br />
D’altro lato, occorre sottolineare che i diversi punti di vista da cui si osserva la<br />
medesima “realtà” si integrano, come pezzi di un mosaico in cui ciascuno offre il suo<br />
contributo essenziale per formare il “quadro” complessivo.<br />
Finalità e valori condivisi<br />
C’è un ostacolo emozionale alla evidenziazione delle diversità. Spesso si ha la<br />
credenza implicita che non si possa avere una buona relazione se si è diversi. Sottolineare le<br />
differenze diventa pertanto un’azione che potrebbe rischiare di incrinare il rapporto. In realtà<br />
ciò che rende forte una relazione non è la semplice uguaglianza ma soprattutto le finalità e i<br />
valori condivisi ed essi possono essere raggiunti spesso grazie al confronto aperto sulle<br />
diversità. Paradossalmente la cooperazione di miglior qualità si nutre di differenze.<br />
Un’Europa coesa e forte si alimenta di queste diversità, avendo presente la propria Identità e i<br />
propri Valori Condivisi.<br />
Gray (1999) illustra efficacemente questo concetto con la storiella degli uomini ciechi<br />
che vagando per la giungla finiscono per arrivare intorno ad un elefante. Il primo entra in<br />
contatto con una zampa e la percepisce come un tronco, il secondo tocca la coda e la<br />
interpreta come una corda, il terzo palpa un orecchio e dichiara di aver incontrato una foglia<br />
gigante. Solo l’esplicitazione, l’accettazione e l’integrazione delle reciproche differenze potrà<br />
permettere a tutti di raggiungere con successo l’obiettivo comune di conoscere correttamente<br />
il proprio ambiente.<br />
Filosofie occidentali e filosofie orientali vengono a poco a poco riconosciute come<br />
parti integranti, e anche complementari, di una medesima ricerca comune sul senso della vita<br />
e del mondo. Religioni e spiritualità di differenti radici e tradizioni si incontrano e si<br />
confrontano nella difficile ricerca di un’etnia planetaria. Si comincia a riconoscere il<br />
contributo originale e importante, per le esperienze e per le conoscenze umane, di popoli che<br />
317
sembravano sul punto di essere travolti dalla storia, quali - tra gli altri - i tibetani e i nativi<br />
americani.<br />
D’altro lato, un limite alla comunicazione è rappresentato dagli stereotipi che gli<br />
interlocutori proiettano sulla controparte. Uno stereotipo tende ad autoconfermarsi<br />
aumentando la sensibilità verso le informazioni che lo rafforzano e portando ad ignorare o<br />
distorcere le informazioni che lo indeboliscono (Sherif, 1958). Inoltre gli stereotipi<br />
restringono il flusso di comunicazione tra le parti impedendo così di smentirli o confutarli. È<br />
difficile comprendere realmente l’interlocutore finché non si mettono in discussione e non si<br />
testano le proprie assunzioni nei suoi confronti. E a volte non si è nemmeno consapevoli di<br />
tali assunzioni.<br />
Dialoghi fecondi<br />
Scienze, arti, miti e spiritualità stanno annodando dialoghi fecondi.<br />
L’interculturalità è un atteggiamento di fondo, che prende atto della ricchezza insita<br />
nella varietà, che non si propone l’omogeneizzazione ma mira solo a permettere<br />
un’interazione il più piena e fluida possibile tra le diverse culture.<br />
Tuttavia, in direzione esattamente contraria a questi sviluppi, molti popoli, civiltà,<br />
gruppi, forme di vita, forme di conoscenza sembrano inclini a un indurimento dei loro confini,<br />
a un irrigidimento dei criteri di appartenenza, a un’enfatizzazione delle distanze che separano<br />
ciò che è percepito come interno al proprio orizzonte di vita e di conoscenza da ciò che è<br />
considerato altro, non controllabile e non assimilabile, e quindi pericoloso o letale.<br />
Il pensiero religioso esprime un modo di concepire l’universo tipico di una comunità<br />
umana più o meno grande. La sharia, per esempio, divide il mondo in due zone: il territorio<br />
dell’Islam e il territorio di guerra (dar el harb). Un’applicazione rigorosa (senza ijtihad) di<br />
tale concetto rende sospetto tutto ciò che proviene dal dar el harb. Ad esempio, un giudice<br />
non musulmano non potrà giudicare un musulmano; prevale la prova di un testimone maschio<br />
e musulmano. Al momento solo in pochissimi paesi tali norme trovano ancora applicazione.<br />
Attestano comunque l’esistenza di norme culturali difficilmente accettabili per altri sistemi.<br />
Forme più o meno virulente di pulizia etnica, religiosa o sociale si moltiplicano in<br />
tutto il pianeta, spesso distruggendo antiche coesistenze. Tutte le religioni, tutte le<br />
appartenenze etniche, tutti i sistemi di pensiero sono oggi esposti al rischio di derive<br />
integraliste e fondamentaliste, tanto più dannose in quanto coniugano omologazione interna<br />
ed espansionismo esterno.<br />
I ripetuti attacchi terroristici in Iraq contro le chiese cristiane, sferrati nell’autunno<br />
318
2004, testimoniano l’equiparazione del cristianesimo alla politica dell’Occidente, come ha<br />
sottolineato il Papa Giovanni Paolo II l’8 dicembre 2004. L’assunzione pregiudiziale di<br />
equivalenza tra un “credo religioso” e una politica rappresenta uno dei rischi più gravi per la<br />
pacifica convivenza tra i popoli.<br />
D’altro lato sul versante <strong>eu</strong>ropeo, l’assassinio del regista olandese Theo Van Gogh,<br />
compiuto il 2 novembre 2004 con un rituale islamico da un militante integralista marocchino<br />
di 27 anni già noto alle forze dell’ordine, sta sollevando resistenze nell’opinione pubblica<br />
sulla compatibilità della presenza in un paese liberale come l’Olanda di movimenti<br />
integralisti. Van Gogh, un intellettuale di spicco che ha creato un film sulla condizione della<br />
donna islamica basandosi sulla testimonianza di una donna messa sotto stretta protezione<br />
perché in pericolo di vita, ha pagato con la morte il diritto di esporre un pensiero critico in un<br />
paese democratico. La sua tragica scomparsa suona come un monito a chi ritiene che la libertà<br />
di espressione sia ormai acquisita e intangibile in una società multietnica in cui i<br />
fondamentalisti sono ben organizzati e vitali. Collettività e individui “devianti” o<br />
semplicemente ritenuti “diversi” continuano dunque a diventare capri espiatori o addirittura<br />
bersaglio di massacri e di genocidi mirati.<br />
Proposte culturali e formative<br />
In questo inquietane scenario, non possiamo né soffocare né ignorare i tentativi di<br />
riportare la “normalità” attraverso il dialogo, soprattutto nelle aree più a rischio, come il<br />
Medio Oriente, per evitare che l’“infezione” si propaghi ad altre aree e/o continenti.<br />
Nonostante le azioni di guerra dell’esercito israeliano e gli attentati kamikaze<br />
palestinesi, c’è chi lavora per la pace, in un modo inconsueto rispetto agli scenari della<br />
politica e della democrazia. Come?<br />
Partendo dalla scuola. Ma si tratta di scuole particolari definite ufficialmente<br />
“democratiche”, libertarie nella pratica e nella teoria. Così si scopre una realtà poco<br />
conosciuta, si potrebbe dire occultata dai media. Una realtà che propone un dialogo fra uguali<br />
invece di costruire muri.<br />
La scuola ha sempre cercato di compensare, attraverso la sua proposta culturale e<br />
formativa, le disparità tra i livelli di partenza degli allievi e di formarli alla cittadinanza<br />
democratica. Nell’attuale contesto è necessaria una riflessione nuova sui concetti stessi di<br />
cultura, formazione e cittadinanza. Gli stimoli e le provocazioni della riflessione<br />
contemporanea come possono essere utilizzati dalla scuola per mirare ad un adeguamento alla<br />
realtà, difficile quanto inevitabile? Con un dialogo fra insegnanti israeliani e palestinesi e,<br />
319
soprattutto, un dialogo fra bambini e studenti israeliani e palestinesi.<br />
Un dialogo che si sviluppa grazie a queste scuole (sono 25 con 4.500 studenti) che<br />
fanno parte della “grande famiglia” dell’IDEC, Conferenza Internazione sull’Educazione<br />
Democratica, un organismo che riunisce scuole alternative e libertarie in tutto il mondo<br />
(Canada, Stati Uniti, Brasile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Danimarca, Norvegia,<br />
Finlandia, Germania, Francia, Polonia, Gran Bretagna, Ungheria, Ucraina, Australia, Nuova<br />
Zelanda, Thailandia, India, Corea del Sud, Giappone ...). Scuole dove non si insegna un<br />
“dover essere” imposto dall’alto, ma dove si rispetta “l’essere”, l’unicità dello studente. Un<br />
luogo dove si esalta la diversità che porta a conoscere e riconoscere l’altro come eguale. Bene,<br />
è anche su questi laboratori di libertà che bisogna scommettere per costruire una vera pace e<br />
una giusta convivenza fra israeliani e palestinesi.<br />
In assenza di un’educazione “democratica”, molti valori degenerano miseramente.<br />
Joseph Borrel, presidente del Parlamento Europeo, è stato intervistato al TG2 serale<br />
sulla Costituzione Europea il 28 ottobre 2004, alla vigilia della firma del secondo Trattato di<br />
Roma, dopo che il primo Trattato fu firmato il 25 marzo 1957, dando vita alla Comunità<br />
Economica Europea, con la libera circolazione di uomini e merci. Alla domanda concernente<br />
il nuovo “ostacolo” che incontrerà la Costituzione, in relazione al voto dei Parlamenti <strong>eu</strong>ropei<br />
e ai referendum popolari che saranno richiesti da alcuni Paesi, Borrel ha risposto che occorre<br />
intervenire “con la pedagogia, con l’educazione, perché la gente capisca”. “La Costituzione<br />
Europea non è una rivoluzione”, precisa Borrel. È l’Europa dei popoli che individua nella<br />
Costituzione una tappa fondamentale per formare l’Europa politica.<br />
Ora si tratta di sciogliere il nodo delle incomprensioni reciproche, dei pregiudizi etnici,<br />
religiosi, linguistici, politici ecc. Un lavoro arduo, ma promettente, attende i politici, gli<br />
insegnanti, gli operatori sociali e turistici, le guide religiose.<br />
Una adeguata impostazione del tema dell’integrazione <strong>eu</strong>ropea è essenziale per<br />
raggiungere l’obiettivo di costituire un’Europa politica, unita nelle differenze, con un ministro<br />
degli Esteri <strong>eu</strong>ropeo, con la responsabilità della difesa e della politica estera e con meno<br />
materie all’unanimità.<br />
Cooperazione e rispetto reciproco<br />
Costruire rapport con l’altro significa dare all’altro l’esperienza di essere compreso e<br />
considerato. Questo non vuol dire rinunciare alle proprie convinzioni e criteri o valori e<br />
nemmeno alla propria identità. Ricalcando o rispecchiando comportamenti, stati d’animo,<br />
interessi, capacità, convinzioni e valori, si può incontrare l’altro a livello di identità, senza<br />
320
inunciare alla propria identità, puntando su ciò che è condivisibile. L’effetto del rapport è<br />
l’instaurazione di fiducia, armonia, cooperazione in una comunicazione e relazione. L’effetto<br />
del rapport è dunque la relazione.<br />
I testi religiosi si prestano spesso ad interpretazioni assolutistiche e dualistiche. È il<br />
buon senso di chi legge che è chiamato a contestualizzare in una dimensione di rispetto<br />
reciproco, confronto e dialogo, solidarietà, valori importanti in una democrazia. Il valore della<br />
pace è connesso a dialogo e rispetto reciproco.<br />
Se consideriamo l’espressione di Gesù “Chi non è con me è contro di me” fuori dal<br />
contesto dell’intero Vangelo letto attentamente, siamo forse indotti a pensare come coloro che<br />
l’hanno impressa con lo spray nero sul muro accanto ad una svastica, nella città in cui vivo. Il<br />
rischio di “filtrare” in modo estremistico espressioni isolate dei testi sacri è sempre presente e<br />
va valutato da parte di chi diffonde i messaggi biblici o coranici o comunque “sacri”, in<br />
quanto il coinvolgimento del livello logico dell’identità sollecita processi che si traducono in<br />
comportamenti. I valori più elevati e le convinzioni coinvolgono infatti l’identità, che a sua<br />
volta determina i comportamenti scelti.<br />
Non esiste comunicazione corretta o sbagliata in assoluto. Il significato della<br />
comunicazione è la risposta che si riceve. La comunicazione può essere vista come un sistema<br />
di feed-back all’interno di un sistema cibernetico. La risposta ricevuta è il feed-back che<br />
influenza la comunicazione successiva.<br />
In altre parole, la comunicazione è definita dal risultato che essa ottiene. La risposta<br />
che otteniamo dalla persona o dal gruppo con cui stiamo comunicando è il significato della<br />
nostra comunicazione, indipendentemente da quello che intendiamo attribuire alla<br />
comunicazione stessa. È possibile, cioè, che la comunicazione non venga interpretata secondo<br />
i nostri intendimenti o desideri, ma spetta a noi osservare quale risposta essa provochi e<br />
rispondere a nostra volta in modo appropriato, ossia variare il nostro comportamento fino a<br />
quando il significato che intendevamo comunicare non sia trasmesso all’altra parte. La<br />
retroazione ci fa sapere quando e in quale misura ciò che stiamo facendo funziona, quando<br />
continuare a farlo e quando invece cambiare il nostro comportamento. In questo processo la<br />
nostra capacità di effettuare sottili distinzioni sensoriali costituirà una risorsa preziosa e un<br />
risparmio di tempo.<br />
La flessibilità<br />
È necessario quindi imparare a “leggere” il risultato e, di conseguenza, variare il<br />
proprio comportamento. La dote maggiore di un individuo o di una organizzazione è quindi la<br />
321
flessibilità, cioè la capacità di variare il proprio comportamento per ottenere il risultato<br />
voluto, per “contenere” gli estremismi, i fondamentalismi.<br />
Il senso di un’appartenenza nazionale può infatti degradarsi nella “malattia”<br />
nazionalista, e la giusta enfatizzazione dell’importanza dei risultati scientifici e tecnologici<br />
può degradarsi in uno scientismo presuntuoso e trionfalista.<br />
Al riconoscimento condiviso dei valori della pace, della tolleranza, dei diritti umani,<br />
della convivenza e della democrazia corrisponde su un altro versante l’esplosione di conflitti,<br />
violenze, efferatezza, distruttività, armamenti, a livelli in passato inconcepibili, fino a<br />
prospettare la possibilità di autoannientamento della specie umana.<br />
I nostri valori sono disposti in scala gerarchica di importanza. C’è una scala generale<br />
di valori e una relativa. Ci si chiede cosa è importante in quel contesto, cosa ci deve essere in<br />
un contesto o quando ci dispiace se non c’è. Il contesto è la cornice che circonda un<br />
particolare evento. Cambiando la cornice, può cambiare il modo in cui un’esperienza<br />
particolare ed un avvenimento possono essere interpretati. Ad esempio, l’espressione “Io ti<br />
assolvo” assume un significato diverso, a seconda che sia pronunciata in un tribunale, in<br />
chiesa o in un salotto.<br />
I nostri valori più elevati entrano nella definizione dell’identità e sono motivanti,<br />
importanti ai fini della comunicazione. Fanno parte della nostra “mappa” del mondo, assieme<br />
alle convinzioni, alle decisioni fondamentali, alle emozioni “preferite”, alle nozioni su di sé,<br />
sugli altri e sul mondo, il tutto espresso con rappresentazioni sensoriali.<br />
È possibile cambiare i valori della gente? Possiamo notare che le persone, crescendo<br />
ed evolvendo nella vita, cambiano da sole i propri valori. Talvolta cambia semplicemente la<br />
loro disposizione nella scala gerarchica, a seconda delle fasi attraversate o delle esperienze<br />
vissute.<br />
In un conflitto di valori, quello al livello più alto prevale.<br />
L’intensificazione della creatività e della varietà delle esperienze individuali e<br />
collettive trova sul polo opposto le omogeneizzazioni e subordinazioni forzate imposte da<br />
piccoli gruppi.<br />
Terrorismo islamico e Islam moderato<br />
Il problema del terrorismo islamico si pone qui con inquietante attualità. Il 17 giugno<br />
2004 aumenta la violenza a Baghdad. A soli 13 giorni dal passaggio di poteri agli iracheni,<br />
un’autobomba ha ucciso 35 persone e ne ha ferite quasi 130, per lo più civili, passanti e<br />
giovani che attendevano davanti al centro di reclutamento per arruolarsi nel nuovo esercito<br />
322
iracheno. Poche ore dopo un’altra vettura imbottita di esplosivo è saltata in aria uccidendo sei<br />
poliziotti iracheni. Una situazione di straordinaria gravità che sta mettendo a rischio il ritorno<br />
nel paese delle Nazioni Unite. Il 16 giugno il segretario generale Kofi Annan è stato chiaro:<br />
“In queste condizioni è impossibile il ritorno dell’ONU”.<br />
Il premier iracheno Ayad Allawi ha puntato il dito contro “paesi stranieri che mirano<br />
all’instabilità dell’Iraq”. Dalla Casa Bianca il presidente George W. Bush ha assicurato che<br />
l’Iraq diventerà comunque “un paese libero”.<br />
E il 24 giugno 2004 una serie di attacchi in Iraq provoca 88 morti e 320 feriti. Sembra<br />
che alla base d questa offensiva terroristica ci sia il tentativo di Restaurazione del partito<br />
Baath di Saddam Hussein: si vuole rimettere le cose come un tempo, perpetuando la dittatura<br />
della vecchia dirigenza.<br />
Il fenomeno del terrorismo iracheno, data la particolare situazione che si è instaurata in<br />
Iraq, va comunque trattato in un capitolo a parte rispetto all’argomento del terrorismo<br />
islamico internazionale e del fondamentalismo.<br />
Sergio Romano scrive sul Corriere della Sera del 25 settembre 2004 che “l’esistenza<br />
di un Islam moderato, a cui il Corriere ha dedicato inchieste e commenti, è oggetto di<br />
parecchi dubbi e di molto scetticismo. Se i moderati esistono, perché non denunciano più<br />
esplicitamente gli orrori del fondamentalismo islamico? Se sono davvero moderati, perché<br />
condiscono le loro prese di posizione con riserve, giustificazioni, attenuazioni? Da queste<br />
domande e dalla mancanza di risposte soddisfacenti molti traggono la convinzione che l’Islam<br />
moderato sia soltanto la maschera di uno spietato fenomeno eversivo e rivoluzionario,<br />
qualcosa di simile al partito Sinn Fein, per molto tempo braccio politico dell’organizzazione<br />
militare irlandese (Ira) che dichiarò contro la Gran Bretagna la guerra del terrore”.<br />
L’Islam ragionevole, tollerante, aperto all’influenza dell’Occidente e desideroso di<br />
uscire dal baratro di arretratezza in cui il mondo musulmano è andato progressivamente<br />
scivolando dopo i secoli del suo splendore sarebbe dunque solo un miraggio?<br />
L’Algeria è stata devastata dai fondamentalisti islamici, che hanno sgozzato interi<br />
villaggi, e ha superato da sola tutti gli ostacoli contro il nazislamismo dilagante.<br />
La donna algerina di cui i fondamentalisti islamici avevano decretato la morte per la<br />
sua difesa dei diritti delle donne, è vissuta per tanti anni in semi-clandestinità in Algeria, non<br />
volendo lasciare il suo Paese, malgrado le gravi minacce di morte. Nel novembre 2004 è<br />
diventata ministro della Cultura.<br />
La frequenza con cui gli “eretici”, buoni o cattivi, dell’Islam sono finiti nel mirino dei<br />
fondamentalisti, dimostrerebbe che questo tipo di Islam esiste, forse a cominciare dal leader<br />
323
egiziano Sadat, ucciso dai Fratelli musulmani. La guerra di Bin Laden contro i regimi arabo-<br />
musulmani modernizzatori, laici o meno, come l’Arabia Saudita, rappresenta un modo di<br />
stroncare l’“eresia” rispetto alla “purezza” dell’ideologia fondamentalista.<br />
La domanda che viene spontanea è allora la seguente: “Ma perché allora permettono<br />
nelle loro società manifestazioni di pensiero fondamentalista e voltano le spalle quando i loro<br />
giornali o le loro televisioni diventano portavoce di messaggi violenti? Perché gli imam delle<br />
società occidentali chiudono un occhio, giustificano l’estremismo dei loro fedeli o addirittura<br />
permettono che le loro moschee diventino centri di reclutamento?”.<br />
“La spiegazione - secondo Romano - è nella fragilità dei regimi politici e delle<br />
comunità musulmane. Pochi leader hanno mantenuto le promesse fatte ai loro cittadini e quasi<br />
tutti hanno alle loro spalle una lunga storia di guerre perdute, risorse sprecate, corruzione,<br />
arricchimenti illeciti, putsch, colpi di Stato, rivoluzioni di palazzo. Sanno di governare società<br />
irrequiete, scontente e attraversate da ondate di nazionalismo frustrato a cui la politica post-<br />
coloniale delle grandi potenze e quella di Israele hanno fornito, in qualche caso, buoni<br />
argomenti. Lo stesso accade nelle comunità islamiche dove l’imam (se non è lui stesso un<br />
fondamentalista) deve tenere insieme un gregge arrabbiato e scontento. I leader sono ambigui<br />
perché sanno che il fondamentalismo esercita una forte attrazione su una parte importante dei<br />
loro cittadini e devono guardarsi le spalle”.<br />
Una simile situazione non appare incoraggiante e sembra sfuggire a qualsiasi<br />
possibilità di controllo. Tuttavia, come rileva Romano, “negare l’esistenza di un Islam<br />
moderato significa dare una carta in più a Osama Bin Laden, giocare il match dalla sua parte.<br />
Per quanto difficile, non abbiamo altra soluzione fuor che quella di tenere distinti i nemici<br />
dagli interlocutori possibili. I primi vanno combattuti duramente, i secondi vanno incoraggiati<br />
a diventare veramente moderati. Magari evitando errori che hanno reso il loro atteggiamento<br />
ancora più ambiguo e acrobatico”.<br />
Il presidente pachistano Musharaf, il 27 settembre 2004, ha parlato nel corso del<br />
telegiornale serale di “modernizzazione illuminata e moderata” dell’Islam, in cui i governi<br />
sono invitati a respingere ogni forma di estremismo. Per aiutarli nella crescita e nello<br />
sviluppo, occorre agire sulla povertà e sull’analfabetismo, che costituisce in larga parte il<br />
terreno di coltura dell’estremismo.<br />
I possibili interlocutori di un dialogo interreligioso e interculturale vanno attentamente<br />
aiutati a “crescere” in direzione moderata, in quanto la convivenza si regge sul rispetto delle<br />
reciproche identità, convinzioni, valori o criteri.<br />
Noi non vogliamo uno “scontro di civiltà”. Ma tale “scontro” è in atto, come pure la<br />
324
Jihad, la “guerra santa”. “Bisogna combatterla e c’è un nemico da combattere”, per usare le<br />
parole del laico Giuliano Ferrara, durante la trasmissione “Porta a porta” del 21 ottobre 2004.<br />
I terroristi sono “nemici” prima di tutto dell’Islam moderato, laico e democratico: dove c’è<br />
democrazia c’è meno terrorismo.<br />
Laicità e laicismo<br />
La “terra di nessuno” del laicismo antireligioso - che non coincide con quello<br />
anticlericale puro e semplice - favorisce l’attecchimento del fondamentalismo islamico e dello<br />
“scontro di civiltà” in quanto viene a mancare su un altro versante un interlocutore con un<br />
“credo” paritetico. Qualcuno può obiettare che c’è anche un “credo” laico o laicista. In realtà,<br />
in questo caso si può parlare di “convinzioni”, più che di credo, perché si esclude a priori la<br />
sfera dello Spirito, che non coincide con quella dell’Io, a cui fa riferimento il “credo laico e<br />
laicista”.<br />
D’altro lato, oggi dobbiamo guardarci anche dall’Inquisizione laicista. Come si è<br />
espresso Giuliano Ferrara durante la trasmissione “Porta a porta” del 21 ottobre 2004, in<br />
relazione al “caso Buttiglione”, il commissario alla Giustizia e Sicurezza e vice-presidente<br />
della Commissione Europea, “è una strega cattolica da bruciare sul rogo”. In particolare<br />
Buttiglione ha citato le madri non sposate nel contesto che precisa: “La famiglia esiste per<br />
permettere alla donna di avere figli ed essere protetta dal marito”. Questa concezione<br />
“conservatrice” fa parte di quello che pensa Buttiglione. In quanto commissario, è tenuto alla<br />
tolleranza verso i gay e le mamme single, e tutti coloro che esprimono “credi” diversi dal suo.<br />
Anche secondo il credo cattolico, non spetta a lui giudicare o tantomeno condannare. Gesù<br />
dice: “Non giudicate e non sarete giudicati”.<br />
Buttiglione ha detto ufficialmente: “Non volevo offendere donne e omosessuali”. E ha<br />
aggiunto: “Non dovevo usare la parola peccato”. Egli ha reso espliciti alcuni principi e valori<br />
cattolici senza per questo sentirsi autorizzato a discriminare chiunque. Pur definendo<br />
“immorali” alcuni comportamenti, ha detto che “non per questo devono essere vietati”.<br />
Essendo rispettoso della legge, delle istituzioni e del mandato ricevuto, si impegna a trattare<br />
questi argomenti come uomo di governo. La discriminazione messa in atto contro<br />
omosessuali e tutti coloro che considerano i rapporti interpersonali in modo diverso da<br />
Buttiglione sarebbe lesiva dei diritti umani fondamentali e Barroso ha inizialmente<br />
provveduto ad incaricare quattro commissari, sotto la sua supervisione - prima delle<br />
dimissioni di Buttiglione -, a gestire quest’area così delicata e intrecciata con le convinzioni<br />
personali, che tutti noi abbiamo.<br />
325
Le radici cristiane dell’Europa<br />
D’altro lato, il Presidente del Senato Pera, laico che “rivendica” le radici cristiane<br />
dell’Europa, in un’intervista comparsa su un quotidiano italiano il 31 ottobre 2004, definisce<br />
Buttiglione “vittima di una congiura anticristiana, di un pregiudizio antireligioso” e parla di<br />
un’“Europa senz’anima; solo la cristianità può dargliela”.<br />
Lo stesso giorno il Papa Giovanni Paolo II benedice la nuova Europa e ribadisce<br />
“l’anima cristiana dell’Europa” e il suo patrimonio spirituale e culturale cristiano.<br />
La negoziazione presuppone una diversità di opinioni, atteggiamenti e credenze in<br />
coloro che la attuano. Sono queste le differenze che costituiscono la sostanza del processo di<br />
negoziazione.<br />
La negoziazione è spesso considerata come un rapporto antagonista nel quale due o<br />
più parti cercano di ottenere il massimo possibile, l’una contro l’altra.<br />
Nel contesto dei rapporti di cooperazione, la negoziazione unifica le diverse parti per<br />
ottenere un risultato superiore a quello che una parte, singolarmente, avrebbe potuto<br />
raggiungere.<br />
È auspicabile che l’incontro tra culture e religioni si traduca in un rapporto di<br />
cooperazione ed è dunque importante evidenziare gli elementi che portano verso questo tipo<br />
di rapporto, in quanto l’alta competitività conduce al massacro di tutti. Il detto “muoia<br />
Sansone e tutti i filistei” potrebbe rivelarsi una tragica realtà, se la direzione assunta dalla<br />
“negoziazione” non fosse di crescita, ma di schiacciamento dell’altro.<br />
Quando la strada imboccata è quella di dimostrare chi è più forte, si è molto deboli. Se<br />
si vince in questo “clima”, ci si fa il più grande nemico. La strategia negoziale della contesa,<br />
in cui due passano la vita a duellare, non lascia spazio all’accordo. La guerra è la risposta<br />
all’impossibilità negoziale. Nella strategia della contesa (in inglese contending) si negozia<br />
sottolineando il proprio punto di vista, ma ci si occupa poco di soddisfare la controparte: io<br />
cerco di avere il massimo dando il minimo. La contesa può tuttavia sfociare nel<br />
compromesso. Occorre salire di livello logico, chiedendosi cosa è importante per noi, da cui<br />
emergeranno i valori o criteri. Se si trova l’accordo sul valore condiviso a cui corrisponde<br />
l’obiettivo comune, si trova la soluzione.<br />
D’altro lato, i conflitti in sé non costituiscono un ostacolo al funzionamento efficiente<br />
delle organizzazioni se sono gestiti in maniera appropriata ai fini del raggiungimento degli<br />
obiettivi delle organizzazioni stesse. È stato osservato, infatti, che i conflitti gestiti in maniera<br />
efficace possono influenzare le prestazioni dei team, aumentandone la motivazione a<br />
modificare lo status quo, la produzione di idee nuove e la riconsiderazione degli obiettivi e<br />
326
delle attività del team (Tjosvold, 1991).<br />
mediatrice.<br />
Un ruolo positivo nelle situazioni conflittuali può svolgere una terza parte, in veste di<br />
Le strategie di intervento adottabili per risolvere in maniera negoziata le dispute<br />
all’interno delle organizzazioni possono essere quelle in cui la terza parte ha il controllo del<br />
processo. Ad essa appartiene la strategia di “controllo dei mezzi”, che implica un intervento<br />
volto a facilitare l’interazione, la comunicazione, comprensione dei punti di vista reciproci, la<br />
definizione delle questioni e delle regole per affrontare la disputa.<br />
In altre strategie di intervento la terza parte ha il controllo dell’esito. Ad essa<br />
appartiene la strategia di “controllo dei fini”, in virtù della quale l’intervento della terza parte<br />
è volto ad influenzare l’esito della risoluzione, mentre i contendenti hanno il controllo sul<br />
contenuto e sulla forma delle informazioni presentate. Tale strategia quindi assegna alla terza<br />
parte il controllo totale della risoluzione finale e la determinazione di quale dovrà essere la<br />
decisione, cosicché egli potrà imporre la risoluzione ai contendenti (Lewicki, Sheppard,<br />
1985).<br />
Unità dell’Europa e politica di condivisione<br />
Nell’incontro che si è svolto tra Chirac e Blair a Londra nel novembre 2004 l’accento<br />
è stato posto su ciò che unisce le politiche dei due Paesi, anziché su ciò che le divide: la<br />
guerra in Iraq è oggetto di contrasti, mentre esiste un’ottica condivisa sul conflitto israelo-<br />
palestinese, sul controllo della corsa agli armamenti nucleari, sulla questione iraniana ecc.<br />
L’unità dell’Europa è ora fondamentale anche per creare una barriera contro il<br />
terrorismo, che punta sulla divisione interna dell’Europa per poterla controllare e manipolare.<br />
Quando l’Eroe diventa Sovrano, l’unità e l’integrità interiore viene trasferita al regno.<br />
Il Sovrano è intero e completo, in quanto l’archetipo unifica il sapere della giovinezza e<br />
quello dell’età matura, tenendoli in tensione dinamica.<br />
L’archetipo del Sovrano abbraccia quindi gli estremi della giovinezza e della maturità,<br />
ma anche quelli del maschile e del femminile. La combattività del Guerriero si congiunge con<br />
la cooperatività del Femminile che può essere personificato da una Dama castellana, signora<br />
del castello.<br />
L’unità interna si riflette all’esterno in un regno di pace e di armonia. Il<br />
raggiungimento del Sé come espressione della propria identità nel mondo trasforma la propria<br />
vita dentro e fuori. Il Sovrano è intero e completo, dopo aver attraversato degli stadi<br />
sperimentali e formativi.<br />
327
L’Eroe classico privato dei suoi veri genitori e allevato da povera gente fa l’esperienza<br />
di vivere con persone più umili per imparare l’umiltà, la compassione e la conoscenza delle<br />
normali difficoltà della vita necessarie a un vero leader.<br />
Molti racconti, fiabe e leggende terminano con la scoperta che il protagonista, in<br />
apparenza un personaggio di umili natali, che ha lottato per superare una serie di ostacoli e di<br />
vicende, è in realtà il figlio o la figlia, da tempo scoparsi, del Re. Questo mito descrive<br />
simbolicamente il percorso evolutivo e trasformativo della vita, dallo stadio di “anonimato”<br />
all’acquisizione della propria individualità.<br />
alchemica.<br />
Il Sovrano androgino è simbolo del completamento del processo della trasformazione<br />
Mentre il Viaggio dell’Eroe viene spesso ritenuto una preparazione al ruolo di leader,<br />
il ritorno dal Viaggio avvia l’unificazione del Regno e la sua trasformazione, mentre il<br />
giovane Eroe diventa il nuovo Sovrano.<br />
Sul versante italiano, per quanto concerne l’accordo sulla politica economica, si<br />
presentano gli stessi problemi di conflittualità tra prospettive diverse, che possono essere<br />
risolti utilizzando la strategia descritta in precedenza.<br />
Trasmettere una visione<br />
Si parla molto del grande potere dei Sovrani. Le persone che hanno successo nella vita<br />
sono quelle che hanno imparato a raccogliere tutte le sfide che l’esistenza lancia loro e a<br />
comunicare questa esperienza a se stessi in modo da poter cambiare positivamente le cose.<br />
Falliscono coloro che, di fronte alle difficoltà della vita, le accolgono come limitazioni. Gli<br />
individui che plasmano le nostre esistenze e le nostre culture sono anche maestri della<br />
comunicazione con gli altri. L’elemento che hanno in comune è la capacità di trasmettere una<br />
visione, un’aspirazione, una missione, una gioia.<br />
Ma il potere supremo è la capacità di cambiare, di adattarsi, di crescere, di evolvere.<br />
Potere supremo non significa che si avrà sempre successo o che non si fallirà mai. E potere<br />
illimitato significa semplicemente che si ha la capacità di imparare da ogni umana esperienza,<br />
e far sì che ogni esperienza in un modo o nell’altro operi a nostro vantaggio. Si tratta<br />
insomma dell’illimitato potere di cambiare le proprie percezioni, le proprie azioni, i risultati<br />
che si ottengono. È l’illimitato potere che si ha di curarsi degli altri e di amarli, che può<br />
trasformare nella misura più ampia la qualità della nostra vita.<br />
Il potere è la capacità di cambiare la propria vita, di ottenere i risultati che si vogliono,<br />
al tempo stesso valorizzando gli altri. Il potere è la capacità di fare in modo che le cose<br />
328
operino a nostro beneficio, non a nostro svantaggio e di concretizzare le proprie intuizioni. Il<br />
vero potere è condiviso, non imposto. Consiste nella capacità di definire i bisogni e nel<br />
soddisfarli, sia i propri che quelli delle persone care o quelli verso i quali si esercita una<br />
responsabilità.<br />
Consiste nella capacità di governare il proprio personale reame, i propri processi<br />
mentali, il proprio comportamento, allo scopo di ottenere esattamente i risultati desiderati. La<br />
nostra cultura non è più primariamente industriale, bensì una cultura della comunicazione.<br />
Nella nostra epoca nuove idee, movimenti e concetti trasformano il mondo quasi<br />
quotidianamente. Il massiccio flusso di informazioni che caratterizza il mondo moderno<br />
determina i cambiamenti. Per dirla con John Kenneth Galbraith: “E’ stato il denaro ad<br />
alimentare la società industriale. Ma nella società dell’informatica, il combustibile, la forza<br />
motrice, è data dalla conoscenza. Abbiamo sott’occhio una nuova struttura di classe: da un<br />
lato coloro che sono in possesso delle informazioni, e dall’altro quanti sono costretti ad agire<br />
in stato di ignoranza. E la nuova classe il suo potere non lo deriva dal denaro né dalla terra,<br />
bensì dalla conoscenza.<br />
Nell’età moderna l’informazione è la merce dei re: coloro che hanno accesso a certe<br />
forme di sapere specialistico sono in grado di trasformare se stessi e, sotto molti aspetti, tutto<br />
il nostro mondo.<br />
Individui che hanno trasformato il nostro mondo, per esempio John F. Kennedy,<br />
Martin Luter King, Wiston Churchill, il Mahatma Gandhi e, intermini molto sinistri, Hitler,<br />
avevano in comune la capacità di comunicare ad altri le loro visioni, si trattasse di viaggiare<br />
nello spazio o di dare vita al Terzo Reich traboccante di odio. Hanno comunicato le loro<br />
visioni con tale coerenza da riuscire ad influenzare il modo di pensare e di agire delle masse.<br />
Grazie al loro potere di comunicare, hanno cambiato il mondo”.<br />
Il potere della cooperazione<br />
Il potere supremo è quello di persone che cooperano, anziché andare ciascuno per la<br />
propria strada. E il gruppo può essere composto dai propri familiari o da buoni amici, fidati<br />
soci d’affari o persone con cui si lavora e di cui ci si cura. Far parte di un gruppo porta a<br />
moltiplicare i propri sforzi, e fa crescere. Gli altri sono in grado di fornirci quei nutrimenti e<br />
quelle sfide che non possiamo procurarci da soli, perché per gli altri si fanno cose che non si<br />
fanno per se stessi. D’altro lato, spesso si ottengono dagli altri cose che rendono più che mai<br />
valida lo cooperazione. Se ci circondiamo di persone che progrediscono, che hanno<br />
atteggiamenti positivi, che mirano a produrre risultati, che ci sostengono, tutto questo ci<br />
329
spronerà ad essere di più, a fare di più e a condividere di più.<br />
La sinergia che ricaviamo dalla programmazione in comune è preziosa. Ma quando<br />
caliamo il tono, abbiamo bisogno di qualcuno che veda le lacune, le incongruenze. La<br />
sensibilità critica, analitica, è di grande importanza in ogni attività, anche economica.<br />
La sfida per un leader consiste nell’avere potere e capacità di visione sufficienti a<br />
prevedere il risultato che deriverà dalle sue azioni, grandi o piccole che siano. John Naisbitt<br />
ha scritto che la maniera migliore di predire il futuro è di avere una chiara idea di quello che<br />
sta accadendo attualmente. Qualcun altro ha osservato che il profeta non è uno che predice il<br />
futuro, ma uno che il futuro lo prepara. Questo libro, con il suo proposito di scandagliare il<br />
significato dell’essere <strong>eu</strong>ropei senza barriere nel mondo attuale, ha analizzato alcuni processi<br />
fondamentali che ci portano a liberarci della zavorra delle ideologie e dei pregiudizi.<br />
La differenza fra presentazione e persuasione<br />
Nell’antichità classica ci sono stati due grandi oratori: Cicerone e Demostene. Si dice<br />
che quando Cicerone aveva finito di parlare, l’uditorio lo applaudiva sempre calorosamente<br />
gridando: “Che grande oratore!”. Quando Demostene finiva il suo discorso, la gente diceva:<br />
“Diamoci da fare!”. E si mettevano subito in moto. È questa la differenza fra presentazione e<br />
persuasione.<br />
Quelli che fanno, che mirano al risultato e plasmano la propria vita esattamente come<br />
desiderano che sia si differenziano da coloro che si limitano ad avere vaghe aspirazioni. Che<br />
differenza corre tra chi fa e chi non fa? Come si spiega che certe perone superino terribili,<br />
incredibili avversità e facciano della propria vita un trionfo, mentre altre, nonostante i<br />
vantaggi di ogni genere di cui godono, abbiano internamente il vuoto assoluto, mentre<br />
esteriormente non gli manca nulla, e portino le proprie vite al disastro? Marilyn Monroe o<br />
Ernest Hemingway, che avevano avuto enorme successo, hanno finito per autodistruggersi,<br />
mentre altri conducono un’esistenza gioiosa, malgrado avversità di ogni genere.<br />
Comunicare con se stessi<br />
La differenza consiste nel modo in cui comunichiamo con noi stessi e nelle azioni che<br />
compiamo. A distinguere fallimento da successo è ciò che ci accade; a fare la differenza è il<br />
modo con cui percepiamo ciò che ci “accade”.<br />
Il significato di un evento può rappresentare un motivo per abbandonarsi alla<br />
disperazione o a qualsiasi altra cosa deprimente. Oppure possiamo decidere di comunicare<br />
coerentemente a noi stessi che quella esperienza ha avuto uno scopo e che prima o poi ci<br />
330
procurerà vantaggi ancora maggiori per il raggiungimento del nostro fine.<br />
stessi.<br />
La chiave per riuscire sta dunque nel padroneggiare la propria comunicazione con se<br />
Il Viaggio esistenziale comporta che il mondo interiore e quello esteriore si riflettano a<br />
vicenda. Il bravo Sovrano comprende la connessione fra interno ed esterno, fra il Re/Regina e<br />
il regno e non può farsi illusioni sul proprio conto. Deve conoscere il proprio Sé Ombra ed<br />
essere pronto ad assumersene la responsabilità. Talvolta questo vuol dire prendersi addirittura<br />
la responsabilità di vedere che si è diventati dei despoti, duri e dogmatici, o Re Pescatori<br />
deboli e malati, e che in pratica il nostro regno è diventato un deserto perché noi dobbiamo<br />
rinnovarci e guarire. Nell’un caso e nell’altro, dobbiamo lasciare la presa mortale sul regno o<br />
sulla nostra psiche, e lasciar emergere una nuova voce.<br />
Le nostre scelte dipendono da quelli che, al momento, consideriamo i nostri valori<br />
supremi. E quindi occorre scoprire quali sono in effetti i nostri valori. Ed ecco che allora si<br />
capisce perché si fanno certe cose o perché altri si comportano in un certo modo. I valori<br />
costituiscono uno dei supremi strumenti di scoperta del modo di funzionare di una persona.<br />
Anche la storia può costituire un fertile terreno di recupero dei valori, che stanno alla<br />
base del comportamento dei protagonisti di essa.<br />
Non possiamo procedere a ritroso nel tempo. Non possiamo mutare ciò che è<br />
affettivamente accaduto. Possiamo però mutare le nostre rappresentazioni in modo che ci<br />
forniscano qualcosa di positivo per il futuro. E il recupero dei valori, al di là di ciò che è<br />
accaduto, rappresenta il ponte costruttivo attraverso il quale si può recuperare il meglio anche<br />
“filtrando” la barbarie.<br />
Se qualcuno mi chiedesse ora cosa ritengo di aver generato attraverso questo libro,<br />
risponderei istintivamente: “Sono stata una creatrice di possibilità, un catalizzatore di crescita,<br />
una costruttrice di percorsi culturali e individuali, una produttrice di emozioni, istigando<br />
all’entusiasmo per la scoperta di nuovi orizzonti culturali creativi. Non dobbiamo essere<br />
prigionieri del passato. Ridefiniamo noi stessi, affrontando nuove iniziative con fiducia e<br />
spirito di realizzazione”.<br />
Avete mai tentato di comporre un puzzle senza prima aver visto l’immagine cui deve<br />
corrispondere? È proprio ciò che succede quando si cerca di organizzare la propria vita o<br />
un’attività senza conoscere gli esiti cui si mira. Se invece questi sono noti, si fornisce al<br />
cervello una chiara immagine delle informazioni ricevute dal sistema nervoso alle quali si<br />
deve attribuire l’assoluta priorità. Bisogna trasmettergli messaggi chiari perché il cervello<br />
operi in maniera efficiente.<br />
331
Occorre fornire segnali al nostro cervello, in modo da elaborare un modello chiaro e<br />
conciso dei risultati. Gli obiettivi sono simili a magneti, nel senso che attraggono le cose che<br />
li rendono realizzabili. Il cervello ha bisogno di acquisire un’immagine sempre più chiara e<br />
intensa di ciò che ci proponiamo di compiere. Il cervello risponde soprattutto a ripetizioni e<br />
sentimenti profondi, ragion per cui se riusciamo a sperimentare in continuazione la nostra<br />
esistenza quale la desideriamo, con l’accompagnamento di profondi e intensi sentimenti,<br />
avremo la quasi certezza di attuare i nostri desideri.<br />
Formulare i propri obiettivi<br />
Ma come si fa a formulare i propri obiettivi, sogni e desideri, a fissarsi bene nella<br />
mente ciò che si vuole e come fare per ottenerlo?<br />
Ci sono individui che sembrano sempre perduti in un mare di confusione. Procedono<br />
in un senso, poi in un altro, imboccano una strada, e all’improvviso fanno retromarcia: non<br />
sanno quello che vogliono, ma non si può raggiungere un obiettivo se non lo si conosce. È<br />
indispensabile sognare in maniera concentrata, focalizzata, scoprire quello che ci si propone<br />
di essere, di fare, vedere e creare, fissare obiettivi e determinare esiti, tracciare una mappa<br />
delle strade da percorrere nel corso dell’esistenza, prefigurarsi dove si vuole arrivare e come<br />
ci si propone di giungervi.<br />
È necessario decidere consciamente ciò che si vuole, perché dal saperlo dipenderà ciò<br />
che si realizzerà. Prima che qualcosa accada nel mondo esterno, deve aver luogo nel mondo<br />
interno, e quando si ha una rappresentazione interna di ciò che si vuole, ecco che si verifica<br />
qualcosa di assai singolare: la nostra mente e il nostro organismo vengono ad essere<br />
programmati al raggiungimento di quello scopo.<br />
Per superare le nostre attuali limitazioni, dobbiamo innanzitutto sperimentare una<br />
maggiore concentrazione mentale, in modo che la nostra esistenza possa trarne beneficio. Si<br />
crea una nuova realtà esterna, programmando il nostro cervello a superare i precedenti limiti.<br />
Creando nella nostra mente la rappresentazione di ciò che vogliamo, ci accingiamo a creare la<br />
nostra esistenza quale noi vogliamo che sia, riuscendo a proiettare all’esterno la nostra realtà<br />
interna.<br />
Il proposito di fare qualcosa è una motivazione assai più forte dell’obiettivo che<br />
perseguiamo. Le ragioni per fare qualcosa costituiscono la differenza tra essere<br />
semplicemente interessati e impegnarsi concretamente nel raggiungimento di una meta. Molte<br />
sono le cose che diciamo di volere, mentre in realtà ci limitiamo a nutrire per esse un interesse<br />
passeggero. Per ottenere dei risultati, dobbiamo essere totalmente impegnati in quel senso. Se<br />
332
per esempio ci limitiamo a dirci che vogliamo diventare <strong>eu</strong>ropei uniti, sia pure nella diversità,<br />
ciò rappresenta una meta, che però non dice molto al nostro cervello. Se invece<br />
comprendiamo che cosa vuol dire essere “<strong>eu</strong>ropei uniti”, che cosa significa per noi diventarlo,<br />
saremo molto più motivati a realizzarlo, dal momento che il perché si fa qualcosa è assai più<br />
importante del come lo si fa. Se abbiamo un perché sufficientemente forte, riusciamo anche e<br />
sempre ad immaginarci il come. Se abbiamo abbastanza ragioni, possiamo in pratica ottenere<br />
tutto.<br />
Talvolta, però, può succedere di immaginare lo scenario peggiore possibile,<br />
permettendo poi a quella rappresentazione interna di impedirci di intraprendere un’azione.<br />
Tutti noi abbiamo modalità di autolimitazione, abbiamo strategie di fallimento, ma il fatto di<br />
riconoscere le nostre trascorse strategie limitanti ci permette, a questo punto di cambiarle.<br />
Possiamo sapere ciò che vogliamo, perché lo vogliamo, chi ci aiuterà, e molte altre<br />
cose, ma l’ingrediente chiave, quello che in definitiva ci permetterà di raggiungere i nostri<br />
obiettivi, è costituito dalle nostre azioni. Per guidarle, dobbiamo elaborare un piano gradino<br />
per gradino. Per costruire una casa, abbiamo bisogno di un progetto, di una pianta, di una<br />
sequenza e di una struttura, in modo che le nostre azioni si rafforzino a vicenda. In caso<br />
contrario, avremo semplicemente una caterva disordinata di materiali. Lo stesso vale per la<br />
nostra esistenza. Occorre tracciare un piano in vista del conseguimento di un obiettivo. Quali<br />
sono le azioni da compiere con costanza per ottenere il risultato desiderato?<br />
Dobbiamo cominciare con l’obiettivo finale e quindi procedere all’indietro, passo<br />
dopo passo. Possiamo tracciare una mappa del sentiero da seguire, dal nostro obiettivo finale<br />
a ciò che possiamo fare oggi stesso. Che cosa dobbiamo fare innanzitutto per realizzarlo? E<br />
che cosa ci impedisce di raggiungerlo adesso? Che cosa possiamo fare per cambiare la<br />
situazione? La risposta alla domanda costituisce l’indicazione di qualcosa da compiere subito<br />
per cambiare. La soluzione di questo problema diventerà un obiettivo corollario, ossia un<br />
gradino verso il raggiungimento dei nostri obiettivi maggiori. I nostri programmi devono<br />
comprendere ciò che possiamo fare oggi. Dopo aver definito gli obiettivi a breve e a lungo<br />
termine, e anche gli aspetti che sono di aiuto o di ostacolo nella realizzazione, è necessario<br />
elaborare una strategia relativa al come arrivarci.<br />
Auspico che la prospettiva avanzata in questo volume sia coerente con i bisogni e le<br />
aspettative dei cittadini, essendomi impegnata a formularla in maniera chiara, comprensibile e<br />
al tempo stesso esauriente, in quanto l’estrema sintesi o concisione, pur essendo produttiva in<br />
fase riassuntiva, non si presta a snocciolare le argomentazioni, che devono risultare<br />
convincenti per un pubblico variegato, che va dagli storici ai filosofi, agli psicologi, ai<br />
333
politici, ai politologi, al semplice cittadino che vuole essere informato sui pro e contro di<br />
determinate scelte politiche, sociali, culturali, economiche ecc.<br />
La lettura acritica o carica di “filtri deformanti” dei libri di storia ha “generato” un<br />
orientamento politico “pregiudiziale”. Badare alle nostre reazioni senza affrontare le cause è<br />
un po’ come cambiarsi di camicia senza farsi la doccia: ci si illude di aver eliminato un<br />
inconveniente che in realtà rimane. Per questo è indispensabile rivisitare i fatti storici senza<br />
“lenti colorate” che alterino i colori reali e senza maquillage che coprano la realtà.<br />
Il piacere di comunicare passa anche attraverso le immagini, che in questo caso<br />
svelano una sintonia con il ruolo assunto in questo libro.<br />
Il buon giardiniere cura il terreno nel quale ha messo le sue piante di rose. Si può dire<br />
che comunica con esso e lo stato delle rose è il messaggio di risposta che il giardiniere riceve<br />
dal terreno. Dallo stato dei suoi boccioli egli cerca di capire se il terreno è troppo acido o<br />
troppo duro o troppo asciutto o privo del nutrimento necessario alle piante. Proverà a<br />
concimarlo: un fiore precocemente appassito lo porterà a concludere che forse qualcosa non<br />
va e ne cercherà la causa. Un fiore marcito dopo avere annaffiato le piante lo avvertirà che<br />
forse gli è stata data troppa acqua. Così, il giardiniere modificherà il suo comportamento in<br />
base alla reazione del terreno, resa evidente dallo stato delle rose.<br />
Il buon giardiniere è determinato nel far crescere le sue rose e verifica tutte le<br />
alternative a sua disposizione per far accettare dal terreno le nuove piante. Ogni suo intervento<br />
sarà originato dall’attenta valutazione delle risposte del terreno. Non appena otterrà la prima<br />
risposta positiva, un piccolo miglioramento della “salute” delle sue rose, sarà pronto a<br />
riconoscerla e a continuare con cautela sulla strada indicata da quel piccolo segnale positivo.<br />
Nel suo desiderio di veder crescere le sue piante, egli non personalizza il suo rapporto con il<br />
terreno, cioè non considera le reazioni del terreno come insulti alla sua persona né si<br />
considera vittima di un pezzo di terra refrattario a ogni intervento. Egli continua comunque a<br />
comunicare con questo finché non avrà ottenuto una risposta positiva.<br />
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Gigliola Zanetti, psicologa e psicoterap<strong>eu</strong>ta, con questo libro ha realizzato la<br />
continuazione dei precedenti volumi incentrati sul tema del pregiudizio e le sue conseguenze<br />
in vari ambiti: sociale, politico, culturale, pedagogico, individuale ecc.<br />
L’Unità dell’Europa presuppone uno spirito libero dagli schemi anchilosanti e una<br />
politica di condivisione.<br />
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