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L'arte dell'empowerment - DMyFriend

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Bob Anderson, Martha Funnel<br />

L’arte<br />

dell’empowerment<br />

Racconti e strategie per un paziente<br />

protagonista della terapia.<br />

Cure Care Commitment


Bob Anderson, Martha Funnel<br />

L’arte<br />

dell’empowerment<br />

Racconti e strategie<br />

per un paziente<br />

protagonista della terapia


2<br />

Editing: In Pagina - Milano<br />

Traduzione: Maurizio Costantini<br />

Grafica: www.ideogramma.it<br />

Stampa: Global Print, Gorgonzola (Mi)<br />

In copertina: disegno di Sergio Bellotto<br />

Questo libro rappresenta l’edizione italiana<br />

di The Art of Empowerment – Stories and<br />

Strategies for Diabetes Educators, edito<br />

da American Diabetes Association nel 2000<br />

Precisamente si tratta della traduzione<br />

dei capitoli 1, 2, 3, 4, 5, 9, 11,15, 16, 17, 18,19,<br />

23, 24, 25 dell’edizione originale americana.<br />

Copyright: American Diabetes Association


PARTE 1<br />

Capitolo 1<br />

Capitolo 2<br />

Capitolo 3<br />

Capitolo 4<br />

Capitolo 5<br />

PARTE 2<br />

Capitolo 6<br />

Capitolo 7<br />

PARTE 3<br />

Capitolo 8<br />

Capitolo 9<br />

Capitolo 10<br />

Capitolo 11<br />

Capitolo 12<br />

PARTE 4<br />

Capitolo 13<br />

Capitolo 14<br />

Capitolo 15<br />

INDICE<br />

Presentazione<br />

Prefazione<br />

Introduzione<br />

Ciò che facciamo è quello che siamo<br />

Il nostro viaggio nell’empowerment<br />

Il diabete è differente<br />

La prospettiva illumina il metodo<br />

Dalla compliance all’empowerment<br />

Imparare sulla propria pelle<br />

Instaurare relazioni di crescita<br />

Diventare partner<br />

Ascoltare può guarire<br />

Il segreto del cambiamento<br />

Qual è il problema?<br />

Come viene vissuto?<br />

Cosa si vuole ottenere?<br />

Cosa si vuole fare?<br />

Funziona?<br />

Mettere in pratica l’empowerment<br />

Avere successo<br />

Strumenti per riflettere<br />

Educator ‘potenziati’<br />

Pubblicazioni nello spirito dell’empowerment<br />

Ringraziamenti<br />

pag.<br />

pag.<br />

pag.<br />

5<br />

7<br />

9<br />

pag. 15<br />

17<br />

27<br />

33<br />

39<br />

53<br />

pag. 61<br />

63<br />

69<br />

pag. 75<br />

77<br />

87<br />

93<br />

101<br />

109<br />

pag. 117<br />

119<br />

125<br />

135<br />

pag. 141<br />

pag.<br />

147<br />

3


PRESENTAZIONE<br />

Il termine empowerment ha avuto negli ultimi anni una<br />

risonanza significativa anche su questa sponda dell’Atlantico.<br />

Appartiene a quel gruppo di termini anglosassoni<br />

praticamente intraducibili che portano con sé un<br />

insieme di significati. Anche per questa ragione parlare di<br />

empowerment è diventato di moda e forse se ne è anche<br />

abusato, ma resta un concetto molto ampio e affascinante<br />

che porta al coinvolgimento e alla presa di coscienza<br />

degli individui, in un certo senso alla ri-appropriazione<br />

della propria vita e delle proprie decisioni.<br />

L’empowerment è stato utilizzato per molte discipline aventi<br />

a che fare con le persone e le organizzazioni. In ambito<br />

medico ha trovato un’interessante applicazione nella cura<br />

delle malattie croniche e del diabete in particolare.<br />

The Art of Empowerment, edito dall’American Diabetes<br />

Association, rappresenta il manifesto dell’utilizzo dell’empowerment<br />

nella cura del diabete. Per questa ragione<br />

abbiamo chiesto il diritto alla traduzione e lo abbiamo<br />

inserito nella nostra collana di pubblicazioni rivolte alla<br />

Diabetologia italiana (ma perché no, anche ai pazienti e ai<br />

loro parenti).<br />

Uscito nel 2000, il bel libro di Bob Anderson e Martha<br />

Funnel ha rappresentato una rivoluzione nell’approccio<br />

americano all’educazione del paziente e ha dato un contributo<br />

indiretto ma importante a definire sempre meglio<br />

l’approccio europeo all’educazione terapeutica.<br />

5


6<br />

Abbiamo deciso di tradurlo accettando di mantenere uno<br />

stile assai lontano da quello che caratterizza la comunicazione<br />

accademica europea, una impostazione rivolta a un<br />

target che in Italia non ha un equivalente (come ben scrive<br />

Umberto Valentini, il ruolo del diabetes educator da noi è<br />

condiviso da tutto il team) e una struttura che affianca profonde<br />

intuizioni a raccomandazioni che alle orecchie di<br />

molti diabetologi suonano un po’ banali (ma non sempre<br />

le raccomandazioni banali vengono poi messe in pratica).<br />

Riteniamo di aver contribuito non solo a precisare l’evoluzione<br />

di un pensiero parallelo a quello dell’Educazione<br />

Terapeutica ma anche a rafforzare, cosa che gli Autori fanno<br />

con meritoria insistenza, il fatto che il diabete e molte<br />

malattie croniche richiedono al personale sanitario e ai<br />

pazienti un completo cambio di paradigma, un mutamento<br />

che è assai difficile da compiere e mantenere nella pratica.<br />

Massimo Balestri<br />

Roche Diagnostics


PREFAZIONE<br />

Questa più che una Prefazione è uno scambio di idee fra<br />

persone all’inizio di un ‘viaggio’.<br />

È significativo che Roche Diagnostics abbia scelto di presentare<br />

la traduzione italiana di The Art of Empowerment<br />

in occasione del congresso GISED, quinta edizione degli<br />

incontri mono-tematici sull’Educazione Terapeutica tenuti<br />

a Villa Erba.<br />

Empowerment e Educazione Terapeutica: quale differenza?<br />

Forse nessuna: infatti se diamo a empowerment il<br />

significato di ‘aiutare a crescere’, ‘irrobustire’, vediamo<br />

che anche l’Educazione Terapeutica ha come fine la capacità<br />

del paziente di autogestire in modo consapevole la<br />

propria malattia. In questa logica l’empowerment diventa<br />

una parte, una metodologia dell’Educazione Terapeutica.<br />

Ci sono comunque differenze di approccio fra la filosofia<br />

dell’empowerment così come emerge da questo libro e<br />

l’Educazione Terapeutica ‘europea’. Alcune sono differenze<br />

di ‘stile’. In un contesto laico e protestante come quello<br />

americano (il libro è edito dall’American Diabetes<br />

Association) risulta più semplice per il Terapeuta riconoscere<br />

al paziente il ‘diritto’ di curarsi ‘male’, di scegliere,<br />

purché informato, una strada che non appare ottimale o<br />

adeguata agli occhi del Terapeuta.<br />

Gli americani si spogliano più facilmente di noi, sembrerebbe,<br />

di un contesto di valorizzazioni e pregiudizi; questo<br />

consente loro di rispettare meglio – o comunque più<br />

7


8<br />

a fondo – le scelte del paziente."In natura" si legge in una<br />

delle molte e simpatiche citazioni sparse nel libro, “non ci<br />

sono premi né punizioni, ma solo conseguenze."<br />

Bisogna però essere cauti, perché questo approccio<br />

potrebbe rappresentare un alibi per educatori ‘scadenti’:<br />

con il risultato di scaricare responsabilità improprie al<br />

paziente. Nell’Educazione Terapeutica, la responsabilità<br />

del Terapeuta è aumentata, e non certo ridotta dall’approccio<br />

di ‘empowerment’. Il libro scritto da Bob<br />

Anderson e Martha Funnel tre anni or sono ha un lettore<br />

preciso: il diabetes educator. Questa figura di infermierepedagogo-dietista<br />

professionale opera negli USA come<br />

libero professionista prestando la sua opera al Centro di<br />

cura o a singoli pazienti e gruppi e coprendo una vasta<br />

gamma di bisogni, con la sola esclusione, si potrebbe<br />

dire, di quello più specificatamente medico.<br />

In Italia il diabetes educator non esiste. Le sue competenze<br />

sono condivise fra tutto il Team. Questo significa che il<br />

libro di Anderson e Funnel, in Italia, si rivolge a tutto il<br />

Team diabetologico. Siate Diabetologi o Infermieri,<br />

Dietisti o Psicologi, Pazienti o parenti... questo libro parla<br />

direttamente a Voi.<br />

Buona lettura.<br />

Umberto Valentini<br />

Vicepresidente<br />

Associazione Medici Diabetologi


INTRODUZIONE<br />

“Ma se tu non fossi matta, non saresti qui.<br />

Il Cappellaio Matto in Alice nel paese<br />

delle meraviglie di Lewis Carroll.<br />

Quando abbiamo iniziato a fare i diabetes educator pensavamo<br />

di raggiungere i nostri obiettivi insegnando ai pazienti<br />

come curare il diabete e cercando di fare in modo che<br />

seguissero le nostre raccomandazioni. L’esperienza ci ha<br />

insegnato che questo tipo di approccio non funziona e,<br />

cosa forse anche peggiore, risulta frustrante per noi e per i<br />

nostri pazienti. Per uscire da questa doppia frustrazione ci<br />

siamo chiesti: perché l’approccio tradizionale non funziona?<br />

E che cosa invece funziona? La risposta ha richiesto vent’anni<br />

di lavoro.<br />

Questo libro vuole condividere con voi ciò che abbiamo<br />

appreso per rispondere a quelle due domande. L’idea di<br />

fondo che stava alla base dell’approccio tradizionale, e cioè<br />

che il professionista della salute (medico, infermiere, psicologo<br />

o altro) è il responsabile della cura, è un’idea che non si<br />

adatta al diabete. Il paziente è il responsabile, è lui che ha il<br />

controllo della situazione. Una volta capito questo, abbiamo<br />

sviluppato un nuovo approccio, più adatto e, per noi, più<br />

soddisfacente. Abbiamo scelto di chiamarlo empowerment.<br />

Il che vuol dire aiutare le persone a scoprire e usare la loro<br />

innata capacità di gestire e controllare il loro diabete. In que-<br />

“<br />

9


10<br />

sto libro esponiamo le strategie che abbiamo sviluppato o<br />

adattato per favorire l’apprendimento e il cambiamento dei<br />

nostri pazienti, sia in situazioni di gruppo che individuali.<br />

UN LIBRO DI STORIE<br />

Abbiamo incluso molte ‘storie’ in questo libro perché i racconti<br />

di vita, le ‘storie’ sono uno dei più potenti mezzi di apprendimento<br />

che ha a disposizione il genere umano. Sono ‘storie’ di<br />

nostri pazienti e di nostri colleghi. I racconti dei pazienti ci insegnano<br />

come il diabete sia un’esperienza complessa, integrata,<br />

olistica, che include elementi psicologici, intellettuali, clinici,<br />

economici, sociali, culturali, religiosi o comunque spirituali.<br />

Abbiamo imparato che gli educators devono saper porre delle<br />

buone domande e ascoltare con attenzione se vogliono scoprire,<br />

grazie alle storie dei loro pazienti, le varie componenti<br />

della malattia.<br />

I nostri racconti, così come quelli di altri educator, ci insegnano<br />

che il modo in cui ci vediamo come formatori, la nostra<br />

filosofia di vita e di lavoro sono anche influenzati da elementi<br />

della nostra vita personale e lavorativa, da passate esperienze,<br />

obiettivi, bisogni e valori.<br />

Il nostro cammino di diabetes educator è cominciato nelle<br />

famiglie, nelle comunità in cui siamo cresciuti, nelle nostre<br />

prime esperienze personali. La storia di chi siamo e cosa<br />

siamo è stata poi modellata dalle scuole frequentate, dalla<br />

formazione professionale ricevuta e dalle esperienze di lavoro.<br />

Riflettere sull’influenza che la fitta trama delle nostre esperienze<br />

ha avuto sul nostro lavoro ci ha condotto a concludere<br />

che ciò che facciamo dipende da ciò che siamo.<br />

Come educators abbiamo la possibilità di aiutare i pazienti a<br />

scrivere per se stessi delle nuove storie. Storie in cui il diabete<br />

fa parte, in modo positivo, delle loro esistenze. Per fare<br />

questo abbiamo bisogno di entrare nella vita dei pazienti e<br />

imparare a guardare il mondo con i loro occhi. In quanto<br />

‘ospiti’ e partner possiamo lavorare con loro per integrare<br />

l’auto-gestione del diabete nella storia della loro vita in una


maniera che possa realmente rispondere ai loro bisogni.<br />

Un amico ci ha raccontato la visita di un senatore americano<br />

a Madre Teresa di Calcutta. Dopo aver passato quattro o cinque<br />

giorni in India e aver visto tutto ciò che lei aveva realizzato,<br />

il senatore ebbe un incontro finale con Madre Teresa. In<br />

quell’occasione le disse: “Il lavoro che state facendo è<br />

straordinario, ma, se devo essere sincero, credo che alla fine<br />

si rivelerà un fallimento. Anche moltiplicandolo per dieci o<br />

per cento, non sarebbe sufficiente a risolvere i problemi di<br />

povertà, malattie e sofferenze che affliggono questa parte<br />

del mondo”. Al che Madre Teresa rispose: “Dio non chiede<br />

che io abbia successo, ma fede in ciò che faccio”.<br />

Una pratica di educazione al diabete che sia ricca di soddisfazioni<br />

e umanamente appagante, secondo la nostra esperienza,<br />

è una pratica che si basa su una prospettiva, su una visione,<br />

a cui cerchiamo di rimanere fedeli. Benché le sfide che<br />

abbiamo davanti non siano così impegnative come quelle di<br />

Madre Teresa, c’è comunque molto, nel panorama mutevole<br />

dell’assistenza sanitaria e anche nelle istituzioni in cui lavoriamo,<br />

su cui non possiamo intervenire. Possiamo controllare il<br />

modo con cui interagiamo con i pazienti e con i nostri colleghi.<br />

E così possiamo rimanere fedeli alle nostre idee.<br />

UN LIBRO PER IMPARARE A FARE<br />

Scrivere un libro sull’empowerment è stata una sfida. Molti<br />

dei libri diretti a un pubblico di professionisti contengono<br />

argomenti e concetti, mentre l’empowerment è essenzialmente<br />

una pratica. L’approccio concettuale e quello esperienziale<br />

all’apprendimento danno due tipi di conoscenza<br />

differenti: sapere e saper fare. L’apprendimento basato su<br />

concetti richiede in genere di leggere e ascoltare per acquisire<br />

delle nozioni su un determinato argomento. Possiamo<br />

imparare molte cose sul diabete leggendo un libro di testo<br />

o ascoltando delle lezioni su quest’argomento.<br />

L’apprendimento basato solo su concetti ha però due grossi<br />

limiti. Il primo è che siamo in grado di ricordare quanto<br />

11


12<br />

studiato solo per un breve lasso di tempo, soprattutto se<br />

quei concetti non vengono utilizzati continuamente. Quanti<br />

di noi sarebbero in grado di superare oggi un esame di<br />

algebra da scuola superiore? Il secondo è che l’approccio<br />

concettuale genera una conoscenza inerte. È un tipo di<br />

conoscenza difficile da utilizzare per risolvere i problemi,<br />

perché le nozioni tendono a essere memorizzate come<br />

insiemi di concetti organizzati secondo criteri utili per chi li<br />

insegna, ma non per chi li usa.<br />

Molti libri di testo sono pensati per trasferire informazioni dal<br />

libro al lettore, ma non è questo il nostro scopo. Vorremmo<br />

invece che fosse un punto di partenza, un trampolino, per un<br />

apprendimento basato sull’esperienza. Perché l’esperienza<br />

insegni è necessario che sia accompagnata dalla riflessione.<br />

Abbiamo cercato di scrivere un libro che vi stimoli a fare qualcosa<br />

di più che apprendere il concetto di empowerment.<br />

Non possiamo darvi le risposte, ma possiamo proporvi alcune<br />

domande che possono aiutare a trovare le risposte giuste<br />

per voi. Fare domande è il mezzo più efficace che noi conosciamo<br />

per stimolare l’apprendimento esperienziale, perché<br />

spingono a riflettere sulla vostra esperienza. Le domande<br />

sono al centro dell’approccio empowerment, sia per i pazienti<br />

che per gli operatori sanitari. Riflettere sul lavoro fatto è il<br />

modo migliore, secondo noi, per migliorare il lavoro da fare.<br />

Siete invitati, anche, a provare su voi stessi alcune delle tecniche<br />

di insegnamento e di cambiamento del comportamento<br />

presentate nel libro, e a valutarne l’efficacia. Siate scettici,<br />

riflessivi e pratici.<br />

COME USARE QUESTO LIBRO<br />

Il libro può essere utilizzato in molti modi. Certamente potete<br />

leggerlo e rifletterci sopra in solitudine. Ma l’esperienza ci<br />

ha insegnato che è in genere molto più stimolante per la<br />

riflessione e il cambiamento confrontarsi con qualcuno che<br />

gode della vostra stima e fiducia. Se è possibile, leggete il<br />

libro e discutete le domande per riflettere con uno o più col-


leghi di fiducia. Oppure, potreste trovare che sia un mezzo<br />

utile per la crescita personale e per la formazione dei membri<br />

dell’équipe in cui lavorate.<br />

Le domande per riflettere e i suggerimenti per un diario sono<br />

pensati per aiutarvi a raccontare la vostra storia. Sono questo<br />

racconto e le introspezioni che spesso emergono dall’ascoltare<br />

se stessi che fanno dell’apprendimento basato su esperienze<br />

una potente forza di crescita personale e di cambiamento<br />

del comportamento. Raccontare la nostra storia ad<br />

altri porta in superficie le emozioni in un modo che il semplice<br />

ricordo generalmente non fa. Inoltre, quando raccontiamo<br />

la nostra storia a persone che hanno la nostra fiducia, queste<br />

possono farci delle domande che ci inducono ad approfondire<br />

e riflettere in modo nuovo.<br />

13


Ciò che facciamo<br />

è quello che siamo<br />

PARTE 1<br />

“Io sono quello che sono e questo è tutto<br />

quello che sono.<br />

Braccio di Ferro<br />

noi abbiamo sentito il detto “l’ese“Tutti<br />

rcizio fa la perfezione”.<br />

Eppure tutti abbiamo incontrato insegnanti, medici,<br />

infermieri, psicologi, diabetes educators e altri professionisti<br />

che facevano male il loro lavoro quando hanno iniziato e che<br />

lo facevano ancora allo stesso modo vent’anni dopo.<br />

Avevano accumulato molta esperienza ma evidentemente<br />

mancava qualcosa. Imparare, crescere, migliorare, richiedono<br />

riflessione. Riflettere continuamente sul nostro lavoro ci insegna<br />

più cose sull’arte dell’educazione al diabete che non leggere<br />

tutti i libri e gli articoli mai scritti sull’argomento.<br />

Una pratica riflessiva richiede un continuo esame della<br />

nostra prospettiva, del nostro comportamento, della nostra<br />

esperienza e dei nostri risultati. Quando facciamo il nostro<br />

lavoro in modo riflessivo chiediamo a noi stessi dopo ogni<br />

seduta: “Il mio comportamento sta dando i risultati che io<br />

desidero? Le cose sarebbero andate diversamente se mi<br />

fossi comportato in modo differente? Se potessi tornare<br />

indietro cosa cambierei nella mia interazione con quel<br />

paziente o quel collega? Qual è il mio scopo? Qual è la mia<br />

responsabilità? Sto veramente perseguendo il mio scopo?<br />

Mi sto veramente prendendo le mie responsabilità? Sto<br />

veramente ‘educando’ i miei pazienti e me stesso?”.<br />

15


16<br />

“Le nostre azioni determinano noi stessi<br />

quanto noi determiniamo le nostre azioni.<br />

George Eliot<br />

Abbiamo imparato che il mestiere di diabetes educator è<br />

parte del mestiere di vivere. Nello sviluppare la nostra<br />

filosofia di empowerment ci siamo resi conto che le riflessioni<br />

che hanno modellato la nostra idea del ruolo del<br />

diabetes educator si sono formate nel corso di molti anni<br />

e includono esperienze che risalgono a molto tempo<br />

prima del nostro ingresso nel mondo del diabete.<br />

Nella prima parte di questo libro vogliamo condividere<br />

con voi alcune delle esperienze che hanno contribuito a<br />

delineare il nostro approccio all’educazione al diabete,<br />

esperienze fatte dentro e fuori il mondo dell’istruzione e<br />

dell’assistenza sanitaria. Non è possibile, però, come per<br />

i nostri pazienti con il diabete, suddividere queste esperienze<br />

in categorie nettamente separate senza distruggerne<br />

la loro integralità e complessità. Abbiamo incluso queste<br />

storie come stimolo (e come invito) a tutti i lettori a<br />

riflettere sul proprio approccio all’educazione al diabete.<br />

Pensate al modo in cui le vostre esperienze di educator, di<br />

studenti, di membri di una famiglia, di professionisti della<br />

salute hanno modellato la vostra idea di questo importante<br />

lavoro. Ci auguriamo che questa parte vi sia di aiuto<br />

nel vostro viaggio di diabetes educators, medici, infermieri,<br />

psicologi, dietisti, o semplicemente di esseri umani.<br />


CAPITOLO 1<br />

Il nostro viaggio<br />

nell’empowerment<br />

Il diabete è una malattia autogestita. Deve esserlo.<br />

L’autocontrollo del diabete è responsabilità del paziente,<br />

e questo richiede una ridefinizione dei ruoli, del paziente<br />

come del personale sanitario, una visione completamente<br />

nuova della ‘educazione’. Abbiamo impiegato molti anni<br />

per capirlo pienamente e per comprendere i cambiamenti<br />

fondamentali che questo implicava nella nostra filosofia<br />

di educazione al diabete.<br />

La storia di Bob<br />

Ho imparato una lezione veramente importante nei miei<br />

anni di college. Ho imparato che c’erano delle alternative<br />

al metodo di apprendimento basato sulla memorizzazione<br />

di lezioni terribilmente noiose. Durante gli anni di scuola<br />

e buona parte di quelli di college, noi ci sforzavamo di<br />

memorizzare le nozioni esposte dall’insegnante per poi<br />

ripeterle all’esame. Trovavo questo approccio piuttosto<br />

noioso, ma fino al college non pensavo che ci fossero altri<br />

modi per insegnare e per apprendere. Sapevo soltanto<br />

che la scuola non mi piaceva.<br />

Non dimenticherò mai il corso di Introduzione alla<br />

Filosofia che seguii appena entrato al college. Era tenuto<br />

da un giovane e brillante professore. Alla prima lezione ci<br />

divise in piccoli gruppi e ci disse che durante il semestre<br />

ogni gruppo avrebbe dovuto preparare un proprio progetto<br />

di società utopica basata su una filosofia accurata-<br />

17


18<br />

mente elaborata. Leggemmo Aristotele, Platone, Locke,<br />

Nietzsche e altri per aiutarci a decidere quale filosofia o<br />

quale ‘miscela’ di filosofie avremmo adottato per la nostra<br />

società. Trovai quel corso interessante e stimolante. La<br />

filosofia mi apparve una cosa viva perché la studiavamo<br />

per vedere come si poteva applicare allo sviluppo del<br />

nostro progetto di società. Fu così che scoprii che la<br />

maggior parte delle culture, dei governi, delle istituzioni<br />

hanno alla base dei fondamenti filosofici.<br />

Pochi anni dopo essermi diplomato al college, venni a conoscenza<br />

dell’esistenza di un programma didattico per insegnanti<br />

diplomati basato su tecniche di apprendimento attraverso<br />

la pratica e la risoluzione di problemi. Il programma<br />

veniva offerto dove risiedevo, a circa 150 miglia dall’università<br />

che avevo frequentato. Si basava sulla premessa che la<br />

maniera migliore per imparare a insegnare era insegnare e<br />

poi riflettere su quanto fatto, piuttosto che starsene seduti in<br />

un’aula ad ascoltare un professore che parlava di come si<br />

deve fare. Passavo la mattina a tenere lezioni nelle scuole<br />

superiori e il pomeriggio a fare seminari con gli altri insegnanti<br />

che partecipavano al programma. Studiavamo pedagogia<br />

e psicologia mentre cercavamo, non senza fatica, di<br />

diventare dei docenti migliori. I nostri dibattiti, le nostre discussioni,<br />

le nostre esplorazioni scaturivano dalle sfide che<br />

tutti i giorni la pratica dell’insegnamento ci proponeva. Ci<br />

sentivamo profondamente coinvolti nei problemi didattici<br />

che studiavamo perché era la nostra esperienza quotidiana e,<br />

per lo stesso motivo, mettevamo passione nella ricerca delle<br />

soluzioni. Quell’esperienza cambiò radicalmente le mie idee<br />

sulle possibilità dell’insegnamento. Scoprii quanto può essere<br />

ricco e vitale l’apprendimento quando è applicato alla vita<br />

reale, quando gli studenti hanno una vera necessità di conoscere.<br />

Giunsi ad apprezzare quanto può essere liberatoria l’istruzione<br />

quando aiuta gli studenti a pensare creativamente<br />

e a risolvere i problemi autonomamente, anziché adottare<br />

semplicemente le opinioni correnti.


Finita l’università, più di 20 anni fa, iniziai per caso a occuparmi<br />

di diabete. Compresi presto che, nonostante l’educazione<br />

sanitaria del paziente fosse una componente fondamentale<br />

della cura del diabete, un numero relativamente<br />

piccolo di istituzioni e di personale investiva del<br />

tempo per riflettere su come farla nel migliore dei modi.<br />

La maggior parte dei clinici che incontravo concepivano i<br />

corsi di educazione sanitaria per i pazienti allo stesso<br />

modo con cui loro stessi li avevano ricevuti: “Ecco delle<br />

nozioni, andate e applicatele”. La maggior parte dei diabetes<br />

educator che incontravo avevano una discreta preparazione<br />

ed esperienza sulla fisiopatologia del diabete e<br />

sul controllo glicemico, ma avevano ricevuto poca formazione<br />

su come insegnare tutto questo ai pazienti. Gran<br />

parte dei corsi per i pazienti erano noiosi quanto i corsi<br />

che avevo seguito da ragazzo. Mi accorsi, inoltre, che<br />

buona parte della formazione per diabetici era finalizzata<br />

a ‘indurre’ il paziente a fare ciò che la figura di riferimento<br />

(il medico o il diabetes educator) aveva deciso che quel<br />

paziente dovesse fare, piuttosto che lavorare insieme con<br />

il paziente per identificare le sue ‘sfide’ particolari.<br />

Ricordo di aver pensato: “Conosco questo metodo, non<br />

mi piaceva allora e non mi piace adesso”.<br />

Per ragioni che non mi sono interamente chiare, quando<br />

io osservo un paziente e un medico o un infermiere interagire,<br />

io mi identifico con il paziente. Immagino come si<br />

deve sentire il paziente quando viene trattato in un certo<br />

modo (buono o cattivo che sia). Vorrei che le mie esperienze<br />

di vita fossero riconosciute e il mio diritto a prendere<br />

decisioni sulla mia salute e il mio benessere rispettato.<br />

L’esperienza mi ha insegnato che la maggior parte<br />

delle persone desidera essere trattata in questo modo.<br />

Riflettere su tutto questo e sulle straordinarie possibilità<br />

che offre la formazione nel diabete – quando è praticata<br />

come un’attività collaborativa – è stato per 20 anni il centro<br />

e la motivazione del mio lavoro.<br />

19


20<br />

La storia di Marti<br />

Le mie esperienze professionali con l’empowerment sono<br />

cominciate durante il mio corso da infermiera. Avevo solo<br />

delle idee vaghe su cosa fa un’infermiera, ma fui fortunata<br />

a scegliere una scuola che mi diede delle lezioni molto<br />

importanti, a parole e attraverso le esperienze che mi<br />

furono offerte. Imparai che infermiere e infermieri danno<br />

qualcosa di unico ai pazienti. Non sono ‘dei quasi medici<br />

con meno conoscenze’. Piuttosto, siamo persone che portano<br />

ai nostri pazienti qualcosa di vitale ma difficile da<br />

misurare. Non solo competenza ma anche attenzione e<br />

comprensione.<br />

Ho cominciato a lavorare con i pazienti affetti da tumore<br />

polmonare inoperabile. Spesso facevo il turno di notte e<br />

mi sentivo inutile, di nessun aiuto, per quelle persone che<br />

non riuscivano a prendere sonno per l’angoscia o per il<br />

dolore. Vedevo però che i pazienti che erano in grado di<br />

fronteggiare con una certa forza e serenità la loro diagnosi<br />

vivevano più a lungo e morivano meglio. Con uno in<br />

particolare, un paziente che aveva raggiunto un sorprendente<br />

livello di accettazione della malattia, passai molte<br />

ore chiedendogli consiglio su cosa potessi fare per gli<br />

altri. Mi rispose: “Impara ad ascoltare e a prenderti cura<br />

delle persone”.<br />

Un’altra esperienza che ha influenzato la mia filosofia<br />

lavorativa è stata una ricerca sull’efficacia dei ‘contratti di<br />

benessere’: a pazienti con diabete, ipertensione, artrite<br />

veniva chiesto di modificare il proprio stile di vita per raggiungere<br />

determinati obiettivi di salute. In quel progetto<br />

aiutavamo i pazienti a scegliere i loro obiettivi e a sviluppare<br />

un percorso graduale per raggiungerli. Benché questo<br />

approccio non avesse un nome, utilizzava molte delle<br />

idee che sono poi diventate parte del modello empowerment.<br />

Chiedevamo ai pazienti di stabilire cosa fosse<br />

importante per loro e da dove volessero cominciare a<br />

cambiare. Poi li aiutavamo a redigere una lista dei passi


che li avrebbero portati a raggiungere i loro obiettivi. Il<br />

progetto durò tre anni e imparai quanto sono intimamente<br />

legati emozioni e comportamenti: una persona che<br />

sente di poter padroneggiare la situazione e che si sente<br />

sostenuta può fare ciò che ha deciso di dover fare.<br />

Nel 1983 andai a lavorare al Michigan Diabetes Research<br />

and Training Center. A quel tempo avevamo un programma<br />

completo di assistenza e educazione per i pazienti<br />

ricoverati. Era la mia prima vera esperienza come diabetes<br />

educator e, attraverso le interazioni con i pazienti e<br />

con lo staff, mi resi conto della complessità del diabete e<br />

dei problemi che poneva ai pazienti e alle loro famiglie.<br />

Risultava evidente come i pazienti fossero, in realtà, i veri<br />

decisori della propria cura. Potevo portare tutta la conoscenza<br />

che avevo, e potevo aiutarli a vagliare le varie<br />

opzioni disponibili e a fissare gli obiettivi di cura, ma alla<br />

fine erano le loro convinzioni, le loro idee sulla malattia la<br />

vera forza trainante della cura. Mi accorsi di quanto differente<br />

potesse essere il significato del diabete per ognuno<br />

di loro, di come lo vivessero e di quanto questo influenzasse<br />

ciò che facevano.<br />

Guardando indietro nella mia vita professionale, capisco che<br />

la storia del mio rapporto con l’empowerment è il racconto di<br />

un viaggio. Non c’è stato nessun evento drammatico, nessuna<br />

svolta radicale che mi ha condotto ad abbracciare questa<br />

filosofia, quanto piuttosto il risultato di continui aggiustamenti<br />

nel mio modo di lavorare. È accaduto lentamente,<br />

riflettendo sui risultati di queste esperienze, imparando da<br />

ciò che funzionava e da ciò che non funzionava e inserendo<br />

quanto appreso nella mia vita e nel mio lavoro quotidiano. Le<br />

mie esperienze professionali con l’empowerment hanno<br />

nutrito e allo stesso tempo sono state lo specchio delle mie<br />

esperienze di vita. Sarebbe stato difficile il contrario, praticare<br />

una certa filosofia al lavoro e una diversa nella vita.<br />

Perché l’empowerment è una filosofia e non una tecnica,<br />

è un modo di vedere il mondo e di essere, qualcosa che<br />

21


22<br />

mi accompagna in tutte le relazioni, personali e di lavoro,<br />

come le mie conoscenze sul diabete e la mia personalità.<br />

Ogni incontro con un paziente è una nuova occasione per<br />

sperimentare e apprendere. Imparare sempre qualcosa mi<br />

rinnova e mi rafforza, mi aiuta a mantenere intatto l’entusiasmo<br />

per l’educazione al diabete anche dopo 17 anni.<br />

Sul finire degli anni ‘80 il Comitato Didattico del Michigan<br />

Diabetes Research and Training Center ha sviluppato dei<br />

corsi per i pazienti e per il personale sanitario. Nel prepararli<br />

abbiamo a lungo parlato di cosa ognuno di noi avesse<br />

fatto con i pazienti e di cosa avesse funzionato davvero.<br />

Come presidente, per aiutare a denominare e definire<br />

la nostra idea di ciò che è efficace, ho chiesto a tutti i<br />

membri del comitato di scrivere un breve saggio sulla<br />

propria concezione della formazione dei pazienti.<br />

Le nostre storie si uniscono<br />

Quando abbiamo messo insieme i nostri saggi sulle ‘filosofie<br />

della cura del diabete e dell’educazione’ abbiamo<br />

scoperto che molti di noi erano arrivati a conclusioni analoghe<br />

sulla natura del diabete e sul suo trattamento. Fu<br />

sorprendente scoprire quanto simili fossero le nostre<br />

esperienze. Tutti noi avevamo tentato una varietà di strategie<br />

che erano riconducibili alla psicologia comportamentale<br />

o behavioristica e avevamo avuto più o meno<br />

successo. Quelle che avevamo trovato utili erano le più<br />

coerenti con la nostra personale visione ed esperienza. La<br />

filosofia che collettivamente descrivevamo, però, non<br />

rientrava in nessuno dei modelli formativi o comportamentali<br />

che venivano usati all’epoca nell’educazione al<br />

diabete, specialmente i modelli basati su concetti come<br />

adesione (‘adherence’) e compliance (che noi intendiamo<br />

come modelli intercambiabili). Soprattutto, il nostro<br />

approccio non era compatibile con l’idea che la formazione<br />

dovesse cambiare il comportamento dei pazienti per<br />

adeguarlo alla cura raccomandata.


Dopo aver discusso le nostre idee ed esperienze, realizzammo<br />

che il diabete è una malattia autogestita e che la responsabilità<br />

di questa gestione appartiene al paziente.<br />

Comprendemmo anche che l’approccio tradizionale era<br />

stato sviluppato per il trattamento delle malattie acute e che,<br />

applicato a persone adulte con il diabete, tendeva a produrre<br />

scarsa adesione/compliance. A quell’epoca Marti ascoltò<br />

una conferenza sull’empowerment. Era la prima volta che<br />

sentiva spiegare il concetto di empowerment veramente e<br />

pensò: ”Ci siamo, questo è ciò che descrive la nostra idea”.<br />

Dare un nome alla nostra filosofia ci portò a stendere il nostro<br />

primo articolo sull’empowerment.<br />

In quell’articolo descrivevamo il concetto di empowerment<br />

e facevamo risalire le sue radici al counseling psicologico<br />

e alla psicologia di comunità. Definivamo il processo<br />

di empowerment come la scoperta e lo sviluppo delle<br />

innate capacità di ognuno di essere responsabile della<br />

propria vita. Suggerivamo che le persone erano ‘empowered’<br />

quando avevano:<br />

abbastanza conoscenza per prendere decisioni razionali;<br />

abbastanza controllo;<br />

abbastanza risorse per mettere in pratica le proprie<br />

decisioni;<br />

abbastanza esperienza per valutare l’efficacia delle proprie<br />

azioni.<br />

Dalla pubblicazione di quel primo articolo abbiamo intrapreso<br />

un viaggio che si è rivelato a volte appagante e a<br />

volte frustrante. Soddisfazione e frustrazione dipendono<br />

dal risultato ottenuto e che può essere riassunto in un<br />

concetto molto semplice: non tutti i formatori riescono a<br />

fare proprio il modello empowerment. Per abbracciare<br />

realmente la filosofia dell’empowerment i terapeuti devono<br />

adottare un nuovo paradigma. È un nuovo modo di<br />

insegnare, con un nuovo scopo.<br />

Molti dei nostri sforzi sono stati spesi a ideare e realizzare<br />

programmi educativi che portassero i terapeuti a condivi-<br />

23


24<br />

dere quelle intuizioni che avevano trasformato noi e il<br />

nostro approccio all’educazione sul diabete. Abbiamo<br />

tenuto lezioni sull’empowerment in molti programmi di<br />

formazione e abbiamo condotto una serie di corsi intensivi<br />

di formazione di tre giorni all’Università del Michigan.<br />

Abbiamo imparato che una conferenza di un’ora è utile<br />

per presentare il concetto di empowerment per la prima<br />

volta, ma questo tipo di presentazione raramente produce<br />

il cambio di paradigma necessario. I corsi intensivi di<br />

tre giorni, invece, spesso ottengono questo risultato perché<br />

danno ai partecipanti il tempo per riflettere sulla propria<br />

pratica. Questo tipo di corsi comprende un’esperienza<br />

di tre giorni con un caso simulato di diabete, presentazioni<br />

e discussioni sull’empowerment, sessioni pratiche<br />

videoregistrate in cui viene utilizzato il modello di counseling<br />

per empowerment in cinque fasi, revisione dei<br />

nastri registrati, e attività di studio concepite per aiutare i<br />

partecipanti a conoscere se stessi, a scoprire e definire la<br />

propria visione.<br />

Il corso di tre giorni offre agli educatori un’opportunità per<br />

riflettere approfonditamente sulla propria pratica e sulla<br />

propria prospettiva. Questa è un’opportunità che la maggior<br />

parte di noi non ha o non coglie. Nella indaffarata vita<br />

quotidiana, fitta di esigenze in conflitto tra loro, spesso<br />

non ci si prende il tempo necessario per riflettere sulle<br />

esperienze fatte e sulla nostra idea di assistenza. Inoltre<br />

non si considera come queste esperienze modellino il<br />

nostro pensare e il nostro agire.<br />

Inoltre, il corso dà ai partecipanti una chance per provare<br />

un nuovo approccio in un ambiente ‘sicuro’. Rivedere le<br />

sessioni pratiche videoregistrate porta a un’introspezione,<br />

perché permette di vedere quanto sia difficile lasciare che<br />

la persona che stanno aiutando si assuma la responsabilità<br />

del trattamento. Quando poi rivestono il ruolo di<br />

pazienti si trovano a lavorare su vere problematiche della<br />

loro vita. Molti realizzano allora che è molto più utile


avere una persona che aiuta ascoltando veramente,<br />

rispettando le priorità e sostenendo le capacità di risolvere<br />

i problemi, piuttosto che una persona che ‘si fa carico’,<br />

dà consigli, e dice cosa fare. Sperimentano il fatto che<br />

quando agiscono da terapeuti è difficile lasciare da parte<br />

le proprie esigenze e priorità, mentre quando interpretano<br />

il ruolo di pazienti, questo ‘lasciar fare’ da parte dell’educatore<br />

è realmente di aiuto.<br />

Terzo, il corso dà ai partecipanti l’opportunità di mettere<br />

insieme teoria e pratica. Spesso quando apprendiamo<br />

una nuova tecnica siamo ansiosi di metterla in pratica. Ma<br />

se noi non abbiamo fatto un vero cambio di paradigma,<br />

inevitabilmente cercheremo di immettere la nuova tecnica<br />

nello schema mentale preesistente, il che equivale a<br />

‘mettere il vino vecchio nelle botti nuove’. Questo corso<br />

permette ai partecipanti di esplorare e spesso trasformare<br />

la loro filosofia, e di selezionare e usare le strategie in<br />

modi che si adattino alla nuova prospettiva.<br />

Domande per riflettere<br />

1) Quante occasioni avete per riflettere sulla vostra attività?<br />

2) In che modo e quando lo fate?<br />

3) In che misura la riflessione vi aiuta a crescere come persona<br />

e come professionista?<br />

4) Cosa vi ha insegnato la riflessione?<br />

25


CAPITOLO 2<br />

Il diabete è differente<br />

“In natura non ci sono premi o punizioni,<br />

ci sono conseguenze.<br />

Robert G. Ingersoll<br />

La pietra angolare dell’approccio empowerment è comprendere<br />

che nel diabete il paziente ha in mano la gestione<br />

della propria malattia. È una responsabilità non negoziabile,<br />

indivisibile e ineludibile. Benché l’affermazione<br />

possa suonare forte, crediamo che rappresenti una descrizione<br />

chiara e diretta della realtà. Riteniamo che riconoscere<br />

e accettare questa realtà sia fondamentale per<br />

adottare e usare efficacemente un approccio empowerment<br />

nell’assistenza e nell’educazione al diabete.<br />

La completa responsabilità del paziente scaturisce da tre<br />

caratteristiche della malattia: scelte, controllo e conseguenze.<br />

Primo, le scelte che hanno il massimo effetto sulla<br />

salute e sul benessere di una persona con il diabete sono<br />

fatte da quella stessa persona, non dagli esperti di diabete.<br />

Ogni giorno le persone con il diabete fanno delle scelte<br />

che hanno un impatto ben maggiore sulla loro glicemia,<br />

qualità della vita, salute e benessere generale di quanto lo<br />

abbia l’assistenza fornita loro dal personale sanitario. Le<br />

scelte che i pazienti fanno riguardo ai pasti, all’attività fisica,<br />

alla gestione dello stress e al monitoraggio sono i fattori<br />

maggiormente determinanti del controllo diabetico.<br />

Secondo, sono i pazienti ad avere il controllo della situa-<br />

“<br />

27


28<br />

zione. Noi possiamo supplicare, chiedere, blandire i nostri<br />

pazienti riguardo ogni aspetto della cura, ma quando<br />

lasciano il nostro reparto o il nostro studio, sono loro ad<br />

avere il controllo delle scelte di trattamento. Possono<br />

ignorare ogni raccomandazione.<br />

In terzo luogo, le conseguenze delle scelte fatte dai<br />

pazienti ricadono prima e maggiormente sui pazienti stessi.<br />

Non possiamo condividere direttamente i rischi o i<br />

benefici delle scelte dei nostri pazienti. Non possiamo condividere<br />

il loro rischio di sviluppare retinopatia, neuropatia,<br />

malattie cardiovascolari; né possiamo condividere il prezzo<br />

da pagare in termini di qualità della vita imposto da un<br />

controllo glicemico stretto. Il diabete, compresa la sua<br />

autogestione, appartiene alle persone che sono ammalate.<br />

Il racconto di Bob<br />

Qualche anno fa mia sorella minore venne ricoverata in<br />

ospedale a Boston. Soffriva di un prolasso della mitrale<br />

che richiedeva un intervento chirurgico a cuore aperto.<br />

Mia sorella è un adulto autonomo, responsabile, che<br />

gestisce da sé la propria vita. È un funzionario di polizia<br />

ed è abituata a tenere la sua vita sotto controllo. Il suo<br />

problema col cuore, però, era al di là delle sue capacità di<br />

soluzione. I medici e tutto il personale sanitario del<br />

Massachusetts General Hospital stabilirono con lei un<br />

tacito accordo, una cosa che viene fatta migliaia di volte<br />

ogni giorno in tutto il Paese. Fu invitata a lasciare il suo<br />

mondo di tutti i giorni e a entrare nel mondo tecnologizzato<br />

dell’ospedale. Le dissero proprio così: “Sii bambina<br />

un’altra volta e noi ci prenderemo cura di te”. Lei accettò<br />

e per cinque giorni un gruppo di sanitari ebbe il controllo<br />

sulla sua vita per aiutarla. Durante il suo soggiorno in<br />

ospedale altri presero per lei decisioni banali e decisioni<br />

fondamentali: stabilirono a che ora sarebbe andata a dormire,<br />

a che ora si sarebbe svegliata, cosa avrebbe mangiato<br />

e cosa avrebbe fatto durante la giornata. Le dissero


quante persone al giorno avrebbero potuto farle visita e<br />

in quali orari. L’intervento riuscì perfettamente e dopo<br />

cinque giorni fu dimessa per tornare di nuovo al suo<br />

mondo e riprendere il suo ruolo di adulto autonomo e<br />

responsabile.<br />

La storia è il classico esempio di approccio tradizionale per<br />

le malattie acute. La sorella di Bob lasciò temporaneamente<br />

il controllo sulla sua vita a un gruppo di esperti al<br />

fine di ottenere il loro aiuto per risolvere un problema che<br />

lei non poteva risolvere da sola. Fu un’esperienza gratificante,<br />

per lei e probabilmente per tutto il personale sanitario<br />

che ha scelto di dedicare la propria vita professionale<br />

alla cura di questo tipo di malattie. Nella nostra società<br />

i ruoli e le relazioni tra terapeuti e pazienti sono basati sul<br />

trattamento di patologie acute come quella descritta. E in<br />

casi come questo funzionano a meraviglia. Ma questi ruoli<br />

e queste relazioni non si adattano al diabete.<br />

Quando i diabetes educators riconoscono e capiscono<br />

che il diabete è una malattia autogestita la cui responsabilità<br />

ricade sul paziente, poniamo le fondamenta di una<br />

relazione basata sull’empowerment. Questo tipo di relazione<br />

richiede che smettiamo di sentirci responsabili per i<br />

nostri pazienti. Non possiamo controllare le loro decisioni<br />

quotidiane. Tentare di fare questo, non importa quanto<br />

ben intenzionati, in genere porta alla frustrazione sia noi<br />

che i pazienti.<br />

I pazienti che si sentono sopraffatti perché è stato appena<br />

diagnosticato loro il diabete possono, effettivamente,<br />

lasciare che siamo noi a prendere le decisioni. Possono<br />

accogliere con sollievo l’opportunità di delegare ad altri<br />

ciò che sentono come il pesante carico delle scelte. In<br />

situazioni del genere, possiamo preparare un piano di<br />

trattamento e i nostri pazienti si mostreranno d’accordo<br />

nel seguirlo. Ma anche in queste situazioni abbiamo bisogno<br />

di rammentare a noi stessi che sono sempre loro ad<br />

29


30<br />

avere il controllo. Hanno scelto di lasciare a noi il potere<br />

di prendere delle decisioni, ma possono riprenderselo in<br />

qualsiasi momento. Per molti pazienti, l’angoscia legata al<br />

fatto di avere il diabete si riduce nel tempo ed essi si sentono<br />

sempre più a disagio nel sottomettersi al controllo<br />

dei medici. Il bisogno come persone adulte di autonomia<br />

e autogestione riemerge e il periodo di crisi associato con<br />

la diagnosi di diabete finisce.<br />

“Ogni verità passa per tre fasi.<br />

Primo viene ridicolizzata.<br />

Secondo è violentemente contrastata.<br />

Terzo è accettata come evidente.<br />

Arthur Schopenhauer<br />

Nella nostra esperienza, il successo nell’assistenza e nella<br />

educazione al diabete comincia di solito con una discussione<br />

su chi è responsabile di cosa nella gestione della<br />

malattia. Non possiamo sollevare i nostri pazienti da questa<br />

responsabilità, ma possiamo insegnare loro alcune tecniche<br />

e procurare loro le risorse che li aiutino ad assumersi<br />

queste responsabilità. Possiamo fornire un expertise sul<br />

diabete e tutte le conoscenze necessarie per fare delle<br />

scelte informate e consapevoli, abilità per la cura di sé,<br />

supporto per la vita di relazione, sociale ed emotiva, suggerimenti<br />

per cambiare stili di vita e strategie di adattamento,<br />

opportunità per riflettere sulle proprie scelte e sugli<br />

obiettivi che sperano di raggiungere. Nella nostra esperienza,<br />

se la relazione con i pazienti è basata sul riconoscimento<br />

dei limiti e delle responsabilità di ognuna delle due<br />

parti, diventa, in genere, più efficace e gratificante.<br />

“Tu devi essere il cambiamento<br />

che desideri avvenga nel mondo.<br />

Mahatma Gandhi<br />

“<br />


Domande per riflettere<br />

1) Lavorate in un ambiente in cui ci si aspetta che siate<br />

responsabili delle decisioni che i vostri pazienti prendono?<br />

Come lo vivete?<br />

2) Secondo voi, quali sono le vostre responsabilità nell’educazione<br />

al diabete e quali quelle del paziente?<br />

3) Secondo voi, qual è la differenza tra essere responsabili<br />

‘per’ ed essere responsabili ‘verso’ un paziente?<br />

4) Come vi sentite quando, dopo aver lavorato duramente<br />

per aiutare un paziente a capire quanto sia importante<br />

prendersi cura del proprio diabete, vi sembra di<br />

aver parlato a un sordo?<br />

31


CAPITOLO 3<br />

La prospettiva<br />

illumina il metodo<br />

Cosa state cercando?<br />

Come diabetes educator abbiamo cercato per anni il<br />

metodo formativo più efficace. Un programma, una teoria<br />

o un insieme di regole che ci dicesse cosa fare e come<br />

farlo. Molti hanno continuato a cercarlo perché, secondo<br />

la loro idea, lo scopo della formazione è il cambiamento.<br />

Questa motivazione è comprensibile. Noi crediamo che sia<br />

nostro compito portare i pazienti ad aderire al trattamento.<br />

Cerchiamo un metodo o una pillola magica che aiuti i<br />

nostri pazienti a fare ogni cosa per bene per gestire il loro<br />

diabete. Vogliamo trovare qualcosa che aiuti loro – e di<br />

conseguenza noi – ad avere successo. Per comprendere le<br />

implicazioni di questo continuo interrogarsi su come formare<br />

più efficacemente, dobbiamo esaminare quali sono<br />

le idee che circolano riguardo ai modi della conoscenza<br />

considerate più valide nel mondo della sanità.<br />

Nell’approccio tradizionale alla ricerca dei trattamenti per<br />

le malattie, l’esperimento controllato, randomizzato, è<br />

considerato lo strumento più valido e affidabile per identificare<br />

i trattamenti efficaci. Purtroppo, non funziona così<br />

bene per i metodi di formazione. Prendiamo in cosiderazione<br />

il seguente esperimento controllato.<br />

In un laboratorio presso un centro di ricerca internazionalmente<br />

rinomato, uno scienziato prende 100 topi bianchi,<br />

identici, e li assegna in modo casuale a due gruppi. I<br />

due gruppi sono messi nelle stesse gabbie e ricevono il<br />

33


34<br />

medesimo cibo. La quantità di luce, di acqua, il rumore<br />

ambientale e ogni altra variabile è esattamente la stessa.<br />

A uno dei due gruppi viene dato un nuovo farmaco sperimentale,<br />

ogni giorno per una settimana, all’altro gruppo<br />

un placebo. Alla fine della settimana il gruppo di topi che<br />

ha ricevuto il farmaco inizia a parlare francese fluentemente<br />

mentre il gruppo di controllo rimane muto. Lo<br />

scienziato è deliziato e descrive la sua scoperta: è stato<br />

dimostrato che il nuovo farmaco induce i topi a parlare<br />

francese. I suoi colleghi si congratulano con lui per il rigore<br />

del suo lavoro e le persone che avevano sperato che i<br />

topi potessero imparare a parlare francese accolgono la<br />

notizia con entusiasmo.<br />

“È diventato terribilmente scontato<br />

che la nostra tecnologia ha ecceduto<br />

la nostra umanità.<br />

Albert Einstein<br />

Lo studio clinico randomizzato è stato considerato per<br />

anni il ‘gold standard’ nella ricerca clinica, ed effettivamente<br />

è stato usato nella ricerca psicologica (inclusa la<br />

nostra). Lo studio clinico randomizzato gode di una reputazione<br />

così alta perché si ritiene che risponda alle<br />

domande poste dalla ricerca in modo conclusivo e provi<br />

l’efficacia dei nuovi metodi di trattamento e delle nuove<br />

terapie. Ci siamo abituati ad aspettarci che la ricerca<br />

dimostri sempre il modo migliore per trattare i problemi<br />

in medicina. Quest’aspettativa è stata valida anche per<br />

l’educazione al diabete. Ma la ricerca non può dare le<br />

risposte che molti formatori cercano. L’aspettativa che la<br />

ricerca provi che un metodo o un programma formativo è<br />

il migliore ha condotto a frustrazione e alla mancata<br />

accettazione dei risultati della ricerca comportamentale e<br />

pedagogica.<br />


“Ciò che è progettato, ordinato, fattuale<br />

non è mai abbastanza<br />

per abbracciare la verità tutta:<br />

La vita sempre trabocca dalla rima<br />

di ogni coppa.<br />

Boris Pasternak<br />

In teoria, uno studio clinico randomizzato di ampie proprozioni,<br />

che comprenda molti diabetes educators e migliaia di<br />

pazienti potrebbe controllare la variabilità statistica di tutte<br />

le variabili in gioco. Ma noi crediamo che uno studio con<br />

queste caratteristiche, che confronti un metodo con un<br />

altro, giungerebbe a rivelare piccole e insignificanti differenze<br />

con costi assolutamente sproporzionati. Questo sulla<br />

base della nostra stessa esperienza e su quella del lavoro<br />

già fatto nel campo della ricerca pedagogica in ambito diabetologico.<br />

La variabile più importante è già stata identificata:<br />

il formatore. Quando pazienti responsabili interagiscono<br />

con formatori capaci e motivati, praticamente qualsiasi<br />

teoria o metodo dà risultati positivi.<br />

Cosa c’entra la prospettiva?<br />

Assodato il ruolo cruciale che le qualità del formatore giocano<br />

nel successo dell’educazione al diabete, abbiamo<br />

messo a fuoco che la prima cosa che dobbiamo fare per<br />

diventare formatori più efficaci è guardare dentro noi<br />

stessi. Non è tanto il metodo che abbiamo scelto quanto<br />

la nostra prospettiva che condiziona ciò che facciamo<br />

come formatori. Dobbiamo guardare dentro di noi per<br />

identificare la nostra filosofia.<br />

Un modo che abbiamo usato per identificarla è di focalizzarci<br />

sulle storie dei nostri pazienti e di chiederci come<br />

possiamo partecipare a queste storie in modo da metterci<br />

al loro servizio. Gli chiediamo di permetterci di condividere<br />

il loro punto di vista in modo da poterli aiutare a raggiungere<br />

gli obiettivi che si sono fissati. Potremmo chiede-<br />

“<br />

35


36<br />

re: a cosa assomiglia questa esperienza per voi? Quali sono<br />

i vostri obiettivi? Cosa state facendo per raggiungerli? I<br />

metodi che state seguendo stanno dando i risultati attesi?<br />

Desiderate prendere in considerazione altre opzioni?<br />

Comprendere la loro prospettiva ci aiuta a chiarire la<br />

nostra. Riflettendo sul modo con cui partecipiamo alle<br />

storie dei pazienti possiamo focalizzarci sulla componente<br />

più importante della nostra prospettiva: il nostro scopo<br />

come diabetes educator. Qual’è il nostro ruolo? Cosa<br />

stiamo cercando di realizzare? Di cosa siamo responsabili?<br />

Di cosa sono responsabili i nostri pazienti?<br />

“Se non vuoi essere rimpiazzato<br />

da una macchina,<br />

non comportarti come una macchina.<br />

Arno Penzias<br />

Quando un diabetes educator si siede di fronte a un<br />

paziente, le centinaia di variabili che potrebbero influenzare<br />

il processo e il risultato sono presenti nella mente e<br />

nell’esperienza di quelle due persone. La ricerca in campo<br />

pedagogico e psicoterapeutico ha mostrato come la prospettiva<br />

e le caratteristiche personali del formatore o del<br />

counselor quali sincerità, disponibilità, comprensione,<br />

rispetto e apertura mentale sono elementi centrali per la<br />

riuscita di ogni tentativo formativo o di counseling. Il<br />

nostro lavoro ci ha insegnato che il modo in cui vediamo i<br />

pazienti e noi stessi ha di gran lunga maggior impatto sui<br />

risultati della nostra interazione di qualsiasi metodo o teoria<br />

pedagogica particolari. Di nuovo, si è ciò che si fa.<br />

Sommare le pere con le mele<br />

Troviamo frustrante quando un educator ci chiede come<br />

l’empowerment si confronti con il Modello degli Stadi di<br />

Cambiamento o con la Teoria del Social Learning. La risposta<br />

è che c’entra esattamente come c’entrano le pere con<br />


le mele, cioè niente. L’empowerment è una prospettiva o<br />

una filosofia della cura. Il paradigma concettuale precede<br />

il (ed è molto più importante del) metodo, perché parla<br />

dei valori, degli scopi e della definizione di ruolo dell’educator.<br />

Le teorie e i metodi ci aiutano a fare il nostro lavoro,<br />

ma prima di domandarci come fare il nostro lavoro dobbiamo<br />

avere un’idea di cosa stiamo cercando di fare.<br />

Perciò, un educator che usa la Teoria del Social Learning<br />

per indurre i pazienti a aderire al trattamento e un altro<br />

che usa lo stesso approccio teorico per aiutare i pazienti a<br />

diventare capaci di prendere da sé le decisioni sulla<br />

gestione del proprio diabete, produrranno risultati differenti.<br />

La ricerca è importante perché ci dà degli strumenti,<br />

ma non ci può dare delle risposte. Le risposte si trovano<br />

nelle storie dei pazienti e nella nostra prospettiva.<br />

Le radici di ogni filosofia giacciono nel cuore mentre quelle<br />

della teoria e del metodo stanno nella mente. La formazione<br />

al diabete è e rimarrà un’arte. La scienza ci aiuterà<br />

a indentificare utili strumenti, ma gli strumenti non<br />

saranno mai più importanti della prospettiva, della personalità<br />

e delle capacità del diabetes educator che usa quegli<br />

strumenti. Il paradigma dell’educator, nutrito e approfondito<br />

dalla pratica riflessiva, è il prodotto sempre mutevole<br />

di una motivazione, lunga quanto la vita, all’apprendimento<br />

dell’arte dell’educazione al diabete.<br />

DOMANDE PER RIFLETTERE<br />

1) Cosa pensate dell’idea che l’educator ha più impatto<br />

del metodo formativo?<br />

2) Quali sono state le vostre esperienze riguardo al vostro<br />

impatto sui pazienti e sul loro apprendimento?<br />

3) Nella vostra esperienza, in che modo i vari metodi che avete<br />

usato hanno influenzato l’apprendimento dei pazienti?<br />

4) Come ha influenzato o potrebbe influenzare le vostre<br />

interazioni con i pazienti il fatto che consideriate voi<br />

stessi il vostro principale strumento di lavoro?<br />

37


CAPITOLO 4<br />

Dalla compliance<br />

all’empowerment<br />

“Se all’inizio l’idea non è assurda<br />

non ha alcuna speranza.<br />

Albert Einstein<br />

Di che cosa abbiamo bisogno<br />

e in che cosa crediamo<br />

La maggior parte di noi ha investito una significativa<br />

quantità di tempo e di energie per diventare terapeuta.<br />

Abbiamo lavorato sodo per sviluppare l’esperienza e le<br />

capacità necessarie ad aiutare le persone a riconquistare<br />

o a mantenere la loro salute e a ottimizzare il loro benessere.<br />

Siamo stati abituati ad aspettarci che i nostri pazienti<br />

ascoltino i nostri consigli e seguano le nostre raccomandazioni.<br />

Come diabetes educator cerchiamo di aiutare<br />

i nostri pazienti ad andare incontro ai loro bisogni fondamentali<br />

per stare bene fisicamente, emotivamente e<br />

spiritualmente. Speriamo che essi abbassino i livelli di glicemia<br />

in modo da prevenire le complicanze acute e croniche<br />

della malattia. Molti di noi sono motivati anche dal<br />

fatto di sapere che la mortalità e la morbilità prevenibili<br />

associate al diabete colpiscono non solo i pazienti e le<br />

loro famiglie, ma anche la collettività. Costi sanitari e perdita<br />

di produttività sono due delle questioni principali che<br />

interessano tutti noi.<br />

Quando formiamo i nostri pazienti su come gestire il diabete,<br />

in genere cerchiamo di andare incontro anche a<br />

“<br />

39


40<br />

delle nostre esigenze. Molti di noi hanno imparato a considerare<br />

la gestione della malattia e del livello glicemico<br />

dei pazienti come una misura della efficacia del proprio<br />

lavoro. Come diabetes educator noi abbiamo bisogno di<br />

sentirci efficaci nella professione che abbiamo scelto.<br />

Come professionisti dell’assistenza abbiamo bisogno di<br />

sentire che i nostri sforzi fanno la differenza, che il nostro<br />

lavoro vale la pena. Benché queste esigenze, elementari,<br />

umane, siano legittime, nella nostra esperienza i concetti<br />

di compliance e di adesione (che per i nostri scopi hanno<br />

lo stesso significato) non ci aiutano (né aiutano i nostri<br />

pazienti) a venire incontro alle nostre esigenze.<br />

La maggior parte di noi ha delle idee piuttosto precise su<br />

come noi e gli altri dovremmo comportarci. Le opinioni<br />

condivise ampiamente formano le norme sociali che sono il<br />

fondamento della vita comune. In alcuni casi, le nostre opinioni<br />

su cosa gli altri dovrebbero fare sono radicate in noi<br />

molto tenacemente. Per esempio, la maggior parte di noi<br />

ha delle opinioni molto precise su un certo numero di questioni<br />

sociali come l’aborto, la pena di morte, il razzismo e<br />

la discriminazione sessuale. Discussioni e dibattiti su queste<br />

questioni spesso ispirano opinioni appassionate su ciò<br />

che le altre persone dovrebbero pensare, sentire e fare.<br />

“I consigli sono come l’olio di castoro, facili a<br />

darsi ma difficili a prendersi.<br />

Josh Billings<br />

Come diabetes educator noi possiamo avere dei forti<br />

convincimenti su ciò che i nostri pazienti dovrebbero fare.<br />

Dopo aver visto situazioni drammatiche come l’insufficienza<br />

renale cronica, la cecità o le amputazioni è normale<br />

che noi pensiamo che le persone debbano a se stessi,<br />

alle loro famiglie, alla collettività il massimo impegno per<br />

prevenire queste complicanze. Possiamo ben credere che<br />

i pazienti che sembrano non prendere troppo sul serio il<br />


diabete e la sua gestione cambieranno opinione negli<br />

anni a seguire. Possiamo credere che è nostro compito<br />

portare i pazienti a vedere quanto grave sia il diabete e<br />

quanto importante un controllo rigoroso della glicemia.<br />

Opinioni di questo tipo, anche se non ci pensiamo spesso,<br />

formano la base del nostro approccio al trattamento e<br />

all’educazione del diabete. Il nostro comportamento<br />

come formatori, così come il modo in cui noi vediamo i<br />

nostri pazienti, sarà, in larga misura, determinato da questi<br />

convincimenti profondi.<br />

Cosa controlliamo<br />

Noi possiamo tradurre le nostre idee in azioni e influenzare<br />

gli eventi in situazioni in cui abbiamo una certa dose di<br />

controllo. Per esempio, se siamo genitori, probabilmente<br />

abbiamo dei convincimenti radicati su come i nostri figli<br />

debbano comportarsi. In quanto genitori, abbiamo una<br />

certa dose di controllo sul comportamento dei nostri figli<br />

perché possiamo verificare molte delle conseguenze del<br />

loro comportamento. L’essere genitori è un esempio di<br />

situazione in cui noi possiamo agire sulla base delle nostre<br />

idee e aumentare la probabilità che i nostri figli si comportino<br />

secondo i nostri convincimenti (almeno fino a che non<br />

diventano adolescenti). Allo stesso modo, i dirigenti possono<br />

agire seguendo le loro idee su come gli impiegati<br />

dovrebbero comportarsi, su quali dovrebbero essere le<br />

loro responsabilità, e su cosa caratterizzi un dipendente<br />

modello. Quando abbiamo un controllo sostanziale delle<br />

conseguenze in situazioni in cui le nostre idee giocano un<br />

ruolo preminente, abbiamo la possibilità di influenzare le<br />

percezioni e il comportamento degli altri.<br />

Tuttavia, quando abbiamo dei forti convincimenti ma<br />

poco o nessun controllo della situazione e delle conseguenze,<br />

la nostra esperienza può essere molto differente.<br />

Operare in questo tipo di situazioni può rivelarsi molti difficile<br />

e, in ultima analisi, scoraggiante. Di nuovo, questo<br />

41


42<br />

fenomeno può essere testimoniato dal modo in cui molte<br />

questioni sociali fondamentali sono affrontate nella nostra<br />

società. Per esempio, molte persone sono fortemente in<br />

disaccordo sulle politiche di pari opportunità o sulla preghiera<br />

nelle scuole. Le persone che sostengono posizioni<br />

opposte su queste questioni sono spesso contrapposte le<br />

une alle altre e si sentono frustrate perché la giustezza<br />

delle proprie posizioni appare loro così evidente. Sono<br />

convinte che ciò in cui credono sia corretto e moralmente<br />

giusto e che le persone che la pensano differentemente<br />

sbaglino e debbano cambiare. Eppure, da entrambe le<br />

parti della barricata, in genere, mancano mezzi per controllare<br />

il comportamento di quelli che la pensano diversamente.<br />

La tensione causata da questa mancanza di controllo<br />

spesso sfocia nella ‘demonizzazione’ dell’altro (per<br />

esempio si etichettano coloro che la pensano differentemente<br />

come ignoranti o estremisti). Essere convinti che i<br />

nostri pazienti stanno compiendo delle scelte che produrranno<br />

dei danni a lungo termine può essere frustrante per<br />

noi se loro non sono capaci o non vogliono riconoscere le<br />

conseguenze dei loro comportamenti.<br />

“Abbiamo incontrato il nemico:<br />

siamo noi stessi.<br />

Pogo<br />

Una prospettiva da educator<br />

Le nostre idee su ciò di cui abbiamo bisogno, ciò che crediamo<br />

e ciò che possiamo controllare nell’assistenza diabetologica<br />

e nell’educazione al diabete formano il nucleo<br />

della relazione con i nostri pazienti. Queste idee sono centrali<br />

rispetto a una discussione sulla compliance. Delle tre<br />

(bisogni, convinzioni e controllo), la percezione di ciò che<br />

possiamo controllare nelle decisioni fatte dai pazienti sulla<br />

malattia è la questione centrale, perché è quella che differisce<br />

maggiormente dal trattamento delle patologie<br />


acute. Nella nostra esperienza, molta della frustrazione<br />

associata con la non-compliance è il risultato di una nostra<br />

necessità: che i pazienti ottimizzino il loro controllo glicemico.<br />

Forse noi siamo molto coinvolti nell’assistenza e nel<br />

controllo glicemico dei nostri pazienti più di quanto non<br />

siamo disposti ad ammettere. Come educator, possiamo<br />

credere che sia nel totale interesse dei nostri pazienti controllare<br />

la propria glicemia con attenzione, ma non abbiamo<br />

la possibilità di obbligarli a farlo. Etichettare i nostri<br />

pazienti come ‘non compliant’ o ‘non adherent’ quando<br />

non seguono i nostri consigli può essere un modo per scaricare<br />

su di loro la frustrazione e lo sconforto che avvertiamo.<br />

Possiamo anche scoraggiarci perché le scelte di autocontrollo<br />

dei pazienti minano la nostra opinione di noi stessi<br />

come diabetes educator efficaci.<br />

In quanto professionisti della salute, ci siamo abituati a<br />

sentirci responsabili per i nostri pazienti e a credere che<br />

stia a noi assicurare che il loro impegno sia adeguato agli<br />

standard correnti. Eppure, noi non abbiamo il controllo<br />

della situazione non possiamo assicurare che essi seguiranno<br />

le nostre raccomandazioni.<br />

Imparare a lasciar andare le cose<br />

Ascoltando i diabetes educator esporre la loro frustrazione<br />

con i pazienti ‘non-compliant’, abbiamo notato che il<br />

tono emotivo di queste conversazioni è simile a quello dei<br />

genitori quando parlano della propria incapacità a guidare<br />

le scelte dei propri figli adolescenti. “Sapevo che si<br />

sarebbe cacciato nei guai, ma mi dava forse retta? Oh no,<br />

doveva fare a modo suo.” Nell’educazione al diabete l’argomento:<br />

“Sono io responsabile di te e delle scelte che<br />

fai” non funziona, i pazienti resistono ai nostri sforzi e talvolta<br />

si infastidiscono di essere trattati come dei bambini.<br />

E possibile che esprimano la loro contrarietà trascurando<br />

la malattia: è un modo per riaffermare la propria autonomia<br />

senza tenere conto però del fatto che questa esigen-<br />

43


44<br />

za di autonomia, assolutamente naturale per un adulto,<br />

può compromettere la loro salute attuale e futura.<br />

Poiché molti diabetes educators sono donne e hanno<br />

scelto un lavoro che sia di aiuto agli altri, è possibile che<br />

abbiano un approccio ‘materno’ all’assistenza diabetologica<br />

e alla formazione, simile al ruolo tradizionale della<br />

madre nella famiglia. L’assistenza infermieristica, in particolare,<br />

si basa sul ruolo della madre nella cura della<br />

malattia che noi abbiamo appreso sin da bambini. Il<br />

modello Florence Nightingale (cibo, coperte e coccole) è<br />

in gran parte basato su questo approccio maternalistico.<br />

Nel corso degli anni abbiamo fatto un considerevole sforzo<br />

per aiutare i pazienti a diventare obbedienti o compliant,<br />

il che riflette questo ruolo materno più tradizionale.<br />

Ci siamo abituati ad accettare la responsabilità per le<br />

decisioni (e i risultati) dei nostri pazienti e a indirizzare i<br />

nostri sforzi per aiutarli a essere buoni e a fare ciò che i<br />

dottori dicono, in modo che il medico non si arrabbi con<br />

il paziente o con noi. Abbiano imparato a volerli ‘aderenti’<br />

perché crediamo di sapere cosa sia meglio per loro.<br />

Spesso vediamo il nostro ruolo come quello di chi risolve<br />

i loro problemi, li fa stare meglio e, in generale, cerca di<br />

prendersi cura di loro. Questo tradizionale approccio<br />

maternalistico si basa sull’assunto che noi sappiamo di<br />

più dei nostri pazienti sul loro diabete e che siamo perciò<br />

capaci di scegliere le strategie di trattamento più appropriate.<br />

Eppure, anche quando siamo convinti di sapere di<br />

più e di essere responsabili per i nostri pazienti, la nostra<br />

capacità di convincerli o persuaderli è limitata. Sentirsi<br />

responsabili per ciò che non possiamo controllare è il<br />

modo migliore per sviluppare frustrazione, scoramento,<br />

sconforto e senso di impotenza.


Bob racconta<br />

Sono cresciuto a Boston negli anni ‘50, in un quartiere di<br />

irlandesi. I miei genitori erano cattolici praticanti. Per otto<br />

anni la mia educazione venne guidata dalla ferma mano<br />

delle suore. Ero un ‘bravo ragazzo’ in quel periodo, non<br />

perdevo mai una Messa, facevo tutti i compiti, ero tra i<br />

bravi della scuola e non avevo molto da raccontare al<br />

prete durante la confessione settimanale. In altre parole,<br />

ero ‘compliant’. All’ultimo anno di scuola, però, cominciai<br />

a realizzare quanto la mia educazione fosse restrittiva. Non<br />

ci veniva insegnato a pensare, piuttosto ci si aspettava che<br />

accettassimo la visione del mondo offertaci dai preti, dalle<br />

suore e dai genitori. La messa in questione dell’opinione<br />

corrente non veniva incoraggiata e nemmeno tollerata.<br />

Cominciai a essere insofferente verso la rigida struttura<br />

intellettuale della mia educazione. C’erano molte scuole<br />

superiori a Boston, sia pubbliche che private. Scelsi di<br />

andare in una scuola pubblica. Solo 2 studenti su 50 del<br />

mio anno decisero di non continuare in una scuola privata<br />

religiosa. Ricordo che il mio insegnante mi disse che la mia<br />

scelta mi avrebbe portato dritto all’inferno.<br />

L’adolescenza fu un periodo di ribellione. Smisi di essere<br />

uno studente e un ragazzo ‘compliant’ (benché allora non<br />

avessi mai sentito questa parola) e divenni un ‘non-compliant’.<br />

Provai qualsiasi cosa fosse vietata. La reazione alle<br />

norme della mia famiglia, della mia religione e della mia<br />

comunità iniziò ad avere conseguenze quando avevo 18<br />

anni. Giravo con una banda di giovani della mia età.<br />

Governati più dagli ormoni che dalla testa, violavamo<br />

qualsiasi regola potessimo violare. Vivevo una vita che<br />

avrebbe potuto portarmi in galera o al camposanto. Arrivai<br />

abbastanza vicino a entrambi prima di aprire gli occhi sulle<br />

conseguenze delle scelte che stavo facendo. Mi accorsi<br />

che la ‘non-compliance’ non è libertà. Compresi che non<br />

era possibile vivere facendo semplicemente il contrario di<br />

quanto mi avevano detto per tutta la mia vita.<br />

45


46<br />

“Ci sono sconfitte più gloriose<br />

delle vittorie.<br />

Montaigne<br />

Cominciai a cercare una terra di mezzo. Studiai psicologia,<br />

filosofia e religione allo scopo di trovare un modo di<br />

essere nel mondo che mi potesse sostenere e formare.<br />

Infine, abbracciai una filosofia abbastanza semplice. In<br />

effetti era la stessa filosofia di mio padre, ma ero incapace<br />

di vederne la saggezza quando ero giovane. Era basata<br />

sul principio che ognuno è personalmente responsabile<br />

della propria vita. Compresi che in tutte le situazioni ci<br />

sono elementi al di fuori del nostro controllo. Ma allo<br />

stesso tempo, in tutte le situazioni ci sono scelte che possiamo<br />

fare e quelle scelte hanno delle conseguenze.<br />

Potevo scegliere come agire, come pensare, come interpretare<br />

una situazione. Potevo esercitare una reale autonomia<br />

concentrandomi sulle scelte che erano a mia disposizione,<br />

piuttosto che opponendomi alle costrizioni.<br />

Imparai che libertà non è tanto libertà ‘da’ qualcosa ma<br />

‘verso’ qualcosa. La libertà si realizzava principalmente<br />

nella mia capacità di scegliere. Questa visione del mondo<br />

modella il mio modo di vedere le scelte da compiere con<br />

i pazienti diabetici. Mi sembra che ‘compliance’ e ‘noncompliance’<br />

siano concetti irrilevanti perché entrambi<br />

incentrati sulla relazione tra comportamento del paziente<br />

e raccomandazione del medico, piuttosto che sulle conseguenze<br />

di quel comportamento.<br />

Ritenere ‘compliance’ e ‘adherence’ concetti ‘fallimentari’,<br />

non significa, come alcuni colleghi pensano, non dare<br />

più importanza ai pazienti. Niente di più lontano dalla<br />

verità. L’empowerment è un approccio centrato sul<br />

paziente basato sul rispetto e sulla empatia. Abbiamo<br />

adottato un approccio empowerment perché crediamo<br />

che gli esseri umani abbiano una tendenza innata a rag-<br />


giungere autonomamente il loro benessere fisico, psicologico,<br />

intellettuale e spirituale. Gli ostacoli a questa tendenza<br />

sono in genere il risultato di strategie di apprendimento<br />

deboli nel ‘problem-solving’. La formazione è<br />

secondo noi un processo di insegnamento e di counseling<br />

ideato per aiutare i pazienti a scoprire più efficaci strategie<br />

di ‘problem-solving’ in modo che essi possano raggiungere<br />

il loro pieno potenziale come esseri umani.<br />

Molti pazienti possono sviluppare le abilità e i comportamenti<br />

necessari per prendere decisioni appropriate su<br />

ogni aspetto della loro vita, incluso il diabete. La nostra<br />

responsabilità è fornire ai pazienti le risorse necessarie a<br />

raggiungere i loro obiettivi di cura del diabete. Con questo<br />

approccio talvolta ci si accorge che i pazienti non<br />

hanno preso le decisioni migliori, ma dobbiamo ricordarci<br />

che si tratta delle loro scelte.<br />

La filosofia dell’empowerment ci ha liberato dalla responsabilità<br />

di tentare di risolvere tutti i problemi dei nostri<br />

pazienti. Ci permette di entrare in dialogo con loro, e<br />

durante il dialogo le soluzioni ai problemi emergono<br />

naturalmente all’interno di una relazione basata sulla fiducia<br />

e sul rispetto. Nell’approccio empowerment, la nostra<br />

responsabilità come educator sta nell’aiutare i nostri<br />

pazienti a prendere decisioni consapevoli sull’autogestione<br />

del diabete.<br />

Alcuni educators ci hanno detto di usare l’empowerment<br />

lasciando fare ai pazienti. ‘Lasciar fare’ ai pazienti non è<br />

realmente differente che ‘far fare’ ai pazienti in un altro<br />

modo. Lasciare e far fare sono le due facce della stessa<br />

medaglia, quella del ‘controllo’. Per ironia, la medaglia del<br />

controllo è falsa. Credere che noi abbiamo il controllo delle<br />

vite dei nostri pazienti è un’illusione, anche se noi e i<br />

pazienti stessi lo crediamo. La completa responsabilità<br />

della gestione del diabete da parte del paziente significa<br />

che ‘lasciar fare’ e ‘indurre a fare’ non trovano posto nell’educazione<br />

al diabete. Noi abbiamo adottato un approccio<br />

47


48<br />

empowerment non perché ci dia le risposte, ma perché ci<br />

guida a porre le domande che aiutano i nostri pazienti a<br />

trovare le loro personali risposte.<br />

Alcuni educators ci hanno detto di provare un po’ di paura<br />

nell’abbandonare i concetti di compliance e di controllo. Si<br />

preoccupano perché credono che, non dedicando tutti i loro<br />

sforzi a indurre i pazienti a cambiare, i loro pazienti non si<br />

cureranno. Nella nostra esperienza questo accade raramente.<br />

In realtà, quando noi ci liberiamo dalla tentazione di indurre,<br />

lasciare e motivare, noi creiamo una relazione che minimizza<br />

le resistenze del paziente e massimizza il cambiamento.<br />

L’empowerment e l’approccio tradizionale<br />

Nella Tabella 3-1 vengono confrontati gli assunti fondamentali<br />

che stanno dietro i due approcci all’assistenza<br />

diabetologica.<br />

Una volta adottato l’approccio empowerment, il programma<br />

di formazione dei pazienti va modificato secondo questa<br />

nuova prospettiva. Abbiamo ‘integrato’ i concetti chiave<br />

dell’empowerment nel disegno dei nostri programmi<br />

formativi con un’enfasi sulla integralità della persona e<br />

sulle energie personali (Tabella 3-2).<br />

Il paziente seleziona i bisogni e gli obiettivi formativi.<br />

Vengono trasferiti al paziente la guida e il controllo<br />

dei processi decisionali.<br />

Vengono autogenerati problemi e soluzioni.<br />

Gli insuccessi vengono analizzati come opportunità<br />

per imparare e diventare più efficaci.<br />

Viene scoperta e rafforzata la motivazione interiore<br />

al cambiamento di comportamento.<br />

Vengono promosse la crescente partecipazione<br />

del paziente e la responsabilità personale.<br />

Vengono messe in luce le reti di supporto e le risorse<br />

(a disposizione).<br />

Viene promossa la tendenza intrinseca del paziente<br />

verso la salute e il benessere.


Confronto tra i modelli formativi di tipo tradizionale e quelli basati sull’empowerment<br />

TABELLA 3-1<br />

Modello empowerment<br />

Modello tradizionale<br />

1. Il diabete è una malattia organica, psicologica e sociale.<br />

2. La relazione tra paziente e terapeuta/educatore è basata<br />

sul principio di responsabilità e sulla condivisione delle<br />

esperienze e delle conoscenze.<br />

3. I problemi e i bisogni formativi sono in genere identificati<br />

dal paziente.<br />

4. Il paziente è visto come colui che risolve i problemi e fa la<br />

cura, vale a dire che il terapeuta è una risorsa al servizio del<br />

paziente e lo aiuta a fissare i propri obiettivi e a sviluppare<br />

un programma di trattamento.<br />

5. Lo scopo è rendere il paziente capace di fare delle scelte consapevoli.<br />

Le tecniche di psicologia behavioristica o comportamentale<br />

vengono utilizzate per aiutare il paziente a sperimentare i<br />

cambiamenti di comportamento da lui stesso scelti. I cambiamenti<br />

tentati ma non adottati (perché inadatti o irrealistici o<br />

altro) non vengono visti come insuccessi, ma come mezzi di<br />

apprendimento che procurano nuove informazioni utilizzabili<br />

per lo sviluppo di altri programmi e obiettivi di trattamento.<br />

6. Le motivazioni al trattamento sono interne al paziente.<br />

1. Il diabete è una malattia organica.<br />

2. La relazione tra paziente e terapeuta/educatore è basata sul<br />

principio di autorità e sulle competenze del professionista.<br />

3. I problemi e il bisogno formativo vengono identificati dal<br />

professionista.<br />

4. Il terapeuta è visto come colui che risolve i problemi e prescrive<br />

la cura, il che vuol dire che è lui il responsabile della diagnosi<br />

e dei risultati del trattamento.<br />

5. Lo scopo è il cambiamento dei comportamenti. Le tecniche di<br />

psicologia behavioristica o comportamentale vengono impiegate<br />

per aumentare la compliance al trattamento proposto.<br />

La mancanza di compliance è vista come un insuccesso del<br />

paziente e del professionista.<br />

7. Il paziente e il terapeuta hanno entrambi un ruolo attivo.<br />

6. Le motivazioni al cambiamento di comportamento sono<br />

esterne al paziente.<br />

7. Il paziente ha un ruolo passivo, è il terapeuta ad avere il controllo<br />

della situazione.<br />

49


50<br />

TABELLA 3-2 Schema di autogestione ed educazione al diabete<br />

1) L’educator fa emergere la preoccupazione principale del paziente<br />

A) Si identifica l’area di maggiore disagio e insoddisfazione<br />

B) Si concorda di concentrare gli sforzi su quest’area<br />

2) L’educator discute la natura della relazione con il paziente nel trattamento<br />

del diabete<br />

A) Il diabete è una malattia autogestita<br />

B) L’educator agisce come un consulente esperto<br />

C) Il processo di educazione al diabete è finalizzato ad aiutare il paziente a fare<br />

scelte consapevoli nell’autogestione del diabete<br />

3) L’educator verifica quanto il paziente sia consapevole della propria malattia e delle<br />

sue componenti organiche, psicologiche e sociali e qual è il suo grado di conoscenza<br />

delle tecniche diagnostiche.<br />

A) Aiuta il paziente a identificare i problemi della terapia<br />

B) Aiuta il paziente a identificare ed esprimere le emozioni legate al diabete<br />

e al suo trattamento<br />

4) L’educator riconosce che è il paziente il responsabile del trattamento<br />

A) Aiuta il paziente a esplorare, chiarire e meditare il sistema di valori relativi al diabete<br />

B) Aiuta il paziente a fissare dei risultati desiderabili<br />

5) L’educator fornisce le conoscenze sul diabete in base ai bisogni espressi dal<br />

paziente e alla valutazione che egli stesso ha fatto della situazione<br />

A) Descrive il diabete e le varie opzioni di trattamento disponibili<br />

B) Fornisce una valutazione costi/benefici per ogni opzione<br />

C) Aiuta il paziente a identificare i costi e benefici personali legati a ogni opzione<br />

6) Il paziente seleziona gli obiettivi e identifica gli ostacoli e le risorse necessarie per<br />

il raggiungimento di quegli obiettivi<br />

7) Il paziente si assume la responsabilità della risoluzione dei propri problemi<br />

A) Sviluppa le capacità necessarie per ottimizzare il sostegno al cambiamento<br />

(sviluppa cioè le proprie doti di comunicazione e determinazione per rafforzare<br />

il sostegno necessario da parte della famiglia e degli amici, potenzia le reti<br />

di sostegno quali gruppi o associazioni)<br />

B) Identifica gli ostacoli e i sostegni potenziali<br />

C) Impara tecniche e strategie per superare gli ostacoli: negoziazione, contratti di<br />

salute e programmi di trattamento, risoluzione di conflitti per massimizzare il<br />

sostegno psicologico<br />

8) Il paziente identifica le opzioni da mettere in pratica e stende un piano terapeutico<br />

in collaborazione con l’educator<br />

9) Il paziente porta avanti il programma terapeutico<br />

10) Il paziente e l’educator valutano criticamente e revisionano il piano.


Domande per riflettere<br />

1) Cosa significano per voi i termini ‘compliance’ e ‘adherence’?<br />

2) Cosa sarebbe successo se i concetti di ‘compliance’ e<br />

di ‘adherence’ fossero stati completamente assenti dal<br />

modo in cui avete pensato la formazione nel diabete?<br />

3) Quanto avete bisogno di controllare i vostri pazienti?<br />

4) Quanto la vostra pratica è stata inflenzata dal tradizionale<br />

approccio maternalistico?<br />

51


CAPITOLO 5<br />

Imparare<br />

sulla propria pelle<br />

“Prima di venire qui ero confuso<br />

su questo argomento.<br />

Dopo la vostra lezione sono ancora<br />

confuso, ma a un livello superiore.<br />

Enrico Fermi<br />

La formazione del paziente<br />

Nel corso degli anni i diabetes educators hanno tenuto<br />

migliaia di lezioni e incontri finalizzati a insegnare ai<br />

pazienti la definizione di diabete, spiegare come è trattato,<br />

descrivere le complicanze, etc. etc. Ma questo approccio<br />

all’educazione al diabete non mette in evidenza le differenze<br />

fondamentali tra come e perché i terapeuti studiano<br />

il diabete e come e perché lo fanno i pazienti. Molti<br />

pazienti non sono interessati al diabete in quanto argomento<br />

di studio; ma sono interessati al proprio personale<br />

diabete. Ci siamo accorti nel nostro lavoro che le esperienze<br />

dei nostri pazienti forniscono un eccellente curriculum<br />

per la loro educazione al diabete. Anche la più elementare<br />

educazione al diabete per un paziente di recente<br />

diagnosi può cominciare con una verifica di ciò che egli<br />

già sa o ha sentito sul diabete.<br />

Abbiamo scoperto che l’educazione al diabete funziona<br />

meglio se praticata come un lavoro collaborativo tra adulti<br />

autonomi e responsabili. La nostra idea ci ha indotto a modificare<br />

teorie e metodi compatibili provenienti dal campo<br />

“<br />

53


54<br />

della pedagogia per adulti e della psicologia del counseling<br />

non-direttivo e ad adattarli all’educazione al diabete.<br />

Secondo noi, l’approccio all’educazione e al cambiamento<br />

comportamentale centrato sul discente si adatta al diabete<br />

molto meglio del modello didattico tradizionale. La<br />

pedagogia degli adulti indica che l’approccio migliore<br />

all’insegnamento e all’apprendimento per gli adulti è<br />

quello che utilizza le esperienze e le abilità degli stessi<br />

partecipanti; è basato sui problemi ed è rilevante per le<br />

sfide che essi fronteggiano nella loro vita.<br />

La psicologia del counseling non-direttivo si basa sulla considerazione<br />

positiva del paziente; incoraggia un rapporto<br />

paritetico tra il paziente e chi lo aiuta, una relazione rispettosa<br />

ed empatica, guidata dal riconoscimento che i pazienti<br />

posseggono risorse innate per risolvere i loro problemi.<br />

“Il vero viaggio di scoperta<br />

non consiste nel cercare nuovi paesaggi,<br />

ma nell’avere nuovi occhi.<br />

Marcel Proust<br />

Riflettendo sulla nostra esperienza, abbiamo sviluppato<br />

un modello che suddivide l’apprendimento in una serie di<br />

fasi. Nel corso degli anni abbiamo affinato questo modello<br />

che descrive l’approccio che usiamo in tutte le nostre<br />

attività formative, con i pazienti e con i professionisti della<br />

salute. Questo modello (descritto nei paragrafi seguenti)<br />

è focalizzato sull’apprendimento, cioè sul comportamento<br />

e l’esperienza del paziente. Più avanti nel libro discuteremo<br />

dell’insegnamento e del counseling, vale a dire il<br />

comportamento e l’esperienza dell’educator.<br />


“L’istruzione è cosa ammirevole.<br />

Ma è bene ricordare di tanto in tanto<br />

che nulla che sia degno di essere<br />

conosciuto può essere insegnato.<br />

Oscar Wilde<br />

FASE 1: L’ESPERIENZA – L’esperienza è la totalità delle percezioni<br />

di una persona. Durante ogni momento della nostra<br />

vita, la nostra esperienza è basata sull’input prodotto dai<br />

nostri sensi (ciò che vediamo, udiamo, sentiamo, odoriamo<br />

e gustiamo), i nostri pensieri e la consapevolezza dei<br />

nostri pensieri. Svegli o addormentati, al lavoro o nel<br />

tempo libero, noi elaboriamo esperienze basate su questi<br />

elementi. La questione per noi come educators è: “Che<br />

cosa trasfoma un’esperienza in un apprendimento?”.<br />

Per esempio, molti diabetes educators hanno passato<br />

migliaia di ore educando al diabete i pazienti. Eppure,<br />

alcuni di loro imparano, crescono, e continuamente affinano<br />

la loro arte praticandola. Altri no, continuano a fare<br />

“la solita cosa al solito modo”. In cosa differiscono questi<br />

due gruppi?<br />

“L’esperienza è una severa maestra<br />

Prima ti fa l’esame e dopo ti dà la lezione.<br />

Vernon Sanders Law<br />

FASE 2: LA RIFLESSIONE – Il passo fondamentale per trasformare<br />

un’esperienza in apprendimento è la riflessione. La<br />

riflessione è l’analisi critica di un’esperienza allo scopo di<br />

comprenderne complessità, significato, valore e conseguenze.<br />

La riflessione ci richiede di guardare indietro e di<br />

esaminare quanto abbiamo fatto in un modo che ci aiuti a<br />

comprenderlo. Se bastasse fare qualcosa e poi farla ancora<br />

per arrivare all’eccellenza, allora tutti i vecchi diabetes<br />

educators sarebbero eccellenti. Come educator, il nostro<br />

compito principale è creare un ambiente di apprendimen-<br />

“<br />

“<br />

55


56<br />

to che stimoli e nutra la nostra riflessione. Quando interagiamo<br />

con i pazienti, individualmente o in gruppi, possiamo<br />

invitarli a riflettere sulle loro esperienze da diabetici,<br />

sui loro sforzi di autocontrollo e sui risultati di questi sforzi.<br />

Possiamo incoraggiarli a pensare a ciò che vogliono e<br />

a cosa stanno facendo per ottenerlo.<br />

Chiaramente, la riflessione è anche un elemento cruciale per<br />

la nostra evoluzione come diabetes educator. La crescita,<br />

l’apprendimento e il cambiamento si realizzano quando ci<br />

fermiamo a guardare indietro con regolarità nel corso della<br />

nostra esperienza e ci chiediamo per esempio: “Cosa vuole e<br />

di cosa ha bisogno veramente questo paziente? Ci sono state<br />

delle cose che questo paziente ha detto che mi hanno messo<br />

a disagio? Cosa farei di diverso se potessi ripetere questa<br />

sessione?”.<br />

FASE 3: L’INTROSPEZIONE – Introspezione letteralmente significa<br />

‘guardare dentro’ un’esperienza. La riflessione può condurre,<br />

e spesso lo fa, all’introspezione. Sovente la riflessione ci permette<br />

di identificare significati, modelli, relazioni, o possibilità<br />

che non erano apparenti prima nella nostra esperienza.<br />

Possiamo vedere una connessione tra esperienze precedenti<br />

e quella attuale. Possiamo accorgerci che il nostro comportamento<br />

è stato l’espressione di pensieri o emozioni inconsapevoli.<br />

Possiamo vedere nuove possibilità dentro vecchie<br />

situazioni. La riflessione è guardare, l’introspezione è vedere.<br />

L’introspezione non è basata su nuove informazioni, piuttosto<br />

riguarda il riconoscimento di qualcosa che era lì tutto il<br />

tempo, ma di cui non ci eravamo accorti prima.<br />

“La scoperta è vedere ciò che chiunque<br />

altro ha visto e pensare ciò che nessun<br />

altro ha pensato.<br />

Albert Szent-Gyorgi<br />


FASE 4: IL CAMBIAMENTO – Apprendere è cambiare. Molto<br />

spesso a cambiare è il comportamento, ma può anche<br />

essere un cambiamento nella disposizione d’animo oppure<br />

capire che questo porta a un cambiamento di comportamento.<br />

L’introspezione si riferisce al momento in cui le<br />

nostre percezioni cambiano. Come quel cambiamento è<br />

poi espresso nelle nostre idee profonde, percezioni o comportamenti<br />

può essere definito come apprendimento.<br />

“Per tutta la vita,<br />

continua a imparare a vivere.<br />

Seneca<br />

FIGURA 4-1 Un modello di apprendimento<br />

Cambiamento<br />

Nuova conoscenza,<br />

nuovi atteggiamenti,<br />

nuovi comportamenti<br />

Esperienza<br />

Percezione<br />

(cinque sensi)<br />

Riflessione<br />

Consapevolezza<br />

Introspezione<br />

Vedere nuove<br />

relazioni, comportamenti,<br />

aspirazioni<br />

e opportunità<br />

“<br />

Riflessione<br />

Che cos’è questo?<br />

Come funziona?<br />

Cosa significa?<br />

Cosa voglio?<br />

Cosa sto per fare?<br />

57


58<br />

La Figura 4-1 mostra un diagramma di questo processo. È<br />

ciclico e in progressione; l’apprendimento stimola nuove<br />

esperienze, che a loro volta inducono a riflessione e<br />

nuova introspezione.<br />

L’apprendimento richiede una relazione psicologicamente<br />

sicura. La sicurezza psicologica è creata da comportamenti<br />

che trasmettano rispetto e fiducia e che creino<br />

accettazione. La nostra postura, lo sguardo, il tono della<br />

voce possono comunicare empatia e partecipazione. Per i<br />

pazienti è impossibile guardarsi dentro, esplorare ed<br />

esprimere le loro più profonde preoccupazioni sul fatto di<br />

avere il diabete e di doverlo curare, se non vengono liberati<br />

dalla preoccupazione di essere biasimati, giudicati,<br />

criticati o valutati.<br />

Per promuovere un apprendimento significativo per una<br />

persona, noi dobbiamo stabilire un ambiente, individualmente<br />

o in gruppo, nel quale l’esperienza di ogni persona<br />

viene riconosciuta e apprezzata. La prossima sezione di<br />

questo libro focalizza come creare il tipo di relazione che<br />

promuove e nutre l’apprendimento personale.<br />

“Molte più persone imparerebbero<br />

dai loro errori se non fossero così<br />

impegnate a negare di averli fatti.<br />

Anonimo<br />

Un altro racconto di Bob<br />

Non dimenticherò mai quel pomeriggio, anche se risale a<br />

più di venti anni fa. Il mio tutor mi aveva invitato a casa<br />

sua per darmi la sua opinione su un lavoro che avevo<br />

appena scritto. Mi ero dedicato con passione all’argomento<br />

ed ero ansioso di ascoltare i suoi commenti. Si<br />

concentrò sulla scrittura piuttosto che sul tema del lavoro.<br />

Riga dopo riga passammo tutto l’articolo evidenziandone<br />

gli errori e le debolezze di scrittura. Ogni suo commento<br />


mi feriva. Ma non crollai psicologicamente perché avevo<br />

fiducia in lui, completa. Sapevo quanto tenesse a me e<br />

perfino nel pieno del mio disappunto compresi che le sue<br />

critiche erano corrette e che io avevo ancora molto da<br />

imparare. Probabilmente la più dolorosa lezione che<br />

appresi quel giorno fu che scrivendo male, avevo fatto un<br />

cattivo servizio alle idee che sentivo come molto importanti.<br />

Fui in grado di accettare il suo giudizio perché veniva<br />

da un insegnante che aveva conquistato la mia fiducia<br />

e il mio rispetto. Fui capace di accettare le sue critiche<br />

perché mi sentivo al sicuro.<br />

Domande per riflettere<br />

1) Quanto il modello di apprendimento esposto in questo<br />

capitolo si conforma alla vostra esperienza di studenti?<br />

2) Quanto si conforma alle vostre esperienze di formatori?<br />

3) Quali metodi oltre al ‘trasferimento di nozioni’ avete<br />

usato nell’educazione al diabete? Che risultati hanno<br />

dato?<br />

59


Instaurare relazioni<br />

di crescita<br />

PARTE 2<br />

“Se sei qui per aiutarmi, vai via,<br />

ma se sei qui perché hai compreso<br />

che la tua liberazione è legata alla mia,<br />

cominciamo.<br />

Alice Walker<br />

in Aboriginal Woman<br />

La relazione con il paziente è il contesto più importante<br />

per il trattamento e per l’educazione al diabete. La qualità<br />

della relazione tra educator e paziente determina in<br />

larga misura la percezione che il paziente ha della cura<br />

stessa. Relazioni caratterizzate dal rispetto, dalla fiducia e<br />

dalla sincera partecipazione rendono più facile una comunicazione<br />

aperta e leale da entrambe le parti. I pazienti si<br />

sentono psicologicamente al sicuro e possono esplorare<br />

ed esprimere i loro timori e le loro preoccupazioni più<br />

profonde. Inoltre, in una relazione contrassegnata dalla<br />

fiducia e dal rispetto reciproco, i pazienti sono più propensi<br />

a prendere in considerazione i suggerimenti e le<br />

raccomandazioni del diabetes educator.<br />

Stabilire una relazione di questo tipo richiede abilità,<br />

tenacia e motivazione. Non possiamo aspettarci che i<br />

pazienti abbiano fiducia in noi solo perché abbiamo un<br />

pezzo di carta appeso alla parete. La fiducia e il rispetto<br />

vanno guadagnati. Quando un paziente incontra per la<br />

prima volta un professionista della salute cerca, a modo<br />

“<br />

61


62<br />

suo, di determinare se la persona in questione è competente<br />

e degna di fiducia. Cerca tutta una serie di spunti<br />

per rispondere a queste importanti domande. “Mi ascolterà?<br />

Mi tratterà come una persona? Presterà attenzione<br />

alle mie preoccupazioni? Terrà conto delle mie priorità?<br />

Sarà aperto e cordiale? Flessibile e creativo? Sarà competente<br />

e aggiornato? Capace di rispondere alle mie<br />

domande?” Dalla risposta a queste domande dipenderà<br />

la qualità della relazione, fino a che punto il paziente sarà<br />

sincero nei nostri confronti e in che misura farà sue le<br />

nostre raccomandazioni.<br />

Questa sezione comprende i capitoli dedicati al modo per<br />

stabilire con i pazienti delle relazioni che favoriscano lo<br />

sviluppo autonomo delle loro risorse. Nell’approccio<br />

empowerment, il nostro scopo è stabilire relazioni che<br />

permettano ai pazienti di raccontare il vissuto della propria<br />

malattia senza il timore di essere criticati o biasimati.<br />

Un tipo di relazione di questo genere sostiene e promuove<br />

il cambiamento di comportamento, la crescita personale,<br />

il benessere fisico e psicologico.


CAPITOLO 6<br />

Diventare partner<br />

Le interazioni con i nostri pazienti sono influenzate da ciò<br />

che ognuno di noi si aspetta dalla relazione.<br />

Probabilmente i pazienti si aspettano che noi risolviamo i<br />

loro problemi di salute o che diciamo loro cosa fare.<br />

D’altro canto, noi probabilmente ci aspettiamo che i<br />

pazienti seguano le nostre raccomandazioni o diventino<br />

responsabili della propria cura. Che siano rese esplicite o<br />

meno, le nostre aspettative sono sottese al contratto che<br />

forma la base di gran parte dell’assistenza e della formazione<br />

che noi forniamo. Anche se abbiamo iniziato a liberarci<br />

dal tradizionale approccio alle malattie acute, le<br />

nostre interazioni continuano a essere influenzate da queste<br />

aspettative di ruolo.<br />

Una delle maggiori differenze tra la relazione terapeutapaziente<br />

nel diabete e nelle malattie acute è la questione<br />

dell’expertise. Nelle malattie acute, il professionista, di<br />

solito, ha molte più conoscenze del paziente su quel problema.<br />

I pazienti devono affidarsi all’expertise del professionista.<br />

Questo non è il caso del diabete. Sia il paziente che il professionista<br />

sono portatori di un bagaglio di conoscenze,<br />

esperienze e abilità ugualmente importante per lo sviluppo<br />

di un programma di trattamento della malattia. Infatti non<br />

si può sviluppare un programma solido senza una di queste<br />

due componenti. Il professionista conosce il diabete, le<br />

varie opzioni di trattamento e le loro potenziali conse-<br />

63


64<br />

guenze per la salute. Il paziente è il massimo esperto della<br />

propria vita e si trova nella posizione migliore per decidere<br />

quale dei vari approcci al diabete è fattibile. Poiché il diabete<br />

comporta grandi cambiamenti nelle abitudini di vita<br />

del paziente, l’autoconsapevolezza è cruciale per lo sviluppo<br />

di un piano di autogestione. Questa è la ragione per cui<br />

le due parole ‘auto’ e ‘gestione’ sono state fuse per descrivere<br />

la cura del diabete giorno per giorno.<br />

Il fatto che nella relazione terapeuta-paziente quest’ultimo<br />

porti un expertise di uguale importanza rende possibile<br />

un vero rapporto di partenariato. Perché funzioni, tuttavia,<br />

è necessario che entrambe le parti riconoscano e<br />

rispettino l’expertise dell’altra. Questo tipo di collaborazione<br />

si distacca significativamente dalle reciproche<br />

aspettative di pazienti e professionisti incastonate nel tradizionale<br />

modello di cura per le malattie acute.<br />

“Siamo tutti angeli con una sola ala<br />

e possiamo volare solo abbracciandoci<br />

gli uni agli altri.<br />

Luciano de Crescenzo<br />

Il racconto di Kentaro<br />

Una donna di 70 anni, ipertesa, venne indirizzata al nostro<br />

dipartimento dal cardiologo a causa della glicemia elevata.<br />

Aveva 454 di glicemia e 15,1% di emoglobina glicata.<br />

Aveva perso peso (10 Kg negli ultimi 6 mesi) e si sentiva<br />

arsa dalla sete. Fu ricoverata per fare educazione al diabete.<br />

All’inizio le vennero prescritte quattro dosi di insulina al<br />

giorno per ridurre la glicemia. Dopo 10 giorni era scesa a<br />

due dosi al giorno e i valori di glicemia erano di-scretamente<br />

buoni. Finita la formazione doveva essere dimessa.<br />

Pensavamo di farle continuare l’insulina dopo la dimissione,<br />

ma respinse la nostra idea. Insistette per prendere<br />

delle pillole. Secondo lei, le iniezioni erano troppo complicate<br />

e avrebbero limitato la sua vita e ridotto la sua atti-<br />


vità quotidiana. Discutemmo la questione con lei molte<br />

volte. Sapevamo che era molto motivata a fare la dieta e<br />

l’esercizio fisico. Infatti, aveva già smesso di mangiare<br />

dolci e camminava ogni giorno un’ora. Alla fine accettammo<br />

la sua idea e facemmo un accordo: lei sarebbe ritornata<br />

a casa e avrebbe preso solo le pillole, ma, se questo non<br />

fosse stato sufficiente per controllare la malattia, avrebbe<br />

accettato di prendere l’insulina. La donna fu felice dell’accordo<br />

raggiunto e fu dimessa con una prescrizione di glibenclamide<br />

7,5 mg/die. All’uscita la sua glicemia era di<br />

127 a digiuno e di 194 due ore dopo la colazione.<br />

Noi tutti, a essere sinceri, pensavamo che non sarebbe<br />

riuscita a controllare il diabete senza l’insulina. Credevamo<br />

che presto o tardi sarebbe dovuto passare all’insulina. Ma<br />

lei fece davvero un buon lavoro! Controllò il suo diabete<br />

quasi alla perfezione. La sua emoglobina glicata scese gradualmente<br />

e rimase sotto il 6% per più di 10 mesi.<br />

In questo caso la questione più importante fu che noi<br />

accettammo la sua idea. Cercammo di dare ascolto alle<br />

sue idee sulla terapia e di non essere impositivi. Quando<br />

lei realizzò che la stavamo ascoltando con attenzione la<br />

sua motivazione a curarsi divenne maggiore.<br />

Kentaro Okazaki, medico<br />

Tenri, Giappone<br />

“Gli smarrimenti sono momenti<br />

in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi,<br />

qualcosa di sconosciuto; le nostre emozioni<br />

crescono mute in timida perplessità,<br />

tutto ci viene a mancare,<br />

un silenzio sopraggiunge, e il nuovo,<br />

che nessuno conosce, sta nel mezzo di questo,<br />

ed è muto.<br />

Rainer Maria Rilke<br />

“<br />

65


66<br />

Le aspettative dei professionisti e dei pazienti che riguardo<br />

la cura del diabete sono grandi e difficili da cambiare.<br />

Sono una parte fondamentale del nostro modo di percepire,<br />

al punto che spesso noi non ne siamo consapevoli.<br />

Non le vediamo, piuttosto vediamo il mondo attraverso di<br />

esse. L’incontro con i pazienti raramente comincia con il<br />

terapeuta che fa affermazioni del tipo: “In qualità di educator,<br />

io prenderò la responsabilità di risolvere i problemi<br />

di salute che voi non potete risolvere da soli. Dai pazienti<br />

invece mi aspetto che...”. I pazienti raramente iniziano<br />

una visita dicendo: “Sono qui oggi nel ruolo di paziente,<br />

e ciò che mi aspetto da voi come educator è ..., ciò che io<br />

mi impegno a fare come paziente è ...”.<br />

Il fatto che le nostre interazioni siano influenzate da<br />

aspettative implicite non è necessariamente un problema,<br />

a meno che non ci sia uno scollamento tra quelle aspettative<br />

e la realtà di quella specifica situazione. C’è, comunque,<br />

come abbiamo discusso prima, una fondamentale<br />

incompatibilità tra i ruoli tradizionali di paziente e terapeuta<br />

e la realtà dell’autogestione del diabete.<br />

Un modo per uscire da questo impasse è avere una franca<br />

e aperta discussione con i nostri pazienti riguardo alla<br />

natura del diabete: è una malattia autogestita che richiede<br />

ai pazienti e agli educator di ridefinire ruoli e aspettative.<br />

Oppure, possiamo scrivere la nostra filosofia di cura<br />

e spedirla ai pazienti prima di visitarli. Per esempio, possiamo<br />

incominciare dicendo ai nostri pazienti che vorremmo<br />

poterli sollevare dalla responsabilità della cura, ma<br />

con il diabete questo non è possibile. Possiamo lasciare<br />

che i pazienti capiscano che desideriamo contribuire con<br />

il nostro expertise clinico a portare questo peso, individuando<br />

i loro specifici problemi e collaborando con loro<br />

allo sviluppo di un piano di autotrattamento che si adatti<br />

veramente alla loro vita. Possiamo comunicare loro la<br />

nostra volontà di lasciare da parte i nostri giudizi e di<br />

ascoltare attentamente per comprendere il loro mondo,


perché sappiamo che è in quel mondo che prende corpo<br />

la terapia del loro diabete. Infine possiamo dire ai nostri<br />

pazienti che abbiamo bisogno del loro aiuto. Possiamo<br />

chiedere di considerare con attenzione i nostri suggerimenti.<br />

Sottolineare quanto sia importante per loro essere<br />

aperti e franchi con noi riguardo a ciò che vogliono fare e<br />

a ciò che sono in grado di fare nella gestione del diabete.<br />

In cambio possiamo promettere di rispettare il loro diritto<br />

a compiere scelte consapevoli, anche quando non siamo<br />

d’accordo con tutte le loro decisioni.<br />

Discutere i nuovi ruoli paziente-terapeuta e le aspettative<br />

reciproche può aiutare a stabilire un contesto per l’educazione<br />

al diabete che potrà durare nel tempo. Quanto<br />

saremo soddisfatti e quanto saremo efficaci dipenderà, in<br />

larga parte, da quanto strettamente il nostro comportamento<br />

e i suoi effetti saranno aderenti alle nostre aspettative.<br />

Lo stesso vale per i nostri pazienti. Stabilire un terreno<br />

comune con i pazienti, basato su un insieme di<br />

aspettative concordate reciprocamente, pone le basi per<br />

una collaborazione efficace, per una vera partnership.<br />

Domande per riflettere<br />

1) Cosa significa per voi stabilire un rapporto di collaborazione<br />

con un paziente?<br />

2) Se doveste iniziare una relazione (o scrivere la vostra<br />

filosofia di cura) sui ruoli e le responsabilità del paziente<br />

e del diabetes educator, cosa direste?<br />

3) Come fate a capire quando siete riusciti a stabilire un<br />

rapporto di collaborazione con un paziente?<br />

4) Cosa fate quando non riuscite a stabilire un rapporto<br />

collaborativo con un paziente?<br />

67


CAPITOLO 7<br />

Ascoltare può guarire<br />

“La conoscenza parla,<br />

la saggezza ascolta.<br />

Jimi Hendrix<br />

Se chiedessimo a un gruppo di diabetes educator: “Sapete<br />

come si fa ad ascoltare?” probabilmente risponderebbero<br />

affermativamente. Se chiedessimo: “Siete dei buoni ascoltatori?”,<br />

la grande maggioranza risponderebbe ancora sì.<br />

Eppure, mentre il paziente ci parla, noi pensiamo a cosa diremo<br />

appena avrà finito. Pensiamo: ”Cosa posso consigliare a<br />

questo paziente? Qual è la soluzione al suo problema?”.<br />

Stiamo in ascolto, è vero, ma di noi stessi, non del paziente.<br />

In realtà non saremo mai capaci di ascoltare attentamente<br />

fino a quando non ci libereremo dell’idea che, come<br />

diabetes educator, noi dobbiamo avere sempre una risposta.<br />

Questo può essere molto difficile. Anche dopo molti<br />

anni di esperienza con l’empowerment non ci siamo completamente<br />

liberati da un certo grado di ansia da prestazione<br />

quando interagiamo con un paziente. In una relazione<br />

di aiuto è quasi impossibile liberarci totalmente dall’idea<br />

che noi siamo responsabili di fare qualcosa che sarà<br />

importante per il paziente. Eppure, preoccupandoci di<br />

cosa faremo o diremo, riduciamo l’attenzione dedicata<br />

all’ascolto del paziente. La nostra esperienza ci ha insegnato<br />

che se noi ascoltiamo con attenzione, la direzione<br />

da seguire emergerà dalla storia stessa del paziente.<br />

“<br />

69


70<br />

“Parlare è un dono di natura, stare<br />

in silenzio un dono di saggezza.<br />

Anonimo<br />

Dana Reeve, la moglie dell’attore Christopher Reeve, ha<br />

pubblicato recentemente un libro con alcune delle molte<br />

lettere che essi hanno ricevuto dopo l’incidente al midollo<br />

spinale. Una di queste era di una donna che aveva avuto un<br />

incidente simile. Questa lettera suggeriva di trovare qualcuno<br />

a cui raccontare le loro paure più profonde. L’autrice<br />

raccomandava di scegliere qualcuno che non tentasse di<br />

rassicurarli o di dire loro che tutto era a posto, piuttosto<br />

qualcuno che semplicemente stesse ad ascoltarli.<br />

Quando ascoltiamo con partecipazione noi tentiamo strenuamente<br />

di concentrare la nostra attenzione sul paziente.<br />

Usiamo i nostri sensi, la nostra mente, il nostro cuore per<br />

cogliere, capire e valutare l’esperienza del nostro paziente.<br />

Prestiamo ascolto al significato delle sue parole, sia esplicite<br />

che implicite; cerchiamo di sintonizzarci sulle sue paure, speranze<br />

o preoccupazioni. Osserviamo le espressioni facciali e il<br />

linguaggio del corpo. Cerchiamo di percepire ogni cosa.<br />

Essere ascoltati in questo modo aiuta i pazienti a sentirisi<br />

accettati e compresi. Accade raramente alla maggior<br />

parte di loro di essere ascoltati senza essere giudicati o<br />

criticati. Ascoltare i pazienti senza giudicare è un atto di<br />

fratellanza. Comunica rispetto e riafferma la validità della<br />

loro esperienza. Ascoltare con attenzione i pazienti permette<br />

loro di abbassare le difese e di esplorare più a<br />

fondo la loro esperienza di vita con il diabete. Omettere il<br />

nostro consiglio, le nostre soluzioni e le nostre introspezioni<br />

permette di vedere e sentire più intensamente ciò<br />

che è vero per loro. La nostra attenzione indivisa e non<br />

giudicante serve da specchio nel quale i nostri pazienti<br />

possono vedersi per come realmente sono.<br />


“Il più grande dono<br />

che ognuno può fare al prossimo<br />

è la rapita attenzione<br />

all’esistenza dell’altro.<br />

Sue Atchley Ebaugh<br />

Il racconto di Marti<br />

Una delle mie prime esperienze di ascolto avvenne durante<br />

il periodo in cui studiavo da infermiera. Stavo rifacendo<br />

un letto, avevo sentito il pianto della donna nel letto<br />

accanto. Non sapevo cosa fare ma sentivo che non potevo<br />

lasciarla senza averle parlato. Mi disse che aveva un<br />

tumore al seno e che aveva appena subito una mastectomia.<br />

Era molto preoccupata per la reazione del marito e<br />

per ciò che sarebbe stato dei suoi figli se la prognosi non<br />

fosse stata favorevole. Poiché ero lì come allieva (e nessuno<br />

si aspettava che sapessi nulla), e poiché non sapevo<br />

cosa dirle, le feci semplicemente delle domande e l’ascoltai.<br />

Mentre parlavamo, l’infermiera che lavorava con le<br />

pazienti che avevano il cancro al seno entrò nella stanza.<br />

Mi scusai e ritornai a rifare il letto.<br />

Dopo aver ascoltato come interagiva con quella paziente,<br />

sentii che avevo sbagliato perché lei diede un mucchio di<br />

informazioni e di consigli. Continuò a dire alla paziente di<br />

non preoccuparsi, che tutti i mariti si adattano, e che i dottori<br />

le avrebbero parlato della prognosi. Eppure, capii che<br />

ognuna di queste risposte chiudeva la conversazione.<br />

Quando la paziente smise di piangere, lei smise anche di<br />

rispondere. Dopo che ebbe lasciato la stanza, la paziente<br />

mi chiese se volevo tornare e sedere sul letto ad ascoltarla<br />

per un po’. Le dissi che non ero esperta di queste cose, l’altra<br />

era l’esperta. La paziente mi disse: ”Ma tu sei stata ad<br />

ascoltarmi, e questo era ciò di cui ho veramente bisogno”.<br />

Quell’esperienza mi ha insegnato il grande potere dell’ascoltare<br />

e mi ha fatto capire che le parole importano meno<br />

della disponibilità ad ascoltare e a imparare.<br />

“<br />

71


72<br />

Lasciare che i nostri pazienti esplorino le loro esperienze<br />

senza la paura di essere interrotti o giudicati li aiuta a riconoscere<br />

ed esprimere le loro emozioni. I pazienti spesso<br />

capiscono quanto profondamente hanno a cuore le questioni<br />

legate al loro diabete. Problemi, obiettivi, barriere e strategie<br />

per il cambiamento spesso emergono spontaneamente.<br />

Liberi dal giudizio, i pazienti possono cominciare a vedere<br />

e a comunicare su un livello più profondo e autentico, e<br />

questa comunicazione porta naturalmente all’identificazione<br />

dei passi successivi da compiere. Noi possiamo aiutare i<br />

pazienti a chiedere a se stessi: “Cosa voglio realmente?<br />

Cosa dovrei fare per raggiungere i miei obiettivi?”. Essere<br />

capaci di esplorare e impostare correttamente questioni di<br />

questo genere può essere una meravigliosa esperienza.<br />

Nella nostra ricerca sull’educazione al diabete, abbiamo<br />

condotto molti focus group. Una delle cose che ha attirato<br />

la nostra attenzione è stata scoprire quanto gratificante<br />

fosse per i pazienti avere l’opportunità di partecipare.<br />

In genere coordiniamo otto, dodici pazienti per due ore<br />

invitandoli a parlare della propria esperienza di vita col<br />

diabete. La formula dei focus group prevede che il conduttore<br />

non influenzi gli atteggiamenti e le affermazioni<br />

dei membri del gruppo. Abbiamo condotto i gruppi chiedendo<br />

come fosse vivere con il diabete, ma non abbiamo<br />

proposto delle risposte o comunque mostrato approvazione-disapprovazione<br />

per le risposte dei pazienti.<br />

Questa strategia è stata usata per massimizzare l’autenticità<br />

e la sincerità delle risposte dei pazienti alle nostre<br />

domande. Dopo i focus group, quasi sempre i pazienti<br />

tornavano a dirci: “Grazie, sono state due ore meravigliose”.<br />

Abbiamo cominciato a realizzare quanto fosse importante<br />

per questi pazienti avere l’opportunità di parlare<br />

della loro vita col diabete in un’atmosfera che fosse di<br />

accettazione e non di giudizio. Che siamo pazienti o terapeuti,<br />

essere ascoltati significa essere rispettati, significa<br />

che la nostra esperienza ha valore.


“Ci si sente a casa lì dove<br />

si viene compresi.<br />

Christian Morgenstern<br />

L’ascolto attento dà l’opportunità inoltre ai pazienti di<br />

ascoltare se stessi. Spesso nelle situazioni difficili i pazienti<br />

si sentono intrappolati. E allora parlano di così tante<br />

questioni differenti che influenzano un problema che è<br />

facile essere sopraffatti dalla quantità di informazioni.<br />

Porre delle domande e fare il punto della situazione non<br />

solo ci aiuta a capire meglio il problema, ma aiuta anche i<br />

nostri pazienti a guadagnare in introspezione e chiarezza.<br />

Le soluzioni spesso emergono da questo processo.<br />

In fondo essere ascoltati con partecipazione e senza essere<br />

giudicati è terapeutico di per sé. Questo tipo di ascolto<br />

è come una carezza gentile alla psiche fragile e ferita di<br />

una persona con il diabete. Ascoltare qualcuno in questo<br />

modo è un atto di amore, e l’amore cura. L’ascolto partecipe<br />

può anche essere un modo per calmare la nostra<br />

stessa mente e lo spirito. Ascoltare veramente richiede (e<br />

permette) alle nostre menti di diventare serene. Può aiutare<br />

a restare in contatto con il centro del nostro essere in<br />

un modo più equilibrato e più olistico, sia nelle nostre vite<br />

personali che nelle nostre relazioni con i pazienti.<br />

Domande per riflettere<br />

1) Cosa vi passa per la testa quando ascolate i vostri<br />

pazienti?<br />

2) Quali barriere vi rendono difficile ascoltare i pazienti?<br />

3) Cosa facilita l’ascolto partecipato dei pazienti?<br />

4) Restare in silenzio per pochi secondi di fronte al paziente<br />

dopo che ha parlato vi mette a disagio?<br />

“<br />

73


Il segreto del cambiamento:<br />

aiutare i pazienti<br />

a riscrivere le loro storie<br />

In questa sezione presentiamo delle strategie per aiutare<br />

i pazienti a riscrivere la storia del loro diabete attraverso<br />

la riflessione sulle emozioni, la soluzione di problemi, e il<br />

cambiamento di comportamento.<br />

In che modo? Usando delle strategie che vi saranno certamente<br />

familiari. Le abbiamo imparate per scopi differenti,<br />

per indurre l’adesione dei pazienti al trattamento.<br />

Non sono le tecniche ma il modo in cui le usiamo che<br />

rispecchia la nostra adesione all’approccio empowerment.<br />

Lo scopo di queste strategie, per come sono<br />

descritte in questa sezione, è di aiutare i pazienti a prendere<br />

delle decisioni e responsabilità crescenti per la cura<br />

della loro malattia. Viene descritto come usare l’approccio<br />

empowerment per incoraggiare gli sforzi di cambiamento<br />

fatti autonomamente dai pazienti. Inoltre, viene<br />

anche proposto un modello di cambiamento di comportamento<br />

in cinque fasi.<br />

LE CINQUE FASI<br />

Identificare il problema<br />

Esplorare le emozioni<br />

Fissare gli obiettivi<br />

Fare un programma<br />

Valutare i risultati<br />

PARTE 3<br />

75


76<br />

Scomporre il processo in cinque fasi distinte rende più<br />

facile comprenderlo e impararlo. Con la pratica queste<br />

fasi diverranno parte del vostro abituale dialogo con il<br />

paziente. Imparare queste cinque fasi è come imparare a<br />

danzare. Ciò che all’inizio è meccanico diventa in seguito<br />

aggraziato e naturale in risposta alla musica. Ma non scordiamoci<br />

che in questa danza è il paziente che conduce.<br />

Perciò, una singola seduta potrà includere solo una delle<br />

cinque fasi, oppure tutte e cinque, a seconda delle questioni<br />

identificate dal paziente.


CAPITOLO 8<br />

Qual è il problema?<br />

“I mari senza onde non fanno<br />

esperti i marinai.<br />

Proverbio africano<br />

Dare un nome al problema<br />

Il primo passo nel processo di cambiamento è tirare fuori<br />

il problema. Come abbiamo detto precedentemente, le<br />

emozioni ci guidano e ci aiutano a definire il problema. Se<br />

noi non ci sentiamo male riguardo a una questione o<br />

situazione, allora non c’è problema. Chiedendo ai pazienti<br />

come si sentono riguardo ai vari aspetti della loro vita<br />

col diabete, noi possiamo arrivare alle questioni che costituiscono<br />

motivo di preoccupazione per loro. Talvolta questa<br />

discussione porta i pazienti a creare obiettivi e strategie<br />

per aiutarli a cambiare la loro storia. Altre volte questo<br />

li aiuta ad avere maggiore introspezione sul significato<br />

del problema. Queste introspezioni spesso conducono<br />

ai cambiamenti di comportamento.<br />

Una volta identificato, un problema richiede di essere esplorato<br />

approfonditamente prima che noi possiamo aiutare i pazienti<br />

a pensare delle soluzioni. Un modo per iniziare è chiedere al<br />

paziente: “Cosa possiamo fare insieme durante la visita?”.<br />

Alcuni pazienti hanno difficoltà a identificare obiettivi o<br />

risultati desiderati. Con questi pazienti possiamo incominciare<br />

dicendo: “Ditemi cosa è più difficile per voi dell’a-<br />

“<br />

77


78<br />

vere il diabete e doversene occupare?”. Se il tempo è<br />

limitato, spesso aggiungiamo:”Nei dieci minuti che<br />

abbiamo oggi”. Questo riconosce che la visita è a beneficio<br />

del paziente e colloca il paziente in posizione di controllo.<br />

È essenziale avere il tempo necessario per identificare<br />

quello che il paziente considera il suo maggiore problema.<br />

È un passaggio essenziale che è spesso saltato<br />

nella fretta di aiutare i pazienti a identificare gli obiettivi.<br />

È forte la tentazione di proporre soluzioni ai problemi prima<br />

di averne compreso la vera natura o la causa. Fallire nell’esplorare<br />

un problema in genere conduce a sentimenti di frustrazione<br />

sia per noi che per i nostri pazienti. Spesso siamo<br />

convinti di conoscere la soluzione di un problema dopo le<br />

prime fasi di un colloquio, per poi scoprire alcuni punti critici<br />

che né il paziente né noi avevamo adeguatamente considerato.<br />

La soluzione che alla fine il paziente è in grado di identificare<br />

si rivela molto diversa da ciò che inizialmente gli avevamo<br />

proposto.<br />

Particolari comportamenti di cura di sé (o mancanza di questi)<br />

sono spesso sintomi di un problema e non il problema<br />

stesso. Capire i sintomi non è la stessa cosa che capire la<br />

vera causa di un problema. Risolvere i sintomi in genere<br />

non è efficace. Il comportamento del paziente può cambiare<br />

temporaneamente, ma il problema che sta sotto si<br />

manifesta dopo con un altro sintomo comportamentale.<br />

Quando invitiamo i pazienti a esporre le loro storie stiamo<br />

esplorando il problema. Il nostro compito è di ascoltare e<br />

di porre domande che ci aiutino a comprendere cosa<br />

significhi per i nostri pazienti vivere con il diabete. La<br />

nostra empatia e la nostra curiosità ci aiutano a porre il<br />

genere di domande che portano al cuore del problema.<br />

Cominciare con il problema che il paziente ha identificato,<br />

comunica la nostra volontà di focalizzarci sulla sua<br />

scala di priorità. Inoltre, cercare di capire il punto di vista<br />

del nostro paziente ci aiuta a comprendere meglio quella<br />

persona e come vive la sua vita.


“Vivi le tue domande ora,<br />

e forse, persino senza saperlo,<br />

vivrai un giorno lontano le tue risposte.<br />

Rainer Maria Rilke<br />

DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />

A IDENTIFICARE I PROBLEMI<br />

Come è vivere con il diabete?<br />

Qual è la vostra maggiore preoccupazione?<br />

Cosa vi risulta più difficile nel prendervi cura del diabete?<br />

Cosa causa in voi più disagio o stress?<br />

Che cosa rende questo particolarmente difficile per voi?<br />

Perché credete che questo accada?<br />

Quando pensate a questo problema,<br />

cosa vi viene in mente?<br />

Questo è stato già in passato un problema per voi?<br />

È stato un problema anche al di fuori del diabete?<br />

Gail racconta<br />

Ann aveva il diabete da circa vent’anni. Da due anni lavoravo<br />

con lei. Aveva una retinopatia e una forma grave e dolorosa<br />

di neuropatia. Ann era molto adirata verso il suo diabete,<br />

verso se stessa e verso suo figlio. Quando cominciammo a<br />

discutere le sue abitudini alimentari e i livelli elevati di glicemia<br />

disse: “Mio figlio mi sta facendo impazzire! Tutto quello<br />

che voglio è mangiare”. Mentre mi parlava di suo figlio di tredici<br />

anni le lacrime apparvero nei suoi occhi. Suo figlio non<br />

voleva andare a scuola. Lei lo portava a scuola tutte le mattine.<br />

Lui entrava dalla porta principale e usciva da quella sul<br />

retro. Il giudice del tribunale dei minori aveva minacciato di<br />

comminarle una multa di 600 dollari ogni volta che suo figlio<br />

avesse marinato la scuola. Ann viveva di pensione di invalidità;<br />

non aveva i soldi per pagare neppure una di quelle multe.<br />

Il giudice arrivò anche a minacciare la galera per Ann. Lei<br />

“<br />

79


80<br />

aveva preso per il figlio un appuntamento dallo psicologo e<br />

lo aveva accompagnato in macchina, solo che lui si era rifiutato<br />

di scendere dalla macchina. Quando venne da me era il<br />

quinto giorno che il figlio non andava a scuola. Si rifiutava,<br />

semplicemente. Lei aveva chiamato la scuola per dire che il<br />

figlio non voleva saperne. Poi disse: “Se il giudice mi dà la<br />

multa, non potrò pagarla. Probabilmente mi manderà in<br />

galera. Non c’è niente da fare”. Ann è una mamma-single<br />

con un compagno che vive con lei. Lui non ha alcuna influenza<br />

sul comportamento del ragazzo. Inoltre, il figlio maggiore<br />

di Ann, con la sua ragazza e il loro bambino piccolo, vive<br />

nello stesso caseggiato di Ann. È appena uscito di prigione e<br />

Ann non vuole che venga coinvolto nell’educazione del fratello<br />

piccolo. Ha paura che possa scoppiare una lite violenta<br />

e il ragazzo più grande finirebbe di nuovo in prigione.<br />

“Non potremmo mai imparare a essere<br />

coraggiosi e pazienti,<br />

se nel mondo ci fosse soltanto la gioia.<br />

Helen Keller<br />

Ascoltai Ann che descriveva la sua vita, niente di più. Non<br />

riuscivo a immaginare come avrebbe potuto trovare la<br />

forza o le risorse per rendere la cura del diabete una priorità,<br />

dati i problemi che doveva affrontare giorno dopo<br />

giorno. Pensai anche quanto alto doveva essere il suo<br />

livello di stress e l’effetto che questo doveva avere sulla<br />

glicemia. Vista la gravità dei problemi che doveva affrontare,<br />

il meglio che potevo fare per lei era semplicemente<br />

stare dalla sua parte mentre descriveva la situazione.<br />

Quando le feci notare che gli alti livelli di stress contribuivano<br />

probabilmente alla sua glicemia, lei disse: “Io mangio<br />

in continuazione; lo so che questo è gran parte del<br />

problema”. Con mia grande sorpresa lei si concentrò sul<br />

diabete e cominciò a cercare una soluzione per controllarlo<br />

meglio.<br />


Disse: “L’ho già fatto una volta, lo posso fare di nuovo”.<br />

Intendeva il controllo. Una volta, in passato, aveva raggiunto<br />

un buon controllo della glicemia. Le chiesi cosa<br />

voleva fare. Mi rispose che voleva mangiare solo a orari<br />

prestabiliti. Mi disse che avrebbe scritto sul suo diario<br />

tutto quello che mangiava. Le fissai un appuntamento per<br />

la settimana seguente.<br />

È così che va molte volte mentre si aiuta i pazienti a realizzare<br />

l’autogestione. Ogni paziente raggiunge quello<br />

che vuole e che può raggiungere. Quello che io faccio è<br />

creare un’atmosfera che renda possibile ai pazienti esaminare<br />

e risolvere gli ostacoli da soli. La nostra relazione<br />

diventa un luogo protetto in cui il paziente può valutare e<br />

fissare i suoi obiettivi.<br />

Identificare le soluzioni<br />

Solo quando un problema è stato esplorato a fondo e<br />

chiarito, è tempo di muoversi e identificare le strategie per<br />

risolverlo. Per essere efficace una strategia non solo deve<br />

essere adatta al problema ma anche alla persona che ha<br />

quel problema. Possiamo pensare di conoscere le soluzioni<br />

per i problemi dei nostri pazienti, ma di sicuro non<br />

siamo noi quelli che implementeranno la soluzione.<br />

Quando sono i pazienti stessi a identificare le soluzioni ai<br />

loro problemi è più probabile che essi siano motivati al<br />

cambiamento e lavorino in quella direzione. Questo<br />

approccio rafforza anche la consapevolezza di poter risolvere<br />

i loro problemi con il diabete. Noi possiamo essere<br />

veramente di aiuto ai nostri pazienti ascoltando le loro storie,<br />

assistendoli nello scegliere le soluzioni disponibili e<br />

discutendo i possibili risultati di ogni opzione.<br />

Le soluzioni offerte da altre persone raramente porteranno<br />

la motivazione necessaria per costruire e mantenere un<br />

cambiamento di comportamento. Avete mai condiviso un<br />

problema con un amico che vi ha detto: ”Ecco cosa dovresti<br />

fare”? La maggior parte di noi semplicemente annuisce<br />

81


82<br />

e dice: ”Va bene”, ma nel frattempo pensa che l’altro o<br />

l’altra non hanno idea di cosa significhi realmente quel<br />

problema e che la soluzione proposta non funzionerà.<br />

Molti pazienti mostreranno consenso a una serie di azioni<br />

proposte anche se non hanno alcuna intenzione di metterle<br />

in pratica, semplicemente perché vogliono mantenere il<br />

più possibile la relazione priva di conflitti. Benché questo<br />

vada contro molti dei nostri principi come professionisti<br />

della salute, possiamo dare un contributo significativo<br />

rimettendoci a sedere e lasciando che le storie dei pazienti<br />

si srotolino davanti a noi.<br />

perplessità è l’inizio della conoscenza.<br />

Kahlil Gibran<br />

““La<br />

Cheryl racconta<br />

Erma venne inviata da un assistente sociale ai corsi di diabete<br />

del nostro Centro. Il diabete non era una cosa nuova per<br />

lei ma stava attraversando un momento molto critico della<br />

sua vita. La sua glicemia era veramente fuori controllo. Il figlio<br />

maggiore di Erma aveva stretto delle cattive amicizie. Molto<br />

preoccupata per lui, lo aveva mandato a vivere con dei<br />

parenti in un altro Stato. Circa due settimane prima del<br />

nostro incontro suo figlio (mentre viveva con questi parenti)<br />

venne ucciso in uno scontro a fuoco.<br />

Nonostante stesse attraversando una fase assolutamente<br />

negativa della sua vita, Erma fu composta e in grado di<br />

parlare del suo diabete quando arrivò al corso. Sapeva<br />

che lo stress che stava vivendo faceva salire la sua glicemia.<br />

Ci disse anche di aver portato con sé una bottiglia<br />

d’acqua con dello zucchero perché era assetata e desiderava<br />

bere qualcosa di dolce. Tutto il corso mostrò preoccupazione<br />

per gli effetti negativi che l’acqua zuccherata<br />

aveva sulla sua glicemia. Nella bottiglia Erma aveva<br />

messo un quarto di tazza (circa 60 grammi) di zucchero,<br />

non un cucchiaino!


Volendo rendersi utile, la classe diede a Erma molti suggerimenti<br />

per aiutarla a consumare meno calorie vuote. Una soluzione<br />

possibile era di provare con una bevanda dolcificata<br />

senza zucchero. Un’altra era di mettere un dolcificante al<br />

posto dello zucchero nella sua bottiglia. Erma stava ad ascoltare<br />

i vari suggerimenti che provenivano dal gruppo. Benché<br />

non sembrasse soddisfatta da nessuna delle soluzioni proposte,<br />

acconsentì a provare a bere qualcosa di meno dannoso.<br />

Disse anche che sarebbe ritornata la settimana seguente.<br />

E così fu. Erma tornò e condivise alcune delle sue emozioni<br />

sulla morte del figlio. Poi sorprese tutti spiegando con chiarezza<br />

i motivi per cui beveva acqua zuccherata. Il desiderio<br />

per qualcosa di dolce, disse, non era la cosa più importante.<br />

Era il sapore dell’acqua della sua zona che non le piaceva. La<br />

discussione che ne seguì fu incentrata sui differenti sapori<br />

dell’acqua nelle diverse zone di residenza. L’acqua potabile<br />

di alcune zone venne giudicata indubitabilmente più gradevole.<br />

Benché Erma stesse vivendo un grande dolore, fu in<br />

grado di trovare la soluzione prima dell’incontro successivo.<br />

Nessuno avrebbe potuto indovinare la sua soluzione.<br />

Comprò grandi quantità di acqua purificata. Aveva una bottiglia<br />

a casa e una a casa del suo compagno. Inutile dire che la<br />

sua glicemia scese immediatamente.<br />

Tutti festeggiammo il suo successo!<br />

Cheryl Tannas, Infermiera<br />

Detroit, Michigan - USA<br />

Perché sembra così naturale risolvere i problemi per i nostri<br />

pazienti anziché aiutarli a trovare da soli le loro soluzioni?<br />

Perché vogliamo renderci utili, e abbiamo imparato che rendersi<br />

utili significa risolvere i problemi. Ci sentiamo bene alla<br />

fine di un incontro perché abbiamo risolto il problema. Ma a<br />

volte noi sappiamo che il paziente non ha intenzione di provare<br />

il nostro programma, e allora ci sentiamo inutili e perdenti.<br />

Pensate al problema che avete identificato per usarlo in questa<br />

sezione. Ricordate le vostre risposte alle persone che ave-<br />

83


84<br />

vano offerto soluzioni al vostro problema? Avete condiviso il<br />

problema per trovare una soluzione o per avere qualcuno che<br />

realmente vi stesse ad ascoltare? Pensate sinceramente che<br />

l’altra persona potrebbe risolvere il problema per voi? Chi si<br />

sente meglio alla fine dell’interazione? Spesso è la persona<br />

che offre consigli piuttosto che quella che li riceve.<br />

Avete mai avuto dei pazienti che dicono: “Sì, ma ...” ogni<br />

volta che voi offrite una soluzione o una strategia per<br />

risolvere il loro problema? È molto frustrante sentirsi spiegare<br />

perché ognuna delle soluzioni che proponiamo non<br />

può funzionare. È anche frustrante per i pazienti che<br />

vedono le soluzioni che noi proponiamo come irrilevanti o<br />

irraggiungibili. I pazienti probabilmente resistono ai nostri<br />

consigli quando avvertono una pressione al cambiamento<br />

prima che essi siano preparati a farlo. Come avete probabilmente<br />

sperimentato con i vostri amici si ha l’impressione<br />

che l’interlocutore in realtà non capisca quanto difficile<br />

è il problema oppure vi ritenga incapaci di risolvere da<br />

soli i vostri problemi.<br />

Uno degli indizi più importanti che una relazione con un<br />

paziente non sta andando bene è quando ci accorgiamo<br />

che siamo noi a parlare di più. Esperienze di questo tipo<br />

ci hanno insegnato a chiederci: “Credo veramente che<br />

questa persona sia incapace di trovare una strada per<br />

impostare i suoi problemi?”. La risposta: “Sì, ma...” ai<br />

nostri consigli può originare, in parte, da come il paziente<br />

vede la sua relazione con l’educator. Il paziente può<br />

resistere al nostro consiglio per mostrare di mantenere il<br />

controllo della relazione e della cura della sua malattia.<br />

Oppure, può essere un tentativo di provare a noi e a lui<br />

che non è per ‘colpa’ sua che non ha cambiato comportamento.<br />

Quando riusciamo a essere non giudicanti e riconosciamo<br />

che il paziente ha il controllo della situazione,<br />

questa resistenza smette di essere necessaria.<br />

Molte volte i pazienti riescono a identificare i problemi, eppure<br />

sembrano non voler prendere alcuna iniziativa. Ascoltando


i problemi degli altri, è molto facile pensare che se quello<br />

fosse un nostro problema noi vorremmo assolutamente risolverlo.<br />

Ma risolvere i problemi implica fare dei cambiamenti, e<br />

i cambiamenti possono essere molto dolorosi. Talvolta ci<br />

sembra più sicuro e più facile tenerci il problema piuttosto<br />

che cambiare e crearne, magari, degli altri.<br />

Le persone possono anche sentirsi in colpa per non voler<br />

cambiare. Non vogliamo cambiare, ma non possiamo dichiararlo<br />

apertamente. Qualche volta i nostri pazienti affrontano<br />

questo dilemma dimostrando che nessuna delle possibili<br />

soluzioni funziona. Avete avuto dei pazienti che vengono da<br />

voi tutte le volte esattamente con lo stesso problema, ma che<br />

non sembrano fare nulla per superarlo? Questi pazienti suonano<br />

come un disco graffiato e drenano le nostre energie. I<br />

loro tentativi di cambiare sono disegnati per placare altri e<br />

per evitare le critiche e il biasimo. In queste situazioni, possiamo<br />

aiutarli a riconoscere che non sono pronti o capaci a<br />

cambiare un particolare comportamento.<br />

Lynn racconta<br />

La mia paziente era una vedova di sessant’anni con un diabete<br />

di tipo 2. Mi disse che doveva perdere peso. Aveva<br />

anche un’artrite grave e doveva farsi cucinare i pasti dalla<br />

donna con cui condivideva la casa. Benché avesse identificato<br />

quali comportamenti mettere in atto per perdere<br />

peso, mi disse che non ci sarebbe mai riuscita a causa della<br />

resistenza della sua compagna. Per esempio, disse che<br />

avere nello stesso frigorifero una confezione di latte intero<br />

e una di latte scremato era ‘troppo separatista’. Dopo una<br />

lunga discussione l’affrontai con gentilezza e le chiesi se<br />

perdere peso era per lei veramente una priorità. La rassicurai<br />

sul fatto che non doveva perdere peso per farmi piacere.<br />

Mi disse che il rapporto con la sua amica era cruciale<br />

per lei. Temeva di non riuscire a cavarsela da sola nel caso<br />

si fosse arrabbiata e l’avesse lasciata. E così si concentrò su<br />

altre aree dell’autogestione su cui lavorare.<br />

85


86<br />

Riflettete sulle vostre esperienze con un problema<br />

1) Come arrivate a definire il problema?<br />

2) La vostra definizione delle cause del problema cambia<br />

nel tempo?<br />

3) La vostra comprensione delle cause del problema cambia<br />

nel tempo?<br />

4) Cosa imparate sul problema e su voi stessi mentre ci<br />

lavorate sopra?<br />

5) Ciò che avete imparato vi è di aiuto nel lavoro con i<br />

pazienti?<br />

(Per esempio, forse avete imparato che il solo sapere che<br />

dovete fare esercizio non è abbastanza per voi per farne<br />

una priorità.)<br />

Domande per riflettere<br />

1) Come rispondete quando i vostri pazienti identificano<br />

diversi seri problemi nella gestione del loro diabete o<br />

nella loro vita?<br />

2) Quanto spesso avvertite un forte desiderio di offrire<br />

consigli quando un paziente vi presenta dei problemi?<br />

3) Pensate sia vostro compito risolvere questi problemi<br />

per i pazienti? Perché? Oppure, perché no?


CAPITOLO 9<br />

Come viene vissuto?<br />

Identificare le emozioni<br />

Il secondo passo nell’approccio empowerment è aiutare i<br />

pazienti a identificare le loro emozioni riguardo al diabete<br />

e, in particolare, il comportamento (o il problema) che<br />

essi sperano di cambiare. I pensieri e le emozioni sono<br />

importanti perché il nostro comportamento è in genere<br />

un’espressione di come ci sentiamo e di cosa pensiamo.<br />

Tutti abbiamo visto pazienti così arrabbiati per il fatto di<br />

avere il diabete che passano tutto il loro tempo nel combatterlo<br />

al punto di non essere capaci di gestirlo.<br />

Abbiamo anche incontrato pazienti che sembrano affrontare<br />

il diabete dal verso giusto. A volte possono avere<br />

anche sentimenti negativi sul diabete, ma generalmente<br />

sono capaci di viverci insieme in pace e armonia.<br />

Le emozioni negative possono essere dolorose<br />

La maggior parte di noi ritiene di essere efficace nell’aiutare<br />

i pazienti a identificare e gestire le emozioni correlate<br />

al diabete e al suo trattamento. Tuttavia, quando rivediamo<br />

i filmati delle sedute educator-paziente ci accorgiamo<br />

che quando i pazienti fanno delle affermazioni cariche<br />

di emozioni, queste sono spesso trascurate. La maggior<br />

parte di noi prova un certo disagio nel trattare forti<br />

sentimenti negativi. Talvolta noi superiamo il disagio passando<br />

subito alla fase della identificazione degli obiettivi<br />

senza esplorare in profondità le emozioni del paziente o<br />

87


88<br />

DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />

A IDENTIFICARE LE EMOZIONI<br />

Come vi sentite riguardo<br />

a ____________________________________________? *<br />

Cosa pensate riguardo<br />

a ____________________________________________?<br />

Come vi sentite se le cose non cambiano?<br />

Potete raccontare una storia su questa situazione,<br />

incluso come vi sentite riguardo a ciò?<br />

*Alcuni pazienti hanno difficoltà a rispondere a domande su<br />

come si sentono perché non sono abituati a parlare delle loro<br />

emozioni. Abbiamo visto che quando chiediamo a questi<br />

pazienti di dirci cosa pensano del problema la loro risposta<br />

speso rivela come si sentono.<br />

l’influenza che hanno sul loro comportamento. Un altro<br />

modo per evitare le emozioni è fornire informazioni o<br />

porre domande incongrue in risposta a un’affermazione<br />

carica di emozioni fatta dal paziente. Per esempio, un<br />

paziente dice: “Io detesto questa dieta!”. E noi rispondiamo:<br />

“Quante calorie sta assumendo?”. Questo tipo di<br />

risposta in genere non aiuta il paziente, ma può mantenere<br />

la discussione su binari tradizionali. Se il paziente ha<br />

delle forti emozioni sul fatto di essere differente o di<br />

dover rinunciare al suo cibo preferito, una esplorazione in<br />

profondità di questi stati d’animo è necessaria prima di<br />

qualsiasi discussione sui livelli di calorie o sui particolari<br />

del piano alimentare.<br />

È possibile che troviamo difficile rispondere alle emozioni<br />

se vediamo le emozioni negative come problemi da risolvere.<br />

Quando i pazienti rivelano emozioni negative noi<br />

potremmo credere sia nostro compito aiutarli a stare<br />

meglio. Ma le emozioni non sono problemi da risolvere.<br />

Non possiamo buttare via le emozioni negative o far stare


meglio i pazienti con il diabete, non più di quanto possiamo<br />

causare un cambiamento nel comportamento di un<br />

paziente. La tentazione è di concentrarsi sulle aree dove<br />

ci sentiamo più competenti, come il controllo della glicemia.<br />

È facile per noi sentirci inadeguati quando i pazienti<br />

identificano un grande numero di problemi e noi ci sentiamo<br />

responsabili di risolverli tutti.<br />

Il racconto di Hitoshi<br />

Un giovane uomo di trent’anni con un diabete di tipo 1<br />

venne ricoverato nel nostro ospedale per un ascesso alla<br />

gamba. Aveva avuto un episodio di chetoacidosi all’età di<br />

tre anni. La sua emoglobina glicata recente era di 11%,<br />

ma, come disse: “Non voglio seguire una dieta tanto disgustosa.<br />

Io aggiusto sempre la dose di insulina quando<br />

voglio bere alcolici. Lasciatemi in pace. Non mi curo del<br />

mio diabete, per niente”. Restammo ad ascoltarlo senza<br />

alcun commento. Cominciò a parlare delle sue emozioni:<br />

“Avrei preferito essere morto quando avevo tre anni. Tutti<br />

questi anni sono stati solo anni di sofferenza” e così di<br />

seguito. Mentre davamo valore ai suoi sentimenti, gli<br />

dicemmo: “Puoi cominciare con qualcosa che vuoi fare”.<br />

Qualche giorno dopo disse: “Mi è stato imposto: ‘Non<br />

mangiare questo, non mangiare quello’ sin da quando ero<br />

piccolo. Sono diventato insofferente nella gestione del<br />

mio diabete, ma voi non mi avete accusato di imbrogliare.<br />

Voi state cercando di lasciarmi fare per prima la cosa<br />

che io voglio fare. Mi avete incoraggiato a lavorare sui<br />

problemi che hanno un significato per me. Ora sono pronto”.<br />

Fece un cambiamento davvero notevole. Non solo<br />

incoraggiò un altro paziente, una ragazza che aveva perso<br />

la vista, ma partecipò anche a un campo scuola per ragazzi<br />

con diabete. Alla dimissione disse: “Il mio risentimento<br />

di trent’anni verso il diabete è sparito. Ho compreso che<br />

sono in grado di dare incoraggiamento ai ragazzi con il<br />

diabete vivendo la mia vita in pieno”.<br />

89


90<br />

“Solo nell’oscurità si possono<br />

vedere le stelle.<br />

Anonimo<br />

Quando sviluppiamo il negativo compare l’immagine<br />

Possiamo aiutare i pazienti a usare i loro pensieri e le loro<br />

emozioni negative come motivazione per il cambiamento.<br />

Il più delle volte, quando operiamo dei cambiamenti nella<br />

nostra vita, è perché siamo scontenti di qualcosa. Se tutto<br />

va bene, non c’è nessuna spinta al cambiamento. Il diabete,<br />

però, induce spesso le persone a percepire i cambiamenti<br />

come imposti. È probabile che non vedano i loro<br />

comportamenti e stili di vita sotto una luce negativa e<br />

quindi non abbiano alcuna motivazione a cambiarli.<br />

Possiamo aiutare i pazienti a identificare i sentimenti che<br />

sviluppano quando viene detto loro di cambiare, e quindi<br />

esplorare come questi sentimenti influenzino il loro comportamento.<br />

“Ci sono ragioni del cuore<br />

che la ragione non conosce.<br />

Pascal<br />

Per esempio, in risposta all’affermazione precedente sull’odio<br />

per la dieta, possiamo domandare: “Sembra che voi<br />

proviate della rabbia verso il vostro piano alimentare.<br />

Perché pensate che ciò accada?”. Questo tipo di reazioni<br />

da parte nostra implica un riconoscimento rispettoso del<br />

paziente e dei suoi sentimenti. Muove l’interazione verso il<br />

cuore del problema e accresce la probabilità che il paziente<br />

abbia un’introspezione che lo conduca al cambiamento.<br />

D’altro canto, se noi diciamo cose del tipo: “Oh, non è poi<br />

così cattiva. Non proccupatevi troppo. State andando<br />

bene.” noi svalutiamo l’esperienza del paziente, il che in<br />

genere preclude ogni discussione su ciò che realmente<br />

“<br />


preoccupa il paziente. Possiamo anche credere che affermazioni<br />

di questo tipo siano confortanti e rassicuranti, ma<br />

nella nostra esperienza, in genere sono percepite come<br />

sottovalutazioni delle emozioni del paziente. In genere<br />

facciamo affermazioni simili in risposta al nostro disagio<br />

nei confronti delle emozioni. Andare al cuore del problema<br />

è necessario prima di qualsiasi discussione sugli obiettivi<br />

se vogliamo che il cambiamento di comportamento<br />

abbia successo. Siano benvenute le emozioni forti. Non<br />

c’è miglior guida al cuore del problema.<br />

Riflettete sulle vostre esperienze<br />

Pensate a un cambiamento significativo apportato alla<br />

vostra vita:<br />

1) Le vostre emozioni hanno influenzato il vostro comportamento?<br />

Prima del cambiamento, durante o dopo?<br />

2) Tra ciò che hanno fatto gli altri per voi, cosa è stato<br />

utile (e cosa inutile) nel gestire le vostre emozioni<br />

prima, durante e dopo il cambiamento?<br />

3) Cosa avete imparato nel vostro lavoro con i pazienti?<br />

“Nessuno vede che alcune persone<br />

spendono enormi energie soltanto<br />

per essere normali.<br />

Albert Camus<br />

Domande per riflettere<br />

1) Come mi sento quando i pazienti esprimono delle emozioni<br />

positive? E negative?<br />

2) Come reagisco in genere di fronte a manifestazioni emotive<br />

da parte del paziente?<br />

3) Cosa posso fare per imparare a rispondere alle forti emozioni<br />

di altre persone in modo calmo e non giudicante?<br />

“<br />

91


CAPITOLO 10<br />

Cosa si vuole ottenere?<br />

Avete mai provato a lavorare con qualcuno che ha obiettivi<br />

differenti? Come vi siete sentiti? Frustrati? Adirati? Avete mai<br />

sentito che, nonostante stiate cercando di raggiungere i<br />

vostri obiettivi, i vostri sforzi vengono sempre criticati e affossati?<br />

Questo accade spesso nell’educazione al diabete, da<br />

ambo le parti. Noi sentiamo spesso dire dai pazienti e dai<br />

terapeuti: “Ci sembra di non andare né avanti né indietro”.<br />

Fissare degli obiettivi è un mezzo sempre più utilizzato nell’educazione<br />

al diabete per raggiungere degli standard<br />

educazionali, ma molto prima che i professionisti della<br />

salute prestassero attenzione a questo aspetto, i pazienti<br />

avevano già degli obiettivi per il trattamento del loro diabete.<br />

È solo che noi non riuscivamo a tirarli fuori! Al massimo<br />

facevamo delle congetture su quali dovessero essere.<br />

Quando cerchiamo di fissare degli obiettivi per i pazienti<br />

o quando cerchiamo di condurli a vedere la bontà dei<br />

nostri obiettivi, è possibile che sia noi che loro incontriamo<br />

uno scacco. In fondo la non-compliance potrebbe<br />

essere definita come due persone che lavorano con obiettivi<br />

diversi. Per esempio, un paziente può avere come<br />

obiettivo il non doversi alzare di notte per andare in<br />

bagno. Se il nostro obiettivo per lo stesso paziente è che<br />

perda dieci chili, abbia una glicemia normale e smetta di<br />

fumare, allora saremo entrambi frustrati. Quanto successo<br />

avete avuto nell’indurre il vostro coniuge a cambiare e<br />

raggiungere gli obiettivi che voi avete fissato per lui? È<br />

93


94<br />

ragionevole aspettarci che i nostri pazienti, con cui passiamo<br />

meno tempo e abbiamo relazioni meno personali,<br />

vogliano fare cambiamenti duraturi per compiacerci?<br />

Cominciamo a creare un clima favorevole al cambiamento<br />

stabilendo una partnership con ogni paziente. Noi gettiamo<br />

le basi del cambiamento quando aiutiamo i nostri pazienti a<br />

comprendere i loro obiettivi e come raggiungerli. Aiutiamo i<br />

pazienti a concentrarsi sull’individuazione degli obiettivi solo<br />

dopo che abbiamo prestato ascolto alla loro esposizione dei<br />

problemi, abbiamo compreso il loro punto di vista e sentito<br />

le loro emozioni riguardo a esso. Nella nostra esperienza l’identificazione<br />

degli obiettivi, per avere successo, deve scaturire<br />

dal racconto del paziente ed esprimere il suo desiderio<br />

di risolvere il problema. Gli obiettivi devono nascere dal<br />

paziente e appartenergli.<br />

Può essere impegnativo aiutare i nostri pazienti a fissare<br />

obiettivi che siano significativi per loro stessi. Talvolta i<br />

pazienti vogliono fissare obiettivi che noi sappiamo troppo<br />

ambiziosi. Altre volte i pazienti fissano degli obiettivi che<br />

non sono compatibili con gli standard di trattamento o<br />

con quanto noi pensiamo sia meglio per loro. Siamo arrivati<br />

a comprendere che è prerogativa del paziente fissare<br />

i propri obiettivi, mentre è nostro compito assicurarci che<br />

abbia compreso i vantaggi e gli svantaggi delle sue decisioni.<br />

Questo non riduce le nostre responsabilità verso i<br />

pazienti. Per esempio, se un paziente rifiuta di farsi trattare<br />

un’ulcera al piede, noi dobbiamo sottolineare le conseguenze<br />

probabili di questa scelta. Allo stesso tempo, dobbiamo<br />

riconoscere che non siamo in grado (né abbiamo il<br />

potere) di far fare al paziente ciò che noi vogliamo.<br />

Ogni volta che apportiamo dei cambiamenti significativi nella<br />

nostra vita, noi perdiamo delle cose (cioè affrontiamo dei<br />

costi) e ne guadagnamo delle altre (otteniamo dei benefici).<br />

Operiamo il cambiamento solo quando i benefici superano i<br />

costi. Solo la persona che vive il problema può decidere se<br />

un cambiamento merita o no lo sforzo. Identificare gli obiet-


tivi non deve essere un modo nascosto di imporre le nostre<br />

aspettative al paziente. Ascoltiamo ciò che i nostri pazienti<br />

veramente dicono e aiutiamoli a pesare i costi e i benefici.<br />

Una volta compresi gli obiettivi dei nostri pazienti, li possiamo<br />

usare per disegnare lo schema di educazione e trattamento.<br />

Il racconto di Felipe<br />

Raul, un muratore di cinquantun anni lamentava di essere<br />

sempre stanco. Lo bombardammo con domande e suggerimenti.<br />

Qualcuno corse a prendere una striscia reattiva per<br />

verificare il nostro sospetto che il suo affaticamento fosse<br />

causato da una glicemia alta. Era così. Alcuni partecipanti<br />

gli consigliarono di rivedere con cura il suo piano alimentare,<br />

altri di fare dell’esercizio fisico, altri ancora di comprarsi<br />

un glucometro e misurare la glicemia giornalmente.<br />

Benché tutte queste idee fossero giuste da un punto di<br />

vista clinico, nessuno di loro gli chiese di spiegare meglio<br />

perché la stanchezza lo preoccupasse così tanto. Ci raccontò<br />

che il suo obiettivo era di superare la ridotta capacità<br />

lavorativa che aveva avuto negli ultimi mesi. Il suo<br />

obiettivo non era abbassare la glicemia o perdere peso o<br />

rivedere il suo piano alimentare. Il suo vero obiettivo era<br />

essere capace di piastrellare più metri quadri, di fare più<br />

bagni o soggiorni nella giornata. Quando realizzammo<br />

che la sua necessità più pressante era tornare a fare bene<br />

il suo lavoro, allora fummo in grado di modellare i nostri<br />

consigli clinici sui suoi obiettivi. Raul ci aiutò a imparare<br />

ad apprezzare l’importanza dei suoi obiettivi per lui.<br />

Passammo al vaglio diverse possibilità con lui e alla fine ci<br />

lasciò con un programma che rispondeva alle sue necessità.<br />

Fino a quando noi non fummo capaci di focalizzare la<br />

nostra discussione sul problema e gli obiettivi del paziente,<br />

per lui eravamo completamente inutili.<br />

Felipe Vazquez, Psichiatra<br />

Città del Messico, Messico<br />

95


96<br />

Il rinforzo può aiutare le persone a sostenere un cambiamento.<br />

Però, se noi usiamo la nostra approvazione come<br />

forma di rinforzo, è molto facile scivolare in una relazione<br />

con i pazienti in cui li incoraggiamo a fare le cose che<br />

vogliamo che essi facciano e li scoraggiamo a fare quelle<br />

che vediamo come negative. Quando valorizziamo il ‘conquistare<br />

la nostra approvazione’, implicitamente introduciamo<br />

nella relazione la ‘paura della nostra disapprovazione’. I<br />

pazienti quindi saranno felici di incontrarci quando pensano<br />

di aver fatto bene, ma ci eviteranno quando pensano di aver<br />

fallito. Ma noi vorremmo che i nostri pazienti ci dicessero<br />

come si sentono, non importa cosa sia accaduto. Vogliamo<br />

che si sentano apprezzati e rispettati da noi indipendentemente<br />

dai loro risultati di autogestione del diabete. Una<br />

volta comunicata questa accettazione ai pazienti, noi siamo<br />

in grado di creare un clima migliore per il cambiamento.<br />

Oltre a danneggiare la relazione, la nostra approvazione-disapprovazione<br />

può negare e svalutare il giudizio di un paziente<br />

riguardo a un obiettivo. Per esempio, un paziente dice: “Ho<br />

perso un chilo”, noi diciamo: “Ottimo!”, ma questo è il nostro<br />

giudizio. Non prendiamo in considerazione cosa il paziente<br />

sperava di ottenere (magari il suo obiettivo era di perdere<br />

cinque chili), come si è sentito nei confronti dei risultati (o nei<br />

confronti della mancanza di risultati), o cosa ha imparato da<br />

quell’esperienza. Se un paziente dice: “Ho preso un chilo in<br />

vacanza” e noi rispondiamo: “Non è grave, molti ne prendono<br />

due”, noi definiamo il significato di quell’esperienza e<br />

neghiamo al paziente l’opportunità di dirci cosa quell’esperienza<br />

ha significato per lui o lei.<br />

Preferiamo invece riconoscere gli sforzi e il lavoro continuativo<br />

dei nostri pazienti piuttosto che un particolare<br />

risultato. Questo approccio sostiene l’idea che è il paziente<br />

il decisore principale. Per esempio, potremmo dire:<br />

“Avete lavorato sodo per portare giù la vostra emoglobina<br />

glicata. So che è stata una battaglia per voi e vi ammiro,<br />

per la vostra volontà e per la vostra tenacia”.


Vantaggi e svantaggi<br />

dell’identificazione degli obiettivi<br />

Come in tutte le strategie, ci siamo resi conto che ci sono<br />

vantaggi e svantaggi nel lasciar fissare ai pazienti i propri<br />

obiettivi. Gli svantaggi includono il tempo necessario per<br />

formare i pazienti a fissare degli obiettivi personali, anche<br />

se questo aumenta notevolmente la probabilità che essi li<br />

raggiungano. Dobbiamo anche mettere da parte il nostro<br />

bisogno di avere il controllo della situazione, il nostro<br />

vederci come risolutori di problemi o, almeno, come quelli<br />

che aiutano i pazienti a fare ciò che noi sappiamo essere<br />

‘la cosa giusta’. Inoltre, scegliere da soli i propri obiettivi<br />

dà ai pazienti la possibilità di dire ‘no’ agli obiettivi di<br />

trattamento fissati dal terapeuta.<br />

Ci sono però dei benefici in un processo centrato sul<br />

paziente. Innanzi tutto si riduce il tempo che noi dobbiamo<br />

spendere per cercare di fare l’impossibile: motivare i<br />

pazienti ad attuare cambiamenti che noi consideriamo<br />

importanti ma loro no. Inoltre, aumenta la probabilità che<br />

i pazienti cambino i loro comportamenti in modo positivo,<br />

il che ci aiuta a sentirci efficaci. Questo approccio aiuta<br />

anche i pazienti a vedere che il cambiamento è possibile<br />

e rafforza la nostra relazione nel ruolo di partner del cambiamento<br />

della loro storia.<br />

Alla fine del capitolo precedente vi abbiamo chiesto di<br />

ripensare a un cambiamento significativo che avete operato<br />

nella vostra vita. Se rifletterete su quel cambiamento,<br />

valuterete se la vostra personale motivazione verso quell’obiettivo<br />

sia stata una forza determinante nel vostro<br />

desiderio e nella vostra capacità di operare il cambiamento.<br />

Gli obiettivi decisi dai pazienti danno chiare e<br />

specifiche indicazioni.<br />

97


98<br />

Come fissare gli obiettivi<br />

Cominciamo aiutando i pazienti a fissare una o due aree<br />

ad alta priorità che essi vogliono cambiare (obiettivi a<br />

lungo termine). Poi li aiutiamo a fare un programma identificando<br />

le fasi del cambiamento di comportamento<br />

(obiettivi a breve termine) correlati a quelle aree. Per<br />

esempio, se un paziente ha identificato il peso come un<br />

problema che causa disagio, perdere peso può essere l’obiettivo<br />

a lungo termine con due fasi di cambiamento a<br />

breve: abitudini alimentari e attività fisica.<br />

Quasi tutti i pazienti necessitano di informazioni su come<br />

fissare gli obiettivi e come impostare un programma per<br />

raggiungerli. Alcuni possono avere delle difficoltà nell’identificare<br />

gli obiettivi perché non sono abituati a pensare<br />

alla propria salute in termini di problemi e di obiettivi. Può<br />

essere di aiuto iniziare chiedendo ai pazienti di indicare le<br />

loro preoccupazioni più grandi o l’origine del disagio.<br />

DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />

A IDENTIFICARE OBIETTIVI A LUNGO TERMINE<br />

Cosa volete?<br />

Come deve cambiare la situazione che descrivete<br />

per farvi sentire meglio?<br />

Cosa guadagnate dal cambiamento?<br />

Cosa ci perdete?<br />

Vale la pena per voi?<br />

Avete intenzione di fare qualcosa per migliorare<br />

la situazione?<br />

Cosa deve accadere perché voi riusciate a ottenere<br />

ciò che volete?<br />

Cosa avete bisogno di fare?<br />

Data la vostra situazione e il modo in cui la vivete,<br />

cosa potete fare?


Gli obiettivi possono essere fissati in un incontro a piccoli<br />

gruppi o durante un corso. Nel corso un metodo è chiedere<br />

ai partecipanti di scrivere un obiettivo a lungo termine su<br />

cui lavorare, un piano con le strategie da usare per raggiungerlo<br />

(inclusi gli obiettivi a breve) e un piano di cambiamento<br />

comportamentale che li possa aiutare a raggiungere<br />

quell’obiettivo. L’educator spenderà un po’ di tempo con<br />

ognuno revisionando gli obiettivi e offrendo suggerimenti.<br />

Se più di un partecipante sta lavorando sul medesimo<br />

obiettivo, questo può diventare un lavoro di gruppo nel<br />

quale i partecipanti danno supporto e informazioni significative<br />

gli uni agli altri. Con obiettivi come perdere peso<br />

o migliorare il controllo glicemico, i partecipanti possono<br />

fare pratica scegliendo una particolare strategia che<br />

ritengono la più efficace per loro.<br />

Riflettete sulle vostre esperienze<br />

di identificazione di obiettivi<br />

Avete identificato degli obiettivi a lungo termine?<br />

Se avete il problema da un certo tempo, cosa vi ha spinto<br />

a cambiare proprio questa volta?<br />

Quali strategie avete imparato che vi possano aiutare a<br />

lavorare con i vostri pazienti?<br />

Domande per riflettere<br />

1) Quali vantaggi e quali svantaggi vedete nel fissare gli<br />

obiettivi con i pazienti?<br />

2) Come vi sentite nel fissare gli obiettivi ‘con’ piuttosto<br />

che ‘per’ i vostri pazienti?<br />

3) Come valutate la vostra abilità di fissare degli obiettivi<br />

a lungo termine con dei singoli pazienti? E con gruppi<br />

di pazienti?<br />

4) Quali ostacoli pensate di trovare nel definire insieme ai<br />

pazienti degli obiettivi a lungo termine?<br />

5) Quali strategie siete in grado di utilizzare per superare<br />

queste barriere?<br />

99


CAPITOLO 11<br />

Cosa si vuole fare?<br />

Il quarto passo per i pazienti è sviluppare un piano d’azione.<br />

Spesso è facile fissare degli obiettivi a lungo termine,<br />

ma può essere difficile raggiungerli senza identificare<br />

una serie di passi concreti che portano a quel risultato.<br />

Per esempio, non basta decidere di voler perdere cinque<br />

chili o di riacquistare la forma fisica entro il prossimo<br />

anno. Molti di noi potrebbero aver voluto le stesse cose<br />

esattamente un anno prima e non aver fatto nulla per<br />

incominciare a muoversi in quella direzione. Avevamo<br />

obiettivi ma non piani. Mentre gli obiettivi a lungo termine<br />

sono i risultati, il piano è costituito dai passi o dalle<br />

strategie usate per raggiungerli.<br />

Fare una lista<br />

Un approccio per sviluppare un piano è chiedere ai<br />

pazienti di elencare una serie di opzioni che potrebbero<br />

essere efficaci nel contribuire a raggiungere il loro obiettivo.<br />

Per esempio, se un paziente desidera aumentare il<br />

proprio livello di attività fisica, si potrebbe chiedergli di<br />

fare una lista di tutte le possibili opzioni per raggiungere<br />

la forma fisica, anche se appaiono noiose o poco realistiche.<br />

Dovremmo chiedere ai pazienti di trovare il maggior<br />

numero di soluzioni possibili prima di aggiungere qualsiasi<br />

nostra idea alla fine della lista, tenendo ben presente<br />

che sarà il paziente a scegliere quella da provare. Una<br />

volta ottenuta la lista, potremmo chiedergli di eliminare le<br />

101


102<br />

soluzioni che secondo lui non funzionano e poi fare una<br />

scala di priorità di quelle rimaste. Infine gli si chiede di<br />

sceglierne una e di sviluppare delle strategie.<br />

Come educator abbiamo imparato un certo numero di strategie<br />

efficaci per risolvere i più comuni problemi correlati al<br />

diabete. I nostri pazienti possono beneficiare di ciò che<br />

abbiamo appreso. Ma crediamo sia importante, prima di<br />

offrire delle soluzioni, che i pazienti trovino più strategie<br />

possibili. Quando offriamo delle strategie, dobbiamo farlo<br />

in modo che la scelta sia sempre del paziente. Per esempio,<br />

potremmo dire: “Altre persone hanno scoperto che fare<br />

attività fisica con un amico li aiutava a seguire il programma.<br />

Pensate che questo possa essere utile per voi?”. Lasciandoli<br />

pensare da soli alla soluzione dei problemi, rafforziamo l’idea<br />

che loro hanno il controllo e le capacità per risolvere i<br />

loro problemi.<br />

L’educator domanda<br />

Alcuni pazienti hanno convissuto con i loro problemi così<br />

a lungo, o hanno ‘fallito’ nel risolverli così tante volte, che<br />

possono sentirsi o essere incapaci di trovare anche una<br />

sola soluzione. In questo caso, dobbiamo essere noi a<br />

offrire la maggior parte delle soluzioni. Ma, anche in questi<br />

casi, dobbiamo sempre offrire delle scelte attraverso<br />

domande del tipo: “Pensate che possa funzionare per voi<br />

fare una passeggiata durante la pausa per il pranzo?”. Lo<br />

scopo della domanda è aiutare il paziente a pensare alla<br />

propria storia in modo nuovo e rinforzare il fatto che solo<br />

lui può dire ciò che funziona o no. Quando i pazienti continuano<br />

ad avere lo stesso problema, indipendentemente<br />

dall’interesse dichiarato a risolverlo, cerchiamo di esplorare<br />

con tatto quali vantaggi traggono dal non risolvere il<br />

problema. Possiamo chiedere: “Signor Rossi, tutte le<br />

volte che ci incontriamo discutiamo sempre la stessa questione.<br />

Ha idea del perché sembra non voler risolvere<br />

questo problema? Se prova a descrivere la sua vita senza


questo problema, cosa ne viene fuori? A cosa rinuncerebbe<br />

se si dovesse risolvere questo problema?”.<br />

Talvolta osserviamo che non prendendo la decisione di<br />

risolvere un problema il paziente sta manifestando la sua<br />

scelta di tenersi il problema.<br />

Un piano per il successo<br />

È bene incominciare lentamente, con un programma realistico<br />

in mente. La maggior parte di noi trova motivante<br />

e gratificante avere successo. A mano a mano che nuovi<br />

comportamenti vengono aggiunti e mantenuti, piccoli<br />

successi a breve si sommano costruendo un progresso<br />

significativo. Noi incoraggiamo i pazienti a scegliere un<br />

piano sul quale hanno pieno e completo controllo. Il controllo<br />

glicemico e il peso sono influenzati da molti fattori,<br />

alcuni dei quali al di fuori del controllo del paziente. Ci<br />

sono, comunque, comportamenti che influenzano questi<br />

risultati e che sono sotto il controllo del paziente, come le<br />

scelte alimentari, l’esercizio fisico e le medicine.<br />

Il racconto di Richard<br />

Quando lo incontrai la prima volta, Fred conviveva con il<br />

suo diabete da 7 anni. Durante quel tempo il suo trattamento<br />

era passato dalla sola dieta + esercizio ai farmaci<br />

orali, senza riuscire mai a normalizzare la sua glicemia. Fred<br />

venne da me perché il suo medico gli aveva detto che il<br />

passo successivo sarebbe stata l’insulina e questo Fred non<br />

lo voleva. Appena seduto nel mio studio, gli chiesi qual era<br />

la cosa più difficile della sua vita col diabete. (Questa è<br />

sempre la prima domanda che faccio ai pazienti con diabete.)<br />

La risposta di Fred: “Tutto!” mi fece capire senza possibilità<br />

di dubbio che egli soffriva di una condizione che io<br />

chiamo ‘il diabete ci schiaccia’. Fred era semplicemente<br />

schiacciato da tutte le necessità quotidiane di una vita con<br />

il diabete.<br />

Quando gli chiesi di essere un po’ più preciso, mi disse:<br />

103


104<br />

“Credo sia la dieta”. Ma la mia esperienza mi diceva che<br />

il ‘punto dolente’ era qualcosa di ancora più specifico e<br />

così ripetei la mia domanda precisando che volevo qualcosa<br />

di più preciso, di più concreto, qualcosa da poter<br />

fotografare o riprendere con un video.<br />

A questo punto Fred sorrise. Aveva il senso dell’umorismo<br />

e disse: “Sono uno che pascola. Ogni sera, tra l’ora di<br />

cena e quella della buonanotte faccio la mucca: un boccone<br />

qui, un boccone lì. All’ora di andare a letto mi sento<br />

in uno stato terribile, colpevole e spaventato dai livelli di<br />

glicemia. Poi, durante la notte, mi alzo tre o quattro volte<br />

per andare al bagno, non dormo mai bene, mi sveglio<br />

esausto e mi trascino stancamente per tutto il giorno”.<br />

Così, Fred aveva identificato il suo vero, specifico punto<br />

dolente. Ci sentivamo tutti e due meglio ora: lui perché<br />

aveva realizzato che tutto quello di sbagliato che c’era nel<br />

suo autotrattamento del diabete era il ‘pascolo’ serale, io<br />

perché, dovendo scegliere tra dover lavorare su ‘tutto’ (la<br />

prima risposta di Fred) e sul periodo tra la cena e il letto,<br />

avrei scelto la seconda opzione.<br />

Andammo avanti cercando di aiutare Fred a identificare una<br />

soluzione al suo problema. Così come era l’unico a poter<br />

identificare il suo punto dolente, così era anche l’unico a<br />

poter comprendere come mettere fine al ‘pascolo’. Per aiutarlo<br />

a identificare ciò che lui già sapeva, chiesi a Fred se c’erano<br />

delle volte in cui lui non ‘pascolava’. Mi rispose che<br />

accadeva quando mangiava veramente tanto a cena e non<br />

riusciva più a inghiottire un solo boccone prima di andare a<br />

dormire. Ci facemmo una grossa risata. Probabilmente, concordammo,<br />

quella non era una soluzione che avrebbe dovuto<br />

usare spesso. Venne fuori che l’unica altra occasione in cui<br />

Fred non ‘pascolava’ era rappresentata dalle serate (una volta<br />

al mese) in cui andava in chiesa per delle attività dove non<br />

veniva servito del cibo. Dopo, Fred tornava a casa sentendosi<br />

pieno spiritualmente e non aveva bisogno di riempirsi lo<br />

stomaco. Sfortunatamente, tutte le altre attività nella chiesa


che Fred frequentava prevedevano il consumo di cibo, e Fred<br />

non era abbastanza ecumenico da frequentare altre chiese<br />

che avrebbero potuto avere attività senza cibo.<br />

A questo punto feci a Fred la mia domanda da centomila<br />

dollari: “C’è stata mai una volta in cui non ti sei riempito<br />

a cena e non sei andato a uno dei meeting senza cibo<br />

della tua chiesa, e nonostante questo tu non hai pascolato?”.<br />

Fred riconobbe che in rare occasioni questo era successo.<br />

“Cosa c’era di diverso in quelle rare volte?” gli<br />

chiesi: “Credo che fosse qualcosa che avevo promesso a<br />

me stesso”. Questa risposta, che ciò che diciamo a noi<br />

stessi (le nostre convinzioni e atteggiamenti) guida il<br />

nostro comportamento è qualcosa che ho sentito da tutte<br />

le persone con cui ho parlato, una volta che ognuno di<br />

loro si era preso il tempo per riconoscerla. Fred continuò<br />

e mi disse ciò che diceva a se stesso quando pascolava,<br />

vale a dire quasi ogni sera. Fred capì che era sempre una<br />

di queste tre cose: “Ho avuto una giornata dura, me lo<br />

merito”; la seconda era, dopo il secondo spuntino della<br />

sera: “Mi sono già riempito stasera, questo che mangio in<br />

più tanto non fa differenza”. Infine, la moglie di Fred,<br />

Alice, che si riteneva un membro della ‘polizia anti-diabete’,<br />

riteneva che il suo compito fosse tenere più cibo possibile<br />

lontano dalla bocca di Fred. Naturalmente Fred<br />

resisteva agli sforzi di Alice e il terzo pensiero era:<br />

“Nessuno deve dirmi cosa devo mangiare”, e questo<br />

dava il via per ‘pascolare’.<br />

Cosa si diceva Fred nelle rare occasioni in cui non ‘pascolava’?<br />

Da alcuni mesi Fred era diventato nonno e di tanto<br />

in tanto, da allora, diceva a se stesso: “Voglio esserci<br />

quando questo ragazzo prenderà la maturità”. Questo<br />

sembrava contrastare il suo desiderio di ‘pascolare’.<br />

A questo punto, chiesi a Fred cosa ne pensava di ciò che<br />

mi aveva appena detto. Fred, un’anima onesta, rispose:<br />

“Be’, è interessante scoprire che ciò che dico a me stesso<br />

influenza il mio comportamento, ma sembra che la mag-<br />

105


106<br />

gior parte delle volte io dica cose negative e di conseguenza<br />

faccia cose negative”. Fred aveva ragione riguardo<br />

a quello che faceva, ma, osservai, nessuno è nato<br />

imparato. Pensare cose che aiutano a prendersi cura di sé<br />

è un’abilità, e come tutte le abilità, richiede pratica.<br />

E Fred si esercitò davvero. Mise foto del nipote sul frigorifero,<br />

e nelle settimane successive mise foto sulla credenza della<br />

cucina, sullo specchio del bagno, sulla porta d’ingresso, e<br />

perfino sulla testata del letto. Con tutti questi promemoria<br />

Fred scese da un ‘pascolo’ a sera a uno ogni due sere. Un<br />

grosso passo avanti, ma non ancora perfetto. E tuttavia,<br />

come mi disse una volta un uomo molto saggio che aveva il<br />

diabete da sessant’anni: “Quando si tratta di diabete, cerca<br />

di essere buono, non cercare di essere perfetto. La perfezione<br />

dura un attimo, il diabete tutta la vita”.<br />

Richard R. Rubin, Psicologo<br />

Baltimore, Maryland,USA<br />

chiacchiere non cucinano<br />

il riso.<br />

Proverbio cinese<br />

Contratti e ricompense““Le<br />

Incoraggiamo i nostri pazienti anche a scrivere i loro obiettivi<br />

e il loro programma, e a un impegno, anche solo verbale, a<br />

seguirli. Spostare la discussione dall’astratto al concreto – da<br />

un’idea generale di fare esercizio fisico a un programma che<br />

definisce tempo, luogo, tipo e intensità di esercizio – aumenta<br />

la probabilità che i pazienti siano in grado di portare avanti<br />

il loro programma.<br />

DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />

A ESAMINARE LE MOTIVAZIONI<br />

Questo vi sembra una cosa che potete fare?<br />

Siete sicuri che è qualcosa che volete veramente fare?<br />

Siete motivati per portare avanti questo programma?


Chiediamo ai nostri pazienti di considerare la possibilità di<br />

mettere una ricompensa o un rinforzo nei loro programmi<br />

perché questo aumenta la probabilità che il cambiamento di<br />

comportamento si verifichi. Il rinforzo facilita il cambiamento<br />

di comportamento. Molti pazienti sono riluttanti all’idea delle<br />

ricompense perché pensano sia una cosa infantile. A volte<br />

suggeriamo di provare una gamma di ricompense per vedere<br />

quale, se c’è, si dimostra utile.<br />

DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />

A SCEGLIERE UNA RICOMPENSA<br />

Cosa farete per festeggiare o ricompensare voi stessi<br />

per aver fatto questo cambiamento?<br />

Qual è una cosa simpatica che potreste fare per voi stessi<br />

dopo ogni cambiamento di comportamento?<br />

Controllate il vostro calendario<br />

Troviamo che sia utile per i pazienti fissare una cornice temporale<br />

ai loro programmi. Chiediamo loro di identificare<br />

quanto spesso, quando e per quanto a lungo essi useranno<br />

una particolare strategia. Per esempio, un paziente può scegliere<br />

di camminare a piedi per due isolati dopo cena tre<br />

volte alla settimana per due settimane, e poi passare a tre<br />

isolati tre volte alla settimana. Pensate alle vostre esperienze<br />

di lavoro con le tecniche di problem-solving e di goal-setting.<br />

1) Ci sono delle ragioni per cui voi non volete risolvere il<br />

vostro problema?<br />

2) Cercate l’aiuto di qualcun altro nei vostri tentativi di risolvere<br />

il vostro problema? Vi aiuta? Perché e perché no?<br />

3) Come identificate le strategie comportamentali?<br />

4) Avete tentato strategie differenti per risolvere il vostro<br />

problema?<br />

5) Come avete scelto la prima da provare?<br />

6) Cosa avete imparato che vi può aiutare nel vostro lavoro<br />

con i pazienti?<br />

107


108<br />

DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />

A IDENTIFICARE UN PIANO<br />

Che idee avete sulle strategie che potrebbero funzionare?<br />

Cosa avete provato in passato?<br />

Perché secondo voi non ha funzionato?<br />

Quali sono alcuni dei passi che secondo<br />

voi vi avvicinerebbero al punto dove volete arrivare?<br />

Di cosa avete bisogno per cominciare?<br />

C’è anche una sola cosa che potete fare usciti di qui<br />

per migliorare le cose per voi stessi?<br />

“Alcuni dei più grandi insuccessi<br />

del mondo sono stati realizzati<br />

da persone non abbastanza intelligenti<br />

da capire che erano cose impossibili.<br />

Doug Larson<br />

Domande per riflettere<br />

1) Come vi sentite nell’identificare gli obiettivi di comportamento<br />

‘insieme a’ piuttosto che ‘al posto dei’ pazienti?<br />

2) Quali sono alcuni dei vantaggi e degli svantaggi dell’incoraggiare<br />

i pazienti a sviluppare possibili soluzioni<br />

ai problemi?<br />

3) Quanto vi sentite capaci di identificare soluzioni e fare<br />

programmi per singoli pazienti? E per gruppi di pazienti?<br />

4) Quali ostacoli anticipate nel fissare obiettivi di comportamento<br />

con i pazienti?<br />

5) Quali strategie usereste per superare questi ostacoli?<br />


CAPITOLO 12<br />

Funziona?<br />

“Quanto più rapidamente farete i vostri<br />

primi cinquemila errori, tanto prima<br />

sarete capaci di correggerli.<br />

Nicolaides<br />

in The Natural way to Draw<br />

La valutazione è sia l’inizio che la fine del processo di<br />

cambiamento. All’inizio di questa sezione abbiamo parlato<br />

dell’identificazione dei problemi come di un modo per<br />

esplorare la situazione. Una volta che abbiamo aiutato i<br />

pazienti a identificare un obiettivo e a formulare un programma,<br />

il nostro compito è di aiutarli a monitorare e<br />

valutare l’efficacia delle strategie scelte. Il feedback che i<br />

pazienti ricevono dalla valutazione dei progressi permette<br />

loro di scoprire e mantenere comportamenti efficaci e<br />

di rivedere quelli che non lo sono. I pazienti possono<br />

usare le informazioni che ottengono dal processo di valutazione<br />

per riscrivere la loro storia.<br />

Incoraggiamo i pazienti a considerare il loro programma<br />

di cambiamento come una serie di esperimenti.<br />

Suggeriamo loro di considerarsi come degli scienziati che<br />

stanno conducendo degli esperimenti sull’autogestione<br />

del diabete per identificare le strategie e le tecniche che<br />

sono, o che non sono, adatte a loro. Gli esperimenti che<br />

apparentemente non funzionano sono altrettanto utili di<br />

“<br />

109


110<br />

quelli che funzionano, perché in entrambi i casi si può<br />

imparare qualcosa. Qualcosa che può essere applicato<br />

agli esperimenti futuri. Siamo convinti che questo approccio<br />

sia più positivo di quello tradizionale.<br />

“Una serie di fallimenti può culminare<br />

nel miglior risultato possibile.<br />

Gisela Richter<br />

Il racconto di Betty<br />

Paul aveva sette anni quando si manifestò il diabete di tipo<br />

1. A quarantasette anni venne inviato al Centro diabetologico<br />

dal suo endocrinologo per ‘istruzioni sulla dieta’ a<br />

causa del peggioramento del suo controllo glicemico. La<br />

sua emoglobina glicata era salita dal 7,3% al 9,6% nell’ultimo<br />

anno. Alla prima visita chiesi a Paul se stesse incontrando<br />

delle difficoltà col suo diabete sulle quali desiderasse<br />

lavorare. Mi rispose che da un po’ di tempo aveva<br />

delle ipoglicemie, quasi tutti i giorni, seguite da picchi<br />

iperglicemici molto elevati. Aveva anche messo su un bel<br />

po’ di chili nell’ultimo anno perché, nel tentativo di prevenire<br />

le ipoglicemie, mangiava e beveva continuamente.<br />

Paul aveva il sospetto che questi problemi fossero dovuti a<br />

una forma di gastropatia diabetica e aveva posto la questione<br />

al suo medico sin dall’inizio. Il medico aveva risposto<br />

che era probabile, dato che aveva il diabete da molti anni.<br />

Paul aveva chiesto se poteva essere una buona idea spostare<br />

l’insulina da prima a dopo i pasti perché era probabile<br />

che lui non assorbisse immediatamente il cibo. Il dottore<br />

disse: “Assolutamente no. Devi prendere l’insulina con il<br />

primo boccone. Continua a mangiare. Sei comunque sottopeso”.<br />

Paul seguì le istruzioni del suo medico diligentemente.<br />

Aumentò di quattordici chili in un anno. Comprò<br />

anche delle compresse masticabili di glucosio.<br />

Chiesi a Paul di dirmi quale impatto aveva avuto tutto questo<br />

sulla sua vita. Mi rispose che aveva cambiato l’orario dei pasti<br />


in maniera da non dover guidare subito dopo mangiato.<br />

Divorziato, Paul aveva anche smesso di corteggiare le donne<br />

perché era imbarazzato dal fatto di mangiare e fare la glicemia<br />

in continuazione davanti a persone che non conosceva<br />

ancora. Si sentiva depresso dal fatto di essere ingrassato e<br />

frustrato dal fatto di non riuscire a fare esercizio per ridurre il<br />

peso. “È una vita da schifo” concluse.<br />

Gli chiesi allora cosa sarebbe dovuto accadere perché il<br />

suo diabete non fosse più un problema così grave per lui.<br />

Mi disse che se fosse riuscito a evitare le ipoglicemie la<br />

sua vita sarebbe tornata a posto. Passammo in rassegna il<br />

suo diario con i valori delle glicemie e gli feci delle<br />

domande sulla composizione dei pasti che aveva consumato<br />

negli ultimi due giorni. I suoi dati erano quelli di un<br />

paziente con una considerevole abilità ad adattare le dosi<br />

di insulina alle porzioni dei pasti attraverso il conteggio<br />

delle calorie da carboidrati. Ripassammo anche le sue<br />

conoscenze sui tempi delle insuline e io risposi a un paio<br />

di domande sul ritardato svuotamento dello stomaco.<br />

Descrissi anche le opzioni terapeutiche a disposizione per<br />

la gastropatia diabetica, compresi i farmaci gastrocinetici,<br />

la sostituzione con cibi liquidi o semiliquidi e l’accurato<br />

dosaggio e tempistica delle insuline.<br />

“Paul, mi sembra che le dosi di insulina che stai prendendo<br />

vadano bene, ma ci sono buone probabilità che l’equilibrio<br />

glicemico sia danneggiato dal ritardato svuotamento<br />

gastrico. L’unico modo per evitare le ipoglicemie è<br />

correggere i tempi di somministrazione delle insuline.<br />

Degli approcci che abbiamo discusso insieme, quale<br />

secondo te potrebbe funzionare?”.<br />

“Credo che dovrei prendere la mia dose di insulina ultrarapida<br />

più tardi, quando effettivamente sto assorbendo il<br />

cibo” rispose Paul.<br />

“Credo anch’io. E tu sentivi sin dall’inizio che questa era<br />

la cosa da fare, vero? Cosa ti ha impedito di provare da te<br />

per vedere se funzionava?”<br />

111


112<br />

“Il mio dottore, mi ha detto di non farlo.”<br />

“Cosa poteva succederti di grave se avessi tentato ugualmente?”<br />

“Avrebbe potuto dirmi: ‘Se non fai quello che ti dico cercati<br />

un altro dottore’. Me l’aveva già detto un’altra volta.”<br />

“E questo sarebbe stato un problema per te?”<br />

“Sì. Lui è l’unico endocrinologo convenzionato con la mia<br />

assicurazione sanitaria. Ci conosciamo da tanto tempo.<br />

Fondamentalmente è una brava persona. Mi tiene sotto<br />

controllo i reni e si assicura che faccia regorlamente la<br />

visita oculistica. Ma non mi ascolta su questa storia dell’insulina.”<br />

“Cosa pensi che potrebbe dirti se tu fai la prova e funziona,<br />

se tu gli porti i dati del miglioramento della glicemia?”.<br />

“Be’, se funziona davvero, sarà felice probabilmente.<br />

Ma... se non funziona? Cosa faccio?”<br />

“Smetti. È assolutamente sensato fare una prova. Se funziona,<br />

be’, è un terno al lotto, se non funziona cercheremo<br />

delle altre soluzioni. Vuoi tentare?”<br />

Paul decise di provare. Gli diedi delle istruzioni dettagliate<br />

su come misurare la glicemia dopo i pasti più volte e<br />

prendere la sua insulina solo quando il glucosio cominciava<br />

a salire. Il primo giorno vide che la glicemia non saliva<br />

prima di due ore dopo la colazione. Prese l’insulina alle 10<br />

e non ebbe ipoglicemie. Il suo controllo e le sue ipoglicemie<br />

sono ora molto migliorate, benché non sia tornato ad<br />

avere gli stessi valori che aveva prima della gastropatia.<br />

Paul continua a imparare attraverso le misurazioni della<br />

glicemia il modo migliore per combinare al meglio l’azione<br />

dell’insulina con i differenti pasti della giornata.<br />

Betty Brackenridge, Dietista<br />

Phoenix, Arizona, USA


Molti pensano che gli obiettivi comportamentali debbano<br />

essere fissati alla fine del processo di educazione. Ma dal<br />

punto di vista dell’empowerment l’apprendimento viene<br />

anche dopo l’identificazione degli obiettivi. Il cambiamento<br />

dei comportamenti è un processo continuo che<br />

comprende l’esplorazione del problema, la definizione<br />

degli obiettivi, la pratica delle strategie per raggiungerli,<br />

la riflessione sulle esperienze fatte e l’apprendimento di<br />

qualcosa di nuovo. È un processo in continuo sviluppo,<br />

come del resto vivere con il diabete.<br />

Le persone non vedono il cambiamento di comportamento<br />

come un’opportunità per imparare qualcosa su se stessi.<br />

Di solito la loro attenzione è focalizzata sul binomio<br />

successo-fallimento. Ma c’è molto di più, a saper guardare.<br />

Cosa avete imparato quando avete cercato di mettere<br />

in pratica questo cambiamento di comportamento? Avete<br />

guadagnato in introspezione?<br />

“Non possiamo dirigere il vento,<br />

ma possiamo aggiustare le vele<br />

nella giusta direzione.<br />

Proverbio<br />

Per aiutare i pazienti a vedere il cambiamento come una<br />

serie di esperimenti abbiamo visto che fare delle domande<br />

durante le visite di controllo li aiuta a imparare dalle<br />

loro stesse esperienze. Molte delle domande che facciamo<br />

sono le stesse, a prescindere dal fatto che il tentativo<br />

del paziente sia riuscito o meno.<br />

“Non guardare dove sei finito<br />

cadendo, ma dove sei scivolato.<br />

Proverbio africano<br />

“<br />

“<br />

113


114<br />

DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />

A RIFLETTERE SUGLI ESPERIMENTI<br />

DI CAMBIAMENTO COMPORTAMENTALE<br />

Cosa avete imparato dopo aver fissato i vostri obiettivi?<br />

E cosa dopo aver cercato di raggiungere quegli obiettivi?<br />

Cosa fareste in modo diverso la prossima volta?<br />

Cosa fareste allo stesso modo?<br />

Quali sono gli ostacoli che avete incontrato?<br />

Avete qualche idea su come superarli?<br />

Siete riusciti a fare di più o meno di quello che avevate<br />

previsto? Perché?<br />

Pensate che il problema stia negli obiettivi a lungo<br />

termine o nelle strategie per raggiungerli?<br />

C’è ancora un’area su cui volete lavorare?<br />

Cosa avete imparato su voi stessi dopo questo<br />

esperimento?<br />

Cosa avete imparato sul tipo di sostegno che già avete,<br />

o desiderate o di cui avete bisogno?<br />

Cosa avete imparato sul modo con cui vivete<br />

emotivamente questo problema o tutto questo tipo<br />

di comportamenti?<br />

Cosa avete imparato su quanto tutto questo<br />

è importante per voi e come lo valutate?<br />

Pensate alle vostre esperienze<br />

1) Avete provato qualche strategia che funziona meglio di<br />

altre?<br />

2) Perché funzionano le strategie efficaci?<br />

3) Siete in grado di usare quanto avete appreso dalle<br />

vostre strategie, efficaci e inefficaci, per creare un<br />

nuovo piano?<br />

4) Cosa avete imparato su voi stessi?<br />

5) Cosa avete imparato che possa aiutarvi nel vostro lavoro<br />

con i pazienti?


Domande per riflettere<br />

1) Qual è la vostra reazione verso i pazienti che hanno<br />

‘successo’?<br />

2) E verso quelli che ‘falliscono’?<br />

3) Come vi sentite nel ruolo di erogatori di sostegno psicologico<br />

ai pazienti?<br />

4) A che punto del processo di educazione al diabete<br />

introducete l’identificazione degli obiettivi?<br />

5) Quanto vi sentite a vostro agio nell’aiutare i pazienti a<br />

imparare dalle loro esperienze sulla definizione degli<br />

obiettivi?<br />

115


Mettere in pratica<br />

l’empowerment<br />

PARTE 4<br />

I saggi di quest’ultima parte del libro riguardano il futuro,<br />

in particolare il vostro futuro. Se siete arrivati fino a questo<br />

punto del libro vuol dire che avete dedicato parte del<br />

vostro tempo a pensare, e magari discutere, la vostra filosofia<br />

di educazione al diabete. In questa sezione vi incoraggiamo<br />

a riflettere su come la vostra prospettiva, la<br />

vostra visione, stia orientando il vostro modo di lavorare.<br />

Siete invitati a riflettere sui modi in cui la vostra prospettiva<br />

può essere incorporata nelle vostra pratica e come<br />

essa sia collegata alla definizione di voi stessi come diabetes<br />

educator o come terapeuta.<br />

117


CAPITOLO 13<br />

Avere successo<br />

Qual è il migliore indicatore di risultato per l’educazione al<br />

diabete? Come stabilite se il vostro lavoro con un paziente<br />

ha avuto successo o no? A molti di noi è stato insegnato<br />

che il successo è rappresentato dai risultati che i nostri<br />

pazienti raggiungono. Avete mai sentito qualcuno, medico<br />

o educator, fare una di queste affermazioni: “Ho portato a<br />

7 l’emoglobina glicata della Signora Bianchi”; “Tutti i miei<br />

pazienti seguono la dieta”; “Sono capace di motivare<br />

chiunque a cambiare abitudini e stili di vita”.<br />

Se i risultati non sono brillanti, d’altro canto, è fin troppo<br />

facile biasimare i pazienti: “Ho fatto del mio meglio, ma lui<br />

si rifiuta di curarsi a dovere”; “Mi prende in giro”;<br />

“Semplicemente, non è pronta per cambiare stile di vita”.<br />

Definire il nostro successo attraverso i nostri pazienti può far<br />

sì che noi ci prendiamo il merito di quanto loro hanno fatto,<br />

quando va bene, e diamo a loro la colpa, quando va male.<br />

“Quando la gente esce per andare a lavorare,<br />

non dovrebbe essere costretta a lasciare<br />

il proprio cuore a casa.<br />

Betty Bender<br />

Come diabetes educator noi tendiamo a giudicare noi<br />

stessi, o i colleghi, sulla base del comportamento dei<br />

pazienti, e questo in parte è dovuto al fatto che l’educazione<br />

al diabete è nata all’interno del modello tradiziona-<br />

“<br />

119


120<br />

le di cura, quello per le malattie acute. L’educazione al<br />

diabete – e quindi i diabetes educator – è vista come efficace<br />

solo quando i pazienti hanno successo, vale a dire<br />

quando raggiungono l’equilibrio metabolico. Poiché ci si<br />

aspetta da noi il raggiungimento di obiettivi che sono in<br />

genere basati sui valori metabolici dei pazienti, valutiamo<br />

i pazienti, e perfino i nostri colleghi con il diabete, sulla<br />

base dei loro valori di emoglobina glicata.<br />

Un altro fattore nell’equazione ‘X=successo’ è il fatto che<br />

negli ultimi tempi noi siamo stati sottoposti alla pressione<br />

di molti fattori esterni. Lavoriamo in strutture nelle quali<br />

c’è una crescente pressione a produrre di più utilizzando<br />

meno risorse. Ci viene richiesto di formare più pazienti in<br />

minor tempo, di provare che il nostro lavoro conduce a<br />

miglioramenti misurabili in termini di risultati di salute.<br />

Viviamo tempi in cui l’assistenza sanitaria assomiglia sempre<br />

di più a un’industria. Molti di noi sono scoraggiati dal<br />

modo in cui queste pressioni riducono le opportunità di<br />

avere rapporti umanamente appaganti con i pazienti e<br />

diminuiscono il piacere di lavorare.<br />

“Smettere di credere nella magia<br />

può indurre un’anima semplice<br />

a credere nel governo e nel business.<br />

Tom Robbins<br />

I diabetes educators sono sempre più spinti a documentare<br />

risultati che dimostrino l’efficacia dell’educazione al diabete.<br />

Le compagnie di assicurazione e i pazienti hanno<br />

tutto il diritto di chiederci questo tipo di informazioni, che<br />

possono anche essere un utile feedback del nostro lavoro,<br />

ma bisogna tenere presente che il controllo metabolico<br />

non è l’unico criterio di valutazione. Quando valutiamo i<br />

nostri risultati solo sulla base dei valori glicemici ci allontaniamo<br />

da un approccio centrato sul paziente per spostarci<br />

verso un approccio centrato su di noi e sulla nostra capaci-<br />


tà di cambiare i pazienti. E poi, se ci prendiamo il merito<br />

dei risultati positivi ottenuti dal paziente, allora dobbiamo<br />

anche prenderci la responsabilità dei risultati negativi. In<br />

ogni caso assumerci meriti o colpe per i risultati di autocontrollo<br />

dei nostri pazienti nega i loro sforzi e la realtà<br />

concreta e quotidiana del diabete. Sentirci responsabili o<br />

giudicati per qualcosa che non controlliamo può condurci<br />

a frustrazione ed esaurimento.<br />

Definire il successo<br />

Come possiamo, allora, definire il successo in un’ottica di<br />

empowerment? Una possibilità è esaminare la relazione<br />

che siamo stati capaci di costruire con il paziente e come il<br />

paziente stesso percepisce l’utilità delle nostre interazioni<br />

con lui nelle decisioni da prendere tutti i giorni riguardo al<br />

diabete. Questi criteri si sono dimostrati utili a prescindere<br />

dallo scopo degli incontri, prime visite o visite di controllo,<br />

visite una tantum o parti di un lungo ciclo di sedute. In ultima<br />

analisi, possiamo valutare la nostra efficacia come educator<br />

in base a quanto i nostri pazienti diventano abili nel<br />

fissare e raggiungere i loro obiettivi di salute.<br />

“La vera gioia può essere raggiunta<br />

solo se le persone vedono la propria vita<br />

come dedicata a qualcuno o qualcosa<br />

diversi da se stessi e dalla propria<br />

personale felicità.<br />

Lev Tolstoj<br />

Le persone con il diabete, in genere, vogliono vivere sane e<br />

prevenire le complicanze della malattia. Vogliono che la loro<br />

storia finisca bene. Ma se i pazienti fanno dei cambiamenti<br />

solo per compiacerci, quei cambiamenti hanno poca probabilità<br />

di durare. Sono cambiamenti che durano, tipicamente,<br />

solo finché noi siamo lì a rinforzarli. Quando aiutiamo i<br />

pazienti a sviluppare le capacità di soluzione dei problemi, a<br />

“<br />

121


122<br />

confrontarsi con le emozioni e i sentimenti che gli impediscono<br />

di raggiungere i loro obiettivi, gettiamo le fondamenta<br />

di cambiamenti durevoli, perché la motivazione e il rinforzo<br />

vengono da loro stessi. La nostra esperienza ci dice che<br />

questo tipo di cambiamenti quasi sempre si associa a un<br />

miglioramento del controllo metabolico. Quando il cambiamento<br />

è indotto dalla pressione esterna, il controllo metabolico<br />

può anche migliorare inizialmente, ma difficilmente dura<br />

nel tempo. I pazienti che imparano ad assumersi la responsabilità<br />

del proprio trattamento fanno cambiamenti duraturi<br />

perché hanno imparato che il diabete li riguarda da vicino.<br />

Abbiamo anche imparato a usare le nostre esperienze con<br />

i pazienti come guida per capire se stiamo facendo bene,<br />

se ci stiamo muovendo nella giusta direzione. Alla fine di<br />

una visita, sia noi che il paziente sappiamo come è andata<br />

quella visita. C’è stato scambio, interazione? Il paziente<br />

porta a casa qualcosa di valido? Se vogliamo un feedback<br />

possiamo dare ai pazienti dei brevi questionari, per<br />

documentare le loro esperienze.<br />

“Un professionista è una persona<br />

in grado di fare del suo meglio<br />

anche quando non è nelle migliori<br />

condizioni per farlo.<br />

Alistair Cooke<br />

Questa è l’arte dell’educazione del paziente al diabete; il<br />

massimo della concentrazione sul paziente e sulla interazione<br />

con lui mentre questa è in corso. Possiamo anche<br />

fermarci durante una visita se avvertiamo la sensazione<br />

che qualcosa non va e chiedere al paziente cosa sta provando.<br />

Per esempio: “Signora Bruni, ho forse detto qualcosa<br />

che l’ha scoraggiata o confusa?” oppure: “Ho l’impressione<br />

di non essere riuscito a metterla a suo agio;<br />

cosa posso fare?”. Abbiamo imparato a fidarci delle<br />

nostre sensazioni e impressioni per avere un feedback<br />


sulla nostra efficacia. Questo processo di valutazione (e<br />

formazione) è ideato per guidare e rafforzare la nostra<br />

pratica. Ma è anche un buon predittore di risultato del<br />

processo di formazione. Quando in cima alle nostre priorità<br />

noi mettiamo l’essere al servizio dei nostri pazienti,<br />

anche i valori metabolici, i risultati misurabili, migliorano.<br />

L’esperienza ci ha insegnato che la cosa giusta e quella<br />

intelligente sono la stessa cosa.<br />

POSSIBILI DOMANDE DI VALUTAZIONE<br />

DA USARE CON I PAZIENTI<br />

Dopo una prima visita:<br />

1) È stata diversa da altre visite che avete fatto?<br />

2) Cosa vi aspettavate o volevate?<br />

3) Cosa avreste voluto che andasse in un altro modo?<br />

Un’altra possibilità è chiedere al paziente all’inizio<br />

dell’incontro di stabilire obiettivi o aspettative e poi,<br />

a incontro concluso, chiedere se questi erano stati<br />

raggiunti o realizzati durante la visita. Per esempio:<br />

1) Cosa volete fare oggi?<br />

2) Quali questioni vorreste fossero discusse?<br />

3) Avete qualche domanda da fare, qualcosa<br />

che vi preoccupa e di cui vorreste parlare?<br />

Alla fine di un ciclo di incontri potreste domandare:<br />

1) Siete riusciti a portare a termine quello che volevate?<br />

2) Avete raggiunto i vostri obiettivi?<br />

3) Avete altre domande da porre?<br />

4) Vorreste che la prossima volta si faccia diversamente?<br />

Questa strategia è applicabile anche ai gruppi quando<br />

si chiede all’inizio di fissare degli obiettivi<br />

che poi verranno rivalutati alla fine del ciclo.<br />

123


124<br />

Domande per riflettere<br />

1) Come decidete se avete o non avete avuto successo in<br />

un singolo incontro con il paziente?<br />

2) E come fate a valutare il successo di un intero programma<br />

di formazione?<br />

3) E nel vostro lavoro? Nella vostra carriera?<br />

4) Quanto influenzano la vostra prospettiva e la vostra<br />

pratica professionale i criteri che usate per valutare successo<br />

e insuccesso?


CAPITOLO 14<br />

Strumenti per riflettere<br />

“La vera professione di uomo è cercare<br />

la strada che conduce a se stesso.<br />

Hermann Hesse<br />

Ci siamo resi conto che un modo molto efficace per<br />

migliorare le nostre abilità di diabetes educator è registrare<br />

le sedute con i pazienti e riascoltarle in seguito per<br />

rifletterci sopra (questo ovviamente richiede il consenso<br />

dei pazienti). Gestite l’incontro il più naturalmente possibile,<br />

cercando di dimenticare il microfono. Potreste trovare<br />

utile registrare una serie di incontri a mano a mano che<br />

fate esperienza con l’approccio empowerment.<br />

Una volta eseguita la registrazione, ascoltatela ponendo<br />

attenzione più alla vostra parte che a quella del paziente.<br />

Date un voto a ognuna delle vostre risposte al paziente<br />

usando la tabella riprodotta più avanti. Sommate e fate la<br />

media, questo vi darà un voto complessivo che potrete<br />

usare per stimare approssimativamente l’efficacia delle<br />

vostre capacità di interazione con il paziente ogni volta<br />

che registrate un nastro. In questo modo potrete rendervi<br />

conto dei progressi che state compiendo. La tabella<br />

riassume i giudizi che verranno spiegati più avanti e dà a<br />

ognuno di essi un valore numerico.<br />

“<br />

125


126<br />

+2 Siete concentrati sulle emozioni<br />

o sugli obiettivi del paziente.<br />

+1 State esplorando il problema.<br />

0 Di tutto un po’.<br />

-1 State cercando di risolvere<br />

il problema al posto del paziente.<br />

-2 State giudicando il paziente.<br />

Dopo aver dato un voto alle vostre reazioni cercate di<br />

ricordarvi come vi sentivate durante il colloquio, cosa stavate<br />

provando mentre il vostro comportamento stava rendendo<br />

più facile o più difficile l’interazione, e come potreste<br />

fare diversamente la prossima volta. Usate il vostro<br />

diario per annotare pensieri, emozioni, riflessioni sulla<br />

vostra esperienza.<br />

Criteri per dare un voto<br />

Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (+2)<br />

Le frasi +2 rientrano in due grosse categorie. La prima è<br />

quella delle emozioni. Tutte le volte che iniziate a<br />

esplorare le emozioni di un paziente o fate in modo che<br />

queste vengano espresse date un voto +2. Anche quando<br />

riuscite a fare in modo che il paziente esprima ciò che<br />

vuole e come pensa di arrivarci questo è un +2. Tutte le<br />

volte che siete sintonizzati sugli obiettivi o sulle emozioni<br />

del paziente è un +2.<br />

Attenzione alle emozioni del paziente. Domande del tipo:<br />

“Siete arrabbiato? State male pensando a questo? Cosa<br />

provate riflettendo su questo? Riuscite a dirmelo?”<br />

Sollecitando il paziente a trovare la sua motivazione.<br />

“Cosa avete intenzione di fare? Cosa state per fare? Vi<br />

sentite pronto a cambiare?”.<br />

Sollecitando il paziente a trovare opzioni possibili e obiettivi.<br />

“Qual è il compito che vi volete dare? Vorreste che le


cose fossero differenti e in che modo? Cosa vi aspettate<br />

da questa situazione? Quali sono le vostre scelte? E quali<br />

le conseguenze?”.<br />

Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (+1)<br />

Le frasi che meritano un voto +1 sono quelle che aiutano<br />

il paziente a esplorare le dimensioni cognitive-comportamentali<br />

del problema che lui ha indicato (senza che voi lo<br />

abbiate in qualche maniera suggerito o involontariamente<br />

imposto). In altri termini, costituiscono tutto quello che<br />

fate per cercare di vedere il problema dal punto di vista<br />

del paziente.<br />

Domande per esplorare.<br />

Chiedere informazioni sul problema che il paziente ha introdotto.<br />

Per esempio: “Ditemi qualcosa di più su questo.<br />

Perché è un problema per voi? Potete farmi degli esempi?”.<br />

Chiarire il significato del problema del paziente.<br />

Domande che indicano un certo grado di riflessione sull’argomento,<br />

come: “Questo per voi costituisce un problema<br />

perché vostro marito vuole un dolce per dessert tutte le sere?<br />

oppure: “Cosa significa questo esattamente per voi?” o frasi<br />

di commento come: “Questo è un bel fastidio” oppure:<br />

“Certo, questo vi ha spaventato!”.<br />

Che tipo di persona è il paziente.<br />

“Che impatto ha il diabete sulla vostra vita? Su di voi in<br />

particolare, sulle vostre abitudini, sul vostro carattere?”.<br />

Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (0)<br />

Il voto 0 viene dato a tutte le frasi che non rientrano nelle<br />

altre categorie oppure a quelle neutre dal punto di vista<br />

del modello del counseling. È importante tenere presente<br />

che le frasi ‘0’ sono spesso appropriate, specie quelle<br />

di argomento strettamente medico. Sono valutate ‘0’ solo<br />

perché nel modello che usiamo hanno un valore neutro,<br />

non perché l’interazione sia inappropriata.<br />

Domande e risposte di tipo tecnico.<br />

127


128<br />

Raccogliere semplici dati del tipo: “Da quanto tempo<br />

avete il diabete? Da quanto prendete l’insulina?”.<br />

Rispondere a specifiche domande del paziente del tipo:<br />

“Che differenza c’è tra insulina standard e quella NPH?”.<br />

oppure: “Quando iniziano i corsi di educazione al diabete?”<br />

oppure: “È possibile che abbia preso il diabete dai miei<br />

genitori?”. Tutte queste domande o risposte hanno voto 0.<br />

Altro. Tutto quello che non rientra nelle altre categorie.<br />

Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (-1)<br />

Date un voto -1 tutte le volte che risolvete un problema al<br />

posto del paziente anziché insieme a lui. Facendo così ribadite<br />

la vostra superiorità, in termini di conoscenze e di abilità,<br />

il che implica, indirettamente, che il paziente non è capace<br />

di risolvere da solo il suo problema.<br />

Consiglio.<br />

Un consiglio non richiesto come “Un modo migliore per<br />

affrontare la questione sarebbe...” oppure: “Perché non<br />

provate a fare in questo modo?”.<br />

Soluzione di problema.<br />

Offrire di risolvere voi il problema per il paziente senza che<br />

questo vi sia stato richiesto, come: “Credo che dovreste<br />

parlarne con vostra moglie” oppure: “Potrei telefonare io<br />

al vostro datore di lavoro e parlargli della vostra malattia”.<br />

Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (-2)<br />

Una frase -2 introduce sempre un elemento morale o perlomeno<br />

di giudizio nell’interazione. In altri parole, state definendo<br />

‘giusto’ o ‘sbagliato’, ciò che il paziente pensa, prova,<br />

crede o ciò che fa.<br />

La questione cruciale è se questo modo di fare lo incoraggia<br />

e sostiene oppure se state applicando le vostre idee e il<br />

vostro sistema di valori al paziente e alla sua vita.<br />

Biasimare il paziente.<br />

Tutte le frasi che esprimono biasimo o approvazione<br />

come: “Questa non è certo la cosa giusta da fare” oppu-


e domande del tipo: “Pensate veramente che questa sia<br />

la cosa giusta da fare nel vostro caso?”.<br />

Le frasi -2 possono anche essere di approvazione come:<br />

“Ottimo, mi fa piacere sapere che avete fato esercizio la<br />

settimana scorsa” oppure: “Complimenti, avete seguito<br />

la dieta questa settimana”. È importante distinguere<br />

quando voi state partecipando alle emozioni o ai sentimenti<br />

del paziente, rispetto a quando state dando un giudizio<br />

sul paziente. Se il paziente dicesse: “Sono così contento,<br />

sono riuscito a seguire il mio programma dietetico<br />

la scorsa settimana” certamente potreste dire: “Ottimo,<br />

sono contento di sentirvi soddisfatto dei vostri risultati”<br />

perché state rispondendo a una espressione di soddisfazione<br />

personale del paziente. Ma se il paziente dice la<br />

stessa cosa come un dato di fatto: “Ho seguito (o non ho<br />

seguito) il mio programma dietetico la scorsa settimana”<br />

e voi chiaramente comunicate, a parole o con l’espressione<br />

del viso, la vostra approvazione-disapprovazione è<br />

senza dubbio un -2.<br />

Perdonare il paziente.<br />

“Nessuno riesce a stare a dieta in vacanza” oppure: “Non<br />

è colpa vostra, non potete certo aiutarvi da solo”.<br />

Svalutare il paziente.<br />

Svalutare le emozioni del paziente con frasi del tipo: “Oh<br />

non state a sentirvi in colpa per questo, non dovete rimanerci<br />

male” oppure: “Non è il caso che vi sentiate in questo<br />

modo” o: “Le cose non vanno poi così male”.<br />

Svalutare il punto di vista del paziente dicendo “Non è<br />

certo questo il modo migliore per guardare alla vostra<br />

situazione” o anche solo dare informazioni non richieste<br />

come: “Anche quelli che fanno tutto bene poi possono<br />

avere delle complicanze”.<br />

Altri approcci per riflettere su ciò che si fa<br />

Ci sono altri modi per lavorare in modo riflessivo.<br />

Scegliete un metodo che si adatti alla vostra particolare<br />

129


130<br />

situazione e alle vostre preferenze. Per esempio, se dove<br />

lavorate è possibile videoregistrare le sedute con i<br />

pazienti vi renderete conto che questo può essere ancora<br />

più efficace. Valuterete anche gli aspetti non verbali della<br />

comunicazione come la postura, le espressioni del volto, i<br />

gesti vostri e dei vostri pazienti.<br />

Un altro metodo è chiedere a un collega di fiducia di<br />

osservare le vostre interazioni con il paziente durante le<br />

sedute e di discuterle con voi, se possibile, subito dopo, in<br />

modo da avere un riscontro immediato. Potreste essere<br />

sorpresi dal sapere quanti pazienti sono favorevoli alla<br />

presenza di un osservatore esterno durante la visita. Se<br />

usate questo metodo è essenziale che il vostro collega<br />

rimanga rigorosamente in silenzio durante tutta la seduta<br />

e che concentri tutta la sua attenzione (contatto visivo) su<br />

di voi, in modo da evitare che il paziente sia portato inconsapevolmente<br />

a entrare in comunicazione con entrambi.<br />

Nella revisione della seduta, crediamo sia importante<br />

ribadire il concetto che l’osservatore non deve mai giudicare<br />

l’operato dell’educator. Per tutte le ragioni discusse<br />

precedentemente, la revisione dovrebbe essere libera<br />

dalla paura di essere criticati. L’osservatore può porre<br />

delle domande, certo, ma è importante che siano finalizzate<br />

ad aiutare l’educator a riflettere criticamente sull’esperienza<br />

fatta. Nella tabella più avanti troverete alcuni<br />

esempi di domande che un osservatore potrebbe fare.<br />

Tutte queste tecniche possono essere usate nei corsi di educazione<br />

al diabete o nei gruppi di supporto. Avere un collega<br />

che partecipa da osservatore a un corso o a un gruppo è<br />

raramente elemento di disturbo. In tutti i casi, comunque, è<br />

importante limitare la partecipazione del collega al ruolo di<br />

osservatore e non di partecipante o di conduttore associato.<br />

Mischiare questi ruoli finisce per diminuire l’oggettività e la<br />

chiarezza del feedback fornito dall’osservatore.<br />

Inoltre, è fondamentale che il paziente abbia ben chiaro<br />

che la registrazione o la presenza di un osservatore serve


POSSIBILI DOMANDE DELL’OSSERVATORE<br />

Quali erano i tuoi obiettivi in questa seduta?<br />

Quali parti della seduta vuoi esaminare?<br />

Quale parte della seduta è andata meglio?<br />

Che cosa andava bene in particolare?<br />

Ricordi cosa stavi pensando in quel momento?<br />

Ricordi se avevi delle emozioni particolari in quel momento?<br />

Quale parte della seduta non è andata bene come speravi?<br />

Cosa speravi che accadesse?<br />

Che cosa è accaduto effettivamente?<br />

Cosa stavi pensando in quel momento?<br />

Avevi delle emozioni particolari in quel momento?<br />

Cosa pensi che il paziente stesse pensando<br />

e provando in quel momento?<br />

Se potessi rifarla da capo, cosa cambieresti?<br />

Di cosa ancora vuoi parlare?<br />

Quale sarà il tuo obiettivo principale per la prossima<br />

seduta?<br />

a voi per migliorare come educator. Sottolineate il fatto<br />

che le confidenze che il paziente vi farà saranno protette<br />

e rispettate adeguatamente. Per rassicurare i pazienti si<br />

possono fare diverse cose. Offrire loro la possibilità di<br />

cancellare il nastro alla fine del trattamento o anche subito<br />

dopo la seduta. A volte la conversazione prende una<br />

piega inaspettata per il paziente che si potrebbe sentire a<br />

disagio sapendo che quanto detto verrà ascoltato di<br />

nuovo o da altre persone oltre a voi. Inoltre, in genere<br />

proteggiamo l’identità del paziente rivolgendoci sempre<br />

a lui o lei con il nome e basta, oppure, evitando di nominare<br />

del tutto il paziente se la seduta viene registrata.<br />

Nei corsi e nei gruppi è relativamente facile proteggere<br />

l’anonimato dei pazienti perché la videocamera è fissa<br />

sull’educator e i pazienti, se pure compaiono, sono ripresi<br />

solo di spalle.<br />

131


132<br />

Se nessuna di queste possibilità è a vostra disposizione, è<br />

tuttavia ancora possibile impegnarsi in una pratica riflessiva<br />

prendendo l’impegno di fare una breve revisione per punti<br />

schematici di almeno una seduta al giorno o alla settimana.<br />

Preparatevi una scheda breve da completare immediatamente<br />

dopo la seduta con il paziente o i pazienti.<br />

La scheda che segue contiene delle domande secondo noi<br />

utili per una pratica riflessiva. Potete modificarla aggiungendo<br />

o togliendo domande secondo le vostre esigenze.<br />

“Il miglior modo per predire il futuro<br />

è inventarlo.<br />

Alan Kay<br />

A prescindere dal metodo usato per raccogliere dati<br />

durante o dopo la seduta con un paziente, scegliere<br />

prima un obiettivo aiuta sia voi che l’eventuale osservatore<br />

a concentrarvi su quegli elementi dell’interazione che<br />

ritenete più importanti. Per esempio, nella relazione con<br />

un paziente singolo potreste decidere di voler prestare la<br />

massima attenzione alla componente emotiva del racconto<br />

e alla vostra capacità di verbalizzarla. Un obiettivo di<br />

questo tipo facilita la revisione della seduta perché vi consente<br />

una migliore messa a fuoco della questione rispetto<br />

a una revisione a tutto campo. In una situazione di<br />

gruppo, potreste avere come obiettivo quello di far entrare<br />

nella conversazione i soggetti più timidi e meno comunicativi<br />

e di arginare quelli più estroversi o logorroici. Se<br />

avete un osservatore, è importante che conosca quale<br />

obiettivo avete fissato. Lavorate sempre su un obiettivo<br />

solo alla volta. Sia nel lavoro individuale che in quello di<br />

gruppo, un solo obiettivo è sufficientemente impegnativo<br />

e gratificante. Per gli obiettivi di processo, a differenza di<br />

quelli di risultato, ‘di più’ non vuol dire ‘meglio’.<br />

L’ostacolo maggiore per qualsiasi riflessione sulla pratica, a<br />

prescindere dallo strumento usato, è la mancanza di tempo.<br />


Come diabetes educator ci viene richiesto di fare di più in<br />

minor tempo e con meno risorse. Ma riflettere su ciò che<br />

si fa richiede tempo. Ci rendiamo conto delle pressioni a<br />

cui sono sottoposti i diabetes educator ma crediamo che<br />

una pratica riflessiva come quella descritta sia parte fondamentale<br />

e cruciale della crescita personale e professionale.<br />

Sacrificarla per fare più sedute, più pazienti, più<br />

corsi, limita in modo significativo l’opportunità di crescere,<br />

migliorare e, in ultima analisi, riduce l’efficacia del lavoro<br />

fatto con i pazienti. Per questo crediamo che si debba fare<br />

di tutto per trovare il tempo necessario a farla.<br />

SCHEDA PER RIFLETTERE SULLA PRATICA<br />

1) Come sono andato rispetto all’obiettivo<br />

che mi ero prefissato?<br />

2) Quanto sono soddisfatto, complessivamente, del modo<br />

in cui mi sono comportato durante la seduta?<br />

3) Quanto sarà stato soddisfatto il paziente?<br />

4) Qual è stata la cosa più efficace che ho fatto?<br />

5) Qual’è stata quella meno efficace?<br />

6) Cosa farei differentemente se potessi tornare indietro?<br />

Domande per riflettere<br />

1) Quali sono le conseguenze di una pratica non riflessiva?<br />

2) Quale potrebbe essere per voi il metodo più efficace e realistico<br />

per riflettere sulla pratica?<br />

3) Quali colleghi potreste coinvolgere in questo tipo di attività?<br />

4) Volete prendere l’impegno di usare uno dei metodi<br />

descritti in questo capitolo, almeno una volta, per vedere<br />

se hanno qualche valore per il vostro lavoro? Se sì, quale<br />

usereste, dove e quando?<br />

133


CAPITOLO 15<br />

Educatori ‘potenziati’<br />

“Il destino è questione di scelte,<br />

non di fatalità.<br />

Qualcosa da realizzare,<br />

non da attendere passivamente.<br />

William Jennings Bryan<br />

L’empowerment, per i pazienti come per i diabetes educator,<br />

è basato sui concetti di libertà e responsabilità. Nella<br />

nostra esperienza libertà e responsabilità sono due facce<br />

della stessa medaglia. Poiché siamo liberi di fare delle scelte,<br />

siamo anche responsabili delle conseguenze delle scelte<br />

che facciamo. Come detto precedentemente, importanti<br />

sono le scelte dei pazienti, quelle che si fanno nel trattamento<br />

giorno per giorno del diabete, perché sono gli stessi<br />

pazienti che ne vivranno le conseguenze.<br />

Questo vale anche per i diabetes educator. In tutte le<br />

situazioni abbiamo vincoli e opportunità. Non abbiamo<br />

scelto noi dove o quando nascere, oppure se nascere ricchi<br />

o poveri, uomini o donne. I pazienti con diabete non<br />

hanno scelto di averlo. Buona parte di ciò che capita nella<br />

nostra vita non è il risultato delle nostre scelte né è sotto<br />

il nostro controllo. Pur tuttavia, in ogni situazione, non<br />

importa quanto costretti da fattori esterni, ci sono sempre<br />

delle cose che possiamo decidere, ci sono sempre delle<br />

scelte che possiamo fare. La capacità di scegliere è uno<br />

dei segni distintivi del genere umano. Le nostre scelte<br />

“<br />

135


136<br />

sono importanti perché influenzano significativamente la<br />

qualità della nostra vita.<br />

La capacità di interpretare e rispondere individualmente a<br />

ogni situazione è rappresentata in modo esemplare per noi<br />

dalla storia di Ryan White. Ryan era un ragazzo dell’Indiana<br />

che fu colpito dall’AIDS in seguito a trasfusioni di sangue.<br />

Quando annunciò il suo desiderio di frequentare la scuola<br />

nonostante avesse una malattia così grave, molte persone<br />

nella sua città furono prese dal panico. Eravamo nei primi<br />

anni dell’AIDS e l’opinione pubblica aveva a disposizione<br />

pochissime informazioni attendibili sulla malattia. I genitori<br />

di molti dei compagni di scuola di Ryan ebbero paura che i<br />

loro bambini potessero rimanere contagiati anche dalla<br />

semplice condivisione di un’aula scolastica con Ryan. Ciò<br />

che accadde fu la dimostrazione di come gli esseri umani<br />

possono reagire in preda alla paura e all’ignoranza. La famiglia<br />

di Ryan venne perseguitata a tal punto da essere<br />

costretta a lasciare la città per spostarsi in un centro più piccolo<br />

dello stesso Stato. Fortunatamente, la gente di quel<br />

posto aveva imparato qualcosa dall’esperienza che Ryan<br />

aveva dovuto affrontare nella sua città natale. Gli esperti rassicurarono<br />

i genitori dei bambini, gli insegnanti e i funzionari<br />

scolastici che Ryan non costituiva alcun pericolo per la<br />

salute degli altri bambini. Gli fu permesso di frequentare la<br />

scuola, proseguì gli studi brillantemente e divenne uno dei<br />

portavoce nazionali delle associazioni dei malati di AIDS. Ciò<br />

che gli rimaneva della sua breve vita fu dedicato a insegnare<br />

agli altri cosa volesse dire avere l’AIDS e come fosse possibile<br />

liberare i fatti dalle paure e dalle superstizioni. Ai nostri<br />

occhi egli ha vissuto ed è morto da eroe.<br />

Quello che troviamo stupefacente in questa storia è che la<br />

vita ha offerto a Ryan circostanze così drammatiche che egli<br />

avrebbe potuto, non a torto, considerarsi una vittima.<br />

Nessuno si sarebbe sorpreso se fosse diventato una persona<br />

aspra e piena di rancore verso tutti quelli che avevano perseguitato<br />

lui e la sua famiglia. La vita gli aveva servito delle


carte veramente difficili da giocare. Eppure, egli fronteggiò<br />

queste terribili circostanze e se ne servì per dare un contributo<br />

ad altre esistenze. È questa capacità che abbiamo di reagire<br />

alle circostanze, anche le più drammatiche, la fonte della<br />

nostra libertà e della nostra responsabilità.<br />

Spesso, dopo aver condotto seminari e corsi sull’empowerment,<br />

qualcuno solleva la questione della mancanza di<br />

potere, ricorda tutti i vincoli a cui è sottoposto nella sua<br />

pratica. Si preoccupa di non essere in grado di mettere in<br />

pratica ciò che ha appreso e dice, per esempio: “So benissimo<br />

che quello che insegnate sarebbe di aiuto per i miei<br />

pazienti, ma i miei capi non capiscono e non mi sosterranno<br />

nell’usare l’approccio empowerment”. Il corso è riuscito<br />

e ha aiutato questi educator a trovare le motivazioni<br />

giuste per lavorare con i pazienti ma rimane la preoccupazione<br />

di tradurre tutto questo nella pratica quotidiana.<br />

È difficile credere che qualcuno si aspetti da noi che facciamo<br />

cose che riteniamo non essere nel miglior interesse<br />

dei nostri pazienti, o che qualcuno ci impedisca di fare i<br />

cambiamenti che ci sembrano validi. A queste obiezioni<br />

rispondiamo chiedendo ai partecipanti di identificare in<br />

ogni situazione, anche la più vincolata, le scelte possibili.<br />

Anche se abbiamo a disposizione una sola seduta di dieci<br />

minuti con un paziente, possiamo fare in modo che il<br />

paziente si renda conto che il diabete è una malattia veramente<br />

impegnativa da trattare e che noi cercheremo di<br />

aiutarlo a impostare le questioni che gli stanno a cuore nel<br />

breve tempo che abbiamo. È interessante notare che le<br />

preoccupazioni che noi esprimiamo come educator non<br />

sono poi così diverse da quelle dei nostri pazienti. “Sì,<br />

voglio prendermi cura al meglio del mio diabete, ma...”. Il<br />

‘ma’ è seguito dalla descrizione degli ostacoli che rendono<br />

difficile per quel paziente, nella sua situazione specifica,<br />

seguire il proprio piano di trattamento.<br />

137


138<br />

“Siate assolutamente determinati<br />

a trovare piacere in ciò che fate.<br />

Gerry Sikorski<br />

Concentrarsi sui vincoli, sugli ostacoli, su tutto ciò che<br />

non possiamo fare, ci rende impotenti e ci fa sentire delle<br />

vittime. Spostare l’attenzione su ciò che ‘possiamo’ fare ci<br />

aiuta a vivere la nostra libertà e la nostra responsabilità. Il<br />

che non vuol dire che possiamo fare o avere qualsiasi cosa<br />

vogliamo. Significa, invece, che possiamo fare ‘qualcosa’,<br />

non importa quanto drammatica sia la situazione in cui<br />

siamo. Fare comunque qualcosa è la sintesi migliore di ciò<br />

che crediamo debba essere un diabetes educator nella<br />

prospettiva dell’empowerment. Tornando indietro con la<br />

mente alla risposta di Madre Teresa di Calcutta citata nell’introduzione,<br />

è chiaro che se lei si fosse fatta distrarre<br />

dall’enorme massa di problemi che le stavano davanti<br />

probabilmente non avrebbe fatto nulla. Eppure, lei comprese<br />

che la sua responsabilità era di rimanere fedele alla<br />

sua prospettiva e di agire conseguentemente.<br />

È un fatto ineludibile della vita che tutti noi facciamo delle<br />

scelte e che siamo responsabili delle loro conseguenze.<br />

Così ognuno di noi impara e cresce. In questo sta la fonte<br />

delle nostre risorse. Quando la nostra visione del mondo<br />

arriva a comprendere questo fatto fondamentale, allora noi<br />

usiamo in pieno queste risorse, siamo ‘empowered’.<br />

Domande per riflettere<br />

1) Che cosa vi impedisce di accettare sempre la responsabilità<br />

delle vostre scelte?<br />

2) Quali sono i costi (e i benefici) di sentirsi controllati o<br />

forzati a comportarsi in un certo modo?<br />

3) Quali sono i costi (e i benefici) dell’accettare completamente<br />

la responsabilità del vostro comportamento?<br />


Il vostro diario di empowerment<br />

Il passato<br />

Scrivete le vostre esperienze di cambiamento nel modo di<br />

insegnare o di lavorare.<br />

Il presente<br />

Scrivete le vostre esperienze nell’uso di un modello integrato<br />

e basato sull’approccio empowerment nella pratica<br />

clinica e nella formazione di pazienti e operatori.<br />

139


Pubblicazioni nello spirito<br />

dell’empowerment<br />

Articoli su riviste<br />

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Research. Burggraf V, Barry R, Eds., Thorofare, CB Slack<br />

Inc., 1996, pp.55-64.<br />

FUNNELL MM, MERRITT JH: Impact of diabetes mellitus on<br />

the aging population. In Management of Diabetes Mellitus:<br />

Perspectives of Care Across the Lifespan, 2nd ed., Haire-<br />

Joshu D, Ed., St. Louis, CV Mosby Inc., 1996, pp. 755-834.<br />

FUNNELL MM, STECKEL SB, DRAGOVAN A: How nursing<br />

care can influence patient adherence rather than compliance.<br />

In Clinical and Scientific Sessions, Kansas City,<br />

American Nurses Association, 1979.<br />

VAZQUEZ EF, ANDERSON RM: Activacion y motivacion del<br />

paciente diabetico. In Diabetes Mellitus 2nd ed. Islas S,Ed.<br />

Mexico City, Interamericana McGraw Hill, 1999, pp. 365-80.


RINGRAZIAMENTI<br />

La nostra visione dell’empowerment è al centro delle<br />

nostre vite, professionali e personali. Le attenzioni, l’affetto<br />

e gli insegnamenti che abbiamo ricevuto dalle nostre<br />

famiglie hanno costituito le fondamenta di questa prospettiva<br />

e ci sostengono oggi nelle nostre vite e nel<br />

nostro lavoro.<br />

Noi abbiamo un debito importante verso i nostri colleghi<br />

del Michigan Diabetes Research and Training Center<br />

(MDRTC): Wayne Davis, Tom Fitzgerald, Mary Lou Gillard,<br />

Doug Greene, George Hess, Red Hiss, Arno Kumagai,<br />

Andrea Lasichak e Robin Nwankwo. È grazie alla loro collaborazione<br />

e al loro sostegno che siamo riusciti a sviluppare<br />

le nostre idee in questo campo di ricerca e didattica.<br />

Lynn Arnold, Pat Barr, Mike Donnelly, Patricia Johnson,<br />

Denise Taylor-Moon e Neil White – i rimanenti membri del<br />

Comitato per la Didattica dell’MDRTC – hanno collaborato<br />

alla stesura del nostro primo articolo sull’empowerment<br />

dei pazienti. Quel lavoro è stato fondamentale perché<br />

ci ha aiutato a prendere qualcosa che avevamo ‘in<br />

pancia’ e a trasformarlo in parole, in modo da poterlo<br />

condividere con altri. Siamo loro riconoscenti per l’importante<br />

contributo a questo libro.<br />

Abbiamo chiesto a Betty Brackenridge, Ginny Dittko,<br />

Cheryl Hunt, Dick Robin e Terry Saunders di rivedere le<br />

prime bozze del libro perché abbiamo la massima considerazione<br />

di ciò che essi hanno raggiunto nel campo<br />

147


148<br />

della educazione al diabete e della loro profonda conoscenza<br />

dell’empowerment. Il loro aiuto nell’organizzare e<br />

articolare le nostre riflessioni e le nostre esperienze è<br />

stato di incalcolabile valore.<br />

Con Lynn Arnold, Pat Barr e Pat Butler abbiamo lavorato<br />

alla ideazione, sviluppo e messa a punto iniziale del nostro<br />

Programma di Formazione sull’Empowerment per diabetes<br />

educator, mentre Cathy Feste ci ha sottoposto il suo programma<br />

di empowerment per pazienti affinché noi sviluppassimo<br />

strumenti di valutazione adeguati. Lavorare con<br />

tutti loro è stata non solo una gioia, ma una tappa cruciale<br />

per lo sviluppo della nostra filosofia dell’empowerment.<br />

Non avremmo potuto sviluppare questa linea di ricerca,<br />

né tantomeno scrivere questo libro, senza l’aiuto fraterno<br />

di tanti nostri colleghi, molti dei quali hanno contribuito<br />

raccontandoci esperienze e storie del loro lavoro.<br />

Riscontro, sostegno e incoraggiamento veramente impagabili<br />

ci sono venuti da Kelly Acton, Barbara Anderson,<br />

Gary Arsham, Susan Boehm, Florence Brown, Nugget<br />

Burkhart, Anita Carlson, Denise Charron-Prochownik,<br />

Claudia Chaufan, Margaret Christensen, Sue Cradock,<br />

Lisa Engle, Kris Ernst, Russ Glasgow, Chelsey Goddard,<br />

Linda Haas, Axel Hirsch, Joan Hoover, Hitoshi Ishii, Gail<br />

Klawuhn, Katsushiko Kubo, Suzanne Lucas, Dave Marrero,<br />

Harue Masaki, David McCulloch, Melba Mensch, Kentaro<br />

Okazaki, Noreen Papatheodorou, Mirjana Pibernic-<br />

Okanovic, Tracy Parkin, Lynne Robins, Cathy Roby, Jill<br />

Rodgers, Dawn Satterfield, Judith Schaefer, Nuha Saleh-<br />

Stattin, Charles Skinner, Mike Sullivan, Kris Swenson,<br />

Cheryl Tannas, Felipe Vazquez, Frank Vinicor, Elizabeth<br />

Walker, Rosemary Walker, Ruth Webber e Kimberlydawn<br />

Wisdom.<br />

Siamo grati a Carol Mosier per aver digitato e ridigitato<br />

innumerevoli volte il manoscritto senza mai la più piccola<br />

protesta. Sappiamo che non c’è nessuno più felice di lei<br />

nel veder terminato questo lavoro. Siamo anche ricono-


scenti verso Jules Lounsbury per il suo contributo al lavoro<br />

di battitura, così come lo siamo verso Sherrye Landrum<br />

per la sua supervisione editoriale: gentile, paziente e di<br />

grande valore.<br />

Infine, e sopra ogni cosa, noi vogliamo esprimere tutta la<br />

nostra riconoscenza ai pazienti che abbiamo incontrato.<br />

La maggior parte di ciò che abbiamo imparato sull’empowerment<br />

si deve a loro, alla loro disponibilità a farci entrare<br />

nelle loro vite, a farci condividere i loro pensieri, le loro<br />

speranze, i loro timori. Benché solo pochi di loro ne siano<br />

consapevoli, essi sono stati, in tutti questi anni di lavoro, i<br />

nostri insegnanti più rigorosi e persuasivi.<br />

149


Il diabete richiede alla medicina nuovi paradigmi nella<br />

relazione terapeuta-paziente. L’atteggiamento di empowerment<br />

intende aiutare le persone a trovare dentro di sé<br />

le risorse necessarie per fronteggiare la malattia. Questo<br />

significa per il terapeuta ascoltare i pazienti e le loro storie<br />

con attenzione e partecipazione, e imparare a fare le<br />

domande giuste. L’empowerment è un’arte più che una<br />

tecnica, che si impara giorno dopo giorno e che cambia il<br />

terapeuta almeno quanto il paziente.<br />

Bob Anderson, psicologo della formazione, da più di vent’anni<br />

si occupa di diabete. Docente di educazione sanitaria alla<br />

facoltà di Medicina dell’Università del Michigan, ricercatore<br />

presso il Diabetes Research and Training Center della stessa<br />

università, è uno dei massimi esperti di empowerment applicato<br />

al diabete.<br />

Martha Funnell, infermiera, diabetes educator con quasi<br />

vent’anni di esperienza nel campo dell’educazione al diabete,<br />

insegna alla facoltà di Scienze Infermieristiche e fa parte<br />

del Consiglio Direttivo del Diabetes Research and Training<br />

Center dell’Università del Michigan.<br />

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