L'arte dell'empowerment - DMyFriend
L'arte dell'empowerment - DMyFriend
L'arte dell'empowerment - DMyFriend
Create successful ePaper yourself
Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.
Bob Anderson, Martha Funnel<br />
L’arte<br />
dell’empowerment<br />
Racconti e strategie per un paziente<br />
protagonista della terapia.<br />
Cure Care Commitment
Bob Anderson, Martha Funnel<br />
L’arte<br />
dell’empowerment<br />
Racconti e strategie<br />
per un paziente<br />
protagonista della terapia
2<br />
Editing: In Pagina - Milano<br />
Traduzione: Maurizio Costantini<br />
Grafica: www.ideogramma.it<br />
Stampa: Global Print, Gorgonzola (Mi)<br />
In copertina: disegno di Sergio Bellotto<br />
Questo libro rappresenta l’edizione italiana<br />
di The Art of Empowerment – Stories and<br />
Strategies for Diabetes Educators, edito<br />
da American Diabetes Association nel 2000<br />
Precisamente si tratta della traduzione<br />
dei capitoli 1, 2, 3, 4, 5, 9, 11,15, 16, 17, 18,19,<br />
23, 24, 25 dell’edizione originale americana.<br />
Copyright: American Diabetes Association
PARTE 1<br />
Capitolo 1<br />
Capitolo 2<br />
Capitolo 3<br />
Capitolo 4<br />
Capitolo 5<br />
PARTE 2<br />
Capitolo 6<br />
Capitolo 7<br />
PARTE 3<br />
Capitolo 8<br />
Capitolo 9<br />
Capitolo 10<br />
Capitolo 11<br />
Capitolo 12<br />
PARTE 4<br />
Capitolo 13<br />
Capitolo 14<br />
Capitolo 15<br />
INDICE<br />
Presentazione<br />
Prefazione<br />
Introduzione<br />
Ciò che facciamo è quello che siamo<br />
Il nostro viaggio nell’empowerment<br />
Il diabete è differente<br />
La prospettiva illumina il metodo<br />
Dalla compliance all’empowerment<br />
Imparare sulla propria pelle<br />
Instaurare relazioni di crescita<br />
Diventare partner<br />
Ascoltare può guarire<br />
Il segreto del cambiamento<br />
Qual è il problema?<br />
Come viene vissuto?<br />
Cosa si vuole ottenere?<br />
Cosa si vuole fare?<br />
Funziona?<br />
Mettere in pratica l’empowerment<br />
Avere successo<br />
Strumenti per riflettere<br />
Educator ‘potenziati’<br />
Pubblicazioni nello spirito dell’empowerment<br />
Ringraziamenti<br />
pag.<br />
pag.<br />
pag.<br />
5<br />
7<br />
9<br />
pag. 15<br />
17<br />
27<br />
33<br />
39<br />
53<br />
pag. 61<br />
63<br />
69<br />
pag. 75<br />
77<br />
87<br />
93<br />
101<br />
109<br />
pag. 117<br />
119<br />
125<br />
135<br />
pag. 141<br />
pag.<br />
147<br />
3
PRESENTAZIONE<br />
Il termine empowerment ha avuto negli ultimi anni una<br />
risonanza significativa anche su questa sponda dell’Atlantico.<br />
Appartiene a quel gruppo di termini anglosassoni<br />
praticamente intraducibili che portano con sé un<br />
insieme di significati. Anche per questa ragione parlare di<br />
empowerment è diventato di moda e forse se ne è anche<br />
abusato, ma resta un concetto molto ampio e affascinante<br />
che porta al coinvolgimento e alla presa di coscienza<br />
degli individui, in un certo senso alla ri-appropriazione<br />
della propria vita e delle proprie decisioni.<br />
L’empowerment è stato utilizzato per molte discipline aventi<br />
a che fare con le persone e le organizzazioni. In ambito<br />
medico ha trovato un’interessante applicazione nella cura<br />
delle malattie croniche e del diabete in particolare.<br />
The Art of Empowerment, edito dall’American Diabetes<br />
Association, rappresenta il manifesto dell’utilizzo dell’empowerment<br />
nella cura del diabete. Per questa ragione<br />
abbiamo chiesto il diritto alla traduzione e lo abbiamo<br />
inserito nella nostra collana di pubblicazioni rivolte alla<br />
Diabetologia italiana (ma perché no, anche ai pazienti e ai<br />
loro parenti).<br />
Uscito nel 2000, il bel libro di Bob Anderson e Martha<br />
Funnel ha rappresentato una rivoluzione nell’approccio<br />
americano all’educazione del paziente e ha dato un contributo<br />
indiretto ma importante a definire sempre meglio<br />
l’approccio europeo all’educazione terapeutica.<br />
5
6<br />
Abbiamo deciso di tradurlo accettando di mantenere uno<br />
stile assai lontano da quello che caratterizza la comunicazione<br />
accademica europea, una impostazione rivolta a un<br />
target che in Italia non ha un equivalente (come ben scrive<br />
Umberto Valentini, il ruolo del diabetes educator da noi è<br />
condiviso da tutto il team) e una struttura che affianca profonde<br />
intuizioni a raccomandazioni che alle orecchie di<br />
molti diabetologi suonano un po’ banali (ma non sempre<br />
le raccomandazioni banali vengono poi messe in pratica).<br />
Riteniamo di aver contribuito non solo a precisare l’evoluzione<br />
di un pensiero parallelo a quello dell’Educazione<br />
Terapeutica ma anche a rafforzare, cosa che gli Autori fanno<br />
con meritoria insistenza, il fatto che il diabete e molte<br />
malattie croniche richiedono al personale sanitario e ai<br />
pazienti un completo cambio di paradigma, un mutamento<br />
che è assai difficile da compiere e mantenere nella pratica.<br />
Massimo Balestri<br />
Roche Diagnostics
PREFAZIONE<br />
Questa più che una Prefazione è uno scambio di idee fra<br />
persone all’inizio di un ‘viaggio’.<br />
È significativo che Roche Diagnostics abbia scelto di presentare<br />
la traduzione italiana di The Art of Empowerment<br />
in occasione del congresso GISED, quinta edizione degli<br />
incontri mono-tematici sull’Educazione Terapeutica tenuti<br />
a Villa Erba.<br />
Empowerment e Educazione Terapeutica: quale differenza?<br />
Forse nessuna: infatti se diamo a empowerment il<br />
significato di ‘aiutare a crescere’, ‘irrobustire’, vediamo<br />
che anche l’Educazione Terapeutica ha come fine la capacità<br />
del paziente di autogestire in modo consapevole la<br />
propria malattia. In questa logica l’empowerment diventa<br />
una parte, una metodologia dell’Educazione Terapeutica.<br />
Ci sono comunque differenze di approccio fra la filosofia<br />
dell’empowerment così come emerge da questo libro e<br />
l’Educazione Terapeutica ‘europea’. Alcune sono differenze<br />
di ‘stile’. In un contesto laico e protestante come quello<br />
americano (il libro è edito dall’American Diabetes<br />
Association) risulta più semplice per il Terapeuta riconoscere<br />
al paziente il ‘diritto’ di curarsi ‘male’, di scegliere,<br />
purché informato, una strada che non appare ottimale o<br />
adeguata agli occhi del Terapeuta.<br />
Gli americani si spogliano più facilmente di noi, sembrerebbe,<br />
di un contesto di valorizzazioni e pregiudizi; questo<br />
consente loro di rispettare meglio – o comunque più<br />
7
8<br />
a fondo – le scelte del paziente."In natura" si legge in una<br />
delle molte e simpatiche citazioni sparse nel libro, “non ci<br />
sono premi né punizioni, ma solo conseguenze."<br />
Bisogna però essere cauti, perché questo approccio<br />
potrebbe rappresentare un alibi per educatori ‘scadenti’:<br />
con il risultato di scaricare responsabilità improprie al<br />
paziente. Nell’Educazione Terapeutica, la responsabilità<br />
del Terapeuta è aumentata, e non certo ridotta dall’approccio<br />
di ‘empowerment’. Il libro scritto da Bob<br />
Anderson e Martha Funnel tre anni or sono ha un lettore<br />
preciso: il diabetes educator. Questa figura di infermierepedagogo-dietista<br />
professionale opera negli USA come<br />
libero professionista prestando la sua opera al Centro di<br />
cura o a singoli pazienti e gruppi e coprendo una vasta<br />
gamma di bisogni, con la sola esclusione, si potrebbe<br />
dire, di quello più specificatamente medico.<br />
In Italia il diabetes educator non esiste. Le sue competenze<br />
sono condivise fra tutto il Team. Questo significa che il<br />
libro di Anderson e Funnel, in Italia, si rivolge a tutto il<br />
Team diabetologico. Siate Diabetologi o Infermieri,<br />
Dietisti o Psicologi, Pazienti o parenti... questo libro parla<br />
direttamente a Voi.<br />
Buona lettura.<br />
Umberto Valentini<br />
Vicepresidente<br />
Associazione Medici Diabetologi
INTRODUZIONE<br />
“Ma se tu non fossi matta, non saresti qui.<br />
Il Cappellaio Matto in Alice nel paese<br />
delle meraviglie di Lewis Carroll.<br />
Quando abbiamo iniziato a fare i diabetes educator pensavamo<br />
di raggiungere i nostri obiettivi insegnando ai pazienti<br />
come curare il diabete e cercando di fare in modo che<br />
seguissero le nostre raccomandazioni. L’esperienza ci ha<br />
insegnato che questo tipo di approccio non funziona e,<br />
cosa forse anche peggiore, risulta frustrante per noi e per i<br />
nostri pazienti. Per uscire da questa doppia frustrazione ci<br />
siamo chiesti: perché l’approccio tradizionale non funziona?<br />
E che cosa invece funziona? La risposta ha richiesto vent’anni<br />
di lavoro.<br />
Questo libro vuole condividere con voi ciò che abbiamo<br />
appreso per rispondere a quelle due domande. L’idea di<br />
fondo che stava alla base dell’approccio tradizionale, e cioè<br />
che il professionista della salute (medico, infermiere, psicologo<br />
o altro) è il responsabile della cura, è un’idea che non si<br />
adatta al diabete. Il paziente è il responsabile, è lui che ha il<br />
controllo della situazione. Una volta capito questo, abbiamo<br />
sviluppato un nuovo approccio, più adatto e, per noi, più<br />
soddisfacente. Abbiamo scelto di chiamarlo empowerment.<br />
Il che vuol dire aiutare le persone a scoprire e usare la loro<br />
innata capacità di gestire e controllare il loro diabete. In que-<br />
“<br />
9
10<br />
sto libro esponiamo le strategie che abbiamo sviluppato o<br />
adattato per favorire l’apprendimento e il cambiamento dei<br />
nostri pazienti, sia in situazioni di gruppo che individuali.<br />
UN LIBRO DI STORIE<br />
Abbiamo incluso molte ‘storie’ in questo libro perché i racconti<br />
di vita, le ‘storie’ sono uno dei più potenti mezzi di apprendimento<br />
che ha a disposizione il genere umano. Sono ‘storie’ di<br />
nostri pazienti e di nostri colleghi. I racconti dei pazienti ci insegnano<br />
come il diabete sia un’esperienza complessa, integrata,<br />
olistica, che include elementi psicologici, intellettuali, clinici,<br />
economici, sociali, culturali, religiosi o comunque spirituali.<br />
Abbiamo imparato che gli educators devono saper porre delle<br />
buone domande e ascoltare con attenzione se vogliono scoprire,<br />
grazie alle storie dei loro pazienti, le varie componenti<br />
della malattia.<br />
I nostri racconti, così come quelli di altri educator, ci insegnano<br />
che il modo in cui ci vediamo come formatori, la nostra<br />
filosofia di vita e di lavoro sono anche influenzati da elementi<br />
della nostra vita personale e lavorativa, da passate esperienze,<br />
obiettivi, bisogni e valori.<br />
Il nostro cammino di diabetes educator è cominciato nelle<br />
famiglie, nelle comunità in cui siamo cresciuti, nelle nostre<br />
prime esperienze personali. La storia di chi siamo e cosa<br />
siamo è stata poi modellata dalle scuole frequentate, dalla<br />
formazione professionale ricevuta e dalle esperienze di lavoro.<br />
Riflettere sull’influenza che la fitta trama delle nostre esperienze<br />
ha avuto sul nostro lavoro ci ha condotto a concludere<br />
che ciò che facciamo dipende da ciò che siamo.<br />
Come educators abbiamo la possibilità di aiutare i pazienti a<br />
scrivere per se stessi delle nuove storie. Storie in cui il diabete<br />
fa parte, in modo positivo, delle loro esistenze. Per fare<br />
questo abbiamo bisogno di entrare nella vita dei pazienti e<br />
imparare a guardare il mondo con i loro occhi. In quanto<br />
‘ospiti’ e partner possiamo lavorare con loro per integrare<br />
l’auto-gestione del diabete nella storia della loro vita in una
maniera che possa realmente rispondere ai loro bisogni.<br />
Un amico ci ha raccontato la visita di un senatore americano<br />
a Madre Teresa di Calcutta. Dopo aver passato quattro o cinque<br />
giorni in India e aver visto tutto ciò che lei aveva realizzato,<br />
il senatore ebbe un incontro finale con Madre Teresa. In<br />
quell’occasione le disse: “Il lavoro che state facendo è<br />
straordinario, ma, se devo essere sincero, credo che alla fine<br />
si rivelerà un fallimento. Anche moltiplicandolo per dieci o<br />
per cento, non sarebbe sufficiente a risolvere i problemi di<br />
povertà, malattie e sofferenze che affliggono questa parte<br />
del mondo”. Al che Madre Teresa rispose: “Dio non chiede<br />
che io abbia successo, ma fede in ciò che faccio”.<br />
Una pratica di educazione al diabete che sia ricca di soddisfazioni<br />
e umanamente appagante, secondo la nostra esperienza,<br />
è una pratica che si basa su una prospettiva, su una visione,<br />
a cui cerchiamo di rimanere fedeli. Benché le sfide che<br />
abbiamo davanti non siano così impegnative come quelle di<br />
Madre Teresa, c’è comunque molto, nel panorama mutevole<br />
dell’assistenza sanitaria e anche nelle istituzioni in cui lavoriamo,<br />
su cui non possiamo intervenire. Possiamo controllare il<br />
modo con cui interagiamo con i pazienti e con i nostri colleghi.<br />
E così possiamo rimanere fedeli alle nostre idee.<br />
UN LIBRO PER IMPARARE A FARE<br />
Scrivere un libro sull’empowerment è stata una sfida. Molti<br />
dei libri diretti a un pubblico di professionisti contengono<br />
argomenti e concetti, mentre l’empowerment è essenzialmente<br />
una pratica. L’approccio concettuale e quello esperienziale<br />
all’apprendimento danno due tipi di conoscenza<br />
differenti: sapere e saper fare. L’apprendimento basato su<br />
concetti richiede in genere di leggere e ascoltare per acquisire<br />
delle nozioni su un determinato argomento. Possiamo<br />
imparare molte cose sul diabete leggendo un libro di testo<br />
o ascoltando delle lezioni su quest’argomento.<br />
L’apprendimento basato solo su concetti ha però due grossi<br />
limiti. Il primo è che siamo in grado di ricordare quanto<br />
11
12<br />
studiato solo per un breve lasso di tempo, soprattutto se<br />
quei concetti non vengono utilizzati continuamente. Quanti<br />
di noi sarebbero in grado di superare oggi un esame di<br />
algebra da scuola superiore? Il secondo è che l’approccio<br />
concettuale genera una conoscenza inerte. È un tipo di<br />
conoscenza difficile da utilizzare per risolvere i problemi,<br />
perché le nozioni tendono a essere memorizzate come<br />
insiemi di concetti organizzati secondo criteri utili per chi li<br />
insegna, ma non per chi li usa.<br />
Molti libri di testo sono pensati per trasferire informazioni dal<br />
libro al lettore, ma non è questo il nostro scopo. Vorremmo<br />
invece che fosse un punto di partenza, un trampolino, per un<br />
apprendimento basato sull’esperienza. Perché l’esperienza<br />
insegni è necessario che sia accompagnata dalla riflessione.<br />
Abbiamo cercato di scrivere un libro che vi stimoli a fare qualcosa<br />
di più che apprendere il concetto di empowerment.<br />
Non possiamo darvi le risposte, ma possiamo proporvi alcune<br />
domande che possono aiutare a trovare le risposte giuste<br />
per voi. Fare domande è il mezzo più efficace che noi conosciamo<br />
per stimolare l’apprendimento esperienziale, perché<br />
spingono a riflettere sulla vostra esperienza. Le domande<br />
sono al centro dell’approccio empowerment, sia per i pazienti<br />
che per gli operatori sanitari. Riflettere sul lavoro fatto è il<br />
modo migliore, secondo noi, per migliorare il lavoro da fare.<br />
Siete invitati, anche, a provare su voi stessi alcune delle tecniche<br />
di insegnamento e di cambiamento del comportamento<br />
presentate nel libro, e a valutarne l’efficacia. Siate scettici,<br />
riflessivi e pratici.<br />
COME USARE QUESTO LIBRO<br />
Il libro può essere utilizzato in molti modi. Certamente potete<br />
leggerlo e rifletterci sopra in solitudine. Ma l’esperienza ci<br />
ha insegnato che è in genere molto più stimolante per la<br />
riflessione e il cambiamento confrontarsi con qualcuno che<br />
gode della vostra stima e fiducia. Se è possibile, leggete il<br />
libro e discutete le domande per riflettere con uno o più col-
leghi di fiducia. Oppure, potreste trovare che sia un mezzo<br />
utile per la crescita personale e per la formazione dei membri<br />
dell’équipe in cui lavorate.<br />
Le domande per riflettere e i suggerimenti per un diario sono<br />
pensati per aiutarvi a raccontare la vostra storia. Sono questo<br />
racconto e le introspezioni che spesso emergono dall’ascoltare<br />
se stessi che fanno dell’apprendimento basato su esperienze<br />
una potente forza di crescita personale e di cambiamento<br />
del comportamento. Raccontare la nostra storia ad<br />
altri porta in superficie le emozioni in un modo che il semplice<br />
ricordo generalmente non fa. Inoltre, quando raccontiamo<br />
la nostra storia a persone che hanno la nostra fiducia, queste<br />
possono farci delle domande che ci inducono ad approfondire<br />
e riflettere in modo nuovo.<br />
13
Ciò che facciamo<br />
è quello che siamo<br />
PARTE 1<br />
“Io sono quello che sono e questo è tutto<br />
quello che sono.<br />
Braccio di Ferro<br />
noi abbiamo sentito il detto “l’ese“Tutti<br />
rcizio fa la perfezione”.<br />
Eppure tutti abbiamo incontrato insegnanti, medici,<br />
infermieri, psicologi, diabetes educators e altri professionisti<br />
che facevano male il loro lavoro quando hanno iniziato e che<br />
lo facevano ancora allo stesso modo vent’anni dopo.<br />
Avevano accumulato molta esperienza ma evidentemente<br />
mancava qualcosa. Imparare, crescere, migliorare, richiedono<br />
riflessione. Riflettere continuamente sul nostro lavoro ci insegna<br />
più cose sull’arte dell’educazione al diabete che non leggere<br />
tutti i libri e gli articoli mai scritti sull’argomento.<br />
Una pratica riflessiva richiede un continuo esame della<br />
nostra prospettiva, del nostro comportamento, della nostra<br />
esperienza e dei nostri risultati. Quando facciamo il nostro<br />
lavoro in modo riflessivo chiediamo a noi stessi dopo ogni<br />
seduta: “Il mio comportamento sta dando i risultati che io<br />
desidero? Le cose sarebbero andate diversamente se mi<br />
fossi comportato in modo differente? Se potessi tornare<br />
indietro cosa cambierei nella mia interazione con quel<br />
paziente o quel collega? Qual è il mio scopo? Qual è la mia<br />
responsabilità? Sto veramente perseguendo il mio scopo?<br />
Mi sto veramente prendendo le mie responsabilità? Sto<br />
veramente ‘educando’ i miei pazienti e me stesso?”.<br />
15
16<br />
“Le nostre azioni determinano noi stessi<br />
quanto noi determiniamo le nostre azioni.<br />
George Eliot<br />
Abbiamo imparato che il mestiere di diabetes educator è<br />
parte del mestiere di vivere. Nello sviluppare la nostra<br />
filosofia di empowerment ci siamo resi conto che le riflessioni<br />
che hanno modellato la nostra idea del ruolo del<br />
diabetes educator si sono formate nel corso di molti anni<br />
e includono esperienze che risalgono a molto tempo<br />
prima del nostro ingresso nel mondo del diabete.<br />
Nella prima parte di questo libro vogliamo condividere<br />
con voi alcune delle esperienze che hanno contribuito a<br />
delineare il nostro approccio all’educazione al diabete,<br />
esperienze fatte dentro e fuori il mondo dell’istruzione e<br />
dell’assistenza sanitaria. Non è possibile, però, come per<br />
i nostri pazienti con il diabete, suddividere queste esperienze<br />
in categorie nettamente separate senza distruggerne<br />
la loro integralità e complessità. Abbiamo incluso queste<br />
storie come stimolo (e come invito) a tutti i lettori a<br />
riflettere sul proprio approccio all’educazione al diabete.<br />
Pensate al modo in cui le vostre esperienze di educator, di<br />
studenti, di membri di una famiglia, di professionisti della<br />
salute hanno modellato la vostra idea di questo importante<br />
lavoro. Ci auguriamo che questa parte vi sia di aiuto<br />
nel vostro viaggio di diabetes educators, medici, infermieri,<br />
psicologi, dietisti, o semplicemente di esseri umani.<br />
“
CAPITOLO 1<br />
Il nostro viaggio<br />
nell’empowerment<br />
Il diabete è una malattia autogestita. Deve esserlo.<br />
L’autocontrollo del diabete è responsabilità del paziente,<br />
e questo richiede una ridefinizione dei ruoli, del paziente<br />
come del personale sanitario, una visione completamente<br />
nuova della ‘educazione’. Abbiamo impiegato molti anni<br />
per capirlo pienamente e per comprendere i cambiamenti<br />
fondamentali che questo implicava nella nostra filosofia<br />
di educazione al diabete.<br />
La storia di Bob<br />
Ho imparato una lezione veramente importante nei miei<br />
anni di college. Ho imparato che c’erano delle alternative<br />
al metodo di apprendimento basato sulla memorizzazione<br />
di lezioni terribilmente noiose. Durante gli anni di scuola<br />
e buona parte di quelli di college, noi ci sforzavamo di<br />
memorizzare le nozioni esposte dall’insegnante per poi<br />
ripeterle all’esame. Trovavo questo approccio piuttosto<br />
noioso, ma fino al college non pensavo che ci fossero altri<br />
modi per insegnare e per apprendere. Sapevo soltanto<br />
che la scuola non mi piaceva.<br />
Non dimenticherò mai il corso di Introduzione alla<br />
Filosofia che seguii appena entrato al college. Era tenuto<br />
da un giovane e brillante professore. Alla prima lezione ci<br />
divise in piccoli gruppi e ci disse che durante il semestre<br />
ogni gruppo avrebbe dovuto preparare un proprio progetto<br />
di società utopica basata su una filosofia accurata-<br />
17
18<br />
mente elaborata. Leggemmo Aristotele, Platone, Locke,<br />
Nietzsche e altri per aiutarci a decidere quale filosofia o<br />
quale ‘miscela’ di filosofie avremmo adottato per la nostra<br />
società. Trovai quel corso interessante e stimolante. La<br />
filosofia mi apparve una cosa viva perché la studiavamo<br />
per vedere come si poteva applicare allo sviluppo del<br />
nostro progetto di società. Fu così che scoprii che la<br />
maggior parte delle culture, dei governi, delle istituzioni<br />
hanno alla base dei fondamenti filosofici.<br />
Pochi anni dopo essermi diplomato al college, venni a conoscenza<br />
dell’esistenza di un programma didattico per insegnanti<br />
diplomati basato su tecniche di apprendimento attraverso<br />
la pratica e la risoluzione di problemi. Il programma<br />
veniva offerto dove risiedevo, a circa 150 miglia dall’università<br />
che avevo frequentato. Si basava sulla premessa che la<br />
maniera migliore per imparare a insegnare era insegnare e<br />
poi riflettere su quanto fatto, piuttosto che starsene seduti in<br />
un’aula ad ascoltare un professore che parlava di come si<br />
deve fare. Passavo la mattina a tenere lezioni nelle scuole<br />
superiori e il pomeriggio a fare seminari con gli altri insegnanti<br />
che partecipavano al programma. Studiavamo pedagogia<br />
e psicologia mentre cercavamo, non senza fatica, di<br />
diventare dei docenti migliori. I nostri dibattiti, le nostre discussioni,<br />
le nostre esplorazioni scaturivano dalle sfide che<br />
tutti i giorni la pratica dell’insegnamento ci proponeva. Ci<br />
sentivamo profondamente coinvolti nei problemi didattici<br />
che studiavamo perché era la nostra esperienza quotidiana e,<br />
per lo stesso motivo, mettevamo passione nella ricerca delle<br />
soluzioni. Quell’esperienza cambiò radicalmente le mie idee<br />
sulle possibilità dell’insegnamento. Scoprii quanto può essere<br />
ricco e vitale l’apprendimento quando è applicato alla vita<br />
reale, quando gli studenti hanno una vera necessità di conoscere.<br />
Giunsi ad apprezzare quanto può essere liberatoria l’istruzione<br />
quando aiuta gli studenti a pensare creativamente<br />
e a risolvere i problemi autonomamente, anziché adottare<br />
semplicemente le opinioni correnti.
Finita l’università, più di 20 anni fa, iniziai per caso a occuparmi<br />
di diabete. Compresi presto che, nonostante l’educazione<br />
sanitaria del paziente fosse una componente fondamentale<br />
della cura del diabete, un numero relativamente<br />
piccolo di istituzioni e di personale investiva del<br />
tempo per riflettere su come farla nel migliore dei modi.<br />
La maggior parte dei clinici che incontravo concepivano i<br />
corsi di educazione sanitaria per i pazienti allo stesso<br />
modo con cui loro stessi li avevano ricevuti: “Ecco delle<br />
nozioni, andate e applicatele”. La maggior parte dei diabetes<br />
educator che incontravo avevano una discreta preparazione<br />
ed esperienza sulla fisiopatologia del diabete e<br />
sul controllo glicemico, ma avevano ricevuto poca formazione<br />
su come insegnare tutto questo ai pazienti. Gran<br />
parte dei corsi per i pazienti erano noiosi quanto i corsi<br />
che avevo seguito da ragazzo. Mi accorsi, inoltre, che<br />
buona parte della formazione per diabetici era finalizzata<br />
a ‘indurre’ il paziente a fare ciò che la figura di riferimento<br />
(il medico o il diabetes educator) aveva deciso che quel<br />
paziente dovesse fare, piuttosto che lavorare insieme con<br />
il paziente per identificare le sue ‘sfide’ particolari.<br />
Ricordo di aver pensato: “Conosco questo metodo, non<br />
mi piaceva allora e non mi piace adesso”.<br />
Per ragioni che non mi sono interamente chiare, quando<br />
io osservo un paziente e un medico o un infermiere interagire,<br />
io mi identifico con il paziente. Immagino come si<br />
deve sentire il paziente quando viene trattato in un certo<br />
modo (buono o cattivo che sia). Vorrei che le mie esperienze<br />
di vita fossero riconosciute e il mio diritto a prendere<br />
decisioni sulla mia salute e il mio benessere rispettato.<br />
L’esperienza mi ha insegnato che la maggior parte<br />
delle persone desidera essere trattata in questo modo.<br />
Riflettere su tutto questo e sulle straordinarie possibilità<br />
che offre la formazione nel diabete – quando è praticata<br />
come un’attività collaborativa – è stato per 20 anni il centro<br />
e la motivazione del mio lavoro.<br />
19
20<br />
La storia di Marti<br />
Le mie esperienze professionali con l’empowerment sono<br />
cominciate durante il mio corso da infermiera. Avevo solo<br />
delle idee vaghe su cosa fa un’infermiera, ma fui fortunata<br />
a scegliere una scuola che mi diede delle lezioni molto<br />
importanti, a parole e attraverso le esperienze che mi<br />
furono offerte. Imparai che infermiere e infermieri danno<br />
qualcosa di unico ai pazienti. Non sono ‘dei quasi medici<br />
con meno conoscenze’. Piuttosto, siamo persone che portano<br />
ai nostri pazienti qualcosa di vitale ma difficile da<br />
misurare. Non solo competenza ma anche attenzione e<br />
comprensione.<br />
Ho cominciato a lavorare con i pazienti affetti da tumore<br />
polmonare inoperabile. Spesso facevo il turno di notte e<br />
mi sentivo inutile, di nessun aiuto, per quelle persone che<br />
non riuscivano a prendere sonno per l’angoscia o per il<br />
dolore. Vedevo però che i pazienti che erano in grado di<br />
fronteggiare con una certa forza e serenità la loro diagnosi<br />
vivevano più a lungo e morivano meglio. Con uno in<br />
particolare, un paziente che aveva raggiunto un sorprendente<br />
livello di accettazione della malattia, passai molte<br />
ore chiedendogli consiglio su cosa potessi fare per gli<br />
altri. Mi rispose: “Impara ad ascoltare e a prenderti cura<br />
delle persone”.<br />
Un’altra esperienza che ha influenzato la mia filosofia<br />
lavorativa è stata una ricerca sull’efficacia dei ‘contratti di<br />
benessere’: a pazienti con diabete, ipertensione, artrite<br />
veniva chiesto di modificare il proprio stile di vita per raggiungere<br />
determinati obiettivi di salute. In quel progetto<br />
aiutavamo i pazienti a scegliere i loro obiettivi e a sviluppare<br />
un percorso graduale per raggiungerli. Benché questo<br />
approccio non avesse un nome, utilizzava molte delle<br />
idee che sono poi diventate parte del modello empowerment.<br />
Chiedevamo ai pazienti di stabilire cosa fosse<br />
importante per loro e da dove volessero cominciare a<br />
cambiare. Poi li aiutavamo a redigere una lista dei passi
che li avrebbero portati a raggiungere i loro obiettivi. Il<br />
progetto durò tre anni e imparai quanto sono intimamente<br />
legati emozioni e comportamenti: una persona che<br />
sente di poter padroneggiare la situazione e che si sente<br />
sostenuta può fare ciò che ha deciso di dover fare.<br />
Nel 1983 andai a lavorare al Michigan Diabetes Research<br />
and Training Center. A quel tempo avevamo un programma<br />
completo di assistenza e educazione per i pazienti<br />
ricoverati. Era la mia prima vera esperienza come diabetes<br />
educator e, attraverso le interazioni con i pazienti e<br />
con lo staff, mi resi conto della complessità del diabete e<br />
dei problemi che poneva ai pazienti e alle loro famiglie.<br />
Risultava evidente come i pazienti fossero, in realtà, i veri<br />
decisori della propria cura. Potevo portare tutta la conoscenza<br />
che avevo, e potevo aiutarli a vagliare le varie<br />
opzioni disponibili e a fissare gli obiettivi di cura, ma alla<br />
fine erano le loro convinzioni, le loro idee sulla malattia la<br />
vera forza trainante della cura. Mi accorsi di quanto differente<br />
potesse essere il significato del diabete per ognuno<br />
di loro, di come lo vivessero e di quanto questo influenzasse<br />
ciò che facevano.<br />
Guardando indietro nella mia vita professionale, capisco che<br />
la storia del mio rapporto con l’empowerment è il racconto di<br />
un viaggio. Non c’è stato nessun evento drammatico, nessuna<br />
svolta radicale che mi ha condotto ad abbracciare questa<br />
filosofia, quanto piuttosto il risultato di continui aggiustamenti<br />
nel mio modo di lavorare. È accaduto lentamente,<br />
riflettendo sui risultati di queste esperienze, imparando da<br />
ciò che funzionava e da ciò che non funzionava e inserendo<br />
quanto appreso nella mia vita e nel mio lavoro quotidiano. Le<br />
mie esperienze professionali con l’empowerment hanno<br />
nutrito e allo stesso tempo sono state lo specchio delle mie<br />
esperienze di vita. Sarebbe stato difficile il contrario, praticare<br />
una certa filosofia al lavoro e una diversa nella vita.<br />
Perché l’empowerment è una filosofia e non una tecnica,<br />
è un modo di vedere il mondo e di essere, qualcosa che<br />
21
22<br />
mi accompagna in tutte le relazioni, personali e di lavoro,<br />
come le mie conoscenze sul diabete e la mia personalità.<br />
Ogni incontro con un paziente è una nuova occasione per<br />
sperimentare e apprendere. Imparare sempre qualcosa mi<br />
rinnova e mi rafforza, mi aiuta a mantenere intatto l’entusiasmo<br />
per l’educazione al diabete anche dopo 17 anni.<br />
Sul finire degli anni ‘80 il Comitato Didattico del Michigan<br />
Diabetes Research and Training Center ha sviluppato dei<br />
corsi per i pazienti e per il personale sanitario. Nel prepararli<br />
abbiamo a lungo parlato di cosa ognuno di noi avesse<br />
fatto con i pazienti e di cosa avesse funzionato davvero.<br />
Come presidente, per aiutare a denominare e definire<br />
la nostra idea di ciò che è efficace, ho chiesto a tutti i<br />
membri del comitato di scrivere un breve saggio sulla<br />
propria concezione della formazione dei pazienti.<br />
Le nostre storie si uniscono<br />
Quando abbiamo messo insieme i nostri saggi sulle ‘filosofie<br />
della cura del diabete e dell’educazione’ abbiamo<br />
scoperto che molti di noi erano arrivati a conclusioni analoghe<br />
sulla natura del diabete e sul suo trattamento. Fu<br />
sorprendente scoprire quanto simili fossero le nostre<br />
esperienze. Tutti noi avevamo tentato una varietà di strategie<br />
che erano riconducibili alla psicologia comportamentale<br />
o behavioristica e avevamo avuto più o meno<br />
successo. Quelle che avevamo trovato utili erano le più<br />
coerenti con la nostra personale visione ed esperienza. La<br />
filosofia che collettivamente descrivevamo, però, non<br />
rientrava in nessuno dei modelli formativi o comportamentali<br />
che venivano usati all’epoca nell’educazione al<br />
diabete, specialmente i modelli basati su concetti come<br />
adesione (‘adherence’) e compliance (che noi intendiamo<br />
come modelli intercambiabili). Soprattutto, il nostro<br />
approccio non era compatibile con l’idea che la formazione<br />
dovesse cambiare il comportamento dei pazienti per<br />
adeguarlo alla cura raccomandata.
Dopo aver discusso le nostre idee ed esperienze, realizzammo<br />
che il diabete è una malattia autogestita e che la responsabilità<br />
di questa gestione appartiene al paziente.<br />
Comprendemmo anche che l’approccio tradizionale era<br />
stato sviluppato per il trattamento delle malattie acute e che,<br />
applicato a persone adulte con il diabete, tendeva a produrre<br />
scarsa adesione/compliance. A quell’epoca Marti ascoltò<br />
una conferenza sull’empowerment. Era la prima volta che<br />
sentiva spiegare il concetto di empowerment veramente e<br />
pensò: ”Ci siamo, questo è ciò che descrive la nostra idea”.<br />
Dare un nome alla nostra filosofia ci portò a stendere il nostro<br />
primo articolo sull’empowerment.<br />
In quell’articolo descrivevamo il concetto di empowerment<br />
e facevamo risalire le sue radici al counseling psicologico<br />
e alla psicologia di comunità. Definivamo il processo<br />
di empowerment come la scoperta e lo sviluppo delle<br />
innate capacità di ognuno di essere responsabile della<br />
propria vita. Suggerivamo che le persone erano ‘empowered’<br />
quando avevano:<br />
abbastanza conoscenza per prendere decisioni razionali;<br />
abbastanza controllo;<br />
abbastanza risorse per mettere in pratica le proprie<br />
decisioni;<br />
abbastanza esperienza per valutare l’efficacia delle proprie<br />
azioni.<br />
Dalla pubblicazione di quel primo articolo abbiamo intrapreso<br />
un viaggio che si è rivelato a volte appagante e a<br />
volte frustrante. Soddisfazione e frustrazione dipendono<br />
dal risultato ottenuto e che può essere riassunto in un<br />
concetto molto semplice: non tutti i formatori riescono a<br />
fare proprio il modello empowerment. Per abbracciare<br />
realmente la filosofia dell’empowerment i terapeuti devono<br />
adottare un nuovo paradigma. È un nuovo modo di<br />
insegnare, con un nuovo scopo.<br />
Molti dei nostri sforzi sono stati spesi a ideare e realizzare<br />
programmi educativi che portassero i terapeuti a condivi-<br />
23
24<br />
dere quelle intuizioni che avevano trasformato noi e il<br />
nostro approccio all’educazione sul diabete. Abbiamo<br />
tenuto lezioni sull’empowerment in molti programmi di<br />
formazione e abbiamo condotto una serie di corsi intensivi<br />
di formazione di tre giorni all’Università del Michigan.<br />
Abbiamo imparato che una conferenza di un’ora è utile<br />
per presentare il concetto di empowerment per la prima<br />
volta, ma questo tipo di presentazione raramente produce<br />
il cambio di paradigma necessario. I corsi intensivi di<br />
tre giorni, invece, spesso ottengono questo risultato perché<br />
danno ai partecipanti il tempo per riflettere sulla propria<br />
pratica. Questo tipo di corsi comprende un’esperienza<br />
di tre giorni con un caso simulato di diabete, presentazioni<br />
e discussioni sull’empowerment, sessioni pratiche<br />
videoregistrate in cui viene utilizzato il modello di counseling<br />
per empowerment in cinque fasi, revisione dei<br />
nastri registrati, e attività di studio concepite per aiutare i<br />
partecipanti a conoscere se stessi, a scoprire e definire la<br />
propria visione.<br />
Il corso di tre giorni offre agli educatori un’opportunità per<br />
riflettere approfonditamente sulla propria pratica e sulla<br />
propria prospettiva. Questa è un’opportunità che la maggior<br />
parte di noi non ha o non coglie. Nella indaffarata vita<br />
quotidiana, fitta di esigenze in conflitto tra loro, spesso<br />
non ci si prende il tempo necessario per riflettere sulle<br />
esperienze fatte e sulla nostra idea di assistenza. Inoltre<br />
non si considera come queste esperienze modellino il<br />
nostro pensare e il nostro agire.<br />
Inoltre, il corso dà ai partecipanti una chance per provare<br />
un nuovo approccio in un ambiente ‘sicuro’. Rivedere le<br />
sessioni pratiche videoregistrate porta a un’introspezione,<br />
perché permette di vedere quanto sia difficile lasciare che<br />
la persona che stanno aiutando si assuma la responsabilità<br />
del trattamento. Quando poi rivestono il ruolo di<br />
pazienti si trovano a lavorare su vere problematiche della<br />
loro vita. Molti realizzano allora che è molto più utile
avere una persona che aiuta ascoltando veramente,<br />
rispettando le priorità e sostenendo le capacità di risolvere<br />
i problemi, piuttosto che una persona che ‘si fa carico’,<br />
dà consigli, e dice cosa fare. Sperimentano il fatto che<br />
quando agiscono da terapeuti è difficile lasciare da parte<br />
le proprie esigenze e priorità, mentre quando interpretano<br />
il ruolo di pazienti, questo ‘lasciar fare’ da parte dell’educatore<br />
è realmente di aiuto.<br />
Terzo, il corso dà ai partecipanti l’opportunità di mettere<br />
insieme teoria e pratica. Spesso quando apprendiamo<br />
una nuova tecnica siamo ansiosi di metterla in pratica. Ma<br />
se noi non abbiamo fatto un vero cambio di paradigma,<br />
inevitabilmente cercheremo di immettere la nuova tecnica<br />
nello schema mentale preesistente, il che equivale a<br />
‘mettere il vino vecchio nelle botti nuove’. Questo corso<br />
permette ai partecipanti di esplorare e spesso trasformare<br />
la loro filosofia, e di selezionare e usare le strategie in<br />
modi che si adattino alla nuova prospettiva.<br />
Domande per riflettere<br />
1) Quante occasioni avete per riflettere sulla vostra attività?<br />
2) In che modo e quando lo fate?<br />
3) In che misura la riflessione vi aiuta a crescere come persona<br />
e come professionista?<br />
4) Cosa vi ha insegnato la riflessione?<br />
25
CAPITOLO 2<br />
Il diabete è differente<br />
“In natura non ci sono premi o punizioni,<br />
ci sono conseguenze.<br />
Robert G. Ingersoll<br />
La pietra angolare dell’approccio empowerment è comprendere<br />
che nel diabete il paziente ha in mano la gestione<br />
della propria malattia. È una responsabilità non negoziabile,<br />
indivisibile e ineludibile. Benché l’affermazione<br />
possa suonare forte, crediamo che rappresenti una descrizione<br />
chiara e diretta della realtà. Riteniamo che riconoscere<br />
e accettare questa realtà sia fondamentale per<br />
adottare e usare efficacemente un approccio empowerment<br />
nell’assistenza e nell’educazione al diabete.<br />
La completa responsabilità del paziente scaturisce da tre<br />
caratteristiche della malattia: scelte, controllo e conseguenze.<br />
Primo, le scelte che hanno il massimo effetto sulla<br />
salute e sul benessere di una persona con il diabete sono<br />
fatte da quella stessa persona, non dagli esperti di diabete.<br />
Ogni giorno le persone con il diabete fanno delle scelte<br />
che hanno un impatto ben maggiore sulla loro glicemia,<br />
qualità della vita, salute e benessere generale di quanto lo<br />
abbia l’assistenza fornita loro dal personale sanitario. Le<br />
scelte che i pazienti fanno riguardo ai pasti, all’attività fisica,<br />
alla gestione dello stress e al monitoraggio sono i fattori<br />
maggiormente determinanti del controllo diabetico.<br />
Secondo, sono i pazienti ad avere il controllo della situa-<br />
“<br />
27
28<br />
zione. Noi possiamo supplicare, chiedere, blandire i nostri<br />
pazienti riguardo ogni aspetto della cura, ma quando<br />
lasciano il nostro reparto o il nostro studio, sono loro ad<br />
avere il controllo delle scelte di trattamento. Possono<br />
ignorare ogni raccomandazione.<br />
In terzo luogo, le conseguenze delle scelte fatte dai<br />
pazienti ricadono prima e maggiormente sui pazienti stessi.<br />
Non possiamo condividere direttamente i rischi o i<br />
benefici delle scelte dei nostri pazienti. Non possiamo condividere<br />
il loro rischio di sviluppare retinopatia, neuropatia,<br />
malattie cardiovascolari; né possiamo condividere il prezzo<br />
da pagare in termini di qualità della vita imposto da un<br />
controllo glicemico stretto. Il diabete, compresa la sua<br />
autogestione, appartiene alle persone che sono ammalate.<br />
Il racconto di Bob<br />
Qualche anno fa mia sorella minore venne ricoverata in<br />
ospedale a Boston. Soffriva di un prolasso della mitrale<br />
che richiedeva un intervento chirurgico a cuore aperto.<br />
Mia sorella è un adulto autonomo, responsabile, che<br />
gestisce da sé la propria vita. È un funzionario di polizia<br />
ed è abituata a tenere la sua vita sotto controllo. Il suo<br />
problema col cuore, però, era al di là delle sue capacità di<br />
soluzione. I medici e tutto il personale sanitario del<br />
Massachusetts General Hospital stabilirono con lei un<br />
tacito accordo, una cosa che viene fatta migliaia di volte<br />
ogni giorno in tutto il Paese. Fu invitata a lasciare il suo<br />
mondo di tutti i giorni e a entrare nel mondo tecnologizzato<br />
dell’ospedale. Le dissero proprio così: “Sii bambina<br />
un’altra volta e noi ci prenderemo cura di te”. Lei accettò<br />
e per cinque giorni un gruppo di sanitari ebbe il controllo<br />
sulla sua vita per aiutarla. Durante il suo soggiorno in<br />
ospedale altri presero per lei decisioni banali e decisioni<br />
fondamentali: stabilirono a che ora sarebbe andata a dormire,<br />
a che ora si sarebbe svegliata, cosa avrebbe mangiato<br />
e cosa avrebbe fatto durante la giornata. Le dissero
quante persone al giorno avrebbero potuto farle visita e<br />
in quali orari. L’intervento riuscì perfettamente e dopo<br />
cinque giorni fu dimessa per tornare di nuovo al suo<br />
mondo e riprendere il suo ruolo di adulto autonomo e<br />
responsabile.<br />
La storia è il classico esempio di approccio tradizionale per<br />
le malattie acute. La sorella di Bob lasciò temporaneamente<br />
il controllo sulla sua vita a un gruppo di esperti al<br />
fine di ottenere il loro aiuto per risolvere un problema che<br />
lei non poteva risolvere da sola. Fu un’esperienza gratificante,<br />
per lei e probabilmente per tutto il personale sanitario<br />
che ha scelto di dedicare la propria vita professionale<br />
alla cura di questo tipo di malattie. Nella nostra società<br />
i ruoli e le relazioni tra terapeuti e pazienti sono basati sul<br />
trattamento di patologie acute come quella descritta. E in<br />
casi come questo funzionano a meraviglia. Ma questi ruoli<br />
e queste relazioni non si adattano al diabete.<br />
Quando i diabetes educators riconoscono e capiscono<br />
che il diabete è una malattia autogestita la cui responsabilità<br />
ricade sul paziente, poniamo le fondamenta di una<br />
relazione basata sull’empowerment. Questo tipo di relazione<br />
richiede che smettiamo di sentirci responsabili per i<br />
nostri pazienti. Non possiamo controllare le loro decisioni<br />
quotidiane. Tentare di fare questo, non importa quanto<br />
ben intenzionati, in genere porta alla frustrazione sia noi<br />
che i pazienti.<br />
I pazienti che si sentono sopraffatti perché è stato appena<br />
diagnosticato loro il diabete possono, effettivamente,<br />
lasciare che siamo noi a prendere le decisioni. Possono<br />
accogliere con sollievo l’opportunità di delegare ad altri<br />
ciò che sentono come il pesante carico delle scelte. In<br />
situazioni del genere, possiamo preparare un piano di<br />
trattamento e i nostri pazienti si mostreranno d’accordo<br />
nel seguirlo. Ma anche in queste situazioni abbiamo bisogno<br />
di rammentare a noi stessi che sono sempre loro ad<br />
29
30<br />
avere il controllo. Hanno scelto di lasciare a noi il potere<br />
di prendere delle decisioni, ma possono riprenderselo in<br />
qualsiasi momento. Per molti pazienti, l’angoscia legata al<br />
fatto di avere il diabete si riduce nel tempo ed essi si sentono<br />
sempre più a disagio nel sottomettersi al controllo<br />
dei medici. Il bisogno come persone adulte di autonomia<br />
e autogestione riemerge e il periodo di crisi associato con<br />
la diagnosi di diabete finisce.<br />
“Ogni verità passa per tre fasi.<br />
Primo viene ridicolizzata.<br />
Secondo è violentemente contrastata.<br />
Terzo è accettata come evidente.<br />
Arthur Schopenhauer<br />
Nella nostra esperienza, il successo nell’assistenza e nella<br />
educazione al diabete comincia di solito con una discussione<br />
su chi è responsabile di cosa nella gestione della<br />
malattia. Non possiamo sollevare i nostri pazienti da questa<br />
responsabilità, ma possiamo insegnare loro alcune tecniche<br />
e procurare loro le risorse che li aiutino ad assumersi<br />
queste responsabilità. Possiamo fornire un expertise sul<br />
diabete e tutte le conoscenze necessarie per fare delle<br />
scelte informate e consapevoli, abilità per la cura di sé,<br />
supporto per la vita di relazione, sociale ed emotiva, suggerimenti<br />
per cambiare stili di vita e strategie di adattamento,<br />
opportunità per riflettere sulle proprie scelte e sugli<br />
obiettivi che sperano di raggiungere. Nella nostra esperienza,<br />
se la relazione con i pazienti è basata sul riconoscimento<br />
dei limiti e delle responsabilità di ognuna delle due<br />
parti, diventa, in genere, più efficace e gratificante.<br />
“Tu devi essere il cambiamento<br />
che desideri avvenga nel mondo.<br />
Mahatma Gandhi<br />
“<br />
“
Domande per riflettere<br />
1) Lavorate in un ambiente in cui ci si aspetta che siate<br />
responsabili delle decisioni che i vostri pazienti prendono?<br />
Come lo vivete?<br />
2) Secondo voi, quali sono le vostre responsabilità nell’educazione<br />
al diabete e quali quelle del paziente?<br />
3) Secondo voi, qual è la differenza tra essere responsabili<br />
‘per’ ed essere responsabili ‘verso’ un paziente?<br />
4) Come vi sentite quando, dopo aver lavorato duramente<br />
per aiutare un paziente a capire quanto sia importante<br />
prendersi cura del proprio diabete, vi sembra di<br />
aver parlato a un sordo?<br />
31
CAPITOLO 3<br />
La prospettiva<br />
illumina il metodo<br />
Cosa state cercando?<br />
Come diabetes educator abbiamo cercato per anni il<br />
metodo formativo più efficace. Un programma, una teoria<br />
o un insieme di regole che ci dicesse cosa fare e come<br />
farlo. Molti hanno continuato a cercarlo perché, secondo<br />
la loro idea, lo scopo della formazione è il cambiamento.<br />
Questa motivazione è comprensibile. Noi crediamo che sia<br />
nostro compito portare i pazienti ad aderire al trattamento.<br />
Cerchiamo un metodo o una pillola magica che aiuti i<br />
nostri pazienti a fare ogni cosa per bene per gestire il loro<br />
diabete. Vogliamo trovare qualcosa che aiuti loro – e di<br />
conseguenza noi – ad avere successo. Per comprendere le<br />
implicazioni di questo continuo interrogarsi su come formare<br />
più efficacemente, dobbiamo esaminare quali sono<br />
le idee che circolano riguardo ai modi della conoscenza<br />
considerate più valide nel mondo della sanità.<br />
Nell’approccio tradizionale alla ricerca dei trattamenti per<br />
le malattie, l’esperimento controllato, randomizzato, è<br />
considerato lo strumento più valido e affidabile per identificare<br />
i trattamenti efficaci. Purtroppo, non funziona così<br />
bene per i metodi di formazione. Prendiamo in cosiderazione<br />
il seguente esperimento controllato.<br />
In un laboratorio presso un centro di ricerca internazionalmente<br />
rinomato, uno scienziato prende 100 topi bianchi,<br />
identici, e li assegna in modo casuale a due gruppi. I<br />
due gruppi sono messi nelle stesse gabbie e ricevono il<br />
33
34<br />
medesimo cibo. La quantità di luce, di acqua, il rumore<br />
ambientale e ogni altra variabile è esattamente la stessa.<br />
A uno dei due gruppi viene dato un nuovo farmaco sperimentale,<br />
ogni giorno per una settimana, all’altro gruppo<br />
un placebo. Alla fine della settimana il gruppo di topi che<br />
ha ricevuto il farmaco inizia a parlare francese fluentemente<br />
mentre il gruppo di controllo rimane muto. Lo<br />
scienziato è deliziato e descrive la sua scoperta: è stato<br />
dimostrato che il nuovo farmaco induce i topi a parlare<br />
francese. I suoi colleghi si congratulano con lui per il rigore<br />
del suo lavoro e le persone che avevano sperato che i<br />
topi potessero imparare a parlare francese accolgono la<br />
notizia con entusiasmo.<br />
“È diventato terribilmente scontato<br />
che la nostra tecnologia ha ecceduto<br />
la nostra umanità.<br />
Albert Einstein<br />
Lo studio clinico randomizzato è stato considerato per<br />
anni il ‘gold standard’ nella ricerca clinica, ed effettivamente<br />
è stato usato nella ricerca psicologica (inclusa la<br />
nostra). Lo studio clinico randomizzato gode di una reputazione<br />
così alta perché si ritiene che risponda alle<br />
domande poste dalla ricerca in modo conclusivo e provi<br />
l’efficacia dei nuovi metodi di trattamento e delle nuove<br />
terapie. Ci siamo abituati ad aspettarci che la ricerca<br />
dimostri sempre il modo migliore per trattare i problemi<br />
in medicina. Quest’aspettativa è stata valida anche per<br />
l’educazione al diabete. Ma la ricerca non può dare le<br />
risposte che molti formatori cercano. L’aspettativa che la<br />
ricerca provi che un metodo o un programma formativo è<br />
il migliore ha condotto a frustrazione e alla mancata<br />
accettazione dei risultati della ricerca comportamentale e<br />
pedagogica.<br />
“
“Ciò che è progettato, ordinato, fattuale<br />
non è mai abbastanza<br />
per abbracciare la verità tutta:<br />
La vita sempre trabocca dalla rima<br />
di ogni coppa.<br />
Boris Pasternak<br />
In teoria, uno studio clinico randomizzato di ampie proprozioni,<br />
che comprenda molti diabetes educators e migliaia di<br />
pazienti potrebbe controllare la variabilità statistica di tutte<br />
le variabili in gioco. Ma noi crediamo che uno studio con<br />
queste caratteristiche, che confronti un metodo con un<br />
altro, giungerebbe a rivelare piccole e insignificanti differenze<br />
con costi assolutamente sproporzionati. Questo sulla<br />
base della nostra stessa esperienza e su quella del lavoro<br />
già fatto nel campo della ricerca pedagogica in ambito diabetologico.<br />
La variabile più importante è già stata identificata:<br />
il formatore. Quando pazienti responsabili interagiscono<br />
con formatori capaci e motivati, praticamente qualsiasi<br />
teoria o metodo dà risultati positivi.<br />
Cosa c’entra la prospettiva?<br />
Assodato il ruolo cruciale che le qualità del formatore giocano<br />
nel successo dell’educazione al diabete, abbiamo<br />
messo a fuoco che la prima cosa che dobbiamo fare per<br />
diventare formatori più efficaci è guardare dentro noi<br />
stessi. Non è tanto il metodo che abbiamo scelto quanto<br />
la nostra prospettiva che condiziona ciò che facciamo<br />
come formatori. Dobbiamo guardare dentro di noi per<br />
identificare la nostra filosofia.<br />
Un modo che abbiamo usato per identificarla è di focalizzarci<br />
sulle storie dei nostri pazienti e di chiederci come<br />
possiamo partecipare a queste storie in modo da metterci<br />
al loro servizio. Gli chiediamo di permetterci di condividere<br />
il loro punto di vista in modo da poterli aiutare a raggiungere<br />
gli obiettivi che si sono fissati. Potremmo chiede-<br />
“<br />
35
36<br />
re: a cosa assomiglia questa esperienza per voi? Quali sono<br />
i vostri obiettivi? Cosa state facendo per raggiungerli? I<br />
metodi che state seguendo stanno dando i risultati attesi?<br />
Desiderate prendere in considerazione altre opzioni?<br />
Comprendere la loro prospettiva ci aiuta a chiarire la<br />
nostra. Riflettendo sul modo con cui partecipiamo alle<br />
storie dei pazienti possiamo focalizzarci sulla componente<br />
più importante della nostra prospettiva: il nostro scopo<br />
come diabetes educator. Qual’è il nostro ruolo? Cosa<br />
stiamo cercando di realizzare? Di cosa siamo responsabili?<br />
Di cosa sono responsabili i nostri pazienti?<br />
“Se non vuoi essere rimpiazzato<br />
da una macchina,<br />
non comportarti come una macchina.<br />
Arno Penzias<br />
Quando un diabetes educator si siede di fronte a un<br />
paziente, le centinaia di variabili che potrebbero influenzare<br />
il processo e il risultato sono presenti nella mente e<br />
nell’esperienza di quelle due persone. La ricerca in campo<br />
pedagogico e psicoterapeutico ha mostrato come la prospettiva<br />
e le caratteristiche personali del formatore o del<br />
counselor quali sincerità, disponibilità, comprensione,<br />
rispetto e apertura mentale sono elementi centrali per la<br />
riuscita di ogni tentativo formativo o di counseling. Il<br />
nostro lavoro ci ha insegnato che il modo in cui vediamo i<br />
pazienti e noi stessi ha di gran lunga maggior impatto sui<br />
risultati della nostra interazione di qualsiasi metodo o teoria<br />
pedagogica particolari. Di nuovo, si è ciò che si fa.<br />
Sommare le pere con le mele<br />
Troviamo frustrante quando un educator ci chiede come<br />
l’empowerment si confronti con il Modello degli Stadi di<br />
Cambiamento o con la Teoria del Social Learning. La risposta<br />
è che c’entra esattamente come c’entrano le pere con<br />
“
le mele, cioè niente. L’empowerment è una prospettiva o<br />
una filosofia della cura. Il paradigma concettuale precede<br />
il (ed è molto più importante del) metodo, perché parla<br />
dei valori, degli scopi e della definizione di ruolo dell’educator.<br />
Le teorie e i metodi ci aiutano a fare il nostro lavoro,<br />
ma prima di domandarci come fare il nostro lavoro dobbiamo<br />
avere un’idea di cosa stiamo cercando di fare.<br />
Perciò, un educator che usa la Teoria del Social Learning<br />
per indurre i pazienti a aderire al trattamento e un altro<br />
che usa lo stesso approccio teorico per aiutare i pazienti a<br />
diventare capaci di prendere da sé le decisioni sulla<br />
gestione del proprio diabete, produrranno risultati differenti.<br />
La ricerca è importante perché ci dà degli strumenti,<br />
ma non ci può dare delle risposte. Le risposte si trovano<br />
nelle storie dei pazienti e nella nostra prospettiva.<br />
Le radici di ogni filosofia giacciono nel cuore mentre quelle<br />
della teoria e del metodo stanno nella mente. La formazione<br />
al diabete è e rimarrà un’arte. La scienza ci aiuterà<br />
a indentificare utili strumenti, ma gli strumenti non<br />
saranno mai più importanti della prospettiva, della personalità<br />
e delle capacità del diabetes educator che usa quegli<br />
strumenti. Il paradigma dell’educator, nutrito e approfondito<br />
dalla pratica riflessiva, è il prodotto sempre mutevole<br />
di una motivazione, lunga quanto la vita, all’apprendimento<br />
dell’arte dell’educazione al diabete.<br />
DOMANDE PER RIFLETTERE<br />
1) Cosa pensate dell’idea che l’educator ha più impatto<br />
del metodo formativo?<br />
2) Quali sono state le vostre esperienze riguardo al vostro<br />
impatto sui pazienti e sul loro apprendimento?<br />
3) Nella vostra esperienza, in che modo i vari metodi che avete<br />
usato hanno influenzato l’apprendimento dei pazienti?<br />
4) Come ha influenzato o potrebbe influenzare le vostre<br />
interazioni con i pazienti il fatto che consideriate voi<br />
stessi il vostro principale strumento di lavoro?<br />
37
CAPITOLO 4<br />
Dalla compliance<br />
all’empowerment<br />
“Se all’inizio l’idea non è assurda<br />
non ha alcuna speranza.<br />
Albert Einstein<br />
Di che cosa abbiamo bisogno<br />
e in che cosa crediamo<br />
La maggior parte di noi ha investito una significativa<br />
quantità di tempo e di energie per diventare terapeuta.<br />
Abbiamo lavorato sodo per sviluppare l’esperienza e le<br />
capacità necessarie ad aiutare le persone a riconquistare<br />
o a mantenere la loro salute e a ottimizzare il loro benessere.<br />
Siamo stati abituati ad aspettarci che i nostri pazienti<br />
ascoltino i nostri consigli e seguano le nostre raccomandazioni.<br />
Come diabetes educator cerchiamo di aiutare<br />
i nostri pazienti ad andare incontro ai loro bisogni fondamentali<br />
per stare bene fisicamente, emotivamente e<br />
spiritualmente. Speriamo che essi abbassino i livelli di glicemia<br />
in modo da prevenire le complicanze acute e croniche<br />
della malattia. Molti di noi sono motivati anche dal<br />
fatto di sapere che la mortalità e la morbilità prevenibili<br />
associate al diabete colpiscono non solo i pazienti e le<br />
loro famiglie, ma anche la collettività. Costi sanitari e perdita<br />
di produttività sono due delle questioni principali che<br />
interessano tutti noi.<br />
Quando formiamo i nostri pazienti su come gestire il diabete,<br />
in genere cerchiamo di andare incontro anche a<br />
“<br />
39
40<br />
delle nostre esigenze. Molti di noi hanno imparato a considerare<br />
la gestione della malattia e del livello glicemico<br />
dei pazienti come una misura della efficacia del proprio<br />
lavoro. Come diabetes educator noi abbiamo bisogno di<br />
sentirci efficaci nella professione che abbiamo scelto.<br />
Come professionisti dell’assistenza abbiamo bisogno di<br />
sentire che i nostri sforzi fanno la differenza, che il nostro<br />
lavoro vale la pena. Benché queste esigenze, elementari,<br />
umane, siano legittime, nella nostra esperienza i concetti<br />
di compliance e di adesione (che per i nostri scopi hanno<br />
lo stesso significato) non ci aiutano (né aiutano i nostri<br />
pazienti) a venire incontro alle nostre esigenze.<br />
La maggior parte di noi ha delle idee piuttosto precise su<br />
come noi e gli altri dovremmo comportarci. Le opinioni<br />
condivise ampiamente formano le norme sociali che sono il<br />
fondamento della vita comune. In alcuni casi, le nostre opinioni<br />
su cosa gli altri dovrebbero fare sono radicate in noi<br />
molto tenacemente. Per esempio, la maggior parte di noi<br />
ha delle opinioni molto precise su un certo numero di questioni<br />
sociali come l’aborto, la pena di morte, il razzismo e<br />
la discriminazione sessuale. Discussioni e dibattiti su queste<br />
questioni spesso ispirano opinioni appassionate su ciò<br />
che le altre persone dovrebbero pensare, sentire e fare.<br />
“I consigli sono come l’olio di castoro, facili a<br />
darsi ma difficili a prendersi.<br />
Josh Billings<br />
Come diabetes educator noi possiamo avere dei forti<br />
convincimenti su ciò che i nostri pazienti dovrebbero fare.<br />
Dopo aver visto situazioni drammatiche come l’insufficienza<br />
renale cronica, la cecità o le amputazioni è normale<br />
che noi pensiamo che le persone debbano a se stessi,<br />
alle loro famiglie, alla collettività il massimo impegno per<br />
prevenire queste complicanze. Possiamo ben credere che<br />
i pazienti che sembrano non prendere troppo sul serio il<br />
“
diabete e la sua gestione cambieranno opinione negli<br />
anni a seguire. Possiamo credere che è nostro compito<br />
portare i pazienti a vedere quanto grave sia il diabete e<br />
quanto importante un controllo rigoroso della glicemia.<br />
Opinioni di questo tipo, anche se non ci pensiamo spesso,<br />
formano la base del nostro approccio al trattamento e<br />
all’educazione del diabete. Il nostro comportamento<br />
come formatori, così come il modo in cui noi vediamo i<br />
nostri pazienti, sarà, in larga misura, determinato da questi<br />
convincimenti profondi.<br />
Cosa controlliamo<br />
Noi possiamo tradurre le nostre idee in azioni e influenzare<br />
gli eventi in situazioni in cui abbiamo una certa dose di<br />
controllo. Per esempio, se siamo genitori, probabilmente<br />
abbiamo dei convincimenti radicati su come i nostri figli<br />
debbano comportarsi. In quanto genitori, abbiamo una<br />
certa dose di controllo sul comportamento dei nostri figli<br />
perché possiamo verificare molte delle conseguenze del<br />
loro comportamento. L’essere genitori è un esempio di<br />
situazione in cui noi possiamo agire sulla base delle nostre<br />
idee e aumentare la probabilità che i nostri figli si comportino<br />
secondo i nostri convincimenti (almeno fino a che non<br />
diventano adolescenti). Allo stesso modo, i dirigenti possono<br />
agire seguendo le loro idee su come gli impiegati<br />
dovrebbero comportarsi, su quali dovrebbero essere le<br />
loro responsabilità, e su cosa caratterizzi un dipendente<br />
modello. Quando abbiamo un controllo sostanziale delle<br />
conseguenze in situazioni in cui le nostre idee giocano un<br />
ruolo preminente, abbiamo la possibilità di influenzare le<br />
percezioni e il comportamento degli altri.<br />
Tuttavia, quando abbiamo dei forti convincimenti ma<br />
poco o nessun controllo della situazione e delle conseguenze,<br />
la nostra esperienza può essere molto differente.<br />
Operare in questo tipo di situazioni può rivelarsi molti difficile<br />
e, in ultima analisi, scoraggiante. Di nuovo, questo<br />
41
42<br />
fenomeno può essere testimoniato dal modo in cui molte<br />
questioni sociali fondamentali sono affrontate nella nostra<br />
società. Per esempio, molte persone sono fortemente in<br />
disaccordo sulle politiche di pari opportunità o sulla preghiera<br />
nelle scuole. Le persone che sostengono posizioni<br />
opposte su queste questioni sono spesso contrapposte le<br />
une alle altre e si sentono frustrate perché la giustezza<br />
delle proprie posizioni appare loro così evidente. Sono<br />
convinte che ciò in cui credono sia corretto e moralmente<br />
giusto e che le persone che la pensano differentemente<br />
sbaglino e debbano cambiare. Eppure, da entrambe le<br />
parti della barricata, in genere, mancano mezzi per controllare<br />
il comportamento di quelli che la pensano diversamente.<br />
La tensione causata da questa mancanza di controllo<br />
spesso sfocia nella ‘demonizzazione’ dell’altro (per<br />
esempio si etichettano coloro che la pensano differentemente<br />
come ignoranti o estremisti). Essere convinti che i<br />
nostri pazienti stanno compiendo delle scelte che produrranno<br />
dei danni a lungo termine può essere frustrante per<br />
noi se loro non sono capaci o non vogliono riconoscere le<br />
conseguenze dei loro comportamenti.<br />
“Abbiamo incontrato il nemico:<br />
siamo noi stessi.<br />
Pogo<br />
Una prospettiva da educator<br />
Le nostre idee su ciò di cui abbiamo bisogno, ciò che crediamo<br />
e ciò che possiamo controllare nell’assistenza diabetologica<br />
e nell’educazione al diabete formano il nucleo<br />
della relazione con i nostri pazienti. Queste idee sono centrali<br />
rispetto a una discussione sulla compliance. Delle tre<br />
(bisogni, convinzioni e controllo), la percezione di ciò che<br />
possiamo controllare nelle decisioni fatte dai pazienti sulla<br />
malattia è la questione centrale, perché è quella che differisce<br />
maggiormente dal trattamento delle patologie<br />
“
acute. Nella nostra esperienza, molta della frustrazione<br />
associata con la non-compliance è il risultato di una nostra<br />
necessità: che i pazienti ottimizzino il loro controllo glicemico.<br />
Forse noi siamo molto coinvolti nell’assistenza e nel<br />
controllo glicemico dei nostri pazienti più di quanto non<br />
siamo disposti ad ammettere. Come educator, possiamo<br />
credere che sia nel totale interesse dei nostri pazienti controllare<br />
la propria glicemia con attenzione, ma non abbiamo<br />
la possibilità di obbligarli a farlo. Etichettare i nostri<br />
pazienti come ‘non compliant’ o ‘non adherent’ quando<br />
non seguono i nostri consigli può essere un modo per scaricare<br />
su di loro la frustrazione e lo sconforto che avvertiamo.<br />
Possiamo anche scoraggiarci perché le scelte di autocontrollo<br />
dei pazienti minano la nostra opinione di noi stessi<br />
come diabetes educator efficaci.<br />
In quanto professionisti della salute, ci siamo abituati a<br />
sentirci responsabili per i nostri pazienti e a credere che<br />
stia a noi assicurare che il loro impegno sia adeguato agli<br />
standard correnti. Eppure, noi non abbiamo il controllo<br />
della situazione non possiamo assicurare che essi seguiranno<br />
le nostre raccomandazioni.<br />
Imparare a lasciar andare le cose<br />
Ascoltando i diabetes educator esporre la loro frustrazione<br />
con i pazienti ‘non-compliant’, abbiamo notato che il<br />
tono emotivo di queste conversazioni è simile a quello dei<br />
genitori quando parlano della propria incapacità a guidare<br />
le scelte dei propri figli adolescenti. “Sapevo che si<br />
sarebbe cacciato nei guai, ma mi dava forse retta? Oh no,<br />
doveva fare a modo suo.” Nell’educazione al diabete l’argomento:<br />
“Sono io responsabile di te e delle scelte che<br />
fai” non funziona, i pazienti resistono ai nostri sforzi e talvolta<br />
si infastidiscono di essere trattati come dei bambini.<br />
E possibile che esprimano la loro contrarietà trascurando<br />
la malattia: è un modo per riaffermare la propria autonomia<br />
senza tenere conto però del fatto che questa esigen-<br />
43
44<br />
za di autonomia, assolutamente naturale per un adulto,<br />
può compromettere la loro salute attuale e futura.<br />
Poiché molti diabetes educators sono donne e hanno<br />
scelto un lavoro che sia di aiuto agli altri, è possibile che<br />
abbiano un approccio ‘materno’ all’assistenza diabetologica<br />
e alla formazione, simile al ruolo tradizionale della<br />
madre nella famiglia. L’assistenza infermieristica, in particolare,<br />
si basa sul ruolo della madre nella cura della<br />
malattia che noi abbiamo appreso sin da bambini. Il<br />
modello Florence Nightingale (cibo, coperte e coccole) è<br />
in gran parte basato su questo approccio maternalistico.<br />
Nel corso degli anni abbiamo fatto un considerevole sforzo<br />
per aiutare i pazienti a diventare obbedienti o compliant,<br />
il che riflette questo ruolo materno più tradizionale.<br />
Ci siamo abituati ad accettare la responsabilità per le<br />
decisioni (e i risultati) dei nostri pazienti e a indirizzare i<br />
nostri sforzi per aiutarli a essere buoni e a fare ciò che i<br />
dottori dicono, in modo che il medico non si arrabbi con<br />
il paziente o con noi. Abbiano imparato a volerli ‘aderenti’<br />
perché crediamo di sapere cosa sia meglio per loro.<br />
Spesso vediamo il nostro ruolo come quello di chi risolve<br />
i loro problemi, li fa stare meglio e, in generale, cerca di<br />
prendersi cura di loro. Questo tradizionale approccio<br />
maternalistico si basa sull’assunto che noi sappiamo di<br />
più dei nostri pazienti sul loro diabete e che siamo perciò<br />
capaci di scegliere le strategie di trattamento più appropriate.<br />
Eppure, anche quando siamo convinti di sapere di<br />
più e di essere responsabili per i nostri pazienti, la nostra<br />
capacità di convincerli o persuaderli è limitata. Sentirsi<br />
responsabili per ciò che non possiamo controllare è il<br />
modo migliore per sviluppare frustrazione, scoramento,<br />
sconforto e senso di impotenza.
Bob racconta<br />
Sono cresciuto a Boston negli anni ‘50, in un quartiere di<br />
irlandesi. I miei genitori erano cattolici praticanti. Per otto<br />
anni la mia educazione venne guidata dalla ferma mano<br />
delle suore. Ero un ‘bravo ragazzo’ in quel periodo, non<br />
perdevo mai una Messa, facevo tutti i compiti, ero tra i<br />
bravi della scuola e non avevo molto da raccontare al<br />
prete durante la confessione settimanale. In altre parole,<br />
ero ‘compliant’. All’ultimo anno di scuola, però, cominciai<br />
a realizzare quanto la mia educazione fosse restrittiva. Non<br />
ci veniva insegnato a pensare, piuttosto ci si aspettava che<br />
accettassimo la visione del mondo offertaci dai preti, dalle<br />
suore e dai genitori. La messa in questione dell’opinione<br />
corrente non veniva incoraggiata e nemmeno tollerata.<br />
Cominciai a essere insofferente verso la rigida struttura<br />
intellettuale della mia educazione. C’erano molte scuole<br />
superiori a Boston, sia pubbliche che private. Scelsi di<br />
andare in una scuola pubblica. Solo 2 studenti su 50 del<br />
mio anno decisero di non continuare in una scuola privata<br />
religiosa. Ricordo che il mio insegnante mi disse che la mia<br />
scelta mi avrebbe portato dritto all’inferno.<br />
L’adolescenza fu un periodo di ribellione. Smisi di essere<br />
uno studente e un ragazzo ‘compliant’ (benché allora non<br />
avessi mai sentito questa parola) e divenni un ‘non-compliant’.<br />
Provai qualsiasi cosa fosse vietata. La reazione alle<br />
norme della mia famiglia, della mia religione e della mia<br />
comunità iniziò ad avere conseguenze quando avevo 18<br />
anni. Giravo con una banda di giovani della mia età.<br />
Governati più dagli ormoni che dalla testa, violavamo<br />
qualsiasi regola potessimo violare. Vivevo una vita che<br />
avrebbe potuto portarmi in galera o al camposanto. Arrivai<br />
abbastanza vicino a entrambi prima di aprire gli occhi sulle<br />
conseguenze delle scelte che stavo facendo. Mi accorsi<br />
che la ‘non-compliance’ non è libertà. Compresi che non<br />
era possibile vivere facendo semplicemente il contrario di<br />
quanto mi avevano detto per tutta la mia vita.<br />
45
46<br />
“Ci sono sconfitte più gloriose<br />
delle vittorie.<br />
Montaigne<br />
Cominciai a cercare una terra di mezzo. Studiai psicologia,<br />
filosofia e religione allo scopo di trovare un modo di<br />
essere nel mondo che mi potesse sostenere e formare.<br />
Infine, abbracciai una filosofia abbastanza semplice. In<br />
effetti era la stessa filosofia di mio padre, ma ero incapace<br />
di vederne la saggezza quando ero giovane. Era basata<br />
sul principio che ognuno è personalmente responsabile<br />
della propria vita. Compresi che in tutte le situazioni ci<br />
sono elementi al di fuori del nostro controllo. Ma allo<br />
stesso tempo, in tutte le situazioni ci sono scelte che possiamo<br />
fare e quelle scelte hanno delle conseguenze.<br />
Potevo scegliere come agire, come pensare, come interpretare<br />
una situazione. Potevo esercitare una reale autonomia<br />
concentrandomi sulle scelte che erano a mia disposizione,<br />
piuttosto che opponendomi alle costrizioni.<br />
Imparai che libertà non è tanto libertà ‘da’ qualcosa ma<br />
‘verso’ qualcosa. La libertà si realizzava principalmente<br />
nella mia capacità di scegliere. Questa visione del mondo<br />
modella il mio modo di vedere le scelte da compiere con<br />
i pazienti diabetici. Mi sembra che ‘compliance’ e ‘noncompliance’<br />
siano concetti irrilevanti perché entrambi<br />
incentrati sulla relazione tra comportamento del paziente<br />
e raccomandazione del medico, piuttosto che sulle conseguenze<br />
di quel comportamento.<br />
Ritenere ‘compliance’ e ‘adherence’ concetti ‘fallimentari’,<br />
non significa, come alcuni colleghi pensano, non dare<br />
più importanza ai pazienti. Niente di più lontano dalla<br />
verità. L’empowerment è un approccio centrato sul<br />
paziente basato sul rispetto e sulla empatia. Abbiamo<br />
adottato un approccio empowerment perché crediamo<br />
che gli esseri umani abbiano una tendenza innata a rag-<br />
“
giungere autonomamente il loro benessere fisico, psicologico,<br />
intellettuale e spirituale. Gli ostacoli a questa tendenza<br />
sono in genere il risultato di strategie di apprendimento<br />
deboli nel ‘problem-solving’. La formazione è<br />
secondo noi un processo di insegnamento e di counseling<br />
ideato per aiutare i pazienti a scoprire più efficaci strategie<br />
di ‘problem-solving’ in modo che essi possano raggiungere<br />
il loro pieno potenziale come esseri umani.<br />
Molti pazienti possono sviluppare le abilità e i comportamenti<br />
necessari per prendere decisioni appropriate su<br />
ogni aspetto della loro vita, incluso il diabete. La nostra<br />
responsabilità è fornire ai pazienti le risorse necessarie a<br />
raggiungere i loro obiettivi di cura del diabete. Con questo<br />
approccio talvolta ci si accorge che i pazienti non<br />
hanno preso le decisioni migliori, ma dobbiamo ricordarci<br />
che si tratta delle loro scelte.<br />
La filosofia dell’empowerment ci ha liberato dalla responsabilità<br />
di tentare di risolvere tutti i problemi dei nostri<br />
pazienti. Ci permette di entrare in dialogo con loro, e<br />
durante il dialogo le soluzioni ai problemi emergono<br />
naturalmente all’interno di una relazione basata sulla fiducia<br />
e sul rispetto. Nell’approccio empowerment, la nostra<br />
responsabilità come educator sta nell’aiutare i nostri<br />
pazienti a prendere decisioni consapevoli sull’autogestione<br />
del diabete.<br />
Alcuni educators ci hanno detto di usare l’empowerment<br />
lasciando fare ai pazienti. ‘Lasciar fare’ ai pazienti non è<br />
realmente differente che ‘far fare’ ai pazienti in un altro<br />
modo. Lasciare e far fare sono le due facce della stessa<br />
medaglia, quella del ‘controllo’. Per ironia, la medaglia del<br />
controllo è falsa. Credere che noi abbiamo il controllo delle<br />
vite dei nostri pazienti è un’illusione, anche se noi e i<br />
pazienti stessi lo crediamo. La completa responsabilità<br />
della gestione del diabete da parte del paziente significa<br />
che ‘lasciar fare’ e ‘indurre a fare’ non trovano posto nell’educazione<br />
al diabete. Noi abbiamo adottato un approccio<br />
47
48<br />
empowerment non perché ci dia le risposte, ma perché ci<br />
guida a porre le domande che aiutano i nostri pazienti a<br />
trovare le loro personali risposte.<br />
Alcuni educators ci hanno detto di provare un po’ di paura<br />
nell’abbandonare i concetti di compliance e di controllo. Si<br />
preoccupano perché credono che, non dedicando tutti i loro<br />
sforzi a indurre i pazienti a cambiare, i loro pazienti non si<br />
cureranno. Nella nostra esperienza questo accade raramente.<br />
In realtà, quando noi ci liberiamo dalla tentazione di indurre,<br />
lasciare e motivare, noi creiamo una relazione che minimizza<br />
le resistenze del paziente e massimizza il cambiamento.<br />
L’empowerment e l’approccio tradizionale<br />
Nella Tabella 3-1 vengono confrontati gli assunti fondamentali<br />
che stanno dietro i due approcci all’assistenza<br />
diabetologica.<br />
Una volta adottato l’approccio empowerment, il programma<br />
di formazione dei pazienti va modificato secondo questa<br />
nuova prospettiva. Abbiamo ‘integrato’ i concetti chiave<br />
dell’empowerment nel disegno dei nostri programmi<br />
formativi con un’enfasi sulla integralità della persona e<br />
sulle energie personali (Tabella 3-2).<br />
Il paziente seleziona i bisogni e gli obiettivi formativi.<br />
Vengono trasferiti al paziente la guida e il controllo<br />
dei processi decisionali.<br />
Vengono autogenerati problemi e soluzioni.<br />
Gli insuccessi vengono analizzati come opportunità<br />
per imparare e diventare più efficaci.<br />
Viene scoperta e rafforzata la motivazione interiore<br />
al cambiamento di comportamento.<br />
Vengono promosse la crescente partecipazione<br />
del paziente e la responsabilità personale.<br />
Vengono messe in luce le reti di supporto e le risorse<br />
(a disposizione).<br />
Viene promossa la tendenza intrinseca del paziente<br />
verso la salute e il benessere.
Confronto tra i modelli formativi di tipo tradizionale e quelli basati sull’empowerment<br />
TABELLA 3-1<br />
Modello empowerment<br />
Modello tradizionale<br />
1. Il diabete è una malattia organica, psicologica e sociale.<br />
2. La relazione tra paziente e terapeuta/educatore è basata<br />
sul principio di responsabilità e sulla condivisione delle<br />
esperienze e delle conoscenze.<br />
3. I problemi e i bisogni formativi sono in genere identificati<br />
dal paziente.<br />
4. Il paziente è visto come colui che risolve i problemi e fa la<br />
cura, vale a dire che il terapeuta è una risorsa al servizio del<br />
paziente e lo aiuta a fissare i propri obiettivi e a sviluppare<br />
un programma di trattamento.<br />
5. Lo scopo è rendere il paziente capace di fare delle scelte consapevoli.<br />
Le tecniche di psicologia behavioristica o comportamentale<br />
vengono utilizzate per aiutare il paziente a sperimentare i<br />
cambiamenti di comportamento da lui stesso scelti. I cambiamenti<br />
tentati ma non adottati (perché inadatti o irrealistici o<br />
altro) non vengono visti come insuccessi, ma come mezzi di<br />
apprendimento che procurano nuove informazioni utilizzabili<br />
per lo sviluppo di altri programmi e obiettivi di trattamento.<br />
6. Le motivazioni al trattamento sono interne al paziente.<br />
1. Il diabete è una malattia organica.<br />
2. La relazione tra paziente e terapeuta/educatore è basata sul<br />
principio di autorità e sulle competenze del professionista.<br />
3. I problemi e il bisogno formativo vengono identificati dal<br />
professionista.<br />
4. Il terapeuta è visto come colui che risolve i problemi e prescrive<br />
la cura, il che vuol dire che è lui il responsabile della diagnosi<br />
e dei risultati del trattamento.<br />
5. Lo scopo è il cambiamento dei comportamenti. Le tecniche di<br />
psicologia behavioristica o comportamentale vengono impiegate<br />
per aumentare la compliance al trattamento proposto.<br />
La mancanza di compliance è vista come un insuccesso del<br />
paziente e del professionista.<br />
7. Il paziente e il terapeuta hanno entrambi un ruolo attivo.<br />
6. Le motivazioni al cambiamento di comportamento sono<br />
esterne al paziente.<br />
7. Il paziente ha un ruolo passivo, è il terapeuta ad avere il controllo<br />
della situazione.<br />
49
50<br />
TABELLA 3-2 Schema di autogestione ed educazione al diabete<br />
1) L’educator fa emergere la preoccupazione principale del paziente<br />
A) Si identifica l’area di maggiore disagio e insoddisfazione<br />
B) Si concorda di concentrare gli sforzi su quest’area<br />
2) L’educator discute la natura della relazione con il paziente nel trattamento<br />
del diabete<br />
A) Il diabete è una malattia autogestita<br />
B) L’educator agisce come un consulente esperto<br />
C) Il processo di educazione al diabete è finalizzato ad aiutare il paziente a fare<br />
scelte consapevoli nell’autogestione del diabete<br />
3) L’educator verifica quanto il paziente sia consapevole della propria malattia e delle<br />
sue componenti organiche, psicologiche e sociali e qual è il suo grado di conoscenza<br />
delle tecniche diagnostiche.<br />
A) Aiuta il paziente a identificare i problemi della terapia<br />
B) Aiuta il paziente a identificare ed esprimere le emozioni legate al diabete<br />
e al suo trattamento<br />
4) L’educator riconosce che è il paziente il responsabile del trattamento<br />
A) Aiuta il paziente a esplorare, chiarire e meditare il sistema di valori relativi al diabete<br />
B) Aiuta il paziente a fissare dei risultati desiderabili<br />
5) L’educator fornisce le conoscenze sul diabete in base ai bisogni espressi dal<br />
paziente e alla valutazione che egli stesso ha fatto della situazione<br />
A) Descrive il diabete e le varie opzioni di trattamento disponibili<br />
B) Fornisce una valutazione costi/benefici per ogni opzione<br />
C) Aiuta il paziente a identificare i costi e benefici personali legati a ogni opzione<br />
6) Il paziente seleziona gli obiettivi e identifica gli ostacoli e le risorse necessarie per<br />
il raggiungimento di quegli obiettivi<br />
7) Il paziente si assume la responsabilità della risoluzione dei propri problemi<br />
A) Sviluppa le capacità necessarie per ottimizzare il sostegno al cambiamento<br />
(sviluppa cioè le proprie doti di comunicazione e determinazione per rafforzare<br />
il sostegno necessario da parte della famiglia e degli amici, potenzia le reti<br />
di sostegno quali gruppi o associazioni)<br />
B) Identifica gli ostacoli e i sostegni potenziali<br />
C) Impara tecniche e strategie per superare gli ostacoli: negoziazione, contratti di<br />
salute e programmi di trattamento, risoluzione di conflitti per massimizzare il<br />
sostegno psicologico<br />
8) Il paziente identifica le opzioni da mettere in pratica e stende un piano terapeutico<br />
in collaborazione con l’educator<br />
9) Il paziente porta avanti il programma terapeutico<br />
10) Il paziente e l’educator valutano criticamente e revisionano il piano.
Domande per riflettere<br />
1) Cosa significano per voi i termini ‘compliance’ e ‘adherence’?<br />
2) Cosa sarebbe successo se i concetti di ‘compliance’ e<br />
di ‘adherence’ fossero stati completamente assenti dal<br />
modo in cui avete pensato la formazione nel diabete?<br />
3) Quanto avete bisogno di controllare i vostri pazienti?<br />
4) Quanto la vostra pratica è stata inflenzata dal tradizionale<br />
approccio maternalistico?<br />
51
CAPITOLO 5<br />
Imparare<br />
sulla propria pelle<br />
“Prima di venire qui ero confuso<br />
su questo argomento.<br />
Dopo la vostra lezione sono ancora<br />
confuso, ma a un livello superiore.<br />
Enrico Fermi<br />
La formazione del paziente<br />
Nel corso degli anni i diabetes educators hanno tenuto<br />
migliaia di lezioni e incontri finalizzati a insegnare ai<br />
pazienti la definizione di diabete, spiegare come è trattato,<br />
descrivere le complicanze, etc. etc. Ma questo approccio<br />
all’educazione al diabete non mette in evidenza le differenze<br />
fondamentali tra come e perché i terapeuti studiano<br />
il diabete e come e perché lo fanno i pazienti. Molti<br />
pazienti non sono interessati al diabete in quanto argomento<br />
di studio; ma sono interessati al proprio personale<br />
diabete. Ci siamo accorti nel nostro lavoro che le esperienze<br />
dei nostri pazienti forniscono un eccellente curriculum<br />
per la loro educazione al diabete. Anche la più elementare<br />
educazione al diabete per un paziente di recente<br />
diagnosi può cominciare con una verifica di ciò che egli<br />
già sa o ha sentito sul diabete.<br />
Abbiamo scoperto che l’educazione al diabete funziona<br />
meglio se praticata come un lavoro collaborativo tra adulti<br />
autonomi e responsabili. La nostra idea ci ha indotto a modificare<br />
teorie e metodi compatibili provenienti dal campo<br />
“<br />
53
54<br />
della pedagogia per adulti e della psicologia del counseling<br />
non-direttivo e ad adattarli all’educazione al diabete.<br />
Secondo noi, l’approccio all’educazione e al cambiamento<br />
comportamentale centrato sul discente si adatta al diabete<br />
molto meglio del modello didattico tradizionale. La<br />
pedagogia degli adulti indica che l’approccio migliore<br />
all’insegnamento e all’apprendimento per gli adulti è<br />
quello che utilizza le esperienze e le abilità degli stessi<br />
partecipanti; è basato sui problemi ed è rilevante per le<br />
sfide che essi fronteggiano nella loro vita.<br />
La psicologia del counseling non-direttivo si basa sulla considerazione<br />
positiva del paziente; incoraggia un rapporto<br />
paritetico tra il paziente e chi lo aiuta, una relazione rispettosa<br />
ed empatica, guidata dal riconoscimento che i pazienti<br />
posseggono risorse innate per risolvere i loro problemi.<br />
“Il vero viaggio di scoperta<br />
non consiste nel cercare nuovi paesaggi,<br />
ma nell’avere nuovi occhi.<br />
Marcel Proust<br />
Riflettendo sulla nostra esperienza, abbiamo sviluppato<br />
un modello che suddivide l’apprendimento in una serie di<br />
fasi. Nel corso degli anni abbiamo affinato questo modello<br />
che descrive l’approccio che usiamo in tutte le nostre<br />
attività formative, con i pazienti e con i professionisti della<br />
salute. Questo modello (descritto nei paragrafi seguenti)<br />
è focalizzato sull’apprendimento, cioè sul comportamento<br />
e l’esperienza del paziente. Più avanti nel libro discuteremo<br />
dell’insegnamento e del counseling, vale a dire il<br />
comportamento e l’esperienza dell’educator.<br />
“
“L’istruzione è cosa ammirevole.<br />
Ma è bene ricordare di tanto in tanto<br />
che nulla che sia degno di essere<br />
conosciuto può essere insegnato.<br />
Oscar Wilde<br />
FASE 1: L’ESPERIENZA – L’esperienza è la totalità delle percezioni<br />
di una persona. Durante ogni momento della nostra<br />
vita, la nostra esperienza è basata sull’input prodotto dai<br />
nostri sensi (ciò che vediamo, udiamo, sentiamo, odoriamo<br />
e gustiamo), i nostri pensieri e la consapevolezza dei<br />
nostri pensieri. Svegli o addormentati, al lavoro o nel<br />
tempo libero, noi elaboriamo esperienze basate su questi<br />
elementi. La questione per noi come educators è: “Che<br />
cosa trasfoma un’esperienza in un apprendimento?”.<br />
Per esempio, molti diabetes educators hanno passato<br />
migliaia di ore educando al diabete i pazienti. Eppure,<br />
alcuni di loro imparano, crescono, e continuamente affinano<br />
la loro arte praticandola. Altri no, continuano a fare<br />
“la solita cosa al solito modo”. In cosa differiscono questi<br />
due gruppi?<br />
“L’esperienza è una severa maestra<br />
Prima ti fa l’esame e dopo ti dà la lezione.<br />
Vernon Sanders Law<br />
FASE 2: LA RIFLESSIONE – Il passo fondamentale per trasformare<br />
un’esperienza in apprendimento è la riflessione. La<br />
riflessione è l’analisi critica di un’esperienza allo scopo di<br />
comprenderne complessità, significato, valore e conseguenze.<br />
La riflessione ci richiede di guardare indietro e di<br />
esaminare quanto abbiamo fatto in un modo che ci aiuti a<br />
comprenderlo. Se bastasse fare qualcosa e poi farla ancora<br />
per arrivare all’eccellenza, allora tutti i vecchi diabetes<br />
educators sarebbero eccellenti. Come educator, il nostro<br />
compito principale è creare un ambiente di apprendimen-<br />
“<br />
“<br />
55
56<br />
to che stimoli e nutra la nostra riflessione. Quando interagiamo<br />
con i pazienti, individualmente o in gruppi, possiamo<br />
invitarli a riflettere sulle loro esperienze da diabetici,<br />
sui loro sforzi di autocontrollo e sui risultati di questi sforzi.<br />
Possiamo incoraggiarli a pensare a ciò che vogliono e<br />
a cosa stanno facendo per ottenerlo.<br />
Chiaramente, la riflessione è anche un elemento cruciale per<br />
la nostra evoluzione come diabetes educator. La crescita,<br />
l’apprendimento e il cambiamento si realizzano quando ci<br />
fermiamo a guardare indietro con regolarità nel corso della<br />
nostra esperienza e ci chiediamo per esempio: “Cosa vuole e<br />
di cosa ha bisogno veramente questo paziente? Ci sono state<br />
delle cose che questo paziente ha detto che mi hanno messo<br />
a disagio? Cosa farei di diverso se potessi ripetere questa<br />
sessione?”.<br />
FASE 3: L’INTROSPEZIONE – Introspezione letteralmente significa<br />
‘guardare dentro’ un’esperienza. La riflessione può condurre,<br />
e spesso lo fa, all’introspezione. Sovente la riflessione ci permette<br />
di identificare significati, modelli, relazioni, o possibilità<br />
che non erano apparenti prima nella nostra esperienza.<br />
Possiamo vedere una connessione tra esperienze precedenti<br />
e quella attuale. Possiamo accorgerci che il nostro comportamento<br />
è stato l’espressione di pensieri o emozioni inconsapevoli.<br />
Possiamo vedere nuove possibilità dentro vecchie<br />
situazioni. La riflessione è guardare, l’introspezione è vedere.<br />
L’introspezione non è basata su nuove informazioni, piuttosto<br />
riguarda il riconoscimento di qualcosa che era lì tutto il<br />
tempo, ma di cui non ci eravamo accorti prima.<br />
“La scoperta è vedere ciò che chiunque<br />
altro ha visto e pensare ciò che nessun<br />
altro ha pensato.<br />
Albert Szent-Gyorgi<br />
“
FASE 4: IL CAMBIAMENTO – Apprendere è cambiare. Molto<br />
spesso a cambiare è il comportamento, ma può anche<br />
essere un cambiamento nella disposizione d’animo oppure<br />
capire che questo porta a un cambiamento di comportamento.<br />
L’introspezione si riferisce al momento in cui le<br />
nostre percezioni cambiano. Come quel cambiamento è<br />
poi espresso nelle nostre idee profonde, percezioni o comportamenti<br />
può essere definito come apprendimento.<br />
“Per tutta la vita,<br />
continua a imparare a vivere.<br />
Seneca<br />
FIGURA 4-1 Un modello di apprendimento<br />
Cambiamento<br />
Nuova conoscenza,<br />
nuovi atteggiamenti,<br />
nuovi comportamenti<br />
Esperienza<br />
Percezione<br />
(cinque sensi)<br />
Riflessione<br />
Consapevolezza<br />
Introspezione<br />
Vedere nuove<br />
relazioni, comportamenti,<br />
aspirazioni<br />
e opportunità<br />
“<br />
Riflessione<br />
Che cos’è questo?<br />
Come funziona?<br />
Cosa significa?<br />
Cosa voglio?<br />
Cosa sto per fare?<br />
57
58<br />
La Figura 4-1 mostra un diagramma di questo processo. È<br />
ciclico e in progressione; l’apprendimento stimola nuove<br />
esperienze, che a loro volta inducono a riflessione e<br />
nuova introspezione.<br />
L’apprendimento richiede una relazione psicologicamente<br />
sicura. La sicurezza psicologica è creata da comportamenti<br />
che trasmettano rispetto e fiducia e che creino<br />
accettazione. La nostra postura, lo sguardo, il tono della<br />
voce possono comunicare empatia e partecipazione. Per i<br />
pazienti è impossibile guardarsi dentro, esplorare ed<br />
esprimere le loro più profonde preoccupazioni sul fatto di<br />
avere il diabete e di doverlo curare, se non vengono liberati<br />
dalla preoccupazione di essere biasimati, giudicati,<br />
criticati o valutati.<br />
Per promuovere un apprendimento significativo per una<br />
persona, noi dobbiamo stabilire un ambiente, individualmente<br />
o in gruppo, nel quale l’esperienza di ogni persona<br />
viene riconosciuta e apprezzata. La prossima sezione di<br />
questo libro focalizza come creare il tipo di relazione che<br />
promuove e nutre l’apprendimento personale.<br />
“Molte più persone imparerebbero<br />
dai loro errori se non fossero così<br />
impegnate a negare di averli fatti.<br />
Anonimo<br />
Un altro racconto di Bob<br />
Non dimenticherò mai quel pomeriggio, anche se risale a<br />
più di venti anni fa. Il mio tutor mi aveva invitato a casa<br />
sua per darmi la sua opinione su un lavoro che avevo<br />
appena scritto. Mi ero dedicato con passione all’argomento<br />
ed ero ansioso di ascoltare i suoi commenti. Si<br />
concentrò sulla scrittura piuttosto che sul tema del lavoro.<br />
Riga dopo riga passammo tutto l’articolo evidenziandone<br />
gli errori e le debolezze di scrittura. Ogni suo commento<br />
“
mi feriva. Ma non crollai psicologicamente perché avevo<br />
fiducia in lui, completa. Sapevo quanto tenesse a me e<br />
perfino nel pieno del mio disappunto compresi che le sue<br />
critiche erano corrette e che io avevo ancora molto da<br />
imparare. Probabilmente la più dolorosa lezione che<br />
appresi quel giorno fu che scrivendo male, avevo fatto un<br />
cattivo servizio alle idee che sentivo come molto importanti.<br />
Fui in grado di accettare il suo giudizio perché veniva<br />
da un insegnante che aveva conquistato la mia fiducia<br />
e il mio rispetto. Fui capace di accettare le sue critiche<br />
perché mi sentivo al sicuro.<br />
Domande per riflettere<br />
1) Quanto il modello di apprendimento esposto in questo<br />
capitolo si conforma alla vostra esperienza di studenti?<br />
2) Quanto si conforma alle vostre esperienze di formatori?<br />
3) Quali metodi oltre al ‘trasferimento di nozioni’ avete<br />
usato nell’educazione al diabete? Che risultati hanno<br />
dato?<br />
59
Instaurare relazioni<br />
di crescita<br />
PARTE 2<br />
“Se sei qui per aiutarmi, vai via,<br />
ma se sei qui perché hai compreso<br />
che la tua liberazione è legata alla mia,<br />
cominciamo.<br />
Alice Walker<br />
in Aboriginal Woman<br />
La relazione con il paziente è il contesto più importante<br />
per il trattamento e per l’educazione al diabete. La qualità<br />
della relazione tra educator e paziente determina in<br />
larga misura la percezione che il paziente ha della cura<br />
stessa. Relazioni caratterizzate dal rispetto, dalla fiducia e<br />
dalla sincera partecipazione rendono più facile una comunicazione<br />
aperta e leale da entrambe le parti. I pazienti si<br />
sentono psicologicamente al sicuro e possono esplorare<br />
ed esprimere i loro timori e le loro preoccupazioni più<br />
profonde. Inoltre, in una relazione contrassegnata dalla<br />
fiducia e dal rispetto reciproco, i pazienti sono più propensi<br />
a prendere in considerazione i suggerimenti e le<br />
raccomandazioni del diabetes educator.<br />
Stabilire una relazione di questo tipo richiede abilità,<br />
tenacia e motivazione. Non possiamo aspettarci che i<br />
pazienti abbiano fiducia in noi solo perché abbiamo un<br />
pezzo di carta appeso alla parete. La fiducia e il rispetto<br />
vanno guadagnati. Quando un paziente incontra per la<br />
prima volta un professionista della salute cerca, a modo<br />
“<br />
61
62<br />
suo, di determinare se la persona in questione è competente<br />
e degna di fiducia. Cerca tutta una serie di spunti<br />
per rispondere a queste importanti domande. “Mi ascolterà?<br />
Mi tratterà come una persona? Presterà attenzione<br />
alle mie preoccupazioni? Terrà conto delle mie priorità?<br />
Sarà aperto e cordiale? Flessibile e creativo? Sarà competente<br />
e aggiornato? Capace di rispondere alle mie<br />
domande?” Dalla risposta a queste domande dipenderà<br />
la qualità della relazione, fino a che punto il paziente sarà<br />
sincero nei nostri confronti e in che misura farà sue le<br />
nostre raccomandazioni.<br />
Questa sezione comprende i capitoli dedicati al modo per<br />
stabilire con i pazienti delle relazioni che favoriscano lo<br />
sviluppo autonomo delle loro risorse. Nell’approccio<br />
empowerment, il nostro scopo è stabilire relazioni che<br />
permettano ai pazienti di raccontare il vissuto della propria<br />
malattia senza il timore di essere criticati o biasimati.<br />
Un tipo di relazione di questo genere sostiene e promuove<br />
il cambiamento di comportamento, la crescita personale,<br />
il benessere fisico e psicologico.
CAPITOLO 6<br />
Diventare partner<br />
Le interazioni con i nostri pazienti sono influenzate da ciò<br />
che ognuno di noi si aspetta dalla relazione.<br />
Probabilmente i pazienti si aspettano che noi risolviamo i<br />
loro problemi di salute o che diciamo loro cosa fare.<br />
D’altro canto, noi probabilmente ci aspettiamo che i<br />
pazienti seguano le nostre raccomandazioni o diventino<br />
responsabili della propria cura. Che siano rese esplicite o<br />
meno, le nostre aspettative sono sottese al contratto che<br />
forma la base di gran parte dell’assistenza e della formazione<br />
che noi forniamo. Anche se abbiamo iniziato a liberarci<br />
dal tradizionale approccio alle malattie acute, le<br />
nostre interazioni continuano a essere influenzate da queste<br />
aspettative di ruolo.<br />
Una delle maggiori differenze tra la relazione terapeutapaziente<br />
nel diabete e nelle malattie acute è la questione<br />
dell’expertise. Nelle malattie acute, il professionista, di<br />
solito, ha molte più conoscenze del paziente su quel problema.<br />
I pazienti devono affidarsi all’expertise del professionista.<br />
Questo non è il caso del diabete. Sia il paziente che il professionista<br />
sono portatori di un bagaglio di conoscenze,<br />
esperienze e abilità ugualmente importante per lo sviluppo<br />
di un programma di trattamento della malattia. Infatti non<br />
si può sviluppare un programma solido senza una di queste<br />
due componenti. Il professionista conosce il diabete, le<br />
varie opzioni di trattamento e le loro potenziali conse-<br />
63
64<br />
guenze per la salute. Il paziente è il massimo esperto della<br />
propria vita e si trova nella posizione migliore per decidere<br />
quale dei vari approcci al diabete è fattibile. Poiché il diabete<br />
comporta grandi cambiamenti nelle abitudini di vita<br />
del paziente, l’autoconsapevolezza è cruciale per lo sviluppo<br />
di un piano di autogestione. Questa è la ragione per cui<br />
le due parole ‘auto’ e ‘gestione’ sono state fuse per descrivere<br />
la cura del diabete giorno per giorno.<br />
Il fatto che nella relazione terapeuta-paziente quest’ultimo<br />
porti un expertise di uguale importanza rende possibile<br />
un vero rapporto di partenariato. Perché funzioni, tuttavia,<br />
è necessario che entrambe le parti riconoscano e<br />
rispettino l’expertise dell’altra. Questo tipo di collaborazione<br />
si distacca significativamente dalle reciproche<br />
aspettative di pazienti e professionisti incastonate nel tradizionale<br />
modello di cura per le malattie acute.<br />
“Siamo tutti angeli con una sola ala<br />
e possiamo volare solo abbracciandoci<br />
gli uni agli altri.<br />
Luciano de Crescenzo<br />
Il racconto di Kentaro<br />
Una donna di 70 anni, ipertesa, venne indirizzata al nostro<br />
dipartimento dal cardiologo a causa della glicemia elevata.<br />
Aveva 454 di glicemia e 15,1% di emoglobina glicata.<br />
Aveva perso peso (10 Kg negli ultimi 6 mesi) e si sentiva<br />
arsa dalla sete. Fu ricoverata per fare educazione al diabete.<br />
All’inizio le vennero prescritte quattro dosi di insulina al<br />
giorno per ridurre la glicemia. Dopo 10 giorni era scesa a<br />
due dosi al giorno e i valori di glicemia erano di-scretamente<br />
buoni. Finita la formazione doveva essere dimessa.<br />
Pensavamo di farle continuare l’insulina dopo la dimissione,<br />
ma respinse la nostra idea. Insistette per prendere<br />
delle pillole. Secondo lei, le iniezioni erano troppo complicate<br />
e avrebbero limitato la sua vita e ridotto la sua atti-<br />
“
vità quotidiana. Discutemmo la questione con lei molte<br />
volte. Sapevamo che era molto motivata a fare la dieta e<br />
l’esercizio fisico. Infatti, aveva già smesso di mangiare<br />
dolci e camminava ogni giorno un’ora. Alla fine accettammo<br />
la sua idea e facemmo un accordo: lei sarebbe ritornata<br />
a casa e avrebbe preso solo le pillole, ma, se questo non<br />
fosse stato sufficiente per controllare la malattia, avrebbe<br />
accettato di prendere l’insulina. La donna fu felice dell’accordo<br />
raggiunto e fu dimessa con una prescrizione di glibenclamide<br />
7,5 mg/die. All’uscita la sua glicemia era di<br />
127 a digiuno e di 194 due ore dopo la colazione.<br />
Noi tutti, a essere sinceri, pensavamo che non sarebbe<br />
riuscita a controllare il diabete senza l’insulina. Credevamo<br />
che presto o tardi sarebbe dovuto passare all’insulina. Ma<br />
lei fece davvero un buon lavoro! Controllò il suo diabete<br />
quasi alla perfezione. La sua emoglobina glicata scese gradualmente<br />
e rimase sotto il 6% per più di 10 mesi.<br />
In questo caso la questione più importante fu che noi<br />
accettammo la sua idea. Cercammo di dare ascolto alle<br />
sue idee sulla terapia e di non essere impositivi. Quando<br />
lei realizzò che la stavamo ascoltando con attenzione la<br />
sua motivazione a curarsi divenne maggiore.<br />
Kentaro Okazaki, medico<br />
Tenri, Giappone<br />
“Gli smarrimenti sono momenti<br />
in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi,<br />
qualcosa di sconosciuto; le nostre emozioni<br />
crescono mute in timida perplessità,<br />
tutto ci viene a mancare,<br />
un silenzio sopraggiunge, e il nuovo,<br />
che nessuno conosce, sta nel mezzo di questo,<br />
ed è muto.<br />
Rainer Maria Rilke<br />
“<br />
65
66<br />
Le aspettative dei professionisti e dei pazienti che riguardo<br />
la cura del diabete sono grandi e difficili da cambiare.<br />
Sono una parte fondamentale del nostro modo di percepire,<br />
al punto che spesso noi non ne siamo consapevoli.<br />
Non le vediamo, piuttosto vediamo il mondo attraverso di<br />
esse. L’incontro con i pazienti raramente comincia con il<br />
terapeuta che fa affermazioni del tipo: “In qualità di educator,<br />
io prenderò la responsabilità di risolvere i problemi<br />
di salute che voi non potete risolvere da soli. Dai pazienti<br />
invece mi aspetto che...”. I pazienti raramente iniziano<br />
una visita dicendo: “Sono qui oggi nel ruolo di paziente,<br />
e ciò che mi aspetto da voi come educator è ..., ciò che io<br />
mi impegno a fare come paziente è ...”.<br />
Il fatto che le nostre interazioni siano influenzate da<br />
aspettative implicite non è necessariamente un problema,<br />
a meno che non ci sia uno scollamento tra quelle aspettative<br />
e la realtà di quella specifica situazione. C’è, comunque,<br />
come abbiamo discusso prima, una fondamentale<br />
incompatibilità tra i ruoli tradizionali di paziente e terapeuta<br />
e la realtà dell’autogestione del diabete.<br />
Un modo per uscire da questo impasse è avere una franca<br />
e aperta discussione con i nostri pazienti riguardo alla<br />
natura del diabete: è una malattia autogestita che richiede<br />
ai pazienti e agli educator di ridefinire ruoli e aspettative.<br />
Oppure, possiamo scrivere la nostra filosofia di cura<br />
e spedirla ai pazienti prima di visitarli. Per esempio, possiamo<br />
incominciare dicendo ai nostri pazienti che vorremmo<br />
poterli sollevare dalla responsabilità della cura, ma<br />
con il diabete questo non è possibile. Possiamo lasciare<br />
che i pazienti capiscano che desideriamo contribuire con<br />
il nostro expertise clinico a portare questo peso, individuando<br />
i loro specifici problemi e collaborando con loro<br />
allo sviluppo di un piano di autotrattamento che si adatti<br />
veramente alla loro vita. Possiamo comunicare loro la<br />
nostra volontà di lasciare da parte i nostri giudizi e di<br />
ascoltare attentamente per comprendere il loro mondo,
perché sappiamo che è in quel mondo che prende corpo<br />
la terapia del loro diabete. Infine possiamo dire ai nostri<br />
pazienti che abbiamo bisogno del loro aiuto. Possiamo<br />
chiedere di considerare con attenzione i nostri suggerimenti.<br />
Sottolineare quanto sia importante per loro essere<br />
aperti e franchi con noi riguardo a ciò che vogliono fare e<br />
a ciò che sono in grado di fare nella gestione del diabete.<br />
In cambio possiamo promettere di rispettare il loro diritto<br />
a compiere scelte consapevoli, anche quando non siamo<br />
d’accordo con tutte le loro decisioni.<br />
Discutere i nuovi ruoli paziente-terapeuta e le aspettative<br />
reciproche può aiutare a stabilire un contesto per l’educazione<br />
al diabete che potrà durare nel tempo. Quanto<br />
saremo soddisfatti e quanto saremo efficaci dipenderà, in<br />
larga parte, da quanto strettamente il nostro comportamento<br />
e i suoi effetti saranno aderenti alle nostre aspettative.<br />
Lo stesso vale per i nostri pazienti. Stabilire un terreno<br />
comune con i pazienti, basato su un insieme di<br />
aspettative concordate reciprocamente, pone le basi per<br />
una collaborazione efficace, per una vera partnership.<br />
Domande per riflettere<br />
1) Cosa significa per voi stabilire un rapporto di collaborazione<br />
con un paziente?<br />
2) Se doveste iniziare una relazione (o scrivere la vostra<br />
filosofia di cura) sui ruoli e le responsabilità del paziente<br />
e del diabetes educator, cosa direste?<br />
3) Come fate a capire quando siete riusciti a stabilire un<br />
rapporto di collaborazione con un paziente?<br />
4) Cosa fate quando non riuscite a stabilire un rapporto<br />
collaborativo con un paziente?<br />
67
CAPITOLO 7<br />
Ascoltare può guarire<br />
“La conoscenza parla,<br />
la saggezza ascolta.<br />
Jimi Hendrix<br />
Se chiedessimo a un gruppo di diabetes educator: “Sapete<br />
come si fa ad ascoltare?” probabilmente risponderebbero<br />
affermativamente. Se chiedessimo: “Siete dei buoni ascoltatori?”,<br />
la grande maggioranza risponderebbe ancora sì.<br />
Eppure, mentre il paziente ci parla, noi pensiamo a cosa diremo<br />
appena avrà finito. Pensiamo: ”Cosa posso consigliare a<br />
questo paziente? Qual è la soluzione al suo problema?”.<br />
Stiamo in ascolto, è vero, ma di noi stessi, non del paziente.<br />
In realtà non saremo mai capaci di ascoltare attentamente<br />
fino a quando non ci libereremo dell’idea che, come<br />
diabetes educator, noi dobbiamo avere sempre una risposta.<br />
Questo può essere molto difficile. Anche dopo molti<br />
anni di esperienza con l’empowerment non ci siamo completamente<br />
liberati da un certo grado di ansia da prestazione<br />
quando interagiamo con un paziente. In una relazione<br />
di aiuto è quasi impossibile liberarci totalmente dall’idea<br />
che noi siamo responsabili di fare qualcosa che sarà<br />
importante per il paziente. Eppure, preoccupandoci di<br />
cosa faremo o diremo, riduciamo l’attenzione dedicata<br />
all’ascolto del paziente. La nostra esperienza ci ha insegnato<br />
che se noi ascoltiamo con attenzione, la direzione<br />
da seguire emergerà dalla storia stessa del paziente.<br />
“<br />
69
70<br />
“Parlare è un dono di natura, stare<br />
in silenzio un dono di saggezza.<br />
Anonimo<br />
Dana Reeve, la moglie dell’attore Christopher Reeve, ha<br />
pubblicato recentemente un libro con alcune delle molte<br />
lettere che essi hanno ricevuto dopo l’incidente al midollo<br />
spinale. Una di queste era di una donna che aveva avuto un<br />
incidente simile. Questa lettera suggeriva di trovare qualcuno<br />
a cui raccontare le loro paure più profonde. L’autrice<br />
raccomandava di scegliere qualcuno che non tentasse di<br />
rassicurarli o di dire loro che tutto era a posto, piuttosto<br />
qualcuno che semplicemente stesse ad ascoltarli.<br />
Quando ascoltiamo con partecipazione noi tentiamo strenuamente<br />
di concentrare la nostra attenzione sul paziente.<br />
Usiamo i nostri sensi, la nostra mente, il nostro cuore per<br />
cogliere, capire e valutare l’esperienza del nostro paziente.<br />
Prestiamo ascolto al significato delle sue parole, sia esplicite<br />
che implicite; cerchiamo di sintonizzarci sulle sue paure, speranze<br />
o preoccupazioni. Osserviamo le espressioni facciali e il<br />
linguaggio del corpo. Cerchiamo di percepire ogni cosa.<br />
Essere ascoltati in questo modo aiuta i pazienti a sentirisi<br />
accettati e compresi. Accade raramente alla maggior<br />
parte di loro di essere ascoltati senza essere giudicati o<br />
criticati. Ascoltare i pazienti senza giudicare è un atto di<br />
fratellanza. Comunica rispetto e riafferma la validità della<br />
loro esperienza. Ascoltare con attenzione i pazienti permette<br />
loro di abbassare le difese e di esplorare più a<br />
fondo la loro esperienza di vita con il diabete. Omettere il<br />
nostro consiglio, le nostre soluzioni e le nostre introspezioni<br />
permette di vedere e sentire più intensamente ciò<br />
che è vero per loro. La nostra attenzione indivisa e non<br />
giudicante serve da specchio nel quale i nostri pazienti<br />
possono vedersi per come realmente sono.<br />
“
“Il più grande dono<br />
che ognuno può fare al prossimo<br />
è la rapita attenzione<br />
all’esistenza dell’altro.<br />
Sue Atchley Ebaugh<br />
Il racconto di Marti<br />
Una delle mie prime esperienze di ascolto avvenne durante<br />
il periodo in cui studiavo da infermiera. Stavo rifacendo<br />
un letto, avevo sentito il pianto della donna nel letto<br />
accanto. Non sapevo cosa fare ma sentivo che non potevo<br />
lasciarla senza averle parlato. Mi disse che aveva un<br />
tumore al seno e che aveva appena subito una mastectomia.<br />
Era molto preoccupata per la reazione del marito e<br />
per ciò che sarebbe stato dei suoi figli se la prognosi non<br />
fosse stata favorevole. Poiché ero lì come allieva (e nessuno<br />
si aspettava che sapessi nulla), e poiché non sapevo<br />
cosa dirle, le feci semplicemente delle domande e l’ascoltai.<br />
Mentre parlavamo, l’infermiera che lavorava con le<br />
pazienti che avevano il cancro al seno entrò nella stanza.<br />
Mi scusai e ritornai a rifare il letto.<br />
Dopo aver ascoltato come interagiva con quella paziente,<br />
sentii che avevo sbagliato perché lei diede un mucchio di<br />
informazioni e di consigli. Continuò a dire alla paziente di<br />
non preoccuparsi, che tutti i mariti si adattano, e che i dottori<br />
le avrebbero parlato della prognosi. Eppure, capii che<br />
ognuna di queste risposte chiudeva la conversazione.<br />
Quando la paziente smise di piangere, lei smise anche di<br />
rispondere. Dopo che ebbe lasciato la stanza, la paziente<br />
mi chiese se volevo tornare e sedere sul letto ad ascoltarla<br />
per un po’. Le dissi che non ero esperta di queste cose, l’altra<br />
era l’esperta. La paziente mi disse: ”Ma tu sei stata ad<br />
ascoltarmi, e questo era ciò di cui ho veramente bisogno”.<br />
Quell’esperienza mi ha insegnato il grande potere dell’ascoltare<br />
e mi ha fatto capire che le parole importano meno<br />
della disponibilità ad ascoltare e a imparare.<br />
“<br />
71
72<br />
Lasciare che i nostri pazienti esplorino le loro esperienze<br />
senza la paura di essere interrotti o giudicati li aiuta a riconoscere<br />
ed esprimere le loro emozioni. I pazienti spesso<br />
capiscono quanto profondamente hanno a cuore le questioni<br />
legate al loro diabete. Problemi, obiettivi, barriere e strategie<br />
per il cambiamento spesso emergono spontaneamente.<br />
Liberi dal giudizio, i pazienti possono cominciare a vedere<br />
e a comunicare su un livello più profondo e autentico, e<br />
questa comunicazione porta naturalmente all’identificazione<br />
dei passi successivi da compiere. Noi possiamo aiutare i<br />
pazienti a chiedere a se stessi: “Cosa voglio realmente?<br />
Cosa dovrei fare per raggiungere i miei obiettivi?”. Essere<br />
capaci di esplorare e impostare correttamente questioni di<br />
questo genere può essere una meravigliosa esperienza.<br />
Nella nostra ricerca sull’educazione al diabete, abbiamo<br />
condotto molti focus group. Una delle cose che ha attirato<br />
la nostra attenzione è stata scoprire quanto gratificante<br />
fosse per i pazienti avere l’opportunità di partecipare.<br />
In genere coordiniamo otto, dodici pazienti per due ore<br />
invitandoli a parlare della propria esperienza di vita col<br />
diabete. La formula dei focus group prevede che il conduttore<br />
non influenzi gli atteggiamenti e le affermazioni<br />
dei membri del gruppo. Abbiamo condotto i gruppi chiedendo<br />
come fosse vivere con il diabete, ma non abbiamo<br />
proposto delle risposte o comunque mostrato approvazione-disapprovazione<br />
per le risposte dei pazienti.<br />
Questa strategia è stata usata per massimizzare l’autenticità<br />
e la sincerità delle risposte dei pazienti alle nostre<br />
domande. Dopo i focus group, quasi sempre i pazienti<br />
tornavano a dirci: “Grazie, sono state due ore meravigliose”.<br />
Abbiamo cominciato a realizzare quanto fosse importante<br />
per questi pazienti avere l’opportunità di parlare<br />
della loro vita col diabete in un’atmosfera che fosse di<br />
accettazione e non di giudizio. Che siamo pazienti o terapeuti,<br />
essere ascoltati significa essere rispettati, significa<br />
che la nostra esperienza ha valore.
“Ci si sente a casa lì dove<br />
si viene compresi.<br />
Christian Morgenstern<br />
L’ascolto attento dà l’opportunità inoltre ai pazienti di<br />
ascoltare se stessi. Spesso nelle situazioni difficili i pazienti<br />
si sentono intrappolati. E allora parlano di così tante<br />
questioni differenti che influenzano un problema che è<br />
facile essere sopraffatti dalla quantità di informazioni.<br />
Porre delle domande e fare il punto della situazione non<br />
solo ci aiuta a capire meglio il problema, ma aiuta anche i<br />
nostri pazienti a guadagnare in introspezione e chiarezza.<br />
Le soluzioni spesso emergono da questo processo.<br />
In fondo essere ascoltati con partecipazione e senza essere<br />
giudicati è terapeutico di per sé. Questo tipo di ascolto<br />
è come una carezza gentile alla psiche fragile e ferita di<br />
una persona con il diabete. Ascoltare qualcuno in questo<br />
modo è un atto di amore, e l’amore cura. L’ascolto partecipe<br />
può anche essere un modo per calmare la nostra<br />
stessa mente e lo spirito. Ascoltare veramente richiede (e<br />
permette) alle nostre menti di diventare serene. Può aiutare<br />
a restare in contatto con il centro del nostro essere in<br />
un modo più equilibrato e più olistico, sia nelle nostre vite<br />
personali che nelle nostre relazioni con i pazienti.<br />
Domande per riflettere<br />
1) Cosa vi passa per la testa quando ascolate i vostri<br />
pazienti?<br />
2) Quali barriere vi rendono difficile ascoltare i pazienti?<br />
3) Cosa facilita l’ascolto partecipato dei pazienti?<br />
4) Restare in silenzio per pochi secondi di fronte al paziente<br />
dopo che ha parlato vi mette a disagio?<br />
“<br />
73
Il segreto del cambiamento:<br />
aiutare i pazienti<br />
a riscrivere le loro storie<br />
In questa sezione presentiamo delle strategie per aiutare<br />
i pazienti a riscrivere la storia del loro diabete attraverso<br />
la riflessione sulle emozioni, la soluzione di problemi, e il<br />
cambiamento di comportamento.<br />
In che modo? Usando delle strategie che vi saranno certamente<br />
familiari. Le abbiamo imparate per scopi differenti,<br />
per indurre l’adesione dei pazienti al trattamento.<br />
Non sono le tecniche ma il modo in cui le usiamo che<br />
rispecchia la nostra adesione all’approccio empowerment.<br />
Lo scopo di queste strategie, per come sono<br />
descritte in questa sezione, è di aiutare i pazienti a prendere<br />
delle decisioni e responsabilità crescenti per la cura<br />
della loro malattia. Viene descritto come usare l’approccio<br />
empowerment per incoraggiare gli sforzi di cambiamento<br />
fatti autonomamente dai pazienti. Inoltre, viene<br />
anche proposto un modello di cambiamento di comportamento<br />
in cinque fasi.<br />
LE CINQUE FASI<br />
Identificare il problema<br />
Esplorare le emozioni<br />
Fissare gli obiettivi<br />
Fare un programma<br />
Valutare i risultati<br />
PARTE 3<br />
75
76<br />
Scomporre il processo in cinque fasi distinte rende più<br />
facile comprenderlo e impararlo. Con la pratica queste<br />
fasi diverranno parte del vostro abituale dialogo con il<br />
paziente. Imparare queste cinque fasi è come imparare a<br />
danzare. Ciò che all’inizio è meccanico diventa in seguito<br />
aggraziato e naturale in risposta alla musica. Ma non scordiamoci<br />
che in questa danza è il paziente che conduce.<br />
Perciò, una singola seduta potrà includere solo una delle<br />
cinque fasi, oppure tutte e cinque, a seconda delle questioni<br />
identificate dal paziente.
CAPITOLO 8<br />
Qual è il problema?<br />
“I mari senza onde non fanno<br />
esperti i marinai.<br />
Proverbio africano<br />
Dare un nome al problema<br />
Il primo passo nel processo di cambiamento è tirare fuori<br />
il problema. Come abbiamo detto precedentemente, le<br />
emozioni ci guidano e ci aiutano a definire il problema. Se<br />
noi non ci sentiamo male riguardo a una questione o<br />
situazione, allora non c’è problema. Chiedendo ai pazienti<br />
come si sentono riguardo ai vari aspetti della loro vita<br />
col diabete, noi possiamo arrivare alle questioni che costituiscono<br />
motivo di preoccupazione per loro. Talvolta questa<br />
discussione porta i pazienti a creare obiettivi e strategie<br />
per aiutarli a cambiare la loro storia. Altre volte questo<br />
li aiuta ad avere maggiore introspezione sul significato<br />
del problema. Queste introspezioni spesso conducono<br />
ai cambiamenti di comportamento.<br />
Una volta identificato, un problema richiede di essere esplorato<br />
approfonditamente prima che noi possiamo aiutare i pazienti<br />
a pensare delle soluzioni. Un modo per iniziare è chiedere al<br />
paziente: “Cosa possiamo fare insieme durante la visita?”.<br />
Alcuni pazienti hanno difficoltà a identificare obiettivi o<br />
risultati desiderati. Con questi pazienti possiamo incominciare<br />
dicendo: “Ditemi cosa è più difficile per voi dell’a-<br />
“<br />
77
78<br />
vere il diabete e doversene occupare?”. Se il tempo è<br />
limitato, spesso aggiungiamo:”Nei dieci minuti che<br />
abbiamo oggi”. Questo riconosce che la visita è a beneficio<br />
del paziente e colloca il paziente in posizione di controllo.<br />
È essenziale avere il tempo necessario per identificare<br />
quello che il paziente considera il suo maggiore problema.<br />
È un passaggio essenziale che è spesso saltato<br />
nella fretta di aiutare i pazienti a identificare gli obiettivi.<br />
È forte la tentazione di proporre soluzioni ai problemi prima<br />
di averne compreso la vera natura o la causa. Fallire nell’esplorare<br />
un problema in genere conduce a sentimenti di frustrazione<br />
sia per noi che per i nostri pazienti. Spesso siamo<br />
convinti di conoscere la soluzione di un problema dopo le<br />
prime fasi di un colloquio, per poi scoprire alcuni punti critici<br />
che né il paziente né noi avevamo adeguatamente considerato.<br />
La soluzione che alla fine il paziente è in grado di identificare<br />
si rivela molto diversa da ciò che inizialmente gli avevamo<br />
proposto.<br />
Particolari comportamenti di cura di sé (o mancanza di questi)<br />
sono spesso sintomi di un problema e non il problema<br />
stesso. Capire i sintomi non è la stessa cosa che capire la<br />
vera causa di un problema. Risolvere i sintomi in genere<br />
non è efficace. Il comportamento del paziente può cambiare<br />
temporaneamente, ma il problema che sta sotto si<br />
manifesta dopo con un altro sintomo comportamentale.<br />
Quando invitiamo i pazienti a esporre le loro storie stiamo<br />
esplorando il problema. Il nostro compito è di ascoltare e<br />
di porre domande che ci aiutino a comprendere cosa<br />
significhi per i nostri pazienti vivere con il diabete. La<br />
nostra empatia e la nostra curiosità ci aiutano a porre il<br />
genere di domande che portano al cuore del problema.<br />
Cominciare con il problema che il paziente ha identificato,<br />
comunica la nostra volontà di focalizzarci sulla sua<br />
scala di priorità. Inoltre, cercare di capire il punto di vista<br />
del nostro paziente ci aiuta a comprendere meglio quella<br />
persona e come vive la sua vita.
“Vivi le tue domande ora,<br />
e forse, persino senza saperlo,<br />
vivrai un giorno lontano le tue risposte.<br />
Rainer Maria Rilke<br />
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />
A IDENTIFICARE I PROBLEMI<br />
Come è vivere con il diabete?<br />
Qual è la vostra maggiore preoccupazione?<br />
Cosa vi risulta più difficile nel prendervi cura del diabete?<br />
Cosa causa in voi più disagio o stress?<br />
Che cosa rende questo particolarmente difficile per voi?<br />
Perché credete che questo accada?<br />
Quando pensate a questo problema,<br />
cosa vi viene in mente?<br />
Questo è stato già in passato un problema per voi?<br />
È stato un problema anche al di fuori del diabete?<br />
Gail racconta<br />
Ann aveva il diabete da circa vent’anni. Da due anni lavoravo<br />
con lei. Aveva una retinopatia e una forma grave e dolorosa<br />
di neuropatia. Ann era molto adirata verso il suo diabete,<br />
verso se stessa e verso suo figlio. Quando cominciammo a<br />
discutere le sue abitudini alimentari e i livelli elevati di glicemia<br />
disse: “Mio figlio mi sta facendo impazzire! Tutto quello<br />
che voglio è mangiare”. Mentre mi parlava di suo figlio di tredici<br />
anni le lacrime apparvero nei suoi occhi. Suo figlio non<br />
voleva andare a scuola. Lei lo portava a scuola tutte le mattine.<br />
Lui entrava dalla porta principale e usciva da quella sul<br />
retro. Il giudice del tribunale dei minori aveva minacciato di<br />
comminarle una multa di 600 dollari ogni volta che suo figlio<br />
avesse marinato la scuola. Ann viveva di pensione di invalidità;<br />
non aveva i soldi per pagare neppure una di quelle multe.<br />
Il giudice arrivò anche a minacciare la galera per Ann. Lei<br />
“<br />
79
80<br />
aveva preso per il figlio un appuntamento dallo psicologo e<br />
lo aveva accompagnato in macchina, solo che lui si era rifiutato<br />
di scendere dalla macchina. Quando venne da me era il<br />
quinto giorno che il figlio non andava a scuola. Si rifiutava,<br />
semplicemente. Lei aveva chiamato la scuola per dire che il<br />
figlio non voleva saperne. Poi disse: “Se il giudice mi dà la<br />
multa, non potrò pagarla. Probabilmente mi manderà in<br />
galera. Non c’è niente da fare”. Ann è una mamma-single<br />
con un compagno che vive con lei. Lui non ha alcuna influenza<br />
sul comportamento del ragazzo. Inoltre, il figlio maggiore<br />
di Ann, con la sua ragazza e il loro bambino piccolo, vive<br />
nello stesso caseggiato di Ann. È appena uscito di prigione e<br />
Ann non vuole che venga coinvolto nell’educazione del fratello<br />
piccolo. Ha paura che possa scoppiare una lite violenta<br />
e il ragazzo più grande finirebbe di nuovo in prigione.<br />
“Non potremmo mai imparare a essere<br />
coraggiosi e pazienti,<br />
se nel mondo ci fosse soltanto la gioia.<br />
Helen Keller<br />
Ascoltai Ann che descriveva la sua vita, niente di più. Non<br />
riuscivo a immaginare come avrebbe potuto trovare la<br />
forza o le risorse per rendere la cura del diabete una priorità,<br />
dati i problemi che doveva affrontare giorno dopo<br />
giorno. Pensai anche quanto alto doveva essere il suo<br />
livello di stress e l’effetto che questo doveva avere sulla<br />
glicemia. Vista la gravità dei problemi che doveva affrontare,<br />
il meglio che potevo fare per lei era semplicemente<br />
stare dalla sua parte mentre descriveva la situazione.<br />
Quando le feci notare che gli alti livelli di stress contribuivano<br />
probabilmente alla sua glicemia, lei disse: “Io mangio<br />
in continuazione; lo so che questo è gran parte del<br />
problema”. Con mia grande sorpresa lei si concentrò sul<br />
diabete e cominciò a cercare una soluzione per controllarlo<br />
meglio.<br />
“
Disse: “L’ho già fatto una volta, lo posso fare di nuovo”.<br />
Intendeva il controllo. Una volta, in passato, aveva raggiunto<br />
un buon controllo della glicemia. Le chiesi cosa<br />
voleva fare. Mi rispose che voleva mangiare solo a orari<br />
prestabiliti. Mi disse che avrebbe scritto sul suo diario<br />
tutto quello che mangiava. Le fissai un appuntamento per<br />
la settimana seguente.<br />
È così che va molte volte mentre si aiuta i pazienti a realizzare<br />
l’autogestione. Ogni paziente raggiunge quello<br />
che vuole e che può raggiungere. Quello che io faccio è<br />
creare un’atmosfera che renda possibile ai pazienti esaminare<br />
e risolvere gli ostacoli da soli. La nostra relazione<br />
diventa un luogo protetto in cui il paziente può valutare e<br />
fissare i suoi obiettivi.<br />
Identificare le soluzioni<br />
Solo quando un problema è stato esplorato a fondo e<br />
chiarito, è tempo di muoversi e identificare le strategie per<br />
risolverlo. Per essere efficace una strategia non solo deve<br />
essere adatta al problema ma anche alla persona che ha<br />
quel problema. Possiamo pensare di conoscere le soluzioni<br />
per i problemi dei nostri pazienti, ma di sicuro non<br />
siamo noi quelli che implementeranno la soluzione.<br />
Quando sono i pazienti stessi a identificare le soluzioni ai<br />
loro problemi è più probabile che essi siano motivati al<br />
cambiamento e lavorino in quella direzione. Questo<br />
approccio rafforza anche la consapevolezza di poter risolvere<br />
i loro problemi con il diabete. Noi possiamo essere<br />
veramente di aiuto ai nostri pazienti ascoltando le loro storie,<br />
assistendoli nello scegliere le soluzioni disponibili e<br />
discutendo i possibili risultati di ogni opzione.<br />
Le soluzioni offerte da altre persone raramente porteranno<br />
la motivazione necessaria per costruire e mantenere un<br />
cambiamento di comportamento. Avete mai condiviso un<br />
problema con un amico che vi ha detto: ”Ecco cosa dovresti<br />
fare”? La maggior parte di noi semplicemente annuisce<br />
81
82<br />
e dice: ”Va bene”, ma nel frattempo pensa che l’altro o<br />
l’altra non hanno idea di cosa significhi realmente quel<br />
problema e che la soluzione proposta non funzionerà.<br />
Molti pazienti mostreranno consenso a una serie di azioni<br />
proposte anche se non hanno alcuna intenzione di metterle<br />
in pratica, semplicemente perché vogliono mantenere il<br />
più possibile la relazione priva di conflitti. Benché questo<br />
vada contro molti dei nostri principi come professionisti<br />
della salute, possiamo dare un contributo significativo<br />
rimettendoci a sedere e lasciando che le storie dei pazienti<br />
si srotolino davanti a noi.<br />
perplessità è l’inizio della conoscenza.<br />
Kahlil Gibran<br />
““La<br />
Cheryl racconta<br />
Erma venne inviata da un assistente sociale ai corsi di diabete<br />
del nostro Centro. Il diabete non era una cosa nuova per<br />
lei ma stava attraversando un momento molto critico della<br />
sua vita. La sua glicemia era veramente fuori controllo. Il figlio<br />
maggiore di Erma aveva stretto delle cattive amicizie. Molto<br />
preoccupata per lui, lo aveva mandato a vivere con dei<br />
parenti in un altro Stato. Circa due settimane prima del<br />
nostro incontro suo figlio (mentre viveva con questi parenti)<br />
venne ucciso in uno scontro a fuoco.<br />
Nonostante stesse attraversando una fase assolutamente<br />
negativa della sua vita, Erma fu composta e in grado di<br />
parlare del suo diabete quando arrivò al corso. Sapeva<br />
che lo stress che stava vivendo faceva salire la sua glicemia.<br />
Ci disse anche di aver portato con sé una bottiglia<br />
d’acqua con dello zucchero perché era assetata e desiderava<br />
bere qualcosa di dolce. Tutto il corso mostrò preoccupazione<br />
per gli effetti negativi che l’acqua zuccherata<br />
aveva sulla sua glicemia. Nella bottiglia Erma aveva<br />
messo un quarto di tazza (circa 60 grammi) di zucchero,<br />
non un cucchiaino!
Volendo rendersi utile, la classe diede a Erma molti suggerimenti<br />
per aiutarla a consumare meno calorie vuote. Una soluzione<br />
possibile era di provare con una bevanda dolcificata<br />
senza zucchero. Un’altra era di mettere un dolcificante al<br />
posto dello zucchero nella sua bottiglia. Erma stava ad ascoltare<br />
i vari suggerimenti che provenivano dal gruppo. Benché<br />
non sembrasse soddisfatta da nessuna delle soluzioni proposte,<br />
acconsentì a provare a bere qualcosa di meno dannoso.<br />
Disse anche che sarebbe ritornata la settimana seguente.<br />
E così fu. Erma tornò e condivise alcune delle sue emozioni<br />
sulla morte del figlio. Poi sorprese tutti spiegando con chiarezza<br />
i motivi per cui beveva acqua zuccherata. Il desiderio<br />
per qualcosa di dolce, disse, non era la cosa più importante.<br />
Era il sapore dell’acqua della sua zona che non le piaceva. La<br />
discussione che ne seguì fu incentrata sui differenti sapori<br />
dell’acqua nelle diverse zone di residenza. L’acqua potabile<br />
di alcune zone venne giudicata indubitabilmente più gradevole.<br />
Benché Erma stesse vivendo un grande dolore, fu in<br />
grado di trovare la soluzione prima dell’incontro successivo.<br />
Nessuno avrebbe potuto indovinare la sua soluzione.<br />
Comprò grandi quantità di acqua purificata. Aveva una bottiglia<br />
a casa e una a casa del suo compagno. Inutile dire che la<br />
sua glicemia scese immediatamente.<br />
Tutti festeggiammo il suo successo!<br />
Cheryl Tannas, Infermiera<br />
Detroit, Michigan - USA<br />
Perché sembra così naturale risolvere i problemi per i nostri<br />
pazienti anziché aiutarli a trovare da soli le loro soluzioni?<br />
Perché vogliamo renderci utili, e abbiamo imparato che rendersi<br />
utili significa risolvere i problemi. Ci sentiamo bene alla<br />
fine di un incontro perché abbiamo risolto il problema. Ma a<br />
volte noi sappiamo che il paziente non ha intenzione di provare<br />
il nostro programma, e allora ci sentiamo inutili e perdenti.<br />
Pensate al problema che avete identificato per usarlo in questa<br />
sezione. Ricordate le vostre risposte alle persone che ave-<br />
83
84<br />
vano offerto soluzioni al vostro problema? Avete condiviso il<br />
problema per trovare una soluzione o per avere qualcuno che<br />
realmente vi stesse ad ascoltare? Pensate sinceramente che<br />
l’altra persona potrebbe risolvere il problema per voi? Chi si<br />
sente meglio alla fine dell’interazione? Spesso è la persona<br />
che offre consigli piuttosto che quella che li riceve.<br />
Avete mai avuto dei pazienti che dicono: “Sì, ma ...” ogni<br />
volta che voi offrite una soluzione o una strategia per<br />
risolvere il loro problema? È molto frustrante sentirsi spiegare<br />
perché ognuna delle soluzioni che proponiamo non<br />
può funzionare. È anche frustrante per i pazienti che<br />
vedono le soluzioni che noi proponiamo come irrilevanti o<br />
irraggiungibili. I pazienti probabilmente resistono ai nostri<br />
consigli quando avvertono una pressione al cambiamento<br />
prima che essi siano preparati a farlo. Come avete probabilmente<br />
sperimentato con i vostri amici si ha l’impressione<br />
che l’interlocutore in realtà non capisca quanto difficile<br />
è il problema oppure vi ritenga incapaci di risolvere da<br />
soli i vostri problemi.<br />
Uno degli indizi più importanti che una relazione con un<br />
paziente non sta andando bene è quando ci accorgiamo<br />
che siamo noi a parlare di più. Esperienze di questo tipo<br />
ci hanno insegnato a chiederci: “Credo veramente che<br />
questa persona sia incapace di trovare una strada per<br />
impostare i suoi problemi?”. La risposta: “Sì, ma...” ai<br />
nostri consigli può originare, in parte, da come il paziente<br />
vede la sua relazione con l’educator. Il paziente può<br />
resistere al nostro consiglio per mostrare di mantenere il<br />
controllo della relazione e della cura della sua malattia.<br />
Oppure, può essere un tentativo di provare a noi e a lui<br />
che non è per ‘colpa’ sua che non ha cambiato comportamento.<br />
Quando riusciamo a essere non giudicanti e riconosciamo<br />
che il paziente ha il controllo della situazione,<br />
questa resistenza smette di essere necessaria.<br />
Molte volte i pazienti riescono a identificare i problemi, eppure<br />
sembrano non voler prendere alcuna iniziativa. Ascoltando
i problemi degli altri, è molto facile pensare che se quello<br />
fosse un nostro problema noi vorremmo assolutamente risolverlo.<br />
Ma risolvere i problemi implica fare dei cambiamenti, e<br />
i cambiamenti possono essere molto dolorosi. Talvolta ci<br />
sembra più sicuro e più facile tenerci il problema piuttosto<br />
che cambiare e crearne, magari, degli altri.<br />
Le persone possono anche sentirsi in colpa per non voler<br />
cambiare. Non vogliamo cambiare, ma non possiamo dichiararlo<br />
apertamente. Qualche volta i nostri pazienti affrontano<br />
questo dilemma dimostrando che nessuna delle possibili<br />
soluzioni funziona. Avete avuto dei pazienti che vengono da<br />
voi tutte le volte esattamente con lo stesso problema, ma che<br />
non sembrano fare nulla per superarlo? Questi pazienti suonano<br />
come un disco graffiato e drenano le nostre energie. I<br />
loro tentativi di cambiare sono disegnati per placare altri e<br />
per evitare le critiche e il biasimo. In queste situazioni, possiamo<br />
aiutarli a riconoscere che non sono pronti o capaci a<br />
cambiare un particolare comportamento.<br />
Lynn racconta<br />
La mia paziente era una vedova di sessant’anni con un diabete<br />
di tipo 2. Mi disse che doveva perdere peso. Aveva<br />
anche un’artrite grave e doveva farsi cucinare i pasti dalla<br />
donna con cui condivideva la casa. Benché avesse identificato<br />
quali comportamenti mettere in atto per perdere<br />
peso, mi disse che non ci sarebbe mai riuscita a causa della<br />
resistenza della sua compagna. Per esempio, disse che<br />
avere nello stesso frigorifero una confezione di latte intero<br />
e una di latte scremato era ‘troppo separatista’. Dopo una<br />
lunga discussione l’affrontai con gentilezza e le chiesi se<br />
perdere peso era per lei veramente una priorità. La rassicurai<br />
sul fatto che non doveva perdere peso per farmi piacere.<br />
Mi disse che il rapporto con la sua amica era cruciale<br />
per lei. Temeva di non riuscire a cavarsela da sola nel caso<br />
si fosse arrabbiata e l’avesse lasciata. E così si concentrò su<br />
altre aree dell’autogestione su cui lavorare.<br />
85
86<br />
Riflettete sulle vostre esperienze con un problema<br />
1) Come arrivate a definire il problema?<br />
2) La vostra definizione delle cause del problema cambia<br />
nel tempo?<br />
3) La vostra comprensione delle cause del problema cambia<br />
nel tempo?<br />
4) Cosa imparate sul problema e su voi stessi mentre ci<br />
lavorate sopra?<br />
5) Ciò che avete imparato vi è di aiuto nel lavoro con i<br />
pazienti?<br />
(Per esempio, forse avete imparato che il solo sapere che<br />
dovete fare esercizio non è abbastanza per voi per farne<br />
una priorità.)<br />
Domande per riflettere<br />
1) Come rispondete quando i vostri pazienti identificano<br />
diversi seri problemi nella gestione del loro diabete o<br />
nella loro vita?<br />
2) Quanto spesso avvertite un forte desiderio di offrire<br />
consigli quando un paziente vi presenta dei problemi?<br />
3) Pensate sia vostro compito risolvere questi problemi<br />
per i pazienti? Perché? Oppure, perché no?
CAPITOLO 9<br />
Come viene vissuto?<br />
Identificare le emozioni<br />
Il secondo passo nell’approccio empowerment è aiutare i<br />
pazienti a identificare le loro emozioni riguardo al diabete<br />
e, in particolare, il comportamento (o il problema) che<br />
essi sperano di cambiare. I pensieri e le emozioni sono<br />
importanti perché il nostro comportamento è in genere<br />
un’espressione di come ci sentiamo e di cosa pensiamo.<br />
Tutti abbiamo visto pazienti così arrabbiati per il fatto di<br />
avere il diabete che passano tutto il loro tempo nel combatterlo<br />
al punto di non essere capaci di gestirlo.<br />
Abbiamo anche incontrato pazienti che sembrano affrontare<br />
il diabete dal verso giusto. A volte possono avere<br />
anche sentimenti negativi sul diabete, ma generalmente<br />
sono capaci di viverci insieme in pace e armonia.<br />
Le emozioni negative possono essere dolorose<br />
La maggior parte di noi ritiene di essere efficace nell’aiutare<br />
i pazienti a identificare e gestire le emozioni correlate<br />
al diabete e al suo trattamento. Tuttavia, quando rivediamo<br />
i filmati delle sedute educator-paziente ci accorgiamo<br />
che quando i pazienti fanno delle affermazioni cariche<br />
di emozioni, queste sono spesso trascurate. La maggior<br />
parte di noi prova un certo disagio nel trattare forti<br />
sentimenti negativi. Talvolta noi superiamo il disagio passando<br />
subito alla fase della identificazione degli obiettivi<br />
senza esplorare in profondità le emozioni del paziente o<br />
87
88<br />
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />
A IDENTIFICARE LE EMOZIONI<br />
Come vi sentite riguardo<br />
a ____________________________________________? *<br />
Cosa pensate riguardo<br />
a ____________________________________________?<br />
Come vi sentite se le cose non cambiano?<br />
Potete raccontare una storia su questa situazione,<br />
incluso come vi sentite riguardo a ciò?<br />
*Alcuni pazienti hanno difficoltà a rispondere a domande su<br />
come si sentono perché non sono abituati a parlare delle loro<br />
emozioni. Abbiamo visto che quando chiediamo a questi<br />
pazienti di dirci cosa pensano del problema la loro risposta<br />
speso rivela come si sentono.<br />
l’influenza che hanno sul loro comportamento. Un altro<br />
modo per evitare le emozioni è fornire informazioni o<br />
porre domande incongrue in risposta a un’affermazione<br />
carica di emozioni fatta dal paziente. Per esempio, un<br />
paziente dice: “Io detesto questa dieta!”. E noi rispondiamo:<br />
“Quante calorie sta assumendo?”. Questo tipo di<br />
risposta in genere non aiuta il paziente, ma può mantenere<br />
la discussione su binari tradizionali. Se il paziente ha<br />
delle forti emozioni sul fatto di essere differente o di<br />
dover rinunciare al suo cibo preferito, una esplorazione in<br />
profondità di questi stati d’animo è necessaria prima di<br />
qualsiasi discussione sui livelli di calorie o sui particolari<br />
del piano alimentare.<br />
È possibile che troviamo difficile rispondere alle emozioni<br />
se vediamo le emozioni negative come problemi da risolvere.<br />
Quando i pazienti rivelano emozioni negative noi<br />
potremmo credere sia nostro compito aiutarli a stare<br />
meglio. Ma le emozioni non sono problemi da risolvere.<br />
Non possiamo buttare via le emozioni negative o far stare
meglio i pazienti con il diabete, non più di quanto possiamo<br />
causare un cambiamento nel comportamento di un<br />
paziente. La tentazione è di concentrarsi sulle aree dove<br />
ci sentiamo più competenti, come il controllo della glicemia.<br />
È facile per noi sentirci inadeguati quando i pazienti<br />
identificano un grande numero di problemi e noi ci sentiamo<br />
responsabili di risolverli tutti.<br />
Il racconto di Hitoshi<br />
Un giovane uomo di trent’anni con un diabete di tipo 1<br />
venne ricoverato nel nostro ospedale per un ascesso alla<br />
gamba. Aveva avuto un episodio di chetoacidosi all’età di<br />
tre anni. La sua emoglobina glicata recente era di 11%,<br />
ma, come disse: “Non voglio seguire una dieta tanto disgustosa.<br />
Io aggiusto sempre la dose di insulina quando<br />
voglio bere alcolici. Lasciatemi in pace. Non mi curo del<br />
mio diabete, per niente”. Restammo ad ascoltarlo senza<br />
alcun commento. Cominciò a parlare delle sue emozioni:<br />
“Avrei preferito essere morto quando avevo tre anni. Tutti<br />
questi anni sono stati solo anni di sofferenza” e così di<br />
seguito. Mentre davamo valore ai suoi sentimenti, gli<br />
dicemmo: “Puoi cominciare con qualcosa che vuoi fare”.<br />
Qualche giorno dopo disse: “Mi è stato imposto: ‘Non<br />
mangiare questo, non mangiare quello’ sin da quando ero<br />
piccolo. Sono diventato insofferente nella gestione del<br />
mio diabete, ma voi non mi avete accusato di imbrogliare.<br />
Voi state cercando di lasciarmi fare per prima la cosa<br />
che io voglio fare. Mi avete incoraggiato a lavorare sui<br />
problemi che hanno un significato per me. Ora sono pronto”.<br />
Fece un cambiamento davvero notevole. Non solo<br />
incoraggiò un altro paziente, una ragazza che aveva perso<br />
la vista, ma partecipò anche a un campo scuola per ragazzi<br />
con diabete. Alla dimissione disse: “Il mio risentimento<br />
di trent’anni verso il diabete è sparito. Ho compreso che<br />
sono in grado di dare incoraggiamento ai ragazzi con il<br />
diabete vivendo la mia vita in pieno”.<br />
89
90<br />
“Solo nell’oscurità si possono<br />
vedere le stelle.<br />
Anonimo<br />
Quando sviluppiamo il negativo compare l’immagine<br />
Possiamo aiutare i pazienti a usare i loro pensieri e le loro<br />
emozioni negative come motivazione per il cambiamento.<br />
Il più delle volte, quando operiamo dei cambiamenti nella<br />
nostra vita, è perché siamo scontenti di qualcosa. Se tutto<br />
va bene, non c’è nessuna spinta al cambiamento. Il diabete,<br />
però, induce spesso le persone a percepire i cambiamenti<br />
come imposti. È probabile che non vedano i loro<br />
comportamenti e stili di vita sotto una luce negativa e<br />
quindi non abbiano alcuna motivazione a cambiarli.<br />
Possiamo aiutare i pazienti a identificare i sentimenti che<br />
sviluppano quando viene detto loro di cambiare, e quindi<br />
esplorare come questi sentimenti influenzino il loro comportamento.<br />
“Ci sono ragioni del cuore<br />
che la ragione non conosce.<br />
Pascal<br />
Per esempio, in risposta all’affermazione precedente sull’odio<br />
per la dieta, possiamo domandare: “Sembra che voi<br />
proviate della rabbia verso il vostro piano alimentare.<br />
Perché pensate che ciò accada?”. Questo tipo di reazioni<br />
da parte nostra implica un riconoscimento rispettoso del<br />
paziente e dei suoi sentimenti. Muove l’interazione verso il<br />
cuore del problema e accresce la probabilità che il paziente<br />
abbia un’introspezione che lo conduca al cambiamento.<br />
D’altro canto, se noi diciamo cose del tipo: “Oh, non è poi<br />
così cattiva. Non proccupatevi troppo. State andando<br />
bene.” noi svalutiamo l’esperienza del paziente, il che in<br />
genere preclude ogni discussione su ciò che realmente<br />
“<br />
“
preoccupa il paziente. Possiamo anche credere che affermazioni<br />
di questo tipo siano confortanti e rassicuranti, ma<br />
nella nostra esperienza, in genere sono percepite come<br />
sottovalutazioni delle emozioni del paziente. In genere<br />
facciamo affermazioni simili in risposta al nostro disagio<br />
nei confronti delle emozioni. Andare al cuore del problema<br />
è necessario prima di qualsiasi discussione sugli obiettivi<br />
se vogliamo che il cambiamento di comportamento<br />
abbia successo. Siano benvenute le emozioni forti. Non<br />
c’è miglior guida al cuore del problema.<br />
Riflettete sulle vostre esperienze<br />
Pensate a un cambiamento significativo apportato alla<br />
vostra vita:<br />
1) Le vostre emozioni hanno influenzato il vostro comportamento?<br />
Prima del cambiamento, durante o dopo?<br />
2) Tra ciò che hanno fatto gli altri per voi, cosa è stato<br />
utile (e cosa inutile) nel gestire le vostre emozioni<br />
prima, durante e dopo il cambiamento?<br />
3) Cosa avete imparato nel vostro lavoro con i pazienti?<br />
“Nessuno vede che alcune persone<br />
spendono enormi energie soltanto<br />
per essere normali.<br />
Albert Camus<br />
Domande per riflettere<br />
1) Come mi sento quando i pazienti esprimono delle emozioni<br />
positive? E negative?<br />
2) Come reagisco in genere di fronte a manifestazioni emotive<br />
da parte del paziente?<br />
3) Cosa posso fare per imparare a rispondere alle forti emozioni<br />
di altre persone in modo calmo e non giudicante?<br />
“<br />
91
CAPITOLO 10<br />
Cosa si vuole ottenere?<br />
Avete mai provato a lavorare con qualcuno che ha obiettivi<br />
differenti? Come vi siete sentiti? Frustrati? Adirati? Avete mai<br />
sentito che, nonostante stiate cercando di raggiungere i<br />
vostri obiettivi, i vostri sforzi vengono sempre criticati e affossati?<br />
Questo accade spesso nell’educazione al diabete, da<br />
ambo le parti. Noi sentiamo spesso dire dai pazienti e dai<br />
terapeuti: “Ci sembra di non andare né avanti né indietro”.<br />
Fissare degli obiettivi è un mezzo sempre più utilizzato nell’educazione<br />
al diabete per raggiungere degli standard<br />
educazionali, ma molto prima che i professionisti della<br />
salute prestassero attenzione a questo aspetto, i pazienti<br />
avevano già degli obiettivi per il trattamento del loro diabete.<br />
È solo che noi non riuscivamo a tirarli fuori! Al massimo<br />
facevamo delle congetture su quali dovessero essere.<br />
Quando cerchiamo di fissare degli obiettivi per i pazienti<br />
o quando cerchiamo di condurli a vedere la bontà dei<br />
nostri obiettivi, è possibile che sia noi che loro incontriamo<br />
uno scacco. In fondo la non-compliance potrebbe<br />
essere definita come due persone che lavorano con obiettivi<br />
diversi. Per esempio, un paziente può avere come<br />
obiettivo il non doversi alzare di notte per andare in<br />
bagno. Se il nostro obiettivo per lo stesso paziente è che<br />
perda dieci chili, abbia una glicemia normale e smetta di<br />
fumare, allora saremo entrambi frustrati. Quanto successo<br />
avete avuto nell’indurre il vostro coniuge a cambiare e<br />
raggiungere gli obiettivi che voi avete fissato per lui? È<br />
93
94<br />
ragionevole aspettarci che i nostri pazienti, con cui passiamo<br />
meno tempo e abbiamo relazioni meno personali,<br />
vogliano fare cambiamenti duraturi per compiacerci?<br />
Cominciamo a creare un clima favorevole al cambiamento<br />
stabilendo una partnership con ogni paziente. Noi gettiamo<br />
le basi del cambiamento quando aiutiamo i nostri pazienti a<br />
comprendere i loro obiettivi e come raggiungerli. Aiutiamo i<br />
pazienti a concentrarsi sull’individuazione degli obiettivi solo<br />
dopo che abbiamo prestato ascolto alla loro esposizione dei<br />
problemi, abbiamo compreso il loro punto di vista e sentito<br />
le loro emozioni riguardo a esso. Nella nostra esperienza l’identificazione<br />
degli obiettivi, per avere successo, deve scaturire<br />
dal racconto del paziente ed esprimere il suo desiderio<br />
di risolvere il problema. Gli obiettivi devono nascere dal<br />
paziente e appartenergli.<br />
Può essere impegnativo aiutare i nostri pazienti a fissare<br />
obiettivi che siano significativi per loro stessi. Talvolta i<br />
pazienti vogliono fissare obiettivi che noi sappiamo troppo<br />
ambiziosi. Altre volte i pazienti fissano degli obiettivi che<br />
non sono compatibili con gli standard di trattamento o<br />
con quanto noi pensiamo sia meglio per loro. Siamo arrivati<br />
a comprendere che è prerogativa del paziente fissare<br />
i propri obiettivi, mentre è nostro compito assicurarci che<br />
abbia compreso i vantaggi e gli svantaggi delle sue decisioni.<br />
Questo non riduce le nostre responsabilità verso i<br />
pazienti. Per esempio, se un paziente rifiuta di farsi trattare<br />
un’ulcera al piede, noi dobbiamo sottolineare le conseguenze<br />
probabili di questa scelta. Allo stesso tempo, dobbiamo<br />
riconoscere che non siamo in grado (né abbiamo il<br />
potere) di far fare al paziente ciò che noi vogliamo.<br />
Ogni volta che apportiamo dei cambiamenti significativi nella<br />
nostra vita, noi perdiamo delle cose (cioè affrontiamo dei<br />
costi) e ne guadagnamo delle altre (otteniamo dei benefici).<br />
Operiamo il cambiamento solo quando i benefici superano i<br />
costi. Solo la persona che vive il problema può decidere se<br />
un cambiamento merita o no lo sforzo. Identificare gli obiet-
tivi non deve essere un modo nascosto di imporre le nostre<br />
aspettative al paziente. Ascoltiamo ciò che i nostri pazienti<br />
veramente dicono e aiutiamoli a pesare i costi e i benefici.<br />
Una volta compresi gli obiettivi dei nostri pazienti, li possiamo<br />
usare per disegnare lo schema di educazione e trattamento.<br />
Il racconto di Felipe<br />
Raul, un muratore di cinquantun anni lamentava di essere<br />
sempre stanco. Lo bombardammo con domande e suggerimenti.<br />
Qualcuno corse a prendere una striscia reattiva per<br />
verificare il nostro sospetto che il suo affaticamento fosse<br />
causato da una glicemia alta. Era così. Alcuni partecipanti<br />
gli consigliarono di rivedere con cura il suo piano alimentare,<br />
altri di fare dell’esercizio fisico, altri ancora di comprarsi<br />
un glucometro e misurare la glicemia giornalmente.<br />
Benché tutte queste idee fossero giuste da un punto di<br />
vista clinico, nessuno di loro gli chiese di spiegare meglio<br />
perché la stanchezza lo preoccupasse così tanto. Ci raccontò<br />
che il suo obiettivo era di superare la ridotta capacità<br />
lavorativa che aveva avuto negli ultimi mesi. Il suo<br />
obiettivo non era abbassare la glicemia o perdere peso o<br />
rivedere il suo piano alimentare. Il suo vero obiettivo era<br />
essere capace di piastrellare più metri quadri, di fare più<br />
bagni o soggiorni nella giornata. Quando realizzammo<br />
che la sua necessità più pressante era tornare a fare bene<br />
il suo lavoro, allora fummo in grado di modellare i nostri<br />
consigli clinici sui suoi obiettivi. Raul ci aiutò a imparare<br />
ad apprezzare l’importanza dei suoi obiettivi per lui.<br />
Passammo al vaglio diverse possibilità con lui e alla fine ci<br />
lasciò con un programma che rispondeva alle sue necessità.<br />
Fino a quando noi non fummo capaci di focalizzare la<br />
nostra discussione sul problema e gli obiettivi del paziente,<br />
per lui eravamo completamente inutili.<br />
Felipe Vazquez, Psichiatra<br />
Città del Messico, Messico<br />
95
96<br />
Il rinforzo può aiutare le persone a sostenere un cambiamento.<br />
Però, se noi usiamo la nostra approvazione come<br />
forma di rinforzo, è molto facile scivolare in una relazione<br />
con i pazienti in cui li incoraggiamo a fare le cose che<br />
vogliamo che essi facciano e li scoraggiamo a fare quelle<br />
che vediamo come negative. Quando valorizziamo il ‘conquistare<br />
la nostra approvazione’, implicitamente introduciamo<br />
nella relazione la ‘paura della nostra disapprovazione’. I<br />
pazienti quindi saranno felici di incontrarci quando pensano<br />
di aver fatto bene, ma ci eviteranno quando pensano di aver<br />
fallito. Ma noi vorremmo che i nostri pazienti ci dicessero<br />
come si sentono, non importa cosa sia accaduto. Vogliamo<br />
che si sentano apprezzati e rispettati da noi indipendentemente<br />
dai loro risultati di autogestione del diabete. Una<br />
volta comunicata questa accettazione ai pazienti, noi siamo<br />
in grado di creare un clima migliore per il cambiamento.<br />
Oltre a danneggiare la relazione, la nostra approvazione-disapprovazione<br />
può negare e svalutare il giudizio di un paziente<br />
riguardo a un obiettivo. Per esempio, un paziente dice: “Ho<br />
perso un chilo”, noi diciamo: “Ottimo!”, ma questo è il nostro<br />
giudizio. Non prendiamo in considerazione cosa il paziente<br />
sperava di ottenere (magari il suo obiettivo era di perdere<br />
cinque chili), come si è sentito nei confronti dei risultati (o nei<br />
confronti della mancanza di risultati), o cosa ha imparato da<br />
quell’esperienza. Se un paziente dice: “Ho preso un chilo in<br />
vacanza” e noi rispondiamo: “Non è grave, molti ne prendono<br />
due”, noi definiamo il significato di quell’esperienza e<br />
neghiamo al paziente l’opportunità di dirci cosa quell’esperienza<br />
ha significato per lui o lei.<br />
Preferiamo invece riconoscere gli sforzi e il lavoro continuativo<br />
dei nostri pazienti piuttosto che un particolare<br />
risultato. Questo approccio sostiene l’idea che è il paziente<br />
il decisore principale. Per esempio, potremmo dire:<br />
“Avete lavorato sodo per portare giù la vostra emoglobina<br />
glicata. So che è stata una battaglia per voi e vi ammiro,<br />
per la vostra volontà e per la vostra tenacia”.
Vantaggi e svantaggi<br />
dell’identificazione degli obiettivi<br />
Come in tutte le strategie, ci siamo resi conto che ci sono<br />
vantaggi e svantaggi nel lasciar fissare ai pazienti i propri<br />
obiettivi. Gli svantaggi includono il tempo necessario per<br />
formare i pazienti a fissare degli obiettivi personali, anche<br />
se questo aumenta notevolmente la probabilità che essi li<br />
raggiungano. Dobbiamo anche mettere da parte il nostro<br />
bisogno di avere il controllo della situazione, il nostro<br />
vederci come risolutori di problemi o, almeno, come quelli<br />
che aiutano i pazienti a fare ciò che noi sappiamo essere<br />
‘la cosa giusta’. Inoltre, scegliere da soli i propri obiettivi<br />
dà ai pazienti la possibilità di dire ‘no’ agli obiettivi di<br />
trattamento fissati dal terapeuta.<br />
Ci sono però dei benefici in un processo centrato sul<br />
paziente. Innanzi tutto si riduce il tempo che noi dobbiamo<br />
spendere per cercare di fare l’impossibile: motivare i<br />
pazienti ad attuare cambiamenti che noi consideriamo<br />
importanti ma loro no. Inoltre, aumenta la probabilità che<br />
i pazienti cambino i loro comportamenti in modo positivo,<br />
il che ci aiuta a sentirci efficaci. Questo approccio aiuta<br />
anche i pazienti a vedere che il cambiamento è possibile<br />
e rafforza la nostra relazione nel ruolo di partner del cambiamento<br />
della loro storia.<br />
Alla fine del capitolo precedente vi abbiamo chiesto di<br />
ripensare a un cambiamento significativo che avete operato<br />
nella vostra vita. Se rifletterete su quel cambiamento,<br />
valuterete se la vostra personale motivazione verso quell’obiettivo<br />
sia stata una forza determinante nel vostro<br />
desiderio e nella vostra capacità di operare il cambiamento.<br />
Gli obiettivi decisi dai pazienti danno chiare e<br />
specifiche indicazioni.<br />
97
98<br />
Come fissare gli obiettivi<br />
Cominciamo aiutando i pazienti a fissare una o due aree<br />
ad alta priorità che essi vogliono cambiare (obiettivi a<br />
lungo termine). Poi li aiutiamo a fare un programma identificando<br />
le fasi del cambiamento di comportamento<br />
(obiettivi a breve termine) correlati a quelle aree. Per<br />
esempio, se un paziente ha identificato il peso come un<br />
problema che causa disagio, perdere peso può essere l’obiettivo<br />
a lungo termine con due fasi di cambiamento a<br />
breve: abitudini alimentari e attività fisica.<br />
Quasi tutti i pazienti necessitano di informazioni su come<br />
fissare gli obiettivi e come impostare un programma per<br />
raggiungerli. Alcuni possono avere delle difficoltà nell’identificare<br />
gli obiettivi perché non sono abituati a pensare<br />
alla propria salute in termini di problemi e di obiettivi. Può<br />
essere di aiuto iniziare chiedendo ai pazienti di indicare le<br />
loro preoccupazioni più grandi o l’origine del disagio.<br />
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />
A IDENTIFICARE OBIETTIVI A LUNGO TERMINE<br />
Cosa volete?<br />
Come deve cambiare la situazione che descrivete<br />
per farvi sentire meglio?<br />
Cosa guadagnate dal cambiamento?<br />
Cosa ci perdete?<br />
Vale la pena per voi?<br />
Avete intenzione di fare qualcosa per migliorare<br />
la situazione?<br />
Cosa deve accadere perché voi riusciate a ottenere<br />
ciò che volete?<br />
Cosa avete bisogno di fare?<br />
Data la vostra situazione e il modo in cui la vivete,<br />
cosa potete fare?
Gli obiettivi possono essere fissati in un incontro a piccoli<br />
gruppi o durante un corso. Nel corso un metodo è chiedere<br />
ai partecipanti di scrivere un obiettivo a lungo termine su<br />
cui lavorare, un piano con le strategie da usare per raggiungerlo<br />
(inclusi gli obiettivi a breve) e un piano di cambiamento<br />
comportamentale che li possa aiutare a raggiungere<br />
quell’obiettivo. L’educator spenderà un po’ di tempo con<br />
ognuno revisionando gli obiettivi e offrendo suggerimenti.<br />
Se più di un partecipante sta lavorando sul medesimo<br />
obiettivo, questo può diventare un lavoro di gruppo nel<br />
quale i partecipanti danno supporto e informazioni significative<br />
gli uni agli altri. Con obiettivi come perdere peso<br />
o migliorare il controllo glicemico, i partecipanti possono<br />
fare pratica scegliendo una particolare strategia che<br />
ritengono la più efficace per loro.<br />
Riflettete sulle vostre esperienze<br />
di identificazione di obiettivi<br />
Avete identificato degli obiettivi a lungo termine?<br />
Se avete il problema da un certo tempo, cosa vi ha spinto<br />
a cambiare proprio questa volta?<br />
Quali strategie avete imparato che vi possano aiutare a<br />
lavorare con i vostri pazienti?<br />
Domande per riflettere<br />
1) Quali vantaggi e quali svantaggi vedete nel fissare gli<br />
obiettivi con i pazienti?<br />
2) Come vi sentite nel fissare gli obiettivi ‘con’ piuttosto<br />
che ‘per’ i vostri pazienti?<br />
3) Come valutate la vostra abilità di fissare degli obiettivi<br />
a lungo termine con dei singoli pazienti? E con gruppi<br />
di pazienti?<br />
4) Quali ostacoli pensate di trovare nel definire insieme ai<br />
pazienti degli obiettivi a lungo termine?<br />
5) Quali strategie siete in grado di utilizzare per superare<br />
queste barriere?<br />
99
CAPITOLO 11<br />
Cosa si vuole fare?<br />
Il quarto passo per i pazienti è sviluppare un piano d’azione.<br />
Spesso è facile fissare degli obiettivi a lungo termine,<br />
ma può essere difficile raggiungerli senza identificare<br />
una serie di passi concreti che portano a quel risultato.<br />
Per esempio, non basta decidere di voler perdere cinque<br />
chili o di riacquistare la forma fisica entro il prossimo<br />
anno. Molti di noi potrebbero aver voluto le stesse cose<br />
esattamente un anno prima e non aver fatto nulla per<br />
incominciare a muoversi in quella direzione. Avevamo<br />
obiettivi ma non piani. Mentre gli obiettivi a lungo termine<br />
sono i risultati, il piano è costituito dai passi o dalle<br />
strategie usate per raggiungerli.<br />
Fare una lista<br />
Un approccio per sviluppare un piano è chiedere ai<br />
pazienti di elencare una serie di opzioni che potrebbero<br />
essere efficaci nel contribuire a raggiungere il loro obiettivo.<br />
Per esempio, se un paziente desidera aumentare il<br />
proprio livello di attività fisica, si potrebbe chiedergli di<br />
fare una lista di tutte le possibili opzioni per raggiungere<br />
la forma fisica, anche se appaiono noiose o poco realistiche.<br />
Dovremmo chiedere ai pazienti di trovare il maggior<br />
numero di soluzioni possibili prima di aggiungere qualsiasi<br />
nostra idea alla fine della lista, tenendo ben presente<br />
che sarà il paziente a scegliere quella da provare. Una<br />
volta ottenuta la lista, potremmo chiedergli di eliminare le<br />
101
102<br />
soluzioni che secondo lui non funzionano e poi fare una<br />
scala di priorità di quelle rimaste. Infine gli si chiede di<br />
sceglierne una e di sviluppare delle strategie.<br />
Come educator abbiamo imparato un certo numero di strategie<br />
efficaci per risolvere i più comuni problemi correlati al<br />
diabete. I nostri pazienti possono beneficiare di ciò che<br />
abbiamo appreso. Ma crediamo sia importante, prima di<br />
offrire delle soluzioni, che i pazienti trovino più strategie<br />
possibili. Quando offriamo delle strategie, dobbiamo farlo<br />
in modo che la scelta sia sempre del paziente. Per esempio,<br />
potremmo dire: “Altre persone hanno scoperto che fare<br />
attività fisica con un amico li aiutava a seguire il programma.<br />
Pensate che questo possa essere utile per voi?”. Lasciandoli<br />
pensare da soli alla soluzione dei problemi, rafforziamo l’idea<br />
che loro hanno il controllo e le capacità per risolvere i<br />
loro problemi.<br />
L’educator domanda<br />
Alcuni pazienti hanno convissuto con i loro problemi così<br />
a lungo, o hanno ‘fallito’ nel risolverli così tante volte, che<br />
possono sentirsi o essere incapaci di trovare anche una<br />
sola soluzione. In questo caso, dobbiamo essere noi a<br />
offrire la maggior parte delle soluzioni. Ma, anche in questi<br />
casi, dobbiamo sempre offrire delle scelte attraverso<br />
domande del tipo: “Pensate che possa funzionare per voi<br />
fare una passeggiata durante la pausa per il pranzo?”. Lo<br />
scopo della domanda è aiutare il paziente a pensare alla<br />
propria storia in modo nuovo e rinforzare il fatto che solo<br />
lui può dire ciò che funziona o no. Quando i pazienti continuano<br />
ad avere lo stesso problema, indipendentemente<br />
dall’interesse dichiarato a risolverlo, cerchiamo di esplorare<br />
con tatto quali vantaggi traggono dal non risolvere il<br />
problema. Possiamo chiedere: “Signor Rossi, tutte le<br />
volte che ci incontriamo discutiamo sempre la stessa questione.<br />
Ha idea del perché sembra non voler risolvere<br />
questo problema? Se prova a descrivere la sua vita senza
questo problema, cosa ne viene fuori? A cosa rinuncerebbe<br />
se si dovesse risolvere questo problema?”.<br />
Talvolta osserviamo che non prendendo la decisione di<br />
risolvere un problema il paziente sta manifestando la sua<br />
scelta di tenersi il problema.<br />
Un piano per il successo<br />
È bene incominciare lentamente, con un programma realistico<br />
in mente. La maggior parte di noi trova motivante<br />
e gratificante avere successo. A mano a mano che nuovi<br />
comportamenti vengono aggiunti e mantenuti, piccoli<br />
successi a breve si sommano costruendo un progresso<br />
significativo. Noi incoraggiamo i pazienti a scegliere un<br />
piano sul quale hanno pieno e completo controllo. Il controllo<br />
glicemico e il peso sono influenzati da molti fattori,<br />
alcuni dei quali al di fuori del controllo del paziente. Ci<br />
sono, comunque, comportamenti che influenzano questi<br />
risultati e che sono sotto il controllo del paziente, come le<br />
scelte alimentari, l’esercizio fisico e le medicine.<br />
Il racconto di Richard<br />
Quando lo incontrai la prima volta, Fred conviveva con il<br />
suo diabete da 7 anni. Durante quel tempo il suo trattamento<br />
era passato dalla sola dieta + esercizio ai farmaci<br />
orali, senza riuscire mai a normalizzare la sua glicemia. Fred<br />
venne da me perché il suo medico gli aveva detto che il<br />
passo successivo sarebbe stata l’insulina e questo Fred non<br />
lo voleva. Appena seduto nel mio studio, gli chiesi qual era<br />
la cosa più difficile della sua vita col diabete. (Questa è<br />
sempre la prima domanda che faccio ai pazienti con diabete.)<br />
La risposta di Fred: “Tutto!” mi fece capire senza possibilità<br />
di dubbio che egli soffriva di una condizione che io<br />
chiamo ‘il diabete ci schiaccia’. Fred era semplicemente<br />
schiacciato da tutte le necessità quotidiane di una vita con<br />
il diabete.<br />
Quando gli chiesi di essere un po’ più preciso, mi disse:<br />
103
104<br />
“Credo sia la dieta”. Ma la mia esperienza mi diceva che<br />
il ‘punto dolente’ era qualcosa di ancora più specifico e<br />
così ripetei la mia domanda precisando che volevo qualcosa<br />
di più preciso, di più concreto, qualcosa da poter<br />
fotografare o riprendere con un video.<br />
A questo punto Fred sorrise. Aveva il senso dell’umorismo<br />
e disse: “Sono uno che pascola. Ogni sera, tra l’ora di<br />
cena e quella della buonanotte faccio la mucca: un boccone<br />
qui, un boccone lì. All’ora di andare a letto mi sento<br />
in uno stato terribile, colpevole e spaventato dai livelli di<br />
glicemia. Poi, durante la notte, mi alzo tre o quattro volte<br />
per andare al bagno, non dormo mai bene, mi sveglio<br />
esausto e mi trascino stancamente per tutto il giorno”.<br />
Così, Fred aveva identificato il suo vero, specifico punto<br />
dolente. Ci sentivamo tutti e due meglio ora: lui perché<br />
aveva realizzato che tutto quello di sbagliato che c’era nel<br />
suo autotrattamento del diabete era il ‘pascolo’ serale, io<br />
perché, dovendo scegliere tra dover lavorare su ‘tutto’ (la<br />
prima risposta di Fred) e sul periodo tra la cena e il letto,<br />
avrei scelto la seconda opzione.<br />
Andammo avanti cercando di aiutare Fred a identificare una<br />
soluzione al suo problema. Così come era l’unico a poter<br />
identificare il suo punto dolente, così era anche l’unico a<br />
poter comprendere come mettere fine al ‘pascolo’. Per aiutarlo<br />
a identificare ciò che lui già sapeva, chiesi a Fred se c’erano<br />
delle volte in cui lui non ‘pascolava’. Mi rispose che<br />
accadeva quando mangiava veramente tanto a cena e non<br />
riusciva più a inghiottire un solo boccone prima di andare a<br />
dormire. Ci facemmo una grossa risata. Probabilmente, concordammo,<br />
quella non era una soluzione che avrebbe dovuto<br />
usare spesso. Venne fuori che l’unica altra occasione in cui<br />
Fred non ‘pascolava’ era rappresentata dalle serate (una volta<br />
al mese) in cui andava in chiesa per delle attività dove non<br />
veniva servito del cibo. Dopo, Fred tornava a casa sentendosi<br />
pieno spiritualmente e non aveva bisogno di riempirsi lo<br />
stomaco. Sfortunatamente, tutte le altre attività nella chiesa
che Fred frequentava prevedevano il consumo di cibo, e Fred<br />
non era abbastanza ecumenico da frequentare altre chiese<br />
che avrebbero potuto avere attività senza cibo.<br />
A questo punto feci a Fred la mia domanda da centomila<br />
dollari: “C’è stata mai una volta in cui non ti sei riempito<br />
a cena e non sei andato a uno dei meeting senza cibo<br />
della tua chiesa, e nonostante questo tu non hai pascolato?”.<br />
Fred riconobbe che in rare occasioni questo era successo.<br />
“Cosa c’era di diverso in quelle rare volte?” gli<br />
chiesi: “Credo che fosse qualcosa che avevo promesso a<br />
me stesso”. Questa risposta, che ciò che diciamo a noi<br />
stessi (le nostre convinzioni e atteggiamenti) guida il<br />
nostro comportamento è qualcosa che ho sentito da tutte<br />
le persone con cui ho parlato, una volta che ognuno di<br />
loro si era preso il tempo per riconoscerla. Fred continuò<br />
e mi disse ciò che diceva a se stesso quando pascolava,<br />
vale a dire quasi ogni sera. Fred capì che era sempre una<br />
di queste tre cose: “Ho avuto una giornata dura, me lo<br />
merito”; la seconda era, dopo il secondo spuntino della<br />
sera: “Mi sono già riempito stasera, questo che mangio in<br />
più tanto non fa differenza”. Infine, la moglie di Fred,<br />
Alice, che si riteneva un membro della ‘polizia anti-diabete’,<br />
riteneva che il suo compito fosse tenere più cibo possibile<br />
lontano dalla bocca di Fred. Naturalmente Fred<br />
resisteva agli sforzi di Alice e il terzo pensiero era:<br />
“Nessuno deve dirmi cosa devo mangiare”, e questo<br />
dava il via per ‘pascolare’.<br />
Cosa si diceva Fred nelle rare occasioni in cui non ‘pascolava’?<br />
Da alcuni mesi Fred era diventato nonno e di tanto<br />
in tanto, da allora, diceva a se stesso: “Voglio esserci<br />
quando questo ragazzo prenderà la maturità”. Questo<br />
sembrava contrastare il suo desiderio di ‘pascolare’.<br />
A questo punto, chiesi a Fred cosa ne pensava di ciò che<br />
mi aveva appena detto. Fred, un’anima onesta, rispose:<br />
“Be’, è interessante scoprire che ciò che dico a me stesso<br />
influenza il mio comportamento, ma sembra che la mag-<br />
105
106<br />
gior parte delle volte io dica cose negative e di conseguenza<br />
faccia cose negative”. Fred aveva ragione riguardo<br />
a quello che faceva, ma, osservai, nessuno è nato<br />
imparato. Pensare cose che aiutano a prendersi cura di sé<br />
è un’abilità, e come tutte le abilità, richiede pratica.<br />
E Fred si esercitò davvero. Mise foto del nipote sul frigorifero,<br />
e nelle settimane successive mise foto sulla credenza della<br />
cucina, sullo specchio del bagno, sulla porta d’ingresso, e<br />
perfino sulla testata del letto. Con tutti questi promemoria<br />
Fred scese da un ‘pascolo’ a sera a uno ogni due sere. Un<br />
grosso passo avanti, ma non ancora perfetto. E tuttavia,<br />
come mi disse una volta un uomo molto saggio che aveva il<br />
diabete da sessant’anni: “Quando si tratta di diabete, cerca<br />
di essere buono, non cercare di essere perfetto. La perfezione<br />
dura un attimo, il diabete tutta la vita”.<br />
Richard R. Rubin, Psicologo<br />
Baltimore, Maryland,USA<br />
chiacchiere non cucinano<br />
il riso.<br />
Proverbio cinese<br />
Contratti e ricompense““Le<br />
Incoraggiamo i nostri pazienti anche a scrivere i loro obiettivi<br />
e il loro programma, e a un impegno, anche solo verbale, a<br />
seguirli. Spostare la discussione dall’astratto al concreto – da<br />
un’idea generale di fare esercizio fisico a un programma che<br />
definisce tempo, luogo, tipo e intensità di esercizio – aumenta<br />
la probabilità che i pazienti siano in grado di portare avanti<br />
il loro programma.<br />
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />
A ESAMINARE LE MOTIVAZIONI<br />
Questo vi sembra una cosa che potete fare?<br />
Siete sicuri che è qualcosa che volete veramente fare?<br />
Siete motivati per portare avanti questo programma?
Chiediamo ai nostri pazienti di considerare la possibilità di<br />
mettere una ricompensa o un rinforzo nei loro programmi<br />
perché questo aumenta la probabilità che il cambiamento di<br />
comportamento si verifichi. Il rinforzo facilita il cambiamento<br />
di comportamento. Molti pazienti sono riluttanti all’idea delle<br />
ricompense perché pensano sia una cosa infantile. A volte<br />
suggeriamo di provare una gamma di ricompense per vedere<br />
quale, se c’è, si dimostra utile.<br />
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />
A SCEGLIERE UNA RICOMPENSA<br />
Cosa farete per festeggiare o ricompensare voi stessi<br />
per aver fatto questo cambiamento?<br />
Qual è una cosa simpatica che potreste fare per voi stessi<br />
dopo ogni cambiamento di comportamento?<br />
Controllate il vostro calendario<br />
Troviamo che sia utile per i pazienti fissare una cornice temporale<br />
ai loro programmi. Chiediamo loro di identificare<br />
quanto spesso, quando e per quanto a lungo essi useranno<br />
una particolare strategia. Per esempio, un paziente può scegliere<br />
di camminare a piedi per due isolati dopo cena tre<br />
volte alla settimana per due settimane, e poi passare a tre<br />
isolati tre volte alla settimana. Pensate alle vostre esperienze<br />
di lavoro con le tecniche di problem-solving e di goal-setting.<br />
1) Ci sono delle ragioni per cui voi non volete risolvere il<br />
vostro problema?<br />
2) Cercate l’aiuto di qualcun altro nei vostri tentativi di risolvere<br />
il vostro problema? Vi aiuta? Perché e perché no?<br />
3) Come identificate le strategie comportamentali?<br />
4) Avete tentato strategie differenti per risolvere il vostro<br />
problema?<br />
5) Come avete scelto la prima da provare?<br />
6) Cosa avete imparato che vi può aiutare nel vostro lavoro<br />
con i pazienti?<br />
107
108<br />
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />
A IDENTIFICARE UN PIANO<br />
Che idee avete sulle strategie che potrebbero funzionare?<br />
Cosa avete provato in passato?<br />
Perché secondo voi non ha funzionato?<br />
Quali sono alcuni dei passi che secondo<br />
voi vi avvicinerebbero al punto dove volete arrivare?<br />
Di cosa avete bisogno per cominciare?<br />
C’è anche una sola cosa che potete fare usciti di qui<br />
per migliorare le cose per voi stessi?<br />
“Alcuni dei più grandi insuccessi<br />
del mondo sono stati realizzati<br />
da persone non abbastanza intelligenti<br />
da capire che erano cose impossibili.<br />
Doug Larson<br />
Domande per riflettere<br />
1) Come vi sentite nell’identificare gli obiettivi di comportamento<br />
‘insieme a’ piuttosto che ‘al posto dei’ pazienti?<br />
2) Quali sono alcuni dei vantaggi e degli svantaggi dell’incoraggiare<br />
i pazienti a sviluppare possibili soluzioni<br />
ai problemi?<br />
3) Quanto vi sentite capaci di identificare soluzioni e fare<br />
programmi per singoli pazienti? E per gruppi di pazienti?<br />
4) Quali ostacoli anticipate nel fissare obiettivi di comportamento<br />
con i pazienti?<br />
5) Quali strategie usereste per superare questi ostacoli?<br />
“
CAPITOLO 12<br />
Funziona?<br />
“Quanto più rapidamente farete i vostri<br />
primi cinquemila errori, tanto prima<br />
sarete capaci di correggerli.<br />
Nicolaides<br />
in The Natural way to Draw<br />
La valutazione è sia l’inizio che la fine del processo di<br />
cambiamento. All’inizio di questa sezione abbiamo parlato<br />
dell’identificazione dei problemi come di un modo per<br />
esplorare la situazione. Una volta che abbiamo aiutato i<br />
pazienti a identificare un obiettivo e a formulare un programma,<br />
il nostro compito è di aiutarli a monitorare e<br />
valutare l’efficacia delle strategie scelte. Il feedback che i<br />
pazienti ricevono dalla valutazione dei progressi permette<br />
loro di scoprire e mantenere comportamenti efficaci e<br />
di rivedere quelli che non lo sono. I pazienti possono<br />
usare le informazioni che ottengono dal processo di valutazione<br />
per riscrivere la loro storia.<br />
Incoraggiamo i pazienti a considerare il loro programma<br />
di cambiamento come una serie di esperimenti.<br />
Suggeriamo loro di considerarsi come degli scienziati che<br />
stanno conducendo degli esperimenti sull’autogestione<br />
del diabete per identificare le strategie e le tecniche che<br />
sono, o che non sono, adatte a loro. Gli esperimenti che<br />
apparentemente non funzionano sono altrettanto utili di<br />
“<br />
109
110<br />
quelli che funzionano, perché in entrambi i casi si può<br />
imparare qualcosa. Qualcosa che può essere applicato<br />
agli esperimenti futuri. Siamo convinti che questo approccio<br />
sia più positivo di quello tradizionale.<br />
“Una serie di fallimenti può culminare<br />
nel miglior risultato possibile.<br />
Gisela Richter<br />
Il racconto di Betty<br />
Paul aveva sette anni quando si manifestò il diabete di tipo<br />
1. A quarantasette anni venne inviato al Centro diabetologico<br />
dal suo endocrinologo per ‘istruzioni sulla dieta’ a<br />
causa del peggioramento del suo controllo glicemico. La<br />
sua emoglobina glicata era salita dal 7,3% al 9,6% nell’ultimo<br />
anno. Alla prima visita chiesi a Paul se stesse incontrando<br />
delle difficoltà col suo diabete sulle quali desiderasse<br />
lavorare. Mi rispose che da un po’ di tempo aveva<br />
delle ipoglicemie, quasi tutti i giorni, seguite da picchi<br />
iperglicemici molto elevati. Aveva anche messo su un bel<br />
po’ di chili nell’ultimo anno perché, nel tentativo di prevenire<br />
le ipoglicemie, mangiava e beveva continuamente.<br />
Paul aveva il sospetto che questi problemi fossero dovuti a<br />
una forma di gastropatia diabetica e aveva posto la questione<br />
al suo medico sin dall’inizio. Il medico aveva risposto<br />
che era probabile, dato che aveva il diabete da molti anni.<br />
Paul aveva chiesto se poteva essere una buona idea spostare<br />
l’insulina da prima a dopo i pasti perché era probabile<br />
che lui non assorbisse immediatamente il cibo. Il dottore<br />
disse: “Assolutamente no. Devi prendere l’insulina con il<br />
primo boccone. Continua a mangiare. Sei comunque sottopeso”.<br />
Paul seguì le istruzioni del suo medico diligentemente.<br />
Aumentò di quattordici chili in un anno. Comprò<br />
anche delle compresse masticabili di glucosio.<br />
Chiesi a Paul di dirmi quale impatto aveva avuto tutto questo<br />
sulla sua vita. Mi rispose che aveva cambiato l’orario dei pasti<br />
“
in maniera da non dover guidare subito dopo mangiato.<br />
Divorziato, Paul aveva anche smesso di corteggiare le donne<br />
perché era imbarazzato dal fatto di mangiare e fare la glicemia<br />
in continuazione davanti a persone che non conosceva<br />
ancora. Si sentiva depresso dal fatto di essere ingrassato e<br />
frustrato dal fatto di non riuscire a fare esercizio per ridurre il<br />
peso. “È una vita da schifo” concluse.<br />
Gli chiesi allora cosa sarebbe dovuto accadere perché il<br />
suo diabete non fosse più un problema così grave per lui.<br />
Mi disse che se fosse riuscito a evitare le ipoglicemie la<br />
sua vita sarebbe tornata a posto. Passammo in rassegna il<br />
suo diario con i valori delle glicemie e gli feci delle<br />
domande sulla composizione dei pasti che aveva consumato<br />
negli ultimi due giorni. I suoi dati erano quelli di un<br />
paziente con una considerevole abilità ad adattare le dosi<br />
di insulina alle porzioni dei pasti attraverso il conteggio<br />
delle calorie da carboidrati. Ripassammo anche le sue<br />
conoscenze sui tempi delle insuline e io risposi a un paio<br />
di domande sul ritardato svuotamento dello stomaco.<br />
Descrissi anche le opzioni terapeutiche a disposizione per<br />
la gastropatia diabetica, compresi i farmaci gastrocinetici,<br />
la sostituzione con cibi liquidi o semiliquidi e l’accurato<br />
dosaggio e tempistica delle insuline.<br />
“Paul, mi sembra che le dosi di insulina che stai prendendo<br />
vadano bene, ma ci sono buone probabilità che l’equilibrio<br />
glicemico sia danneggiato dal ritardato svuotamento<br />
gastrico. L’unico modo per evitare le ipoglicemie è<br />
correggere i tempi di somministrazione delle insuline.<br />
Degli approcci che abbiamo discusso insieme, quale<br />
secondo te potrebbe funzionare?”.<br />
“Credo che dovrei prendere la mia dose di insulina ultrarapida<br />
più tardi, quando effettivamente sto assorbendo il<br />
cibo” rispose Paul.<br />
“Credo anch’io. E tu sentivi sin dall’inizio che questa era<br />
la cosa da fare, vero? Cosa ti ha impedito di provare da te<br />
per vedere se funzionava?”<br />
111
112<br />
“Il mio dottore, mi ha detto di non farlo.”<br />
“Cosa poteva succederti di grave se avessi tentato ugualmente?”<br />
“Avrebbe potuto dirmi: ‘Se non fai quello che ti dico cercati<br />
un altro dottore’. Me l’aveva già detto un’altra volta.”<br />
“E questo sarebbe stato un problema per te?”<br />
“Sì. Lui è l’unico endocrinologo convenzionato con la mia<br />
assicurazione sanitaria. Ci conosciamo da tanto tempo.<br />
Fondamentalmente è una brava persona. Mi tiene sotto<br />
controllo i reni e si assicura che faccia regorlamente la<br />
visita oculistica. Ma non mi ascolta su questa storia dell’insulina.”<br />
“Cosa pensi che potrebbe dirti se tu fai la prova e funziona,<br />
se tu gli porti i dati del miglioramento della glicemia?”.<br />
“Be’, se funziona davvero, sarà felice probabilmente.<br />
Ma... se non funziona? Cosa faccio?”<br />
“Smetti. È assolutamente sensato fare una prova. Se funziona,<br />
be’, è un terno al lotto, se non funziona cercheremo<br />
delle altre soluzioni. Vuoi tentare?”<br />
Paul decise di provare. Gli diedi delle istruzioni dettagliate<br />
su come misurare la glicemia dopo i pasti più volte e<br />
prendere la sua insulina solo quando il glucosio cominciava<br />
a salire. Il primo giorno vide che la glicemia non saliva<br />
prima di due ore dopo la colazione. Prese l’insulina alle 10<br />
e non ebbe ipoglicemie. Il suo controllo e le sue ipoglicemie<br />
sono ora molto migliorate, benché non sia tornato ad<br />
avere gli stessi valori che aveva prima della gastropatia.<br />
Paul continua a imparare attraverso le misurazioni della<br />
glicemia il modo migliore per combinare al meglio l’azione<br />
dell’insulina con i differenti pasti della giornata.<br />
Betty Brackenridge, Dietista<br />
Phoenix, Arizona, USA
Molti pensano che gli obiettivi comportamentali debbano<br />
essere fissati alla fine del processo di educazione. Ma dal<br />
punto di vista dell’empowerment l’apprendimento viene<br />
anche dopo l’identificazione degli obiettivi. Il cambiamento<br />
dei comportamenti è un processo continuo che<br />
comprende l’esplorazione del problema, la definizione<br />
degli obiettivi, la pratica delle strategie per raggiungerli,<br />
la riflessione sulle esperienze fatte e l’apprendimento di<br />
qualcosa di nuovo. È un processo in continuo sviluppo,<br />
come del resto vivere con il diabete.<br />
Le persone non vedono il cambiamento di comportamento<br />
come un’opportunità per imparare qualcosa su se stessi.<br />
Di solito la loro attenzione è focalizzata sul binomio<br />
successo-fallimento. Ma c’è molto di più, a saper guardare.<br />
Cosa avete imparato quando avete cercato di mettere<br />
in pratica questo cambiamento di comportamento? Avete<br />
guadagnato in introspezione?<br />
“Non possiamo dirigere il vento,<br />
ma possiamo aggiustare le vele<br />
nella giusta direzione.<br />
Proverbio<br />
Per aiutare i pazienti a vedere il cambiamento come una<br />
serie di esperimenti abbiamo visto che fare delle domande<br />
durante le visite di controllo li aiuta a imparare dalle<br />
loro stesse esperienze. Molte delle domande che facciamo<br />
sono le stesse, a prescindere dal fatto che il tentativo<br />
del paziente sia riuscito o meno.<br />
“Non guardare dove sei finito<br />
cadendo, ma dove sei scivolato.<br />
Proverbio africano<br />
“<br />
“<br />
113
114<br />
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI<br />
A RIFLETTERE SUGLI ESPERIMENTI<br />
DI CAMBIAMENTO COMPORTAMENTALE<br />
Cosa avete imparato dopo aver fissato i vostri obiettivi?<br />
E cosa dopo aver cercato di raggiungere quegli obiettivi?<br />
Cosa fareste in modo diverso la prossima volta?<br />
Cosa fareste allo stesso modo?<br />
Quali sono gli ostacoli che avete incontrato?<br />
Avete qualche idea su come superarli?<br />
Siete riusciti a fare di più o meno di quello che avevate<br />
previsto? Perché?<br />
Pensate che il problema stia negli obiettivi a lungo<br />
termine o nelle strategie per raggiungerli?<br />
C’è ancora un’area su cui volete lavorare?<br />
Cosa avete imparato su voi stessi dopo questo<br />
esperimento?<br />
Cosa avete imparato sul tipo di sostegno che già avete,<br />
o desiderate o di cui avete bisogno?<br />
Cosa avete imparato sul modo con cui vivete<br />
emotivamente questo problema o tutto questo tipo<br />
di comportamenti?<br />
Cosa avete imparato su quanto tutto questo<br />
è importante per voi e come lo valutate?<br />
Pensate alle vostre esperienze<br />
1) Avete provato qualche strategia che funziona meglio di<br />
altre?<br />
2) Perché funzionano le strategie efficaci?<br />
3) Siete in grado di usare quanto avete appreso dalle<br />
vostre strategie, efficaci e inefficaci, per creare un<br />
nuovo piano?<br />
4) Cosa avete imparato su voi stessi?<br />
5) Cosa avete imparato che possa aiutarvi nel vostro lavoro<br />
con i pazienti?
Domande per riflettere<br />
1) Qual è la vostra reazione verso i pazienti che hanno<br />
‘successo’?<br />
2) E verso quelli che ‘falliscono’?<br />
3) Come vi sentite nel ruolo di erogatori di sostegno psicologico<br />
ai pazienti?<br />
4) A che punto del processo di educazione al diabete<br />
introducete l’identificazione degli obiettivi?<br />
5) Quanto vi sentite a vostro agio nell’aiutare i pazienti a<br />
imparare dalle loro esperienze sulla definizione degli<br />
obiettivi?<br />
115
Mettere in pratica<br />
l’empowerment<br />
PARTE 4<br />
I saggi di quest’ultima parte del libro riguardano il futuro,<br />
in particolare il vostro futuro. Se siete arrivati fino a questo<br />
punto del libro vuol dire che avete dedicato parte del<br />
vostro tempo a pensare, e magari discutere, la vostra filosofia<br />
di educazione al diabete. In questa sezione vi incoraggiamo<br />
a riflettere su come la vostra prospettiva, la<br />
vostra visione, stia orientando il vostro modo di lavorare.<br />
Siete invitati a riflettere sui modi in cui la vostra prospettiva<br />
può essere incorporata nelle vostra pratica e come<br />
essa sia collegata alla definizione di voi stessi come diabetes<br />
educator o come terapeuta.<br />
117
CAPITOLO 13<br />
Avere successo<br />
Qual è il migliore indicatore di risultato per l’educazione al<br />
diabete? Come stabilite se il vostro lavoro con un paziente<br />
ha avuto successo o no? A molti di noi è stato insegnato<br />
che il successo è rappresentato dai risultati che i nostri<br />
pazienti raggiungono. Avete mai sentito qualcuno, medico<br />
o educator, fare una di queste affermazioni: “Ho portato a<br />
7 l’emoglobina glicata della Signora Bianchi”; “Tutti i miei<br />
pazienti seguono la dieta”; “Sono capace di motivare<br />
chiunque a cambiare abitudini e stili di vita”.<br />
Se i risultati non sono brillanti, d’altro canto, è fin troppo<br />
facile biasimare i pazienti: “Ho fatto del mio meglio, ma lui<br />
si rifiuta di curarsi a dovere”; “Mi prende in giro”;<br />
“Semplicemente, non è pronta per cambiare stile di vita”.<br />
Definire il nostro successo attraverso i nostri pazienti può far<br />
sì che noi ci prendiamo il merito di quanto loro hanno fatto,<br />
quando va bene, e diamo a loro la colpa, quando va male.<br />
“Quando la gente esce per andare a lavorare,<br />
non dovrebbe essere costretta a lasciare<br />
il proprio cuore a casa.<br />
Betty Bender<br />
Come diabetes educator noi tendiamo a giudicare noi<br />
stessi, o i colleghi, sulla base del comportamento dei<br />
pazienti, e questo in parte è dovuto al fatto che l’educazione<br />
al diabete è nata all’interno del modello tradiziona-<br />
“<br />
119
120<br />
le di cura, quello per le malattie acute. L’educazione al<br />
diabete – e quindi i diabetes educator – è vista come efficace<br />
solo quando i pazienti hanno successo, vale a dire<br />
quando raggiungono l’equilibrio metabolico. Poiché ci si<br />
aspetta da noi il raggiungimento di obiettivi che sono in<br />
genere basati sui valori metabolici dei pazienti, valutiamo<br />
i pazienti, e perfino i nostri colleghi con il diabete, sulla<br />
base dei loro valori di emoglobina glicata.<br />
Un altro fattore nell’equazione ‘X=successo’ è il fatto che<br />
negli ultimi tempi noi siamo stati sottoposti alla pressione<br />
di molti fattori esterni. Lavoriamo in strutture nelle quali<br />
c’è una crescente pressione a produrre di più utilizzando<br />
meno risorse. Ci viene richiesto di formare più pazienti in<br />
minor tempo, di provare che il nostro lavoro conduce a<br />
miglioramenti misurabili in termini di risultati di salute.<br />
Viviamo tempi in cui l’assistenza sanitaria assomiglia sempre<br />
di più a un’industria. Molti di noi sono scoraggiati dal<br />
modo in cui queste pressioni riducono le opportunità di<br />
avere rapporti umanamente appaganti con i pazienti e<br />
diminuiscono il piacere di lavorare.<br />
“Smettere di credere nella magia<br />
può indurre un’anima semplice<br />
a credere nel governo e nel business.<br />
Tom Robbins<br />
I diabetes educators sono sempre più spinti a documentare<br />
risultati che dimostrino l’efficacia dell’educazione al diabete.<br />
Le compagnie di assicurazione e i pazienti hanno<br />
tutto il diritto di chiederci questo tipo di informazioni, che<br />
possono anche essere un utile feedback del nostro lavoro,<br />
ma bisogna tenere presente che il controllo metabolico<br />
non è l’unico criterio di valutazione. Quando valutiamo i<br />
nostri risultati solo sulla base dei valori glicemici ci allontaniamo<br />
da un approccio centrato sul paziente per spostarci<br />
verso un approccio centrato su di noi e sulla nostra capaci-<br />
“
tà di cambiare i pazienti. E poi, se ci prendiamo il merito<br />
dei risultati positivi ottenuti dal paziente, allora dobbiamo<br />
anche prenderci la responsabilità dei risultati negativi. In<br />
ogni caso assumerci meriti o colpe per i risultati di autocontrollo<br />
dei nostri pazienti nega i loro sforzi e la realtà<br />
concreta e quotidiana del diabete. Sentirci responsabili o<br />
giudicati per qualcosa che non controlliamo può condurci<br />
a frustrazione ed esaurimento.<br />
Definire il successo<br />
Come possiamo, allora, definire il successo in un’ottica di<br />
empowerment? Una possibilità è esaminare la relazione<br />
che siamo stati capaci di costruire con il paziente e come il<br />
paziente stesso percepisce l’utilità delle nostre interazioni<br />
con lui nelle decisioni da prendere tutti i giorni riguardo al<br />
diabete. Questi criteri si sono dimostrati utili a prescindere<br />
dallo scopo degli incontri, prime visite o visite di controllo,<br />
visite una tantum o parti di un lungo ciclo di sedute. In ultima<br />
analisi, possiamo valutare la nostra efficacia come educator<br />
in base a quanto i nostri pazienti diventano abili nel<br />
fissare e raggiungere i loro obiettivi di salute.<br />
“La vera gioia può essere raggiunta<br />
solo se le persone vedono la propria vita<br />
come dedicata a qualcuno o qualcosa<br />
diversi da se stessi e dalla propria<br />
personale felicità.<br />
Lev Tolstoj<br />
Le persone con il diabete, in genere, vogliono vivere sane e<br />
prevenire le complicanze della malattia. Vogliono che la loro<br />
storia finisca bene. Ma se i pazienti fanno dei cambiamenti<br />
solo per compiacerci, quei cambiamenti hanno poca probabilità<br />
di durare. Sono cambiamenti che durano, tipicamente,<br />
solo finché noi siamo lì a rinforzarli. Quando aiutiamo i<br />
pazienti a sviluppare le capacità di soluzione dei problemi, a<br />
“<br />
121
122<br />
confrontarsi con le emozioni e i sentimenti che gli impediscono<br />
di raggiungere i loro obiettivi, gettiamo le fondamenta<br />
di cambiamenti durevoli, perché la motivazione e il rinforzo<br />
vengono da loro stessi. La nostra esperienza ci dice che<br />
questo tipo di cambiamenti quasi sempre si associa a un<br />
miglioramento del controllo metabolico. Quando il cambiamento<br />
è indotto dalla pressione esterna, il controllo metabolico<br />
può anche migliorare inizialmente, ma difficilmente dura<br />
nel tempo. I pazienti che imparano ad assumersi la responsabilità<br />
del proprio trattamento fanno cambiamenti duraturi<br />
perché hanno imparato che il diabete li riguarda da vicino.<br />
Abbiamo anche imparato a usare le nostre esperienze con<br />
i pazienti come guida per capire se stiamo facendo bene,<br />
se ci stiamo muovendo nella giusta direzione. Alla fine di<br />
una visita, sia noi che il paziente sappiamo come è andata<br />
quella visita. C’è stato scambio, interazione? Il paziente<br />
porta a casa qualcosa di valido? Se vogliamo un feedback<br />
possiamo dare ai pazienti dei brevi questionari, per<br />
documentare le loro esperienze.<br />
“Un professionista è una persona<br />
in grado di fare del suo meglio<br />
anche quando non è nelle migliori<br />
condizioni per farlo.<br />
Alistair Cooke<br />
Questa è l’arte dell’educazione del paziente al diabete; il<br />
massimo della concentrazione sul paziente e sulla interazione<br />
con lui mentre questa è in corso. Possiamo anche<br />
fermarci durante una visita se avvertiamo la sensazione<br />
che qualcosa non va e chiedere al paziente cosa sta provando.<br />
Per esempio: “Signora Bruni, ho forse detto qualcosa<br />
che l’ha scoraggiata o confusa?” oppure: “Ho l’impressione<br />
di non essere riuscito a metterla a suo agio;<br />
cosa posso fare?”. Abbiamo imparato a fidarci delle<br />
nostre sensazioni e impressioni per avere un feedback<br />
“
sulla nostra efficacia. Questo processo di valutazione (e<br />
formazione) è ideato per guidare e rafforzare la nostra<br />
pratica. Ma è anche un buon predittore di risultato del<br />
processo di formazione. Quando in cima alle nostre priorità<br />
noi mettiamo l’essere al servizio dei nostri pazienti,<br />
anche i valori metabolici, i risultati misurabili, migliorano.<br />
L’esperienza ci ha insegnato che la cosa giusta e quella<br />
intelligente sono la stessa cosa.<br />
POSSIBILI DOMANDE DI VALUTAZIONE<br />
DA USARE CON I PAZIENTI<br />
Dopo una prima visita:<br />
1) È stata diversa da altre visite che avete fatto?<br />
2) Cosa vi aspettavate o volevate?<br />
3) Cosa avreste voluto che andasse in un altro modo?<br />
Un’altra possibilità è chiedere al paziente all’inizio<br />
dell’incontro di stabilire obiettivi o aspettative e poi,<br />
a incontro concluso, chiedere se questi erano stati<br />
raggiunti o realizzati durante la visita. Per esempio:<br />
1) Cosa volete fare oggi?<br />
2) Quali questioni vorreste fossero discusse?<br />
3) Avete qualche domanda da fare, qualcosa<br />
che vi preoccupa e di cui vorreste parlare?<br />
Alla fine di un ciclo di incontri potreste domandare:<br />
1) Siete riusciti a portare a termine quello che volevate?<br />
2) Avete raggiunto i vostri obiettivi?<br />
3) Avete altre domande da porre?<br />
4) Vorreste che la prossima volta si faccia diversamente?<br />
Questa strategia è applicabile anche ai gruppi quando<br />
si chiede all’inizio di fissare degli obiettivi<br />
che poi verranno rivalutati alla fine del ciclo.<br />
123
124<br />
Domande per riflettere<br />
1) Come decidete se avete o non avete avuto successo in<br />
un singolo incontro con il paziente?<br />
2) E come fate a valutare il successo di un intero programma<br />
di formazione?<br />
3) E nel vostro lavoro? Nella vostra carriera?<br />
4) Quanto influenzano la vostra prospettiva e la vostra<br />
pratica professionale i criteri che usate per valutare successo<br />
e insuccesso?
CAPITOLO 14<br />
Strumenti per riflettere<br />
“La vera professione di uomo è cercare<br />
la strada che conduce a se stesso.<br />
Hermann Hesse<br />
Ci siamo resi conto che un modo molto efficace per<br />
migliorare le nostre abilità di diabetes educator è registrare<br />
le sedute con i pazienti e riascoltarle in seguito per<br />
rifletterci sopra (questo ovviamente richiede il consenso<br />
dei pazienti). Gestite l’incontro il più naturalmente possibile,<br />
cercando di dimenticare il microfono. Potreste trovare<br />
utile registrare una serie di incontri a mano a mano che<br />
fate esperienza con l’approccio empowerment.<br />
Una volta eseguita la registrazione, ascoltatela ponendo<br />
attenzione più alla vostra parte che a quella del paziente.<br />
Date un voto a ognuna delle vostre risposte al paziente<br />
usando la tabella riprodotta più avanti. Sommate e fate la<br />
media, questo vi darà un voto complessivo che potrete<br />
usare per stimare approssimativamente l’efficacia delle<br />
vostre capacità di interazione con il paziente ogni volta<br />
che registrate un nastro. In questo modo potrete rendervi<br />
conto dei progressi che state compiendo. La tabella<br />
riassume i giudizi che verranno spiegati più avanti e dà a<br />
ognuno di essi un valore numerico.<br />
“<br />
125
126<br />
+2 Siete concentrati sulle emozioni<br />
o sugli obiettivi del paziente.<br />
+1 State esplorando il problema.<br />
0 Di tutto un po’.<br />
-1 State cercando di risolvere<br />
il problema al posto del paziente.<br />
-2 State giudicando il paziente.<br />
Dopo aver dato un voto alle vostre reazioni cercate di<br />
ricordarvi come vi sentivate durante il colloquio, cosa stavate<br />
provando mentre il vostro comportamento stava rendendo<br />
più facile o più difficile l’interazione, e come potreste<br />
fare diversamente la prossima volta. Usate il vostro<br />
diario per annotare pensieri, emozioni, riflessioni sulla<br />
vostra esperienza.<br />
Criteri per dare un voto<br />
Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (+2)<br />
Le frasi +2 rientrano in due grosse categorie. La prima è<br />
quella delle emozioni. Tutte le volte che iniziate a<br />
esplorare le emozioni di un paziente o fate in modo che<br />
queste vengano espresse date un voto +2. Anche quando<br />
riuscite a fare in modo che il paziente esprima ciò che<br />
vuole e come pensa di arrivarci questo è un +2. Tutte le<br />
volte che siete sintonizzati sugli obiettivi o sulle emozioni<br />
del paziente è un +2.<br />
Attenzione alle emozioni del paziente. Domande del tipo:<br />
“Siete arrabbiato? State male pensando a questo? Cosa<br />
provate riflettendo su questo? Riuscite a dirmelo?”<br />
Sollecitando il paziente a trovare la sua motivazione.<br />
“Cosa avete intenzione di fare? Cosa state per fare? Vi<br />
sentite pronto a cambiare?”.<br />
Sollecitando il paziente a trovare opzioni possibili e obiettivi.<br />
“Qual è il compito che vi volete dare? Vorreste che le
cose fossero differenti e in che modo? Cosa vi aspettate<br />
da questa situazione? Quali sono le vostre scelte? E quali<br />
le conseguenze?”.<br />
Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (+1)<br />
Le frasi che meritano un voto +1 sono quelle che aiutano<br />
il paziente a esplorare le dimensioni cognitive-comportamentali<br />
del problema che lui ha indicato (senza che voi lo<br />
abbiate in qualche maniera suggerito o involontariamente<br />
imposto). In altri termini, costituiscono tutto quello che<br />
fate per cercare di vedere il problema dal punto di vista<br />
del paziente.<br />
Domande per esplorare.<br />
Chiedere informazioni sul problema che il paziente ha introdotto.<br />
Per esempio: “Ditemi qualcosa di più su questo.<br />
Perché è un problema per voi? Potete farmi degli esempi?”.<br />
Chiarire il significato del problema del paziente.<br />
Domande che indicano un certo grado di riflessione sull’argomento,<br />
come: “Questo per voi costituisce un problema<br />
perché vostro marito vuole un dolce per dessert tutte le sere?<br />
oppure: “Cosa significa questo esattamente per voi?” o frasi<br />
di commento come: “Questo è un bel fastidio” oppure:<br />
“Certo, questo vi ha spaventato!”.<br />
Che tipo di persona è il paziente.<br />
“Che impatto ha il diabete sulla vostra vita? Su di voi in<br />
particolare, sulle vostre abitudini, sul vostro carattere?”.<br />
Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (0)<br />
Il voto 0 viene dato a tutte le frasi che non rientrano nelle<br />
altre categorie oppure a quelle neutre dal punto di vista<br />
del modello del counseling. È importante tenere presente<br />
che le frasi ‘0’ sono spesso appropriate, specie quelle<br />
di argomento strettamente medico. Sono valutate ‘0’ solo<br />
perché nel modello che usiamo hanno un valore neutro,<br />
non perché l’interazione sia inappropriata.<br />
Domande e risposte di tipo tecnico.<br />
127
128<br />
Raccogliere semplici dati del tipo: “Da quanto tempo<br />
avete il diabete? Da quanto prendete l’insulina?”.<br />
Rispondere a specifiche domande del paziente del tipo:<br />
“Che differenza c’è tra insulina standard e quella NPH?”.<br />
oppure: “Quando iniziano i corsi di educazione al diabete?”<br />
oppure: “È possibile che abbia preso il diabete dai miei<br />
genitori?”. Tutte queste domande o risposte hanno voto 0.<br />
Altro. Tutto quello che non rientra nelle altre categorie.<br />
Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (-1)<br />
Date un voto -1 tutte le volte che risolvete un problema al<br />
posto del paziente anziché insieme a lui. Facendo così ribadite<br />
la vostra superiorità, in termini di conoscenze e di abilità,<br />
il che implica, indirettamente, che il paziente non è capace<br />
di risolvere da solo il suo problema.<br />
Consiglio.<br />
Un consiglio non richiesto come “Un modo migliore per<br />
affrontare la questione sarebbe...” oppure: “Perché non<br />
provate a fare in questo modo?”.<br />
Soluzione di problema.<br />
Offrire di risolvere voi il problema per il paziente senza che<br />
questo vi sia stato richiesto, come: “Credo che dovreste<br />
parlarne con vostra moglie” oppure: “Potrei telefonare io<br />
al vostro datore di lavoro e parlargli della vostra malattia”.<br />
Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (-2)<br />
Una frase -2 introduce sempre un elemento morale o perlomeno<br />
di giudizio nell’interazione. In altri parole, state definendo<br />
‘giusto’ o ‘sbagliato’, ciò che il paziente pensa, prova,<br />
crede o ciò che fa.<br />
La questione cruciale è se questo modo di fare lo incoraggia<br />
e sostiene oppure se state applicando le vostre idee e il<br />
vostro sistema di valori al paziente e alla sua vita.<br />
Biasimare il paziente.<br />
Tutte le frasi che esprimono biasimo o approvazione<br />
come: “Questa non è certo la cosa giusta da fare” oppu-
e domande del tipo: “Pensate veramente che questa sia<br />
la cosa giusta da fare nel vostro caso?”.<br />
Le frasi -2 possono anche essere di approvazione come:<br />
“Ottimo, mi fa piacere sapere che avete fato esercizio la<br />
settimana scorsa” oppure: “Complimenti, avete seguito<br />
la dieta questa settimana”. È importante distinguere<br />
quando voi state partecipando alle emozioni o ai sentimenti<br />
del paziente, rispetto a quando state dando un giudizio<br />
sul paziente. Se il paziente dicesse: “Sono così contento,<br />
sono riuscito a seguire il mio programma dietetico<br />
la scorsa settimana” certamente potreste dire: “Ottimo,<br />
sono contento di sentirvi soddisfatto dei vostri risultati”<br />
perché state rispondendo a una espressione di soddisfazione<br />
personale del paziente. Ma se il paziente dice la<br />
stessa cosa come un dato di fatto: “Ho seguito (o non ho<br />
seguito) il mio programma dietetico la scorsa settimana”<br />
e voi chiaramente comunicate, a parole o con l’espressione<br />
del viso, la vostra approvazione-disapprovazione è<br />
senza dubbio un -2.<br />
Perdonare il paziente.<br />
“Nessuno riesce a stare a dieta in vacanza” oppure: “Non<br />
è colpa vostra, non potete certo aiutarvi da solo”.<br />
Svalutare il paziente.<br />
Svalutare le emozioni del paziente con frasi del tipo: “Oh<br />
non state a sentirvi in colpa per questo, non dovete rimanerci<br />
male” oppure: “Non è il caso che vi sentiate in questo<br />
modo” o: “Le cose non vanno poi così male”.<br />
Svalutare il punto di vista del paziente dicendo “Non è<br />
certo questo il modo migliore per guardare alla vostra<br />
situazione” o anche solo dare informazioni non richieste<br />
come: “Anche quelli che fanno tutto bene poi possono<br />
avere delle complicanze”.<br />
Altri approcci per riflettere su ciò che si fa<br />
Ci sono altri modi per lavorare in modo riflessivo.<br />
Scegliete un metodo che si adatti alla vostra particolare<br />
129
130<br />
situazione e alle vostre preferenze. Per esempio, se dove<br />
lavorate è possibile videoregistrare le sedute con i<br />
pazienti vi renderete conto che questo può essere ancora<br />
più efficace. Valuterete anche gli aspetti non verbali della<br />
comunicazione come la postura, le espressioni del volto, i<br />
gesti vostri e dei vostri pazienti.<br />
Un altro metodo è chiedere a un collega di fiducia di<br />
osservare le vostre interazioni con il paziente durante le<br />
sedute e di discuterle con voi, se possibile, subito dopo, in<br />
modo da avere un riscontro immediato. Potreste essere<br />
sorpresi dal sapere quanti pazienti sono favorevoli alla<br />
presenza di un osservatore esterno durante la visita. Se<br />
usate questo metodo è essenziale che il vostro collega<br />
rimanga rigorosamente in silenzio durante tutta la seduta<br />
e che concentri tutta la sua attenzione (contatto visivo) su<br />
di voi, in modo da evitare che il paziente sia portato inconsapevolmente<br />
a entrare in comunicazione con entrambi.<br />
Nella revisione della seduta, crediamo sia importante<br />
ribadire il concetto che l’osservatore non deve mai giudicare<br />
l’operato dell’educator. Per tutte le ragioni discusse<br />
precedentemente, la revisione dovrebbe essere libera<br />
dalla paura di essere criticati. L’osservatore può porre<br />
delle domande, certo, ma è importante che siano finalizzate<br />
ad aiutare l’educator a riflettere criticamente sull’esperienza<br />
fatta. Nella tabella più avanti troverete alcuni<br />
esempi di domande che un osservatore potrebbe fare.<br />
Tutte queste tecniche possono essere usate nei corsi di educazione<br />
al diabete o nei gruppi di supporto. Avere un collega<br />
che partecipa da osservatore a un corso o a un gruppo è<br />
raramente elemento di disturbo. In tutti i casi, comunque, è<br />
importante limitare la partecipazione del collega al ruolo di<br />
osservatore e non di partecipante o di conduttore associato.<br />
Mischiare questi ruoli finisce per diminuire l’oggettività e la<br />
chiarezza del feedback fornito dall’osservatore.<br />
Inoltre, è fondamentale che il paziente abbia ben chiaro<br />
che la registrazione o la presenza di un osservatore serve
POSSIBILI DOMANDE DELL’OSSERVATORE<br />
Quali erano i tuoi obiettivi in questa seduta?<br />
Quali parti della seduta vuoi esaminare?<br />
Quale parte della seduta è andata meglio?<br />
Che cosa andava bene in particolare?<br />
Ricordi cosa stavi pensando in quel momento?<br />
Ricordi se avevi delle emozioni particolari in quel momento?<br />
Quale parte della seduta non è andata bene come speravi?<br />
Cosa speravi che accadesse?<br />
Che cosa è accaduto effettivamente?<br />
Cosa stavi pensando in quel momento?<br />
Avevi delle emozioni particolari in quel momento?<br />
Cosa pensi che il paziente stesse pensando<br />
e provando in quel momento?<br />
Se potessi rifarla da capo, cosa cambieresti?<br />
Di cosa ancora vuoi parlare?<br />
Quale sarà il tuo obiettivo principale per la prossima<br />
seduta?<br />
a voi per migliorare come educator. Sottolineate il fatto<br />
che le confidenze che il paziente vi farà saranno protette<br />
e rispettate adeguatamente. Per rassicurare i pazienti si<br />
possono fare diverse cose. Offrire loro la possibilità di<br />
cancellare il nastro alla fine del trattamento o anche subito<br />
dopo la seduta. A volte la conversazione prende una<br />
piega inaspettata per il paziente che si potrebbe sentire a<br />
disagio sapendo che quanto detto verrà ascoltato di<br />
nuovo o da altre persone oltre a voi. Inoltre, in genere<br />
proteggiamo l’identità del paziente rivolgendoci sempre<br />
a lui o lei con il nome e basta, oppure, evitando di nominare<br />
del tutto il paziente se la seduta viene registrata.<br />
Nei corsi e nei gruppi è relativamente facile proteggere<br />
l’anonimato dei pazienti perché la videocamera è fissa<br />
sull’educator e i pazienti, se pure compaiono, sono ripresi<br />
solo di spalle.<br />
131
132<br />
Se nessuna di queste possibilità è a vostra disposizione, è<br />
tuttavia ancora possibile impegnarsi in una pratica riflessiva<br />
prendendo l’impegno di fare una breve revisione per punti<br />
schematici di almeno una seduta al giorno o alla settimana.<br />
Preparatevi una scheda breve da completare immediatamente<br />
dopo la seduta con il paziente o i pazienti.<br />
La scheda che segue contiene delle domande secondo noi<br />
utili per una pratica riflessiva. Potete modificarla aggiungendo<br />
o togliendo domande secondo le vostre esigenze.<br />
“Il miglior modo per predire il futuro<br />
è inventarlo.<br />
Alan Kay<br />
A prescindere dal metodo usato per raccogliere dati<br />
durante o dopo la seduta con un paziente, scegliere<br />
prima un obiettivo aiuta sia voi che l’eventuale osservatore<br />
a concentrarvi su quegli elementi dell’interazione che<br />
ritenete più importanti. Per esempio, nella relazione con<br />
un paziente singolo potreste decidere di voler prestare la<br />
massima attenzione alla componente emotiva del racconto<br />
e alla vostra capacità di verbalizzarla. Un obiettivo di<br />
questo tipo facilita la revisione della seduta perché vi consente<br />
una migliore messa a fuoco della questione rispetto<br />
a una revisione a tutto campo. In una situazione di<br />
gruppo, potreste avere come obiettivo quello di far entrare<br />
nella conversazione i soggetti più timidi e meno comunicativi<br />
e di arginare quelli più estroversi o logorroici. Se<br />
avete un osservatore, è importante che conosca quale<br />
obiettivo avete fissato. Lavorate sempre su un obiettivo<br />
solo alla volta. Sia nel lavoro individuale che in quello di<br />
gruppo, un solo obiettivo è sufficientemente impegnativo<br />
e gratificante. Per gli obiettivi di processo, a differenza di<br />
quelli di risultato, ‘di più’ non vuol dire ‘meglio’.<br />
L’ostacolo maggiore per qualsiasi riflessione sulla pratica, a<br />
prescindere dallo strumento usato, è la mancanza di tempo.<br />
“
Come diabetes educator ci viene richiesto di fare di più in<br />
minor tempo e con meno risorse. Ma riflettere su ciò che<br />
si fa richiede tempo. Ci rendiamo conto delle pressioni a<br />
cui sono sottoposti i diabetes educator ma crediamo che<br />
una pratica riflessiva come quella descritta sia parte fondamentale<br />
e cruciale della crescita personale e professionale.<br />
Sacrificarla per fare più sedute, più pazienti, più<br />
corsi, limita in modo significativo l’opportunità di crescere,<br />
migliorare e, in ultima analisi, riduce l’efficacia del lavoro<br />
fatto con i pazienti. Per questo crediamo che si debba fare<br />
di tutto per trovare il tempo necessario a farla.<br />
SCHEDA PER RIFLETTERE SULLA PRATICA<br />
1) Come sono andato rispetto all’obiettivo<br />
che mi ero prefissato?<br />
2) Quanto sono soddisfatto, complessivamente, del modo<br />
in cui mi sono comportato durante la seduta?<br />
3) Quanto sarà stato soddisfatto il paziente?<br />
4) Qual è stata la cosa più efficace che ho fatto?<br />
5) Qual’è stata quella meno efficace?<br />
6) Cosa farei differentemente se potessi tornare indietro?<br />
Domande per riflettere<br />
1) Quali sono le conseguenze di una pratica non riflessiva?<br />
2) Quale potrebbe essere per voi il metodo più efficace e realistico<br />
per riflettere sulla pratica?<br />
3) Quali colleghi potreste coinvolgere in questo tipo di attività?<br />
4) Volete prendere l’impegno di usare uno dei metodi<br />
descritti in questo capitolo, almeno una volta, per vedere<br />
se hanno qualche valore per il vostro lavoro? Se sì, quale<br />
usereste, dove e quando?<br />
133
CAPITOLO 15<br />
Educatori ‘potenziati’<br />
“Il destino è questione di scelte,<br />
non di fatalità.<br />
Qualcosa da realizzare,<br />
non da attendere passivamente.<br />
William Jennings Bryan<br />
L’empowerment, per i pazienti come per i diabetes educator,<br />
è basato sui concetti di libertà e responsabilità. Nella<br />
nostra esperienza libertà e responsabilità sono due facce<br />
della stessa medaglia. Poiché siamo liberi di fare delle scelte,<br />
siamo anche responsabili delle conseguenze delle scelte<br />
che facciamo. Come detto precedentemente, importanti<br />
sono le scelte dei pazienti, quelle che si fanno nel trattamento<br />
giorno per giorno del diabete, perché sono gli stessi<br />
pazienti che ne vivranno le conseguenze.<br />
Questo vale anche per i diabetes educator. In tutte le<br />
situazioni abbiamo vincoli e opportunità. Non abbiamo<br />
scelto noi dove o quando nascere, oppure se nascere ricchi<br />
o poveri, uomini o donne. I pazienti con diabete non<br />
hanno scelto di averlo. Buona parte di ciò che capita nella<br />
nostra vita non è il risultato delle nostre scelte né è sotto<br />
il nostro controllo. Pur tuttavia, in ogni situazione, non<br />
importa quanto costretti da fattori esterni, ci sono sempre<br />
delle cose che possiamo decidere, ci sono sempre delle<br />
scelte che possiamo fare. La capacità di scegliere è uno<br />
dei segni distintivi del genere umano. Le nostre scelte<br />
“<br />
135
136<br />
sono importanti perché influenzano significativamente la<br />
qualità della nostra vita.<br />
La capacità di interpretare e rispondere individualmente a<br />
ogni situazione è rappresentata in modo esemplare per noi<br />
dalla storia di Ryan White. Ryan era un ragazzo dell’Indiana<br />
che fu colpito dall’AIDS in seguito a trasfusioni di sangue.<br />
Quando annunciò il suo desiderio di frequentare la scuola<br />
nonostante avesse una malattia così grave, molte persone<br />
nella sua città furono prese dal panico. Eravamo nei primi<br />
anni dell’AIDS e l’opinione pubblica aveva a disposizione<br />
pochissime informazioni attendibili sulla malattia. I genitori<br />
di molti dei compagni di scuola di Ryan ebbero paura che i<br />
loro bambini potessero rimanere contagiati anche dalla<br />
semplice condivisione di un’aula scolastica con Ryan. Ciò<br />
che accadde fu la dimostrazione di come gli esseri umani<br />
possono reagire in preda alla paura e all’ignoranza. La famiglia<br />
di Ryan venne perseguitata a tal punto da essere<br />
costretta a lasciare la città per spostarsi in un centro più piccolo<br />
dello stesso Stato. Fortunatamente, la gente di quel<br />
posto aveva imparato qualcosa dall’esperienza che Ryan<br />
aveva dovuto affrontare nella sua città natale. Gli esperti rassicurarono<br />
i genitori dei bambini, gli insegnanti e i funzionari<br />
scolastici che Ryan non costituiva alcun pericolo per la<br />
salute degli altri bambini. Gli fu permesso di frequentare la<br />
scuola, proseguì gli studi brillantemente e divenne uno dei<br />
portavoce nazionali delle associazioni dei malati di AIDS. Ciò<br />
che gli rimaneva della sua breve vita fu dedicato a insegnare<br />
agli altri cosa volesse dire avere l’AIDS e come fosse possibile<br />
liberare i fatti dalle paure e dalle superstizioni. Ai nostri<br />
occhi egli ha vissuto ed è morto da eroe.<br />
Quello che troviamo stupefacente in questa storia è che la<br />
vita ha offerto a Ryan circostanze così drammatiche che egli<br />
avrebbe potuto, non a torto, considerarsi una vittima.<br />
Nessuno si sarebbe sorpreso se fosse diventato una persona<br />
aspra e piena di rancore verso tutti quelli che avevano perseguitato<br />
lui e la sua famiglia. La vita gli aveva servito delle
carte veramente difficili da giocare. Eppure, egli fronteggiò<br />
queste terribili circostanze e se ne servì per dare un contributo<br />
ad altre esistenze. È questa capacità che abbiamo di reagire<br />
alle circostanze, anche le più drammatiche, la fonte della<br />
nostra libertà e della nostra responsabilità.<br />
Spesso, dopo aver condotto seminari e corsi sull’empowerment,<br />
qualcuno solleva la questione della mancanza di<br />
potere, ricorda tutti i vincoli a cui è sottoposto nella sua<br />
pratica. Si preoccupa di non essere in grado di mettere in<br />
pratica ciò che ha appreso e dice, per esempio: “So benissimo<br />
che quello che insegnate sarebbe di aiuto per i miei<br />
pazienti, ma i miei capi non capiscono e non mi sosterranno<br />
nell’usare l’approccio empowerment”. Il corso è riuscito<br />
e ha aiutato questi educator a trovare le motivazioni<br />
giuste per lavorare con i pazienti ma rimane la preoccupazione<br />
di tradurre tutto questo nella pratica quotidiana.<br />
È difficile credere che qualcuno si aspetti da noi che facciamo<br />
cose che riteniamo non essere nel miglior interesse<br />
dei nostri pazienti, o che qualcuno ci impedisca di fare i<br />
cambiamenti che ci sembrano validi. A queste obiezioni<br />
rispondiamo chiedendo ai partecipanti di identificare in<br />
ogni situazione, anche la più vincolata, le scelte possibili.<br />
Anche se abbiamo a disposizione una sola seduta di dieci<br />
minuti con un paziente, possiamo fare in modo che il<br />
paziente si renda conto che il diabete è una malattia veramente<br />
impegnativa da trattare e che noi cercheremo di<br />
aiutarlo a impostare le questioni che gli stanno a cuore nel<br />
breve tempo che abbiamo. È interessante notare che le<br />
preoccupazioni che noi esprimiamo come educator non<br />
sono poi così diverse da quelle dei nostri pazienti. “Sì,<br />
voglio prendermi cura al meglio del mio diabete, ma...”. Il<br />
‘ma’ è seguito dalla descrizione degli ostacoli che rendono<br />
difficile per quel paziente, nella sua situazione specifica,<br />
seguire il proprio piano di trattamento.<br />
137
138<br />
“Siate assolutamente determinati<br />
a trovare piacere in ciò che fate.<br />
Gerry Sikorski<br />
Concentrarsi sui vincoli, sugli ostacoli, su tutto ciò che<br />
non possiamo fare, ci rende impotenti e ci fa sentire delle<br />
vittime. Spostare l’attenzione su ciò che ‘possiamo’ fare ci<br />
aiuta a vivere la nostra libertà e la nostra responsabilità. Il<br />
che non vuol dire che possiamo fare o avere qualsiasi cosa<br />
vogliamo. Significa, invece, che possiamo fare ‘qualcosa’,<br />
non importa quanto drammatica sia la situazione in cui<br />
siamo. Fare comunque qualcosa è la sintesi migliore di ciò<br />
che crediamo debba essere un diabetes educator nella<br />
prospettiva dell’empowerment. Tornando indietro con la<br />
mente alla risposta di Madre Teresa di Calcutta citata nell’introduzione,<br />
è chiaro che se lei si fosse fatta distrarre<br />
dall’enorme massa di problemi che le stavano davanti<br />
probabilmente non avrebbe fatto nulla. Eppure, lei comprese<br />
che la sua responsabilità era di rimanere fedele alla<br />
sua prospettiva e di agire conseguentemente.<br />
È un fatto ineludibile della vita che tutti noi facciamo delle<br />
scelte e che siamo responsabili delle loro conseguenze.<br />
Così ognuno di noi impara e cresce. In questo sta la fonte<br />
delle nostre risorse. Quando la nostra visione del mondo<br />
arriva a comprendere questo fatto fondamentale, allora noi<br />
usiamo in pieno queste risorse, siamo ‘empowered’.<br />
Domande per riflettere<br />
1) Che cosa vi impedisce di accettare sempre la responsabilità<br />
delle vostre scelte?<br />
2) Quali sono i costi (e i benefici) di sentirsi controllati o<br />
forzati a comportarsi in un certo modo?<br />
3) Quali sono i costi (e i benefici) dell’accettare completamente<br />
la responsabilità del vostro comportamento?<br />
“
Il vostro diario di empowerment<br />
Il passato<br />
Scrivete le vostre esperienze di cambiamento nel modo di<br />
insegnare o di lavorare.<br />
Il presente<br />
Scrivete le vostre esperienze nell’uso di un modello integrato<br />
e basato sull’approccio empowerment nella pratica<br />
clinica e nella formazione di pazienti e operatori.<br />
139
Pubblicazioni nello spirito<br />
dell’empowerment<br />
Articoli su riviste<br />
ANDERSON RM: Qualitative research in diabetes: The role of<br />
stories in the culture of silence. The Diabetes Educator 27:<br />
718-808, 2001.<br />
ANDERSON RM: Into the heart of darkness: Reflections on racism<br />
and diabetes care. The Diabetes Educator 24: 689-92, 1998.<br />
ANDERSON RM: Looking out – looking in: What do we see?<br />
Diabetes Spectrum 11: 132-3, 1998.<br />
ANDERSON RM: Patient empowerment revisited. (Letter)<br />
Diabetes Spectrum 8: 318, 1995.<br />
ANDERSON RM: Patient empowerment and the traditional<br />
medical model: A case of irreconcilable differences?<br />
Diabetes Care 18: 412-5, 1995.<br />
ANDERSON RM: Jacob’s Island: A fable for diabetes educators.<br />
The Diabetes Educator 16: 364, 1990.<br />
ANDERSON RM, BARR PA, EDWARDS GJ, FUNNELL MM,<br />
FITZGERALD JT, WISDOM K: Using focus groups to identify<br />
psychosocial issues of urban black individuals with diabetes.<br />
The Diabetes Educator 22: 28-33, 1996.<br />
ANDERSON RM, BRACKENRIDGE BP: Polar bears in the jungle:<br />
Reflections on obesity and overeating. The Diabetes<br />
Educator 25: 521-6, 1999.<br />
ANDERSON RM, DONNELLY, MB, GORENFLO DW, FUN-<br />
NELL MM, SHEETS KJ: Influencing the attitudes of medical<br />
students toward diabetes. Diabetes Care 16: 503-5, 1993.<br />
141
142<br />
ANDERSON RM, FITZGERALD JT, FUNNELL MM, BARR PA,<br />
STEPIEN CJ, HISS RG, ARMBRUSTER BA: Evaluation of a<br />
patient activated newsletter. The Diabetes Educator 20:<br />
29-34, 1994.<br />
ANDERSON RM, FITZGERALD JT, FUNNELL MM, GRUPPEN<br />
LD: The third version of the diabetes attitude scale.<br />
Diabetes Care 21: 1403-7, 1998.<br />
ANDERSON RM, FITZGERALD JT, GRUPPEN LD, FUNNELL<br />
MM, OH MS: The Diabetes Empowerment Scale-Short<br />
Form (DES-SF). (Letter) Diabetes Care 26: 1641-2, 2003.<br />
ANDERSON RM, FUNNELL MM, ARNOLD MS, BARR PA,<br />
EDWARDS GJ, FITZGERALD JT: Assessing the cultural relevance<br />
of an education program for urban African Americans<br />
with diabetes. The Diabetes Educator 26: 280-9, 2000.<br />
ANDERSON RM, FUNNELL MM, BARR PA, DEDRICK RF,<br />
DAVIS WK: Learning to empower patients: The results of<br />
a professional education program for diabetes educators.<br />
Diabetes Care 14: 584-90, 1991.<br />
ANDERSON RM, FUNNELL MM, BUTLER P, ARNOLD MS,<br />
FITZGERALD JT, FESTE C: Patient empowerment: results of<br />
a randomized control trial. Diabetes Care 18: 943-9, 1995.<br />
ANDERSON RM, FUNNELL MM, FITZGERALD JT: The diabetes<br />
empowerment scale (DES): A measure of psychosocial<br />
self-efficacy. Diabetes Care. 23: 739-43, 2000<br />
ANDERSON RM, FUNNELL MM: Diabetes educators; philosophers<br />
one and all. On The Cutting Edge (peer-reviewed<br />
newsletter of the American Dietetic Association) 24: 4-6, 2003.<br />
ANDERSON RM, FUNNELL MM: Compliance and adherence<br />
are dysfunctional concepts in diabetes care. The Diabetes<br />
Educator 26: 597-604, 2000.<br />
ANDERSON RM, FUNNELL MM: Theory is the cart; vision is<br />
the horse: Reflections on research in diabetes patient<br />
education, AADE Research Summit, Supplement to The<br />
Diabetes Educator 25: 43-51, 1999.<br />
ANDERSON RM, FUNNELL MM: The role of the physician in<br />
patient education. Practical Diabetology 9: 10-2, 1990.
ANDERSON RM, GODDARD CE, GARCIA R, GUZMAN JR,<br />
VAZQUEZ F: Using focus groups to identify diabetes care<br />
and education issues for Latinos with diabetes. The<br />
Diabetes Educator 24: 618-25, 1998.<br />
ANDERSON RM, HERMAN WH, DAVIS JM, FREEDMAN RP,<br />
FUNNELL MM, NEIGHBORS HW: Barriers to improving diabetes<br />
care for black persons. Diabetes Care 14: 605-9, 1991.<br />
ANDERSON RM, ROBINS L: How do we know? Reflections<br />
on qualitative and quantitative research in diabetes.<br />
Diabetes Care 21: 1387-8, 1998.<br />
ANDERSON RM, SAUNDERS JT: What diabetes means to<br />
you. Diabetes Forecast, pp. 21-23, May 1987.<br />
ARNOLD MS, BUTLER PM, ANDERSON RM, FUNNELL MM,<br />
FESTE C: Guidelines for facilitating a patient empowerment<br />
program. The Diabetes Educator 21: 308-12, 1995.<br />
BOHEM S, COLEMAN-BURNS P, SCHLENK EA, FUNNELL<br />
MM, PARZUCHOWSKI J, POWELL IJ: Prostate cancer in<br />
African-American men: Increasing knowledge and self efficacy.<br />
Journal of Community Health Nursing 12: 161-9, 1995.<br />
FESTE C, ANDERSON RM: Empowerment: from philosophy to<br />
practice. Patient Education and Counseling 26: 139-44, 1995.<br />
FUNNELL MM: Talking with your doctor: Problems and solutions.<br />
Diabetes Self-Management 14: 22-4, 1997.<br />
FUNNELL MM: Integrated approaches to the management<br />
of NIDDM. Diabetes Spectrum 9: 55-9, 1996.<br />
FUNNELL MM: Role of nurses in the implementation of intensive<br />
management. Diabetes Reviews 2: 322-31, 1994.<br />
FUNNELL MM: Role of the diabetes educator for older<br />
adults. Diabetes Care 13(suppl 2): 60-5, 1990.<br />
FUNNELL MM, ANDERSON RM, ARNOLD MS, BARR PA,<br />
DONNELLY MB, JOHNSON PD, TAYLOR-MOON D,<br />
WHITE N: Empowerment: An idea whose time has come in<br />
diabetes education. The Diabetes Educator 17: 37-41, 1991.<br />
FUNNELL MM, ANDERSON RM, ARNOLD MS:<br />
Empowerment: A winning model for diabetes care.<br />
Practical Diabetology 10: 15-8, 1991.<br />
143
144<br />
FUNNELL MM, ANDERSON RM: Changing office practice<br />
and health care systems to facilitate diabetes self-management.<br />
Current Diabetes Reports 3: 127-33, 2003.<br />
FUNNELL MM, ANDERSON RM: Patient empowerment: A look<br />
back, a look ahead. The Diabetes Educator 29: 454-64, 2003.<br />
FUNNELL MM, ANDERSON RM: Working toward the next generation<br />
of diabetes self-management education. American<br />
Journal of Preventive Medicine 22 (4 Suppl): 3-5, 2002.<br />
FUNNELL MM, ANDERSON RM: The problem with compliance<br />
in diabetes. The Journal of the American Medical<br />
Association (JAMA) 284: 1709, 2000.<br />
FUNNELL MM, ANDERSON RM: Putting Humpty Dumpty<br />
back together again: Reintegrating The clinical and behavioral<br />
components in diabetes care and education.<br />
Diabetes Spectrum 12: 19-23, 1999.<br />
FUNNELL MM, ANDERSON RM: Patient education for decision-making.<br />
Practical Diabetology 16: 55-8,1997.<br />
FUNNELL MM, ANDERSON RM: Judge not: Lessons learned<br />
from simulated diabetes regimens. Diabetes Spectrum 8:<br />
328-9, 1995.<br />
FUNNELL MM, ANDERSON RM: Patient education in the<br />
physician’s office. Practical Diabetology 12: 22-5, 1993.<br />
FUNNELL MM, ANDERSON RM: Diabetes patient education<br />
in the office setting. The Office Nurse supplement to<br />
Diabetes Management and Patient Education 2: 31-4, 1989.<br />
FUNNELL MM, ARNOLD MS, FOGLER J, MERRITT JH,<br />
ANDERSON LA: Participation in a diabetes education and<br />
care program: Experience from the diabetes care for older<br />
adult project. The Diabetes Educator 24: 163-7, 1998.<br />
FUNNELL MM, MERRITT JH: The older adult with diabetes.<br />
Nurse Pratictioner Forum 9: 98-107, 1998.<br />
FUNNELL MM, MERRITT JH: The challenges of diabetes and<br />
older adults. Nursing Clinics of North America 28: 45-60, 1993<br />
GLASGOW R, ANDERSON RM: Moving from compliance to<br />
adherence is not enough: Something entirely new is needed.<br />
Diabetes Care 22: 2090-2, 1999.
GLASGOW RE, DAVIS CL, FUNNELL MM, BECK A:<br />
Implementing practical interventions to support chronic<br />
illness self-management. Joint Commission Journal on<br />
Quality and Safety 29: 563-74, 2003.<br />
MURPHY FG, SATTERFIELD D, ANDERSON RM, LYONS AE:<br />
Diabetes educators as cultural translators. The Diabetes<br />
Educator 19: 113-8, 1993.<br />
Libri, capitoli di libri e atti congressuali<br />
ANDERSON RM: Educational principles and strategies. In A<br />
Core Curriculum for Diabetes Education, 3rd ed. Funnell<br />
MM, Hunt C, Kulkarni K, Rubin RR, Yarborough PC, Eds.,<br />
Chicago, American Association of Diabetes Educators,<br />
1998, pp.1-26.<br />
ANDERSON RM: Personal philosophy of education and<br />
counseling. In Meal Planning Approaches for Diabetes<br />
Management. Chicago, American Dietetic Association,<br />
1994, pp. 17-9.<br />
ANDERSON RM, ARNOLD MS: From philosophy to practice.<br />
In Diabetes Medical Nutrition Therapy. Chicago,<br />
American Dietetic Association, 1997, 89-95.<br />
ANDERSON RM, FUNNELL MM, ARNOLD MS: Using the<br />
empowerment approach to help patients change behavior.<br />
In Practical Lessons from Psychology for Diabetes<br />
Clinicians. Anderson B, Rubin R, Eds., Alexandria,<br />
American Diabetes Association, 1996, pp.163-72.<br />
ANDERSON RM, FUNNELL MM, ARNOLD, MS: Beyond compliance<br />
and glucose control: Educating for patient empowerment<br />
in diabetes. Rifkin H et al., Eds., Excerpta Medica<br />
International Congress Series. New York, 1991, pp.1285-9.<br />
ANDERSON RM, FUNNELL MM, CARLSON A, NUHA SS,<br />
CRADOCK, S, SKINNER C: Patient empowerment, an<br />
international perspective. In Psychology in Diabetes Care,<br />
Snoeke F, Skinner TC, Eds., London, John Wiley and Sons<br />
LTC, 2000,<br />
145
146<br />
ANDERSON RM, FUNNELL, MM: Strategies for patient education:<br />
A review of fundamentals. In The Diabetes<br />
Annual/7. Home, PD, Marshall SM, Alberti KGMM, Krall<br />
LP, Eds. Amsterdam, Elsevier Publications, 1993.<br />
FUNNELL MM, MERRITT JH: Care of the older adult with diabetes.<br />
In Gerontology Nursing: Current Practice and<br />
Research. Burggraf V, Barry R, Eds., Thorofare, CB Slack<br />
Inc., 1996, pp.55-64.<br />
FUNNELL MM, MERRITT JH: Impact of diabetes mellitus on<br />
the aging population. In Management of Diabetes Mellitus:<br />
Perspectives of Care Across the Lifespan, 2nd ed., Haire-<br />
Joshu D, Ed., St. Louis, CV Mosby Inc., 1996, pp. 755-834.<br />
FUNNELL MM, STECKEL SB, DRAGOVAN A: How nursing<br />
care can influence patient adherence rather than compliance.<br />
In Clinical and Scientific Sessions, Kansas City,<br />
American Nurses Association, 1979.<br />
VAZQUEZ EF, ANDERSON RM: Activacion y motivacion del<br />
paciente diabetico. In Diabetes Mellitus 2nd ed. Islas S,Ed.<br />
Mexico City, Interamericana McGraw Hill, 1999, pp. 365-80.
RINGRAZIAMENTI<br />
La nostra visione dell’empowerment è al centro delle<br />
nostre vite, professionali e personali. Le attenzioni, l’affetto<br />
e gli insegnamenti che abbiamo ricevuto dalle nostre<br />
famiglie hanno costituito le fondamenta di questa prospettiva<br />
e ci sostengono oggi nelle nostre vite e nel<br />
nostro lavoro.<br />
Noi abbiamo un debito importante verso i nostri colleghi<br />
del Michigan Diabetes Research and Training Center<br />
(MDRTC): Wayne Davis, Tom Fitzgerald, Mary Lou Gillard,<br />
Doug Greene, George Hess, Red Hiss, Arno Kumagai,<br />
Andrea Lasichak e Robin Nwankwo. È grazie alla loro collaborazione<br />
e al loro sostegno che siamo riusciti a sviluppare<br />
le nostre idee in questo campo di ricerca e didattica.<br />
Lynn Arnold, Pat Barr, Mike Donnelly, Patricia Johnson,<br />
Denise Taylor-Moon e Neil White – i rimanenti membri del<br />
Comitato per la Didattica dell’MDRTC – hanno collaborato<br />
alla stesura del nostro primo articolo sull’empowerment<br />
dei pazienti. Quel lavoro è stato fondamentale perché<br />
ci ha aiutato a prendere qualcosa che avevamo ‘in<br />
pancia’ e a trasformarlo in parole, in modo da poterlo<br />
condividere con altri. Siamo loro riconoscenti per l’importante<br />
contributo a questo libro.<br />
Abbiamo chiesto a Betty Brackenridge, Ginny Dittko,<br />
Cheryl Hunt, Dick Robin e Terry Saunders di rivedere le<br />
prime bozze del libro perché abbiamo la massima considerazione<br />
di ciò che essi hanno raggiunto nel campo<br />
147
148<br />
della educazione al diabete e della loro profonda conoscenza<br />
dell’empowerment. Il loro aiuto nell’organizzare e<br />
articolare le nostre riflessioni e le nostre esperienze è<br />
stato di incalcolabile valore.<br />
Con Lynn Arnold, Pat Barr e Pat Butler abbiamo lavorato<br />
alla ideazione, sviluppo e messa a punto iniziale del nostro<br />
Programma di Formazione sull’Empowerment per diabetes<br />
educator, mentre Cathy Feste ci ha sottoposto il suo programma<br />
di empowerment per pazienti affinché noi sviluppassimo<br />
strumenti di valutazione adeguati. Lavorare con<br />
tutti loro è stata non solo una gioia, ma una tappa cruciale<br />
per lo sviluppo della nostra filosofia dell’empowerment.<br />
Non avremmo potuto sviluppare questa linea di ricerca,<br />
né tantomeno scrivere questo libro, senza l’aiuto fraterno<br />
di tanti nostri colleghi, molti dei quali hanno contribuito<br />
raccontandoci esperienze e storie del loro lavoro.<br />
Riscontro, sostegno e incoraggiamento veramente impagabili<br />
ci sono venuti da Kelly Acton, Barbara Anderson,<br />
Gary Arsham, Susan Boehm, Florence Brown, Nugget<br />
Burkhart, Anita Carlson, Denise Charron-Prochownik,<br />
Claudia Chaufan, Margaret Christensen, Sue Cradock,<br />
Lisa Engle, Kris Ernst, Russ Glasgow, Chelsey Goddard,<br />
Linda Haas, Axel Hirsch, Joan Hoover, Hitoshi Ishii, Gail<br />
Klawuhn, Katsushiko Kubo, Suzanne Lucas, Dave Marrero,<br />
Harue Masaki, David McCulloch, Melba Mensch, Kentaro<br />
Okazaki, Noreen Papatheodorou, Mirjana Pibernic-<br />
Okanovic, Tracy Parkin, Lynne Robins, Cathy Roby, Jill<br />
Rodgers, Dawn Satterfield, Judith Schaefer, Nuha Saleh-<br />
Stattin, Charles Skinner, Mike Sullivan, Kris Swenson,<br />
Cheryl Tannas, Felipe Vazquez, Frank Vinicor, Elizabeth<br />
Walker, Rosemary Walker, Ruth Webber e Kimberlydawn<br />
Wisdom.<br />
Siamo grati a Carol Mosier per aver digitato e ridigitato<br />
innumerevoli volte il manoscritto senza mai la più piccola<br />
protesta. Sappiamo che non c’è nessuno più felice di lei<br />
nel veder terminato questo lavoro. Siamo anche ricono-
scenti verso Jules Lounsbury per il suo contributo al lavoro<br />
di battitura, così come lo siamo verso Sherrye Landrum<br />
per la sua supervisione editoriale: gentile, paziente e di<br />
grande valore.<br />
Infine, e sopra ogni cosa, noi vogliamo esprimere tutta la<br />
nostra riconoscenza ai pazienti che abbiamo incontrato.<br />
La maggior parte di ciò che abbiamo imparato sull’empowerment<br />
si deve a loro, alla loro disponibilità a farci entrare<br />
nelle loro vite, a farci condividere i loro pensieri, le loro<br />
speranze, i loro timori. Benché solo pochi di loro ne siano<br />
consapevoli, essi sono stati, in tutti questi anni di lavoro, i<br />
nostri insegnanti più rigorosi e persuasivi.<br />
149
Il diabete richiede alla medicina nuovi paradigmi nella<br />
relazione terapeuta-paziente. L’atteggiamento di empowerment<br />
intende aiutare le persone a trovare dentro di sé<br />
le risorse necessarie per fronteggiare la malattia. Questo<br />
significa per il terapeuta ascoltare i pazienti e le loro storie<br />
con attenzione e partecipazione, e imparare a fare le<br />
domande giuste. L’empowerment è un’arte più che una<br />
tecnica, che si impara giorno dopo giorno e che cambia il<br />
terapeuta almeno quanto il paziente.<br />
Bob Anderson, psicologo della formazione, da più di vent’anni<br />
si occupa di diabete. Docente di educazione sanitaria alla<br />
facoltà di Medicina dell’Università del Michigan, ricercatore<br />
presso il Diabetes Research and Training Center della stessa<br />
università, è uno dei massimi esperti di empowerment applicato<br />
al diabete.<br />
Martha Funnell, infermiera, diabetes educator con quasi<br />
vent’anni di esperienza nel campo dell’educazione al diabete,<br />
insegna alla facoltà di Scienze Infermieristiche e fa parte<br />
del Consiglio Direttivo del Diabetes Research and Training<br />
Center dell’Università del Michigan.<br />
00056980700 0708