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DIALOGO SUI PRECARI E IL CONTRATTO UNICO - ricerca gruppi

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D I A L O G O 1<br />

<strong>DIALOGO</strong> <strong>SUI</strong> <strong>PRECARI</strong><br />

E <strong>IL</strong> <strong>CONTRATTO</strong> <strong>UNICO</strong><br />

La precarietà è oggi la vera emergenza sul fronte del mercato<br />

del lavoro. Come affrontarla? Un contratto unico con tutele<br />

crescenti nel tempo può essere la soluzione? O, al contrario,<br />

non farebbe che aggravare il problema e indebolire<br />

ulteriormente i lavoratori? Un confronto schietto<br />

e approfondito su uno dei più gravi problemi del nostro paese.<br />

TITO BOERI / MASSIMO ROCCELLA<br />

Tito Boeri: La proposta del «contratto unico» è stata presentata per la<br />

prima volta dal professor Pietro Garibaldi e da me nel 2002 all’università<br />

Statale di Milano e poi sul sito lavoce.info.<br />

Da che cosa derivava questa nostra proposta, che naturalmente oggi, con<br />

questa crisi economica, ci sentiamo ancor più di rilanciare? All’origine<br />

c’era la constatazione che nel nostro mercato del lavoro fossero avvenuti<br />

una serie di sviluppi importanti, alcuni positivi altri molto meno. Noi cercavamo<br />

di affrontare le patologie che sembravano emergere e che sono diventate<br />

ancora più evidenti negli anni successivi. Siamo passati – e qui vi è<br />

la radice della grande trasformazione nel mercato del lavoro cui abbiamo<br />

assistito – da una fase di sostenuta crescita economica, in cui si registravano<br />

significativi tassi di crescita del prodotto interno lordo, non accompa-<br />

111


112 gnata però da un’altrettanto sostenuta capacità del sistema di generare<br />

nuovi posti di lavoro (è ciò che nelle pubblicazioni in lingua inglese viene<br />

definita jobless growth, crescita senza lavoro), a una situazione esattamente<br />

rovesciata, in cui la nostra economia è entrata in una fase di stagnazione<br />

che di fatto continua da circa la metà degli anni Novanta e tuttavia è<br />

riuscita a creare moltissimi posti di lavoro, più di 2 milioni.<br />

Quindi siamo passati dalla crescita senza posti di lavoro alla crescita del<br />

lavoro senza crescita economica, che – mutuando ancora un’espressione<br />

dall’inglese – potremmo definire growthless job creation.<br />

Perché è avvenuto tutto ciò? Senza dubbio c’è stato il contributo importante<br />

esercitato dall’immigrazione: in un paese immobile come il nostro<br />

gli immigrati sono andati a tappare dei buchi che l’offerta di lavoro degli<br />

italiani non riusciva a soddisfare. C’è stata poi una forte moderazione<br />

salariale, legata a vari fattori fra cui la stessa immigrazione e la comparsa,<br />

appunto, del precariato, che rappresenta l’effetto estremo del crescente<br />

dualismo del nostro mercato del lavoro.<br />

La ragione più importante dei cambiamenti intervenuti nel rapporto tra<br />

crescita economica e occupazione è proprio in questo dualismo. Dopo le<br />

più significative riforme del mercato del lavoro che sono state prodotte<br />

in Italia negli ultimi anni, la capacità del nostro sistema economico di<br />

creare occupazione è aumentata.<br />

Questo è un fenomeno – sulla cui analisi teorica abbiamo lavorato molto<br />

io e il professor Garibaldi – che abbiamo definito honeymoon, cioè «luna<br />

di miele»: quando in un mercato del lavoro che ha un regime di protezione<br />

dell’impiego abbastanza forte si introduce la possibilità per il datore<br />

di lavoro di assumere dei lavoratori molto flessibili e non eccessivamente<br />

tutelati, i datori di lavoro – durante fasi non negative del ciclo –<br />

possono costruirsi una specie di «cuscinetto» di lavoratori, i quali saranno<br />

i primi a essere mandati via qualora la situazione del ciclo dovesse<br />

peggiorare. Ecco perché può avvenire che, anche quando l’economia non<br />

va a gonfie vele, si registri un aumento dell’occupazione.<br />

Chiarito – per sommi capi – il quadro di fronte al quale ci troviamo, passiamo<br />

a vedere le patologie dalle quali è affetto, che sono principalmente<br />

tre.<br />

Il primo aspetto rimanda all’eccessiva complessità normativa determinata<br />

dalla moltiplicazione delle figure contrattuali. A questo ha contribuito<br />

un pensiero giuslavorista che riteneva importante diversificare le figure<br />

contrattuali; era un po’ l’idea della cassetta degli attrezzi, dello statuto<br />

dei lavori, attraverso i quali poter coprire una pluralità di prestazioni<br />

e di esigenze che nei rapporti di lavoro già esistono e in questo modo<br />

possono trovare una sorta di riconoscimento e «tipizzazione». A lungo<br />

andare questo approccio ha però prodotto una giungla molto intricata, e<br />

poco trasparente, di formule contrattuali in cui è difficile orientarsi sia<br />

da parte dei lavoratori che da parte dei datori di lavoro, i quali, infatti,<br />

hanno quasi sempre bisogno di rivolgersi a un consulente del lavoro.


Il secondo aspetto davvero grave e preoccupante concerne l’asimmetria<br />

molto forte che viene a crearsi nei trattamenti nel mercato del lavoro,<br />

asimmetria che penalizza soprattutto i giovani, perché sono loro a entrare<br />

nel mercato del lavoro da una porta secondaria, attraverso queste<br />

nuove tipologie contrattuali, senza riuscire ad accedere – nemmeno in un<br />

secondo momento – al mercato del lavoro cosiddetto primario. Questo<br />

spiega anche perché i lavoratori con i contratti precari sono pagati di<br />

meno degli altri: perché sono in una posizione contrattuale più debole.<br />

Le imprese non investono nella formazione di questi lavoratori perché<br />

sanno già che saranno i primi a dover andare via nel caso in cui le cose<br />

cominciassero ad andare male. Gli stessi lavoratori non hanno incentivi<br />

a investire nel capitale umano, che sarebbe poi il modo migliore da parte<br />

loro per tutelarsi contro i rischi di mercato.<br />

La terza patologia è forse quella più grave. I lavoratori precari sono destinati<br />

ad avere carriere lavorative discontinue, con frequenti episodi di<br />

disoccupazione e salari bassi. Con le nuove regole del regime previdenziale<br />

– un regime di tipo contributivo – questi lavoratori sono destinati<br />

ad arrivare alla fine della loro carriera lavorativa con dei trattamenti<br />

previdenziali molto bassi, in molti casi al di sotto del minimo vitale. È<br />

bene porsi ora questo problema, dal momento che a mio giudizio non<br />

può essere risolto rivedendo ulteriormente le regole a regime del nostro<br />

sistema previdenziale. La riforma del ’96, almeno a regime, funzionerà;<br />

cioè dal 2032 in poi avremo un sistema previdenziale sostenibile, quindi<br />

non c’è bisogno di tornarci sopra. Il problema di fondo è rivedere le regole<br />

del mercato del lavoro, perché è lì il nodo fondamentale da sciogliere.<br />

Non è possibile che questi lavoratori vengano lasciati in una situazione<br />

così svantaggiosa.<br />

Veniamo allora – molto sinteticamente – alla nostra proposta. Noi pensiamo<br />

che si debba superare questa stridente asimmetria tra i contratti a<br />

tempo indeterminato e le altre tipologie contrattuali, asimmetria che si è<br />

creata anche per l’incentivo fortissimo che le imprese hanno nel ricorrere<br />

ai contratti flessibili, dal momento che quelli a tempo indeterminato<br />

hanno fin da subito – o meglio, dopo il periodo di prova – regimi di protezione<br />

dell’impiego molto stringenti.<br />

Nella nostra proposta noi sosteniamo che si debbano creare degli standard<br />

minimi applicati a tutte le tipologie contrattuali; per esempio i contributi<br />

previdenziali devono essere gli stessi per tutti i tipi di lavori che<br />

vengono svolti, mentre allo stato attuale la diversità di trattamento contributivo<br />

implica uno sconto sul costo del lavoro per molte di queste tipologie<br />

contrattuali atipiche. In secondo luogo deve essere istituito un<br />

salario minimo orario, che deve tutelare tutti i lavoratori, e quindi anche<br />

quelli cosiddetti precari, i quali molto spesso hanno un potere contrattuale<br />

così basso da essere costretti a svolgere prestazioni a dei salari orari<br />

davvero bassissimi. Pensiamo solo al fatto che in Italia ci sono persone<br />

che percepiscono meno di 5 euro all’ora. Poi è necessario far pagare di<br />

113


114 più i contributi contro la disoccupazione, per chi assume con contratti a<br />

tempo determinato, affinché i datori di lavoro che ricorrono a contratti a<br />

termine siano maggiormente responsabilizzati dal momento che è più alta<br />

la possibilità da parte dei loro assunti di ritrovarsi disoccupati.<br />

Il nostro «contratto unico» si prefigge infine di rendere progressiva la costruzione<br />

delle tutele nei primi tre anni del rapporto lavorativo, in modo<br />

tale da non porre il datore di lavoro di fronte al forte deterrente all’assunzione<br />

costituito dalle garanzie contenute nel tradizionale contratto a<br />

tempo indeterminato. Il nostro «contratto unico» è da subito a tempo indeterminato,<br />

ma pone in essere una protezione contro il rischio di licenziamento<br />

economico che è crescente con la durata dell’impiego: ad esempio,<br />

un risarcimento pari a 15 giorni di retribuzione per ogni 3 mesi di<br />

lavoro, fino ad arrivare – dopo tre anni – al corrispettivo di sei mesi di<br />

retribuzione.<br />

I primi tre anni funzionano quindi come un periodo di inserimento, di<br />

prova, e questa formula già garantisce una maggiora tutela rispetto alla<br />

situazione attuale, in cui durante il periodo di prova si può essere licenziati<br />

da un giorno all’altro senza nessun tipo di compensazione. Dopo i<br />

tre anni si passa integralmente all’attuale normativa standard dei rapporti<br />

di lavoro.<br />

Perché, tuttavia, pensiamo che queste norme non sarebbero più un deterrente<br />

alle assunzioni, come è stato in passato? Perché nel corso dei tre<br />

anni si è investito nel capitale umano del lavoratore: a quel punto diventerebbe<br />

molto costoso per l’impresa privarsi del contributo di quel lavoratore<br />

e ricominciare a formarne un altro. La formazione – come ho accennato<br />

prima – è la tutela maggiore di cui oggi dispone il lavoratore,<br />

perché il datore di lavoro che ha investito nella sua formazione sa che in<br />

caso di licenziamento deve investire altrettanto nella formazione di un<br />

altro lavoratore. E questi costi rappresentano un grande deterrente al licenziamento.<br />

Massimo Roccella: Le proposte del professor Boeri e del professor Garibaldi<br />

possono essere discusse da un duplice punto di vista: da un punto di<br />

vista politico e da un punto di vista tecnico. Io partirei da quest’ultimo –<br />

riservandomi di toccare solo in seconda battuta gli aspetti politici – e più<br />

precisamente dall’analisi del presupposto teorico, degli assunti economici<br />

che sorreggono l’impianto propositivo del professor Boeri.<br />

Nel libro Un nuovo contratto per tutti, a pagina 49, si fa riferimento alle<br />

valutazioni dell’Ocse sulla rigidità dei mercati del lavoro. Testualmente<br />

si legge: «Per avere un quadro più preciso di cosa è successo in Italia<br />

in questi anni è bene rapportarsi a quanto avvenuto negli altri paesi Ocse.<br />

L’Italia vanta uno dei regimi di protezione all’impiego per lavoratori<br />

a tempo indeterminato più restrittivi dell’intera area Ocse».<br />

A questo punto mi sarei aspettato che si entrasse un po’ più nel dettaglio.<br />

È noto che tutti gli economisti di impostazione più o meno liberista, ma


anche i giuslavoristi che si ispirano alla stessa scuola di pensiero, hanno<br />

costruito le proprie proposte di liberalizzazione del mercato del lavoro, e<br />

segnatamente di liberalizzazione della disciplina dei licenziamenti, proprio<br />

basandosi sugli studi dell’Ocse. L’Ocse un po’ di anni addietro, attorno<br />

alla metà degli anni Novanta, aveva costruito un indice di protezione<br />

dell’impiego in base al quale si classificava, appunto, il grado di rigidità<br />

dei vari mercati del lavoro nazionali.<br />

Secondo questo indice – volendo sorvolare sul fatto che i criteri utilizzati<br />

dall’Ocse erano fortemente discutibili, anzi, valutati con l’ottica di un<br />

giurista, risultavano assolutamente arbitrari – l’Italia risultava in cima<br />

alla scala delle rigidità. Successivamente, nel 2004, l’Ocse ha riveduto le<br />

proprie stime e ha ammesso di essersi sbagliata; ha ammesso che quella<br />

scala classificatoria, per quanto riguardava il nostro paese, era basata su<br />

informazioni erronee, cosicché il grado di rigidità dell’impiego per il nostro<br />

paese, che negli anni Novanta secondo l’Ocse corrispondeva a un<br />

valore di 2,8, è precipitato a 1,8. Ebbene, di questa revisione di criteri<br />

non vi è traccia nei lavori degli economisti, né dei giuristi, che si sono rifatti<br />

agli studi dell’Ocse. E non ve n’è traccia neanche nel libro di Boeri<br />

e Garibaldi. Dunque Boeri e Garibaldi continuano a fare riferimento<br />

all’Ocse, sostenendo che il nostro mercato del lavoro sarebbe caratterizzato<br />

da uno dei regimi più restrittivi per quanto riguarda le tutele nei<br />

confronti del licenziamento, ma lo fanno trascurando dati della stessa<br />

fonte Ocse che oggi dicono esattamente il contrario.<br />

Sempre nel libro di Boeri e Garibaldi, a un certo punto si ventila l’ipotesi<br />

che in realtà la nostra legislazione in materia di licenziamenti non sarebbe<br />

in quanto tale così rigida, ma lo diventerebbe per via dell’applicazione giurisprudenziale.<br />

Dicono Boeri e Garibaldi: «Molti economisti e giuslavoristi<br />

hanno più volte sostenuto che la “giusta causa” con l’obbligo del reintegro<br />

inserita nello statuto dei lavoratori non è di per sé troppo rigida, non è il vero<br />

problema. Diventa invece tale a causa del comportamento dei giudici del<br />

lavoro, nell’esercizio dell’amplissimo potere discrezionale che la legge loro<br />

concede». E concludono: «Che sia frutto delle leggi o delle interpretazioni<br />

troppo rigide fornite dalla giurisprudenza, il risultato è lo stesso: licenziare,<br />

in Italia, è un’impresa davvero difficile» (pp. 53 s.). Anche in questo caso ci<br />

si aspetterebbe che vengano forniti dati a supporto di un’affermazione così<br />

impegnativa. Invece dati non se ne leggono; non se ne leggono nel libro di<br />

Boeri e Garibaldi e non se ne leggono neanche nelle opere di altri economisti<br />

che hanno sostenuto le medesime cose, come ad esempio in Goodbye Europa<br />

dei professori Francesco Giavazzi e Alberto Alesina. Nel libro di Giavazzi<br />

e Alesina si legge: «Non solo la legge impone severe restrizioni sui licenziamenti,<br />

ma perfino nel caso in cui i datori di lavoro si attengono a essa,<br />

spesso intervengono i giudici, decidendo solitamente in favore dei lavoratori»<br />

(p. 80). Anche qui non si portano dati a sostegno di affermazioni così<br />

impegnative.<br />

115


116 In ogni caso: esistono dati in proposito? I dati esistono, e non confortano le<br />

affermazioni che ho ricordato poco sopra. Prendiamo i più recenti dati<br />

Istat, pubblicati nel 2006, con riguardo alle controversie di lavoro in materia<br />

di licenziamenti. Ebbene, l’Istat ci dice che la media nazionale di accoglimento<br />

dei ricorsi in materia di licenziamenti, nel biennio 2003-2004, è<br />

stata di poco superiore al 60 per cento, per essere precisi il 61,3 per cento.<br />

Ma si badi bene che questo dato, che già è ben lontano dal suffragare la tesi<br />

secondo cui i giudici del lavoro sarebbero particolarmente disponibili nei<br />

confronti dei lavoratori (siamo di poco sopra al fifty-fifty), in realtà dice più<br />

di quanto non appaia. La serie dell’Istat è costruita prendendo in considerazione<br />

la causa in quanto tale, nella quale non rientrano solo i licenziamenti<br />

ma anche, ad esempio, le domande legate a questioni retributive. E<br />

quindi l’Istat calcola come ricorso accolto anche quello in cui sia stata accolta<br />

soltanto la richiesta di pagamento di differenze retributive, ma magari<br />

respinta la contestazione relativa al licenziamento.<br />

C’è poi la tesi sostenuta da altri studiosi della stessa area – penso a uno<br />

studio di alcuni anni fa degli economisti Andrea Ichino e Michele Polo e<br />

del più noto giurista Pietro Ichino – i quali cercarono di dimostrare che<br />

l’applicazione della disciplina sui licenziamenti sarebbe più rigida nelle<br />

aree meridionali del paese, perché i giudici sarebbero – come dire? –<br />

mossi da compassione per il povero lavoratore impossibilitato a reperire<br />

facilmente un nuovo posto di lavoro. Tale studio è di un rigore metodologico<br />

pressoché pari a zero. A suo tempo lo commentai in questi termini<br />

e oggi vedo che i dati Istat ancora una volta mi danno ragione: la medesima<br />

rilevazione che ricordavo prima segnala che la percentuale di accoglimento<br />

dei ricorsi scende al 53 per cento al Sud, al 51 per cento nelle<br />

isole, mentre è al 60,8 per cento nel Nord-Ovest, al 57 per cento nel<br />

Nord-Est e addirittura al 68,3 per cento al centro. Quindi non è affatto<br />

vero che i giudici meridionali siano più propensi a riconoscere le ragioni<br />

dei lavoratori, semmai lo sono meno.<br />

Dunque tutte le cose che si sono scritte per sostenere, in primo luogo, che<br />

la nostra legislazione in materia di licenziamento è particolarmente restrittiva<br />

e, in secondo luogo, che, quand’anche non lo fosse, molto restrittivi<br />

sarebbero i giudici del lavoro, non soltanto non riposano su dati<br />

empirici, ma anzi sono da questi contraddette.<br />

Questa è la cornice teorica entro la quale è formulata anche la proposta<br />

del «contratto unico», ed è evidente che se la cornice teorica non regge<br />

alla prova empirica anche la proposta concreta ne risulta compromessa.<br />

Ora, per quanto concerne l’analisi di tale specifica proposta, sarà una<br />

deformazione professionale, ma i giuristi sono abituati a utilizzare le parole<br />

con proprietà di linguaggio e quindi se dicono «contratto unico», intendono<br />

dire proprio «contratto unico». Invece nella proposta di Boeri e<br />

Garibaldi il contratto unico non è affatto un contratto unico. È un contratto<br />

ulteriore, nel senso che verrebbe introdotta una nuova tipologia<br />

contrattuale che si affiancherebbe a tutte quelle oggi esistenti, le quali ri-


marrebbero perfettamente in vita così come sono, grossomodo identiche.<br />

Ma questo contratto non sarebbe rivolto a una specifica tipologia di lavoratori<br />

o a un segmento del mercato del lavoro, poniamo ad esempio<br />

quello dei giovani. Il contratto unico sarebbe di applicazione generalizzata,<br />

sarebbe in altri termini la modalità (potenziale) di ingresso nel<br />

mercato del lavoro per tutti coloro che verrebbero assunti dal giorno successivo<br />

all’introduzione nell’ordinamento del preteso contratto unico.<br />

Ora: questo contratto potrebbe essere uno strumento per migliorare le<br />

condizioni lavorative e le tutele rispetto alle situazioni attualmente esistenti?<br />

No, sfortunatamente le peggiorerebbe. Il contratto unico sarebbe<br />

sì un contratto a tempo indeterminato, ma si badi bene che «contratto a<br />

tempo indeterminato» non è affatto sinonimo di impiego stabile, tant’è<br />

vero che all’inizio del secolo scorso – non voglio farla troppo lunga, ma<br />

non si può evitare di ricordarlo – furono proprio le imprese a battersi<br />

perché fosse legittimato, in un sistema che allora lo negava, il contratto<br />

di lavoro a tempo indeterminato, naturalmente con clausola di licenziamento<br />

libero incorporata. E di questo appunto si tratta nel caso della<br />

proposta dei professori Boeri e Garibaldi: un contratto a tempo indeterminato<br />

con libertà di licenziamento nei primi tre anni di durata del rapporto.<br />

Boeri e Garibaldi insistono molto sul fatto che alla scadenza del contratto<br />

a termine il lavoratore non ha diritto ad alcunché, ma dimenticano di<br />

dire che durante il periodo di vigenza di un contratto a termine i lavoratori<br />

sono assistiti dal massimo grado di stabilità, nel senso che è impossibile<br />

sciogliersi legittimamente da un contratto a termine. Il contratto a<br />

termine è connotato da quella che i giuristi chiamano efficacia reale per<br />

ambedue le parti del rapporto, il che vuol dire che se un datore di lavoro<br />

volesse risolvere dopo ad esempio tre mesi un contratto a termine della<br />

durata di tre anni sarebbe tenuto a corrispondere al lavoratore un risarcimento<br />

del danno pari alle retribuzioni dei 33 mesi restanti; mentre, nel<br />

caso della proposta di Boeri e Garibaldi, un datore di lavoro che avesse la<br />

stessa bella idea sarebbe tenuto a corrispondere un indennizzo pari a 15<br />

giorni di retribuzione. Come si vede, la differenza non è di poco conto.<br />

Nell’analisi di Boeri e Garibaldi c’è inoltre un errore di diritto. Boeri e<br />

Garibaldi evidentemente pensano che allo stato attuale, durante il periodo<br />

di prova, i datori di lavoro possano fare quello che vogliono. Questo<br />

sarebbe vero se fossimo ancora nel 1979. Si ignora che, dal 1980, c’è<br />

stata un’evoluzione alquanto significativa nel nostro diritto del lavoro.<br />

Per effetto di una sentenza della Corte costituzionale è stato chiarito che<br />

i datori di lavoro possono sì licenziare liberamente durante il periodo di<br />

prova, ma il lavoratore ha diritto di rivolgersi al giudice e di dimostrare<br />

che il licenziamento non è stato affatto dovuto al mancato superamento<br />

della prova, ma ad altre ragioni, con tutte le conseguenze del caso.<br />

Quindi, come si vede, qui si prospetta davvero un bel salto da un sistema<br />

che riconosce un significativo apparato di tutele, a uno che non ne rico-<br />

117


118 nosce affatto. Quello suggerito da Boeri e Garibaldi è, a mio parere, un<br />

salto nel vuoto.<br />

Boeri: I giuristi e gli economisti utilizzano metodi e strumenti analitici diversi<br />

tra di loro, per cui non necessariamente le valutazioni convergono.<br />

Però non per questo io ritengo che il lavoro dei giuristi sia inutile o in qualche<br />

modo lo giudico con i toni che ha appena usato il professor Roccella.<br />

Detto questo, l’indice dell’Ocse è stato rivisto perché nelle sue versioni precedenti,<br />

quando veniva usato agli inizi degli anni Novanta, erano stati inseriti<br />

fra i costi di licenziamento anche e soprattutto i trattamenti legati al<br />

tfr, e quindi alla liquidazione. È noto che il tfr nasce come uno strumento<br />

di severance (di indennità), ma la liquidazione viene concessa anche a chi<br />

si separa volontariamente da un’impresa, quindi non è legittimo considerarla<br />

parte integrante dei costi legati al licenziamento. Tuttavia, i lavoratori<br />

che hanno scelto di affidare il tfr ai fondi pensione hanno vissuto questa<br />

scelta come riduzione delle tutele contro i licenziamenti. Inoltre, anche nelle<br />

graduatorie corrette dell’Ocse – ed è a queste che noi ci riferiamo nel nostro<br />

libro – l’Italia è comunque tra i paesi più rigidi. Lo si vede prendendo<br />

in considerazione gli indici specifici per i contratti cosiddetti regolari, cioè<br />

quelli a tempo indeterminato, non se invece si considerano i contratti temporanei.<br />

D’altra parte la legislazione sui contratti a tempo indeterminato è<br />

rimasta la stessa, come l’Ocse rileva, e infatti il punteggio dell’Italia è rimasto<br />

invariato dagli anni Ottanta in poi.<br />

Anche la legislazione sui licenziamenti collettivi è molto restrittiva in Italia<br />

secondo le classifiche e i parametri dell’Ocse. Questi ultimi sono chiaramente<br />

delle misure perfettibili, come anche la nostra discussione dimostra,<br />

ma comunque sono in linea con le valutazioni che molti altri<br />

hanno effettuato delle rigidità dei sistemi di protezione dell’impiego in<br />

diversi paesi.<br />

Ora, in Italia sono state fatte delle riforme importanti nel regime di protezione<br />

dell’impiego, legate appunto all’introduzione dei contratti temporanei.<br />

Oggi i vari contratti atipici costituiscono il canale principale di<br />

ingresso nel mondo del lavoro: sappiamo che il 70 per cento dei lavoratori<br />

sotto i 40 anni viene assunto tramite queste nuove formule contrattuali.<br />

Per cui, quando l’Ocse nel corso del tempo aggiorna i suoi indicatori,<br />

è evidente che recepisce anche le novità della legislazione. E questo<br />

spiega – come il professor Roccella avrebbe dovuto tener presente – la<br />

diminuzione del punteggio attribuito all’Italia. Tale diminuzione è dovuta<br />

unicamente ai contratti atipici, non ai contratti regolari, la cui rigidità<br />

è rimasta uguale nel corso del tempo.<br />

Fatta questa precisazione, perché definiamo la nostra proposta «contratto<br />

unico»? Perché questo è il tipo di struttura che vorremmo assumesse<br />

il mercato del lavoro in Italia. L’idea è che il contratto a tempo indeterminato<br />

deve tornare a essere la modalità principale di ingresso nel mercato<br />

del lavoro, per tutti. Noi siamo contrari a dei trattamenti specifici<br />

per i giovani, perché i trattamenti specifici sono quelli che spesso porta-


no a delle condizioni di dualismo e di segregazione. Credo che la lezione<br />

principale che si debba trarre da ciò che è successo in tutti questi anni è<br />

che, quando si creano dei regimi ad hoc per alcune categorie di lavoratori,<br />

esiste sempre fortissimo il rischio di una segregazione.<br />

Negli ultimi anni chi è entrato nel mercato del lavoro attraverso le collaborazioni<br />

coordinate e continuative, i contratti a progetto oppure i contratti<br />

a tempo determinato, è sempre vissuto con la paura di veder interrotto<br />

improvvisamente il rapporto di lavoro. E questa paura può anche<br />

generare profezie che si autoavverano, perché i lavoratori che vivono tali<br />

situazioni sono anche quelli con i minori incentivi alla formazione,<br />

all’investimento nel proprio capitale umano, e quindi quelli che si trovano<br />

più esposti ai rischi del mercato.<br />

Tutto ciò è molto importante per capire il significato della nostra proposta.<br />

Non pensiamo che sia giusto proibire tutti gli altri contratti oggi esistenti,<br />

perché tale misura comporterebbe il serio rischio di distruggere<br />

posti di lavoro. Ciò che vogliamo fare è incentivare i datori di lavoro a<br />

utilizzare il contratto a tempo indeterminato come modalità principale<br />

di assunzione anche dei giovani, uscendo dunque dall’impasse e dal dualismo<br />

che caratterizza l’attuale mercato del lavoro. A tal fine il nostro<br />

schema suggerisce di uniformare i livelli base di garanzia per tutti i lavoratori<br />

ed eliminare così quell’elemento di deterrenza all’assunzione costituito<br />

dall’assetto dell’attuale contratto a tempo indeterminato. Così il<br />

datore di lavoro non sarebbe più obbligato a impegnarsi fin dall’inizio in<br />

un rapporto necessariamente di lunga durata nei confronti del lavoratore.<br />

Teniamo conto che negli ultimi anni la composizione della nostra forza<br />

lavoro è molto cambiata: ci sono molti immigrati, ci sono molte persone<br />

su cui è anche difficile acquisire a priori delle informazioni adeguate<br />

per capirne la qualità lavorativa, e quindi mi pare ragionevole che il<br />

datore di lavoro disponga di un certo periodo di tempo nel quale possa<br />

acquisire informazioni sul lavoratore e valutarne le prestazioni.<br />

Quanto alla critica mossa dal professor Roccella secondo la quale il nostro<br />

contratto abbasserebbe le tutele, rispondo che non è affatto vero. Sicuramente<br />

le innalzerebbe moltissimo rispetto a coloro che entrano nel mercato<br />

del lavoro con le modalità attuali. Poiché è sicuramente molto più forte<br />

la protezione garantita da un contratto a tempo indeterminato sul modello<br />

del nostro «contratto unico», rispetto a quella garantita dai contratti di<br />

collaborazione coordinata e continuativa (nella pubblica amministrazione)<br />

o dai contratti a progetto (nel settore privato). Nei casi appena citati<br />

c’è chiaramente un impegno a portare a termine il contratto, ma non c’è<br />

nessun tipo di vincolo o di costo che impedisca al datore di lavoro di disfarsi<br />

semplicemente del lavoratore alla scadenza del contratto.<br />

E questi contratti costituiscono oggi la modalità principale di ingresso nel<br />

mercato del lavoro, di fronte alla quale la possibilità di un contratto a tempo<br />

indeterminato, con tutele crescenti nel corso del tempo e con un approdo<br />

ultimo nell’alveo della legislazione attualmente in vigore per i contratti<br />

119


120 a tempo indeterminato, rappresenta senza dubbio un miglioramento considerevole.<br />

Significa non avere più di fronte agli occhi una scadenza, con<br />

tutti i disagi, anche a livello esistenziale, che questa comporta.<br />

Roccella: Innanzitutto mi dispiace se il professor Boeri se l’è presa. Io – si<br />

sa – discuto sempre con molto calore, ma voglio rassicurarlo che ho la massima<br />

stima per gli studiosi di altre discipline e in particolare per gli economisti,<br />

tant’è che ho accettato di far parte della redazione della neonata rivista<br />

telematica Economia e politica. Quindi il problema non è questo; il problema<br />

è che quando si discute, soprattutto fra studiosi di diverse discipline,<br />

bisogna avere un minimo di codice comunicativo comune. E non si possono<br />

cambiare le carte in tavola. Ho davanti a me uno scritto di Emilio Rayneri,<br />

che è uno dei più prestigiosi sociologi del lavoro italiani. Commentando<br />

l’evoluzione dei dati Ocse di cui si è parlato, Rayneri dice testualmente:<br />

«Dopo la revisione dell’indice Ocse, il valore di tale indice precipita a 1,8.<br />

L’Italia risulta così sin dalla fine degli anni Ottanta tra i paesi europei ove i<br />

rapporti di lavoro a tempo indeterminato sono meno protetti contro i licenziamenti<br />

individuali». Perché, si faccia attenzione su questo punto, l’indice<br />

Ocse è stato costruito sui rapporti di lavoro a tempo indeterminato. I lavori<br />

atipici non c’entrano, sono un’altra cosa.<br />

Per quanto concerne i licenziamenti collettivi, cui ha accennato il professor<br />

Boeri, una delle ragioni per la quale le analisi dell’Ocse sono sempre<br />

apparse poco convincenti – almeno secondo una valutazione di tipo giuslavoristico<br />

– sta nel fatto che esse sono incentrate sui licenziamenti individuali,<br />

mentre per valutare il grado di rigidità di un mercato del lavoro<br />

bisogna sempre ricordare che esistono due tipi di licenziamenti: gli individuali<br />

e, appunto, i collettivi.<br />

Ebbene, al contrario di quanto ha appena sostenuto il professor Boeri,<br />

nel nostro paese il licenziamento collettivo è facilissimo. La legislazione<br />

in materia di licenziamenti collettivi si fonda su una direttiva europea alla<br />

quale il nostro paese si è uniformato, e lo ha fatto con ritardo e al livello<br />

più basso possibile. Ciò che differenzia il nostro sistema di protezione<br />

dell’impiego da quelli propri dei paesi più avanzati, come Francia<br />

e Germania, è che in questi paesi gli imprenditori che vogliono effettuare<br />

un licenziamento collettivo sono obbligati a predisporre dei costosissimi<br />

piani sociali di accompagnamento dei lavoratori licenziati. Da noi<br />

non c’è nulla di tutto ciò. Da noi fare un licenziamento collettivo è la cosa<br />

più facile del mondo. Quindi, per favore, non scherziamo su queste<br />

cose, che hanno un fondamento normativo ed empirico a tutti noto.<br />

Ritorniamo al contratto unico. Ribadisco: qui davvero si rischia di parlare<br />

due linguaggi diversi. Non ha nessun senso comparare le mele con le<br />

pere e dire, ad esempio, che alla scadenza di un contratto a termine il lavoratore<br />

non ha diritto a nulla, mentre nel caso del contratto unico sin<br />

dall’inizio avrebbe diritto a qualche cosa. Bisogna comparare situazioni<br />

omogenee. Quello che è certo è che, se tu sei licenziato durante un contratto<br />

a termine in maniera arbitraria, hai diritto a un risarcimento inte-


grale del danno, corrispondente alle retribuzioni del periodo sino al termine<br />

originario del rapporto, mentre nel caso del contratto unico ventilato<br />

da Boeri e Garibaldi, il risarcimento sarebbe veramente irrisorio.<br />

Ma andiamo al punto di sostanza. La proposta del contratto unico viene<br />

formulata come tentativo di superare la segmentazione del mercato del lavoro,<br />

ma in realtà darebbe luogo a una segmentazione ben più profonda e<br />

strutturale perché Boeri e Garibaldi immaginano che al termine del triennio<br />

il datore di lavoro, avendo investito in capitale umano, sarebbe portato –<br />

come dire? – quasi automaticamente a confermare il lavoratore in servizio<br />

con tutte le tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ma le cose<br />

non stanno affatto così: questa è una rappresentazione semplificata del<br />

mercato del lavoro, come se esistessero imprese tutte identiche e lavoratori<br />

tutti identici. In particolare l’offerta di lavoro è assolutamente diversificata:<br />

ci sono lavoratori con competenze molto elevate ed altri con competenze<br />

molto basse, destinati a mansioni per il cui espletamento è necessario e sufficiente<br />

un brevissimo periodo di prova, non certamente tre anni come immaginano<br />

Boeri e Garibaldi. Pensate che per imparare a fare il cassiere di<br />

un supermercato sia necessario un periodo di inserimento di tre anni? E<br />

pensate che al termine del triennio non sarebbe molto più conveniente per<br />

il datore di lavoro licenziare quel lavoratore e assumerne un altro, sempre<br />

con clausola di licenziamento incorporata? La verità è che in questo modo<br />

si finirebbe col creare una casta molto ristretta di lavoratori che accederebbero<br />

al beneficio dell’articolo 18, circondata da un vastissimo settore del<br />

mercato del lavoro che alla stabilità non arriverebbe mai. Allora sì, a quel<br />

punto l’articolo 18 diventerebbe un privilegio e si creerebbero le condizioni<br />

per la sua abrogazione definitiva.<br />

Boeri: Io sono abituato a usare i dati ufficiali e non a citarli di seconda<br />

mano attraverso i libri di altri. I dati Ocse ci dicono che sui licenziamenti<br />

collettivi l’Italia ha un punteggio di 4,9, che mi sembra essere il punteggio<br />

più alto tra i paesi europei.<br />

Un fatto importante che è intervenuto nel nostro mercato del lavoro negli<br />

ultimi dieci anni è costituito dal considerevole aumento dei posti di<br />

lavoro. È un risultato che a mio giudizio non va assolutamente perso: noi<br />

dobbiamo riuscire a trovare un modo per garantire una serie di diritti e<br />

tutele ai lavoratori, che siano però compatibili con la possibilità da parte<br />

del sistema di creare dei posti di lavoro. Ed è per questo che non pensiamo<br />

che la soluzione sia quella di buttare via tutto ciò che è stato fatto<br />

negli scorsi anni.<br />

Io non so quale sia la proposta del professor Roccella per superare il dualismo<br />

del mercato del lavoro. Immagino, da ciò che dice, che lui proponga<br />

di abolire tutti i contratti a termine, tutte le figure atipiche, e di lasciare<br />

come unica tipologia contrattuale il contratto a tempo indeterminato.<br />

Questo ci riporterebbe esattamente alla situazione pre-’94, con le<br />

relative patologie del sistema di allora, un livello di disoccupazione doppio<br />

di quello attuale nel lungo periodo.<br />

121


122 Bene, la nostra proposta è diversa. È una proposta che dà delle tutele decisamente<br />

superiori a quelle di cui gode la maggior parte delle persone<br />

che entra oggi nel mercato del lavoro. Il termine di paragone del nostro<br />

«contratto unico» non può essere – come suggerisce il professor Roccella<br />

– solo l’attuale contratto a tempo indeterminato, ma anche tutti quei<br />

contratti atipici che oggi sono il principale canale di inserimento nel<br />

mondo del lavoro.<br />

Mi si chiede che cosa impedisce al datore di lavoro, dopo tre anni, di licenziare<br />

il lavoratore? In primis ci sono questi sei mesi di indennità che dovrebbero<br />

essere corrisposti al lavoratore e che oggi non ci sono. Oggi il datore<br />

di lavoro non deve pagare assolutamente nulla quando, al termine del<br />

contratto, decide di non rinnovarlo. Tra l’altro i contratti a tempo determinato<br />

e le collaborazioni coordinate e continuative hanno una durata media<br />

di un anno, un anno e mezzo, quindi le mensilità residue nel caso di lincenziamento<br />

prima della scadenza, di cui parlava prima il professor Roccella,<br />

sono più o meno al livello dei pagamenti che noi prevediamo. Inoltre,<br />

c’è il costo di formare un altro dipendente, un costo molto elevato. Infine –<br />

ripeto – c’è anche da considerare il problema dei salari minimi, che è molto<br />

importante, perché un conto è pagare sei mensilità a un salario di 5 euro<br />

l’ora, un altro conto è invece dover ottemperare a un minimo salariale<br />

più consistente e pagare le indennità sulla base di quel minimo.<br />

Detto questo, ripeto che il problema vero di fronte al quale ci troviamo è<br />

di riuscire a valorizzare i risultati ottenuti negli ultimi dieci anni in termini<br />

occupazionali (forte incremento dell’occupazione e riduzione della<br />

disoccupazione, in particolare della disoccupazione giovanile), eliminando<br />

però le patologie che si sono venute a creare, prima fra tutte questo<br />

dualismo del nostro mercato del lavoro. La nostra è una proposta che<br />

cerca di portare aventi parallelamente entrambi questi obiettivi.<br />

Roccella: Innanzitutto la questione della creazione dei posti di lavoro.<br />

Come sicuramente il professor Boeri non ignora, questa tesi è molto contestata.<br />

Del resto, nello stesso libro di Boeri e Garibaldi si riconosce ciò<br />

che tutti in realtà sanno, ovvero che buona parte dei nuovi posti di lavoro<br />

è frutto dell’emersione dal sommerso dovuta alla regolarizzazione dei<br />

lavoratori immigrati.<br />

Questo è un punto davvero importante, perché non ci si può limitare a dire<br />

che l’Italia sarebbe passata da una situazione di crescita senza occupazione<br />

a una situazione di crescita dell’occupazione senza crescita economica. Beh,<br />

qui ci sarebbe un vero e proprio salto di paradigma teorico che meriterebbe<br />

di essere spiegato un po’ più accuratamente. Siccome non abbiamo il tempo<br />

di approfondire più di tanto, mi limito a dire che forse la questione è un<br />

po’ più complicata di come la mettono Boeri e Garibaldi.<br />

Forse la spiegazione dell’apparente crescita di posti di lavoro è di carattere<br />

eminentemente statistico. Mi spiego cercando di semplificare molto:<br />

quando cresce l’occupazione i lavoratori di solito stanno meglio perché<br />

cresce anche il loro reddito. Invece è noto che le cose sono andate ben di-


versamente nel nostro paese. Allora si può avanzare l’ipotesi che in<br />

realtà non siano stati creati più posti di lavoro – intendendo come tali i<br />

posti di lavoro quanto meno a tempo pieno – ma ci sia stata solamente<br />

una redistribuzione dell’occupazione fra figure lavorative precarie.<br />

Ma se, invece che ragionare in termini rozzamente statistici, discutessimo<br />

in termini di volume di occupazione, allora ci accorgeremmo che il<br />

volume dell’occupazione non è affatto cresciuto, e questo spiega agevolmente<br />

perché i lavoratori stanno peggio e non meglio di prima.<br />

Boeri dimostra ancora una volta di ignorare dati elementari del diritto<br />

del lavoro. Ecco: supporre che io, o chiunque altro, voglia ritornare a<br />

una situazione pre-’94 in cui sarebbe esistito soltanto il contratto di lavoro<br />

a tempo indeterminato, questo sì è davvero un po’ offensivo.<br />

In primo luogo, prima del 1994 non esisteva soltanto il contratto di lavoro<br />

a tempo indeterminato: il contratto a termine, ad esempio, esiste da<br />

tempo immemorabile e già prima del 1994 era stato ampiamente flessibilizzato.<br />

Ma il punto non è questo. Il mercato del lavoro, va ribadito ancora<br />

una volta, non è una cosa omogenea; il mercato del lavoro è necessariamente<br />

articolato, nel mercato del lavoro non esistono soltanto posti di<br />

lavoro a tempo pieno e indeterminato. Io vorrei arrivare a una situazione<br />

in cui, quando si è di fronte a esigenze produttive stabili, si venga assunti<br />

con un contratto di lavoro a tempo indeterminato, mentre l’occupazione<br />

temporanea sia riservata soltanto a rapporti di lavoro che rispondono a<br />

esigenze obiettivamente temporanee. Poi – guardi come sono estremista –<br />

vorrei arrivare a una situazione in cui, quando si svolge un rapporto di lavoro<br />

dipendente, si sia assunti con un contratto di lavoro subordinato (e<br />

non impiegati, in maniera truffaldina, come co.co.co. o lavoratori a progetto,<br />

come avviene, ad esempio, nei call center), e quando si svolge un<br />

rapporto di lavoro autonomo, si impieghi viceversa il contratto d’opera.<br />

Ma chi sostiene, oltre a me, queste cose? Le sosteneva il programma<br />

dell’Unione. Ecco, quello era un buon programma di politica del lavoro:<br />

non è stato realizzato, e adesso è inutile discutere se per mancanza di volontà<br />

o di possibilità. Sappiamo come sono andate le cose in quel biennio,<br />

sappiamo anche che quel governo aveva una maggioranza parlamentare<br />

esigua. In ogni caso, la mia prospettiva è esattamente quella di una «ri-regolamentazione»<br />

del mercato del lavoro che distingua situazioni diverse,<br />

ma anche che non sia ispirata da un falso riformismo.<br />

Boeri: Di desideri è lastricata la via dell’inferno. Speravo in proposte, invece<br />

ascolto solo slogan. Dire che sarebbe giusto che i contratti a tempo determinato<br />

venissero usati per prestazioni genuinamente temporanee e che<br />

i contratti di collaborazione coordinata e continuativa dovrebbero essere<br />

riservati a dei rapporti di lavoro veramente autonomo è una bellissima cosa.<br />

Sono assolutamente d’accordo. Sappiamo benissimo, però, che questo<br />

non avviene; e la ragione per cui non avviene è che non basta scriverlo in<br />

una legge o in un programma elettorale. Bisogna trovare gli strumenti, gli<br />

incentivi, le modalità per far sì che poi questo avvenga.<br />

123


124 Manteniamoci ai fatti, a partire dalla questione dei volumi di lavoro. Le<br />

ore lavorate in Italia nell’ultimo decennio sono aumentate assieme al numero<br />

di persone impiegate. Questi sono i dati sui volumi di lavoro. E ritengo<br />

non ci siano altri modi di misurare il lavoro.<br />

Certamente il fatto che si sia creato molto lavoro tramite questi contratti a<br />

tempo determinato, legati spesso a salari molto bassi, ha fatto sorgere molto<br />

malcontento in un numero assai elevato di lavoratori. La nostra proposta<br />

cerca di affrontare questa insoddisfazione alla radice, indicando degli strumenti<br />

con i quali tali problemi possono essere risolti, cioè fornisce incentivi<br />

all’assunzione a tempo indeterminato e scoraggia l’abuso di formule contrattuali<br />

improprie rispetto all’effettiva prestazione lavorativa. Secondo le<br />

nostre stime, con il «contratto unico» che proponiamo il 90 per cento delle<br />

assunzioni tornerebbero a essere a tempo indeterminato.<br />

Rompere il dualismo presente nell’attuale mercato del lavoro dovrebbe<br />

essere la priorità di ogni politica del lavoro oggi in Italia. Siamo di fronte<br />

a un’enorme questione generazionale, perché coloro che per primi pagano<br />

sulla propria pelle l’attuale dualismo sono i giovani, che sistematicamente<br />

sono costretti a subire una condizione di discriminazione e inferiorità.<br />

Negli ultimi quindici anni il rapporto tra salari di ingresso e salari<br />

medi si è considerevolmente abbassato e le carriere lavorative sono diventate<br />

discontinue. E tutto ciò rimanda al problema di sostenibilità nel<br />

lungo periodo a cui ho fatto cenno nel mio primo intervento.<br />

Formulando la nostra proposta abbiamo cercato di tenere conto delle<br />

reazioni che il mercato ha di fronte a qualsiasi innovazione legislativa,<br />

anche perché spesso in Italia – e le conseguenze sono sotto gli occhi di<br />

tutti – si è legiferato ignorando questi problemi.<br />

Io non credo che chi ha introdotto queste nuove tipologie contrattuali nel<br />

nostro ordinamento pensasse che avrebbero generato una situazione di<br />

dualismo così pronunciato, in cui per altro non vi è possibilità di comunicazione<br />

e passaggio da un settore all’altro (da quello del lavoro precario<br />

a quello del lavoro stabile).<br />

Tuttavia questo è ciò che è avvenuto e non possiamo non tenerne conto,<br />

non possiamo non aggiornare le nostre analisi alla luce dei risultati<br />

dell’esperienza e non calibrare le nostre proposte sulle previsioni che<br />

possono essere effettuate con i nuovi dati di cui disponiamo.<br />

C’è anche da ricordare, come dicevo all’inizio, che il contratto unico si<br />

inserisce all’interno di un quadro organico di riforme che vanno dal salario<br />

minimo orario agli ammortizzatori sociali, di cui trattiamo in maniera<br />

molto più approfondita nel nostro libro.<br />

In queste settimane si sono lette anche altre proposte su questo argomento.<br />

Per esempio quella di Ichino che, per come io ho avuto modo di<br />

conoscerla, riprende in parte il principio che ha ispirato il nostro ragionamento,<br />

ovvero l’idea di costruire delle tutele progressive con la durata<br />

dell’impiego e di aumentare anche il contenuto risarcitorio delle tutele<br />

stesse, anch’esso peraltro proporzionato alla durata dell’impiego. Tutta-


via la proposta di Ichino non prevede che il lavoratore, alla scadenza del<br />

terzo anno, cominci a godere della protezione dell’obbligo di reintegro in<br />

caso di licenziamento senza giusta causa. Questa mi sembra la differenza<br />

più importante che c’è tra le due proposte. La nostra mantiene in vigore<br />

l’articolo 18, che scatta dopo il terzo anno di contratto: a quel punto,<br />

infatti, non crediamo che possa costituire un deterrente all’assunzione,<br />

e quindi può benissimo rimanere all’interno del nostro ordinamento.<br />

D’altra parte anche Ichino avverte la necessità di rafforzare il nostro sistema<br />

di ammortizzatori sociali. Per fortuna questa questione è finalmente<br />

entrata nel lessico e nella discussione politica in Italia, dopo anni<br />

in cui si è colpevolmente sottovalutato il problema.<br />

Non mi sembra invece che Ichino nella sua bozza affronti la questione del<br />

salario minimo. Per noi è parte integrante della riforma. Il contratto unico<br />

agisce sulla quantità e stabilità del lavoro. Il salario minimo sulla sua remunerazione.<br />

Sul salario minimo era uscita prima delle elezioni una proposta<br />

del leader del Pd Veltroni, ma francamente non era molto chiara.<br />

Roccella: Che cosa si può dire in conclusione? Si può provare a formulare<br />

una valutazione degli effetti che le proposte di Boeri e Garibaldi<br />

avrebbero sul mercato del lavoro italiano.<br />

Ma per fare questa valutazione è necessario prima chiedersi a che cosa servano<br />

le regole di diritto del lavoro, in particolare le protezioni contro il licenziamento.<br />

Ora, dopo anni di studi e ricerche, non c’è nessuna evidenza<br />

empirica che sia stata in grado di dimostrare un qualche nesso fra regimi di<br />

protezione dell’occupazione e andamento dei livelli occupazionali. La verità<br />

è un’altra: le protezioni contro il licenziamento rafforzano i lavoratori nel<br />

rapporto di lavoro e, ovviamente, rafforzano la loro propensione a iscriversi<br />

al sindacato, rendendone così più forte la capacità rivendicativa.<br />

Ora, con una prospettiva come quella delineata da Boeri e Garibaldi,<br />

tutto questo rischierebbe di scomparire nel giro di pochi anni. È del tutto<br />

evidente che lavoratori sottoposti al ricatto del licenziamento, nel periodo<br />

di inserimento triennale si guarderebbero bene dall’iscriversi al<br />

sindacato. Ma in realtà se ne guarderebbero bene anche dopo, perché<br />

nell’eventualità di un licenziamento successivo dovrebbero ricominciare<br />

la via crucis di un nuovo inserimento nel mercato del lavoro, sempre con<br />

un contratto apparentemente a tempo indeterminato, ma in realtà strutturalmente<br />

precario. E l’effetto sarebbe veramente devastante perché,<br />

come lo stesso Boeri ha confermato, qui non si tratta di una formula di<br />

inserimento per i giovani; qui si tratta di una formula contrattuale applicabile<br />

a tutto il mercato del lavoro.<br />

Da un punto di vista politico, che dire? Qui le valutazioni sono piuttosto<br />

sconsolate. Mentre sul versante dell’opposizione parlamentare si riprende a<br />

discutere sulla necessità di mettere mano (nel senso di «manomettere»)<br />

all’articolo 18, sul versante della maggioranza di governo si procede diritti<br />

come un carro armato. Mentre da parte dell’opposizione ci si balocca con<br />

queste proposte astratte e astruse, il governo sta infatti per approvare – è<br />

125


126 proprio questione di pochi giorni – un progetto di legge che inciderà in maniera<br />

radicale sul nostro diritto del lavoro e sull’effettività dei diritti dei lavoratori.<br />

Si tratta dell’introduzione di una forma di arbitrato sostanzialmente<br />

obbligatorio e per giunta di equità (dunque con piena libertà per gli<br />

arbitri di non applicare le norme di legge e di contratto collettivo, bensì di<br />

decidere la controversia secondo discrezionali criteri di giustizia), che verrebbe<br />

consentito attraverso la stipulazione stessa del contratto individuale<br />

di lavoro, quindi nel momento di massima debolezza del lavoratore. Per<br />

questo sarà, di fatto, un arbitrato obbligatorio.<br />

A quel punto stia pur tranquillo il professor Boeri che il problema dell’articolo<br />

18 e qualsiasi altro problema di effettività delle norme lavoristiche<br />

non si porrà più, perché diventerà impossibile andare davanti a un giudice<br />

per rivendicare la tutela dei propri diritti. In questo modo anche i professori<br />

Boeri e Garibaldi potranno essere soddisfatti, perché qual è la prospettiva<br />

strategica che si percepisce in maniera assolutamente nitida da<br />

queste proposte? È il tentativo di evitare la possibilità che i diritti dei lavoratori<br />

possano essere resi effettivi attraverso la contestazione giudiziaria.<br />

La logica del contratto unico, appunto, porta a questo se, pur di fronte<br />

a un licenziamento che in via di principio risulta privo di giustificato<br />

motivo, qualsiasi contestazione giudiziaria è inutile, perché il legislatore<br />

preventivamente ha già stabilito che cosa il lavoratore può ottenere una<br />

volta dimostrata l’eventuale illegittimità del licenziamento.<br />

Anzi, un problema di illegittimità non si pone più neppure, perché tutto<br />

quello a cui il lavoratore avrebbe diritto è un’attribuzione patrimoniale risarcitoria<br />

predefinita. E, badate bene, che si tratti di una logica coerente ed<br />

omogenea lo dimostra proprio la proposta in tema di salario minimo, che<br />

sarebbe interessante discutere nel dettaglio, ma non è questa la sede. Mi limito<br />

a porne in rilievo soltanto un punto: il salario minimo del professor<br />

Boeri, che di per sé mi vedrebbe d’accordo (tanti anni addietro io sostenni<br />

un’ipotesi di introduzione nell’ordinamento di un salario minimo legale),<br />

costituisce un altro esempio di riformismo capovolto. Il salario minimo del<br />

professor Boeri sarebbe un salario più basso di quello previsto nei contratti<br />

collettivi nazionali di lavoro e comporterebbe la conseguenza, assolutamente<br />

molto significativa per i datori di lavoro, di rendere impossibile il ricorso<br />

al giudice per vedersi riconosciuto un salario corrispondente a quello previsto<br />

nei contratti collettivi. Ecco, in questi termini è evidente che risulterebbe<br />

inaccettabile per i sindacati: ancora una volta si tratterebbe di una proposta<br />

che minerebbe alla radice l’effettività dell’azione sindacale nel nostro<br />

paese. Per questo ho parlato di riformismo capovolto.<br />

(a cura di Emilio Carnevali)

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