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Edizione Dicembre 2007

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i l ra c c o n t o<br />

“Me Ricordo”... el cutariol<br />

La religiosità ed il freddo si sono innestati nella mia vita fin dalla più giovane età, rendendomi forte fisicamente a<br />

sopportare l’inverno e facendomi apprezzare quasi con commozione, anche tuttora, i canti in chiesa, soprattutto<br />

i gregoriani, e il profumo dell’incenso quando in particolari cerimonie sale ancora verso il cielo, donando alla<br />

chiesa misticità. Tutto nasce dalla mia vita da chierichetto, o meglio da cutariol.<br />

Primogenito di quattro figli, dopo un anno dalla nascita venni trasferito dai piani alti (si fa per dire…!) al piano<br />

terra, nella camera di mia nonna, rimasta vedova in giovane età. Trasloco che comprendeva anche la culla fatta<br />

in legno di pero selvatico, tinta ocra e verde marcio, che prima di me aveva accolto mio padre e forse anche<br />

mio nonno. Il motivo?... La nascita di mia sorella, che avrebbe occupato la camera assieme ai miei genitori fino<br />

all’arrivo di un altro figlio. Per l’occasione alla neonata venne costruita una culla nuova e dato che i figli un tempo<br />

erano numerosi e non sporadici come adesso, nel laconico ricordo di mia madre sembrava che le donne della<br />

contrada fossero più interessate alla culla che alla nuova nata.<br />

La mia prima immagine non è di mia madre, ma della nonna. Già dal terzo anno di età cominciai a dormire con<br />

lei nel suo grande lettone, dentro le lenzuola ruvide de canego (di canapa), fresche d’estate ma anche fredde d’inverno,<br />

coperte fortunatamente da un’immensa colsara (piumino) che lei provvedeva a riempire quasi ogni anno<br />

spennando le oche vive della nostra aia. Il ricordo va a quei gesti precisi, seduta con l’animale tra le gambe che<br />

ad ogni strappo emetteva un cheo…..,cheo…eoo…io, come assistente, dopo che le aveva “depilate”, cospargevo<br />

le oche di cenere come disinfettante prima di lasciarle libere. Nonostante la piuma, d’inverno in camera il freddo<br />

era intenso. Tante volte le finestre nella parte esterna erano coperte dal ghiaccio.<br />

Con mia nonna avevo un rapporto di affettuosità e di simpatia e le volevo bene. Era una donna di fede, timorata<br />

di Dio, e cercava di allevarmi inculcandomi quei principi. Per questo la messa mattutina di ogni giorno faceva<br />

parte del mio noviziato già all’età di sette anni. Voleva che diventassi prete!... Non l’ho accontentata…!<br />

Il rito era sempre lo stesso: sveglia alle sei del mattino (era lei che si svegliava), io che imploravo ”ancora un poco<br />

nonna…ancora un poco…” mentre mi sussurrava che avremmo fatto tardi, e se non otteneva il risultato qualche<br />

volta diventava cosi sadica da svegliarmi con un’aspersione di acqua fredda nelle orecchie, col bicchiere che<br />

stava sul comodino. Quando uscivamo da casa il freddo ci avvolgeva tutto il corpo mentre ci avviavamo verso la<br />

chiesa ad un chilometro di distanza. Vicino a casa c’era un capitello dedicato alla Vergine Pellegrina, ora spostato<br />

per fare spazio ad un incrocio. Ed era da lì che iniziava il nostro viaggio, con il segno della croce e la recita del<br />

rosario, proseguendo fino a destinazione avvolto stretto sotto el so fassoeton, scialle nero e frangiato tipico delle<br />

donne anziane del tempo, che odorava di vecchio, di stantio e di naftalina.<br />

“Ave Maria, gratia plena”……………..e io rispondevo: ”Sancta maria mater dei”…………Il sonno era tanto che a<br />

volte, sotto quel piccolo tepore maleodorante, nonostante camminassi riuscivo per brevi istanti anche ad addormentarmi.<br />

Lungo la strada deserta, sotto i miei passi sentivo lo scricchiolio delle pozzanghere gelate, che all’epoca<br />

erano numerose. Solo una tenue luce pubblica illuminava un bivio con ombre spettrali, per il resto il buio era<br />

totale, a parte qualche luce che veniva dalle stalle dove i contadini cominciavano la mungitura delle vacche.<br />

All’arrivo ci attendeva una chiesa buia con pochi fedeli, solo poche vecchiette come mia nonna sparse nella penombra,<br />

mentre una luce fioca illuminava il presbiterio.<br />

Aurelio, il campanaro e sacrestano, figura claudicante che si muoveva lentamente e con gesti misurati, aveva già<br />

provveduto a preparare l’occorrente per l’ufficiatura.<br />

Era una funzione che ora non si fa più, ma un tempo veniva eseguita ogni mattina prima della S. Messa con una<br />

cerimonia a parte per commemorare i defunti.<br />

Venivano ricostruiti, in una atmosfera funebre, i simboli di un funerale. Un telo nero, con disegnati quattro teschi<br />

dorati ai lati, campeggiava nel presbiterio, attorniato da quattro candelabri e dalla croce nera dei morti. Don<br />

Giuseppe, l’anziano parroco, arrivava prima del tocco. Si schiariva sonoramente la voce all’entrata della chiesa<br />

e dopo una religiosa genuflessione avanzava avvolto in una mantella con i fermagli argentati, ricordo del suo<br />

passato di ufficiale dei bersaglieri durante la prima guerra mondiale. La cerimonia, dopo la vestizione in sacrestia<br />

con la stola nera simbolo del lutto, iniziava. Da una parte, sullo scagno alto del coro ligneo, il parroco ed io<br />

chierichetto bambino; dall’altra, oltre il telo nero, il sacrestano. Ricordo le cantilene gregoriane delle preghiere<br />

36<br />

Pro Loco - Vivere Istrana - dicembre <strong>2007</strong>

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