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i l ra c c o n t o<br />
in latino che si scambiavano. In quel contesto di poca luce, freddo e nero, anche se erano in latino le invocazioni<br />
davano la sensazione di chiedere a Dio il paradiso per quel defunto. A differenza di don Giuseppe, l’uomo di<br />
Dio, le cui invocazioni erano lineari e dai toni bassi, quelle di Aurelio rappresentavano il popolo e quindi avevano<br />
una tonalità di alti e bassi, come un’implorazione lamentosa e continua. Nel mio immaginario di bambino,<br />
con in mano il libro di latino dalla copertina nera con su scritto “De profundis”, queste implorazioni mi colpivano,<br />
convincendomi che con tutta quell’insistenza sicuramente al defunto sarebbe stata concessa la vita eterna.<br />
Eppure, di tutta quella preparazione e di una cerimonia così lugubre avevo una paura matta. Soprattutto quando,<br />
finita l’ufficiatura, mentre il sacrestano preparava il celebrante per la Messa, io dovevo sbaraccare il tutto. Per le<br />
candele e la croce non c’erano problemi, ma quando, dopo averlo piegato, dovevo portare il telo dei morti al suo<br />
posto, lì avveniva il panico. Doveva essere disposto con ordine nel retro della sacrestia, una stanza senza luce<br />
elettrica che fungeva anche da ripostiglio, dove c’era anche il catafalco, la portantina che trasportavano i morti.<br />
Bene, a quel punto la paura era tale che lanciavo il telo dall’uscio, cercando di centrare il catafalco, sopra il quale<br />
doveva essere regolarmente posato. Era un’impresa titanica e regolarmente cadeva a terra. Finita la Messa, e<br />
rientrati in sacrestia, l’Aurelio rigorosamente mi prendeva per un orecchio e mi accompagnava nella stanza per<br />
raccogliere quel telo, ma ormai dalla finestra albeggiava e il sinistro catafalco appariva meno pauroso. Anche<br />
durante la celebrazione della S. Messa il sacerdote aveva un rapporto privilegiato con Dio, mentre il chierichetto<br />
rappresentava il popolo dei credenti. Tant’è che era il cutariol che rispondea messa, appunto rispondendo sempre<br />
in latino alle invocazioni del celebrante. Risposte che prevedevano grandi strafalcioni di pronuncia, ma che mia<br />
nonna cocciutamente mi aveva fatto imparare a memoria, tante volte sottraendomi ai mie giochi preferiti. Finite<br />
le funzioni, quando uscivamo dalla chiesa, l’alba illuminava le montagne lontane con una luce rossastra ed<br />
il paesaggio era imbiancato dalla brunesta (galaverna). Da tutti i comignoli, sui tetti imbiancati, usciva un fumo<br />
azzurrino che saliva dritto, nell’aria fredda, verso il cielo. Finalmente libero e sveglio, potevo,<br />
non più sotto braccio della nonna, correre e scivolare sulle<br />
pozzanghere gelate di una strada deserta. Lungo il percorso,<br />
tra le siepi era un rincorrersi di pettirossi e scriccioli,<br />
mentre le grandi piante di villa Brusch,<br />
che affiancavano la strada e creavano un<br />
tunnel aggrovigliato così angosciante di<br />
notte, ora apparivano come un immenso<br />
ricamo di ghiaccio. A casa, mia madre mi<br />
aspettava con la colazione calda; la consumavo<br />
velocemente, perché già i compagni<br />
di scuola mi aspettavano. Sarebbe<br />
stato un altro chilometro in una<br />
strada sempre senza traffico, di<br />
corse e di giochi prima di arrivarci.<br />
Ma questa è un’altra<br />
storia……<br />
Matteo Benussi<br />
Amadio Favaro