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Edizione Dicembre 2007

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i l ra c c o n t o<br />

in latino che si scambiavano. In quel contesto di poca luce, freddo e nero, anche se erano in latino le invocazioni<br />

davano la sensazione di chiedere a Dio il paradiso per quel defunto. A differenza di don Giuseppe, l’uomo di<br />

Dio, le cui invocazioni erano lineari e dai toni bassi, quelle di Aurelio rappresentavano il popolo e quindi avevano<br />

una tonalità di alti e bassi, come un’implorazione lamentosa e continua. Nel mio immaginario di bambino,<br />

con in mano il libro di latino dalla copertina nera con su scritto “De profundis”, queste implorazioni mi colpivano,<br />

convincendomi che con tutta quell’insistenza sicuramente al defunto sarebbe stata concessa la vita eterna.<br />

Eppure, di tutta quella preparazione e di una cerimonia così lugubre avevo una paura matta. Soprattutto quando,<br />

finita l’ufficiatura, mentre il sacrestano preparava il celebrante per la Messa, io dovevo sbaraccare il tutto. Per le<br />

candele e la croce non c’erano problemi, ma quando, dopo averlo piegato, dovevo portare il telo dei morti al suo<br />

posto, lì avveniva il panico. Doveva essere disposto con ordine nel retro della sacrestia, una stanza senza luce<br />

elettrica che fungeva anche da ripostiglio, dove c’era anche il catafalco, la portantina che trasportavano i morti.<br />

Bene, a quel punto la paura era tale che lanciavo il telo dall’uscio, cercando di centrare il catafalco, sopra il quale<br />

doveva essere regolarmente posato. Era un’impresa titanica e regolarmente cadeva a terra. Finita la Messa, e<br />

rientrati in sacrestia, l’Aurelio rigorosamente mi prendeva per un orecchio e mi accompagnava nella stanza per<br />

raccogliere quel telo, ma ormai dalla finestra albeggiava e il sinistro catafalco appariva meno pauroso. Anche<br />

durante la celebrazione della S. Messa il sacerdote aveva un rapporto privilegiato con Dio, mentre il chierichetto<br />

rappresentava il popolo dei credenti. Tant’è che era il cutariol che rispondea messa, appunto rispondendo sempre<br />

in latino alle invocazioni del celebrante. Risposte che prevedevano grandi strafalcioni di pronuncia, ma che mia<br />

nonna cocciutamente mi aveva fatto imparare a memoria, tante volte sottraendomi ai mie giochi preferiti. Finite<br />

le funzioni, quando uscivamo dalla chiesa, l’alba illuminava le montagne lontane con una luce rossastra ed<br />

il paesaggio era imbiancato dalla brunesta (galaverna). Da tutti i comignoli, sui tetti imbiancati, usciva un fumo<br />

azzurrino che saliva dritto, nell’aria fredda, verso il cielo. Finalmente libero e sveglio, potevo,<br />

non più sotto braccio della nonna, correre e scivolare sulle<br />

pozzanghere gelate di una strada deserta. Lungo il percorso,<br />

tra le siepi era un rincorrersi di pettirossi e scriccioli,<br />

mentre le grandi piante di villa Brusch,<br />

che affiancavano la strada e creavano un<br />

tunnel aggrovigliato così angosciante di<br />

notte, ora apparivano come un immenso<br />

ricamo di ghiaccio. A casa, mia madre mi<br />

aspettava con la colazione calda; la consumavo<br />

velocemente, perché già i compagni<br />

di scuola mi aspettavano. Sarebbe<br />

stato un altro chilometro in una<br />

strada sempre senza traffico, di<br />

corse e di giochi prima di arrivarci.<br />

Ma questa è un’altra<br />

storia……<br />

Matteo Benussi<br />

Amadio Favaro

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