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Servir<br />
No.19 Maggio 2000<br />
La loro<br />
condizione è<br />
un atto di<br />
accusa contro<br />
ognuno di voi<br />
Nelson Mandela, in un discorso<br />
ai partecipanti ai negoziati di<br />
pace per il <strong>Burundi</strong>, parla degli<br />
sfollati nei campi di raccolta<br />
Birmania<br />
Serbia Tanzania<br />
Sri Lanka<br />
Repubblica Dominicana<br />
<strong>Burundi</strong><br />
MAGGIO 2000 Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati<br />
1
Rifugiato per la maggior parte<br />
Costretto a lasciare la<br />
propria casa in <strong>Burundi</strong><br />
28 anni fa, Nathaniel<br />
Ntukamazina, vive, da<br />
allora, tra il Congo e la<br />
Tanzania. La maggior<br />
parte della sua vita l’ha<br />
trascorsa nei campi<br />
profughi. Nathaniel<br />
condivide con noi la sua<br />
esperienza di rifugiato,<br />
padre di famiglia e<br />
catechista che serve gli<br />
altri rifugiati dei campi.<br />
Nathaniel al lavoro nella biblioteca<br />
del campo di Nduta, Tanzania<br />
Sono stato un rifugiato per la<br />
maggior parte della mia vita.<br />
Ricordo chiaramente il<br />
giorno, anni fa, in cui lasciai<br />
il mio paese, il <strong>Burundi</strong>, per rifugiarmi<br />
in Zaire (oggi Congo) con i miei genitori<br />
e altri cinque fratelli e sorelle più<br />
giovani. Avevo 17 anni all’epoca. Fummo<br />
costretti a partire il 25 aprile 1972.<br />
Quando arrivammo in Zaire, ci stabilimmo,<br />
per tre anni, nelle vicinanze<br />
del villaggio di Mboko, nella regione di<br />
Uvira. Fui catturato due volte dalle<br />
milizie dello Zaire tra il 1972 e il 1974 e<br />
fui costretto a fare il portatore quando<br />
combattevano nelle foreste. Una volta<br />
venni picchiato tanto selvaggiamente<br />
sulle gambe e nello stomaco da<br />
dover essere riportato<br />
a Mboko.<br />
A quel punto per noi<br />
divenne impossibile rimanere<br />
nel villaggio.<br />
Avevamo beneficiato<br />
della distribuzione del<br />
cibo e quando questa<br />
terminò l’unica possibi-<br />
La vita nel<br />
campo è molto<br />
dura … Ci<br />
sono molte<br />
di ficoltà e<br />
poche gioie per<br />
noi rifugiati. La<br />
nostra famiglia<br />
e i nostri amici<br />
sono divisi, io<br />
non so dove<br />
siano alcuni dei<br />
miei fratelli e sorelle … Tuttavia per<br />
un cristiano è impossibile perdere la<br />
speranza.<br />
lità di sopravvivenza sarebbe stata<br />
prendere in affitto della terra e coltivarla<br />
noi stessi. Ma non avevamo denaro<br />
e nel 1975 ci trasferimmo nel<br />
vicino campo profughi del <strong>Burundi</strong>,<br />
dove tutti noi avevamo il permesso di<br />
coltivare la terra.<br />
Nel 1983 diventai catechista e lavorai<br />
con i cattolici del campo, avamposto<br />
della parrocchia di Mboko. Dopo<br />
dieci anni divenni il capo dei catechisti.<br />
Durante gli anni trascorsi nel campo<br />
incontrai una donna congolese, Murishi<br />
Janette. Ci sposammo e mettemmo su<br />
famiglia: il nostro primo figlio nacque<br />
nel 1983. I miei genitori e due fratelli<br />
tornarono in <strong>Burundi</strong> nel 1992, ma<br />
quando mio padre morì nel 1992, mia<br />
madre venne di nuovo in Zaire per stare<br />
con me.<br />
La vita continuò normalmente finché<br />
non fummo costretti a fuggire di<br />
nuovo quando, nel 1996, la guerra tra<br />
Mobutu e Kabila in Zaire raggiunse la<br />
regione di Uvira. La popolazione del<br />
campo venne dispersa. La mia famiglia<br />
- mia madre, mia moglie, otto bambini<br />
e io - ha attraversato il Lago<br />
Tanganika insieme ad altre 45 persone<br />
a bordo di due grandi canoe per raggiungere<br />
la regione di Kigoma in Tanzania.<br />
Per due mesi abbiamo vissuto nei<br />
pressi del villaggio di Kaseke. Abbiamo<br />
trovato rifugio in una chiesa e abbiamo<br />
pescato un po’ per procurarci il<br />
cibo. Tuttavia, ciò non era sufficiente.<br />
La mancanza di alimenti ci ha reso progressivamente<br />
più deboli e dopo esserci<br />
ammalati varie volte, abbiamo deciso di<br />
dirigerci verso un campo.<br />
Mio figlio di quattro anni era gravemente<br />
ammalato quando, agli inizi del<br />
gennaio 1997, raggiungemmo un campo<br />
di transito. Mia moglie, insieme al<br />
nostro neonato, portò il bambino in<br />
ospedale. Durante i pochi giorni che<br />
trascorsero nell’ospedale, il resto di noi<br />
2 Servir
della vita La<br />
venne trasferito nel campo di Nduta,<br />
nel distretto di Kibondo, a un centinaio<br />
di chilometri di distanza. Mia moglie<br />
non sapeva dove ci avessero condotti<br />
e quando iniziò a cercarci disperatamente<br />
io stavo già tentando di organizzare<br />
tutto affinché lei e i due bambini<br />
potessero essere condotti a Nduta. Ciò<br />
accadeva sei mesi prima che ci riunissimo<br />
di nuovo: è stato un periodo molto<br />
duro per noi.<br />
A Nduta la mia vita da rifugiato<br />
continua. Mia madre è morta e è stata<br />
sepolta qui. Nel 1998 è nato il mio nono<br />
bambino. Qui noi siamo al sicuro dalla<br />
guerra e riceviamo cibo ogni due settimane.<br />
Ma la vita del campo è molto<br />
difficile. La nostra famiglia e i nostri<br />
amici sono divisi, io non so dove siano<br />
alcuni dei miei fratelli e sorelle. Il campo<br />
è situato in una foresta e per questo<br />
motivo non possiamo coltivare la terra.<br />
E non siamo neanche liberi di viaggiare<br />
fuori dal campo senza permesso,<br />
il quale è molto difficile da ottenere.<br />
Io continuo a servire la chiesa lavorando<br />
come catechista insieme ad<br />
altri al servizio dei 12.000 cattolici<br />
nel campo. Sono parte del mio lavoro<br />
l’insegnamento e la preparazione<br />
di giovani coppie al sacramento<br />
del matrimonio. Nel novembre dello<br />
scorso anno abbiamo costruito una<br />
piccola biblioteca e una sala di lettura<br />
con l’aiuto del JRS e io sono il bibliotecario.<br />
Mi piace molto condividere i<br />
pochi libri che abbiamo con coloro che<br />
vengono in biblioteca.<br />
Noi rifugiati dobbiamo affrontare<br />
molte difficoltà e abbiamo poche gioie.<br />
Tuttavia per un cristiano è impossibile<br />
perdere la speranza. La pazienza e la<br />
tenacia delle quali ho bisogno mi vengono<br />
da Dio. Dopo 28 anni vissuti da<br />
rifugiato, ho fiducia nel fatto che Dio<br />
sappia quando ritornerò a casa in<br />
<strong>Burundi</strong>.<br />
Rifugiati in Tanzania<br />
Tanzania ospita oltre<br />
400.000 rifugiati, molti dei<br />
quali provengono dal<br />
<strong>Burundi</strong>. Dalla<br />
proclamazione<br />
dell’indipendenza del<br />
<strong>Burundi</strong> nel 1962, ondate di<br />
omicidi durante gli anni<br />
hanno provocato sfollamenti<br />
di massa verso altri paesi. Il<br />
JRS gestisce diversi progetti<br />
in Tanzania lavorando con<br />
rifugiati che erano e sono<br />
tuttora profondamente<br />
traumatizzati dal conflitto e<br />
dalla violenza. Istruzione,<br />
consulenza, risoluzione dei<br />
conflitti e costruzione di<br />
comunità cristiane sono tutte<br />
questioni che rientrano nel<br />
nostro lavoro. Il JRS gestisce<br />
anche Radio Kwizera, una<br />
stazione radio ubicata a<br />
Ngara e al servizio sia della<br />
comunità locale che dei<br />
rifugiati.<br />
Un giorno speciale per il JRS Tanzania<br />
Un progetto del JRS iniziato meno di due anni fa a Ngara sta ottenendo sempre maggiore<br />
successo essendo riuscito a costruire ben tre scuole elementari fino ad ora. Il 18 febbraio<br />
di quest’anno è stata aperta nel campo di Lukole la terza delle scuole per i bambini del<br />
<strong>Burundi</strong> finanziate dal JRS. “E’ un giorno speciale per il JRS della Tanzania”, ha scritto<br />
Katie Erisman MM, direttore del JRS. “Molti genitori erano presenti e il loro orgoglio e la<br />
loro gioia erano evidenti. La partecipazione della comunità dei rifugiati è stata eccellente.<br />
Ogni famiglia con un bambino nella scuola ha preparato mattoni di fango”. Gervais, l’artista<br />
locale, ha ravvivato porte e finestre con disegni di animali, frutta e fiori dai colori<br />
sgargianti. “Ogni scuola è un ambiente sicuro, attraente e stimolante, dove i bambini<br />
possono essere bambini e crescere e imparare come i bambini dovrebbero fare”, ha<br />
sottolineato Lolin Menendez RSCJ, responsabile JRS delle risorse umane per l’istruzione<br />
in Africa. Entro la fine dell’anno saranno costruite altre due scuole per un totale di<br />
cinque scuole per l’istruzione di 2.000 bambini. Il progetto sta sbocciando grazie al duro<br />
lavoro di Louise Reeves RSJ e di Marie Huguet-Latour. “Sono stata onorata di essere<br />
stata chiamata a scoprire lo stemma della scuola, anch’esso dipinto da Gervais”, ha detto<br />
Sr Lolin. “Esso riproduce la scuola con un cerchio di persone intorno che guardano un<br />
bambino che indica la cartina del <strong>Burundi</strong> e dice: ‘<strong>Burundi</strong> Bwejo’ (<strong>Burundi</strong> domani). La<br />
mia preghiera è che questo domani arrivi presto, molto presto!”<br />
MAGGIO 2000 3
Katrin Gerdsmeier<br />
descrive lo<br />
sfruttamento e le<br />
violazioni dei diritti<br />
umani sofferte dagli<br />
immigrati haitiani<br />
nella Repubblica<br />
Dominicana. Le sue<br />
osservazioni sono<br />
basate sullo studio da<br />
lei condotto come<br />
ricercatrice del JRS.<br />
Schiavi di oggi<br />
Nessun essere umano è illegale. E’<br />
forse una dichiarazione ovvia,<br />
tuttavia oggi intere popolazioni sono<br />
stigmatizzate con il marchio di “illegali”<br />
per essere sistematicamente escluse<br />
dall’esercizio dei più elementari diritti civili e<br />
sociali. Gli immigrati haitiani nella Repubblica<br />
Dominicana sono uno di questi gruppi. Sono<br />
ostracizzati e discriminati e privati dei loro diritti<br />
fondamentali.<br />
La Repubblica Dominicana e Haiti condividono<br />
la stessa isola dei Caraibi: Haiti occupa un<br />
terzo del territorio e la Repubblica Dominicana i<br />
restanti due terzi. Ognuno dei due Stati ha una<br />
popolazione di circa otto milioni di abitanti. Le<br />
relazioni tra i due Stati sono state rovinate da<br />
tensioni politiche e razziali che risalgono all’epoca<br />
coloniale e il profondamente radicato “antihaitianesimo”<br />
si ricollega a questa storica<br />
animosità.<br />
Oggi gli immigrati haitiani lavorano in differenti<br />
settori dell’economia dominicana. La loro<br />
presenza non è accolta di buon grado dall’opinione<br />
pubblica, che per la maggior parte è ostile<br />
agli haitiani la cui pelle è più nera. Si stima che<br />
gli haitiani che ora vivono sul territorio della<br />
Repubblica Dominicana siano tra i 400.000 e un<br />
milione. Molti di questi sono discriminati a<br />
causa di un complesso intreccio di violazioni dei<br />
diritti umani e sfruttamento.<br />
Gli haitiani vengono reclutati come lavoratori<br />
dall’industria dello zucchero. Fino a poco tempo<br />
fa l’industria era monopolio dell’Agenzia Statale<br />
dello Zucchero (CEA), ora privatizzata. Lavorando<br />
nelle piantagioni di zucchero o in altre<br />
industrie, gli immigrati ben presto scoprono che i<br />
loro diritti fondamentali vengono sistematicamente<br />
violati. Sono costretti a lavorare per lunghe e<br />
faticose giornate nel caldo, ricevendo un salario<br />
inferiore al minimo previsto, quando lo ricevono.<br />
Al di là delle ore lavorative, la vita non è migliore.<br />
Gli alloggi sono terribili: la maggior parte<br />
delle “bateyes”, le baraccopoli costruite dentro<br />
le piantagioni di zucchero nelle quali vivono gli<br />
haitiani, sono prive di elettricità, di acqua potabile<br />
e di latrine. Non c’è assistenza medica. Intere<br />
famiglie vivono in baracche senza finestre<br />
dormono in terra e cucinano all’aperto su un<br />
fuoco condiviso con altri. Le famiglie haitiane<br />
vivono nella costante paura di visite dell’esercito.<br />
Esistono casi documentati di soldati che<br />
irrompono nelle case degli haitiani, distruggendole,<br />
picchiando le persone, rubando il denaro.<br />
Durante queste incursioni le donne sono state<br />
vittime di abusi sessuali e alcuni sono stati<br />
uccisi. Un’altra ombra che incombe sugli haitiani<br />
è il sempre presente pericolo dell’arresto arbitrario<br />
e del rimpatrio. La polizia e l’esercito<br />
4 Servir
organizzano periodicamente retate nelle bateyes,<br />
solitamente di notte, arrestando anche chi<br />
possiede i documenti d’identità. Le persone<br />
vengono fatte salire su carri bestiame, spesso<br />
senza dar loro neppure la possibilità di salutare i<br />
propri cari. Molte volte non è loro concesso di<br />
raccogliere i propri oggetti personali. Migliaia di<br />
persone, lo scorso novembre, sono state rimpatriate<br />
con la forza.<br />
Di frequente le organizzazioni per la difesa<br />
dei diritti umani protestano contro queste violazioni,<br />
sottolineando il fatto che la Repubblica<br />
Dominicana ha firmato e ratificato le convenzioni<br />
internazionali per i diritti umani. In ogni caso,<br />
non solo il Governo chiude un occhio di fronte<br />
agli abusi molto frequenti, ma li perpetua applicando<br />
nei confronti della popolazione haitiana<br />
una politica d’immigrazione molto restrittiva. La<br />
maggior parte degli haitiani sono a rischio<br />
poiché non hanno documenti d’identità e non sono<br />
regolarmente registrati. Così, non solo gli haitiani<br />
sono facile preda delle retate e delle espulsioni,<br />
ma sono anche privi della possibilità di esercitare<br />
i diritti sociali, quali l’accesso al servizio<br />
sanitario e l’istruzione.<br />
La regolarizzazione della loro posizione per<br />
ciò che riguarda la residenza è essenziale per<br />
un’effettiva protezione dei diritti civili e sociali.<br />
Devono essere distinti in almeno due gruppi: persone<br />
nate da genitori haitiani nella Repubblica<br />
Dominicana e immigrati haitiani che non sono<br />
nati sul territorio dominicano.<br />
Il primo gruppo dovrebbe poter chiedere la<br />
cittadinanza dominicana in quanto la Costituzione<br />
stabilisce che la cittadinanza deve essere<br />
concessa a “tutti coloro che sono nati sul territorio<br />
della Repubblica Dominicana, ad eccezione<br />
dei figli legittimi degli stranieri residenti nella<br />
nazione, come ad esempio i diplomatici, o di<br />
coloro che sono in transito”. Tuttavia, spesso i<br />
figli di genitori haitiani non riescono a ottenere i<br />
documenti d’identità necessari a provare la<br />
condizione legale di cittadini dominicani. Anche<br />
nel caso ci riescano, di frequente il governo<br />
applica, ingiustamente, l’eccezione “persone in<br />
transito”.<br />
Quando le persone di discendenza haitiana<br />
non riescono a ottenere un passaporto<br />
dominicano diventano, in pratica, apolidi. Sebbene<br />
la Costituzione haitiana stabilisca che ogni<br />
figlio nato da madre o padre haitiano acquisisca<br />
la cittadinanza haitiana, decreta anche<br />
l’inammissibilità di una doppia cittadinanza. Ai<br />
sensi della legge, i bambini nati da una discendenza<br />
haitiana nella Repubblica Dominicana<br />
entrano automaticamente in possesso della<br />
nazionalità dominicana e così non possono più<br />
essere cittadini haitiani.<br />
Il secondo gruppo di immigrati haitiani, quelli<br />
che non sono nati nella Repubblica Dominicana,<br />
non hanno nessun appiglio legale per richiedere<br />
la cittadinanza dominicana. Soltanto il 10-20%<br />
di costoro sono legalmente residenti e hanno<br />
titolo per rimanere nel territorio dominicano.<br />
Comunque anche haitiani i cui documenti sono<br />
in ordine sono stati rimpatriati con la forza per il<br />
solo fatto di essere haitiani.<br />
Ai sensi della legge dominicana, gli immigrati<br />
haitiani senza documenti non possono chiedere<br />
un permesso di soggiorno. Il trattamento<br />
riservato agli haitiani è almeno contraddittorio,<br />
per non dire assolutamente illegale. Il loro reclutamento<br />
è svolto da reclutatori pagati da organismi<br />
come l’ormai defunta CEA, spesso con il<br />
consenso del Governo dominicano e l’aiuto<br />
dell’esercito. E’ altissimo l’interesse per la<br />
manodopera a basso costo haitiana. Ma, una<br />
volta reclutati, gli haitiani sono condannati a<br />
vivere in condizioni di illegalità, come se vivessero<br />
sul territorio dello Stato contro la volontà<br />
del Governo dominicano.<br />
La tragedia dei lavoratori immigrati haitiani<br />
venne esaminata dall’Organizzazione Internazionale<br />
del Lavoro (OIL) nel lontano 1983. Tristemente,<br />
le inequivocabili conclusioni raggiunte<br />
dall’OIL non sono ancora state messe in pratica…<br />
“ E’ illegittimo che uno Stato mantenga in<br />
uno status di illegalità lavoratori il cui impiego<br />
esso accetta in quanto necessario al funzionamento<br />
dell’economia… La situazione di tali<br />
lavoratori deve essere sanata”.<br />
Comunque tu sei haitiano<br />
La rete di Solidarietà<br />
Dominicana-<br />
Haitiana comprende<br />
nove organizzazioni<br />
per la difesa<br />
dei diritti umani.<br />
Tutte lavorano per<br />
la difesa dei diritti<br />
degli immigrati<br />
haitiani e dei<br />
dominicani di<br />
origine haitiana.<br />
La rete lotta<br />
contro i pregiudizi<br />
razziali attraverso<br />
la promozione<br />
della solidarietà<br />
tra il popolo<br />
dominicano e<br />
quello haitiano.<br />
Gli abitanti di Batey Libertad sentirono il camion che si avvicinava, ma<br />
non si allarmarono. La Guardia spesso visitava la Batey, ma raramente<br />
di primo pomeriggio. Il diciottenne Jose Martinez, un muratore, venne<br />
avvicinato mentre era a metà strada tra la sua abitazione e l’area delle<br />
docce dalla quale era appena uscito, vestito solo con un asciugamano<br />
avvolto intorno ai boxer. Nato e cresciuto nella Batey Libertad, afferma<br />
di non essere neppure in grado di contare tutti i suoi parenti che<br />
vivono lì: fratelli, sorelle, zii, nonni e cugini dai quali va in visita nei fine<br />
settimana e nei giorni liberi come questo. Avendo un soldato in<br />
uniforme chiesto i suoi documenti, rispose che era dominicano.<br />
Quando la Guardia si fece beffe della sua risposta e gli ordinò di<br />
salire sul camion, Jose mandò uno dei suoi cugini, un ragazzo di<br />
nome Papo, a prendere i documenti d’identità, una maglietta e un<br />
paio di pantaloncini. Papo riportò indietro tutto e anche il certificato di<br />
nascita del suo cugino più grande, e Jose lo mostrò al soldato che<br />
aspettava. Il soldato esaminò i documenti velocemente, li mise in<br />
tasca e disse a Jose “Comunque tu sei haitiano”.<br />
(Estratto dall’edizione novembre 1999 di Crossing, un bollettino pubblicato<br />
da John MacLaughlin e dal Centro de Reflexion, Encuentro y Solidaridad)<br />
MAGGIO 2000 5
Quale speranza per il <strong>Burundi</strong>?<br />
di Amaya Valcárcel<br />
Il ciclo si ripete. “Lo scorso anno<br />
abbiamo assistito ad alcuni segni<br />
di miglioramento per ciò che<br />
riguarda la salute dei bambini<br />
sfollati che avevano sofferto a causa<br />
di una grave malnutrizione. Ora<br />
si vedono segni differenti: capelli<br />
che diventano bianchi, visi, pance e<br />
estremità gonfie”.<br />
La riflessione di Sylvie, medico che<br />
lavora con il JRS <strong>Burundi</strong>, echeggia la<br />
disperazione di una popolazione costretta<br />
a subire sette anni di una guerra<br />
civile che ha dilaniato il paese. La<br />
guerra, combattuta tra i gruppi armati<br />
di opposizione hutu da una parte e il<br />
governo e l’esercito controllati dai tutsi<br />
dall’altra, è costata la vita a migliaia di<br />
persone causando lo sfollamento di più<br />
di un milione di burundesi, più di<br />
800.000 dei quali sono stati sfollati all’interno<br />
dello Stato. Ciò significa che<br />
vi è una media di uno sfollato ogni otto<br />
civili. In <strong>Burundi</strong>, la violenza degli scontri<br />
si è intensificata durante lo scorso<br />
agosto, quando gli attacchi dei ribelli alla<br />
capitale, Bujumbura, hanno provocato<br />
selvagge rappresaglie dell’esercito.<br />
Come sempre, i civili sono stati gli innocenti<br />
obiettivi di entrambe le parti in<br />
conflitto.<br />
A settembre, per reagire all’escalation<br />
della violenza dei combattimenti,<br />
il governo ha evacuato due terzi della<br />
popolazione della zona rurale di<br />
Bujumbura - principalmente poveri<br />
contadini di etnia hutu - dalle proprie<br />
case trasferendoli in squallidi campi<br />
“di raccolta” (vedi foto in testa). Un<br />
Un giorno siamo stati portati<br />
via dalle nostre case e<br />
condotti su questo pezzo di<br />
terra.<br />
totale di circa 340.000 persone sono<br />
state forzatamente sfollate in più di 50<br />
campi. Tuttavia, è ormai noto che la<br />
politica “di raccolta” attuata dal governo<br />
è soprattutto una strategia di<br />
contrafforte alla guerriglia.<br />
Per quanto “valido” fosse il motivo<br />
per sfollare i civili, il governo non è stato<br />
in grado di fornire neppure i servizi es-<br />
senziali alla popolazione ammassata nei<br />
campi organizzati dallo Stato stesso.<br />
“Un giorno siamo stati portati via dalle<br />
nostre case e condotti su questo pezzo<br />
di terra. Non vi erano ripari e così dovemmo<br />
costruire capanne con foglie di<br />
banano e rami. Una ONG ci ha dato<br />
teloni di plastica da usare come tetti”,<br />
ha raccontato un uomo.<br />
Alle organizzazioni umanitarie<br />
non è stato concesso di accedere ai<br />
campi per un mese; dopo alla maggior<br />
parte di queste è stato concesso un<br />
accesso limitato. A ottobre il JRS ha<br />
avuto il permesso di iniziare il proprio<br />
lavoro in due campi, collaborando<br />
con il Catholic Relief <strong>Service</strong>s - CRS<br />
e con il World Food Program - WPF<br />
nella distribuzione dei pasti. Abbiamo<br />
deciso di intervenire perché la popolazione<br />
versava in un evidente stato di<br />
bisogno. Abbiamo cosí risposto, insieme<br />
ad altre organizzazioni religiose, alla<br />
richiesta della chiesa locale.<br />
Dobbiamo fermarci a riflettere sul<br />
lavoro del JRS nei campi nei quali il<br />
governo ha sfollato la popolazione del<br />
proprio Stato. Una considerazione a<br />
6 Servir
favore di un tale intervento potrebbe<br />
essere la necessità di accompagnare<br />
gli sfollati i cui bisogni non sono soddisfatti<br />
da altri. Le precarie condizioni di<br />
sicurezza nei campi hanno avuto come<br />
conseguenza una presenza internazionale<br />
molto ridotta. Dopo l’uccisione di<br />
due operatori delle Nazioni Unite avvenuta<br />
il 12 ottobre 1999 nella provincia<br />
di Rutana, le Nazioni Unite hanno<br />
drasticamente limitato le proprie attività<br />
in <strong>Burundi</strong>. “So che queste persone<br />
soffrono. Quando faccio loro visita sono<br />
felici perché desiderano mostrarci in<br />
quali condizioni stanno vivendo”, ha<br />
detto un operatore del JRS <strong>Burundi</strong>.<br />
La politica di raccolta ha avuto<br />
conseguenze disastrose tra le quali una<br />
preoccupante scarsità di cibo e il<br />
saccheggio delle case degli sfollati opera,<br />
in alcuni casi, dei militari. In seguito<br />
all’impegno preso dal governo in<br />
gennaio di smantellare alcuni campi, a<br />
febbraio pochi tra questi sono stati chiusi.<br />
Tuttavia la gente si è radunata in<br />
altri luoghi per il timore di attacchi<br />
notturni. “Alcuni campi verranno chiusi,<br />
ma le persone che li lasceranno<br />
troveranno le proprie case distrutte.<br />
Anche se tornassero nelle proprie<br />
abitazioni, avrebbero bisogno di aiuti<br />
alimentari almeno per quattro mesi, fino<br />
al prossimo raccolto” ha affermato un<br />
operatore del JRS.<br />
La tragedia umanitaria dei campi di<br />
raccolta è soltanto una dimostrazione<br />
concreta delle innumerevoli violazioni<br />
dei diritti dell’uomo commesse contro<br />
il popolo del <strong>Burundi</strong>. Quali possono<br />
essere le prospettive di pace per una<br />
La cosa più triste è che ai burundesi<br />
basta poco per vivere felicemente<br />
nazione devastata da una sofferenza<br />
che dura da così tanto tempo? I negoziati<br />
di Arusha, iniziati nel giugno del<br />
1998 che, potenzialmente, offrono qualche<br />
speranza, non hanno ancora portato<br />
a risultati concreti. Durante l’ultimo<br />
giro di consultazioni, che si è chiuso<br />
all’inizio di marzo di quest’anno, il<br />
mediatore, Nelson Mandela, ha suscitato<br />
l’ira dei gruppi a predominanza tutsi<br />
quando ha sottolineato che non ci<br />
potrà essere pace nel <strong>Burundi</strong> fintanto<br />
che i tustsi non allenteranno la loro<br />
presa sul potere.<br />
So che queste persone<br />
soffrono. Quando faccio<br />
loro visita sono felici perché<br />
desiderano mostrarci in<br />
quali condizioni stanno<br />
vivendo.<br />
Al di là delle possibilità di pace generate<br />
dalle trattative ad alto livello, si<br />
ripone la speranza nelle iniziative intraprese<br />
a più stretto contatto con la<br />
popolazione. La società civile - le ONG<br />
che operano in difesa dei diritti dell’uomo,<br />
le associazioni femminili, le unioni<br />
degli studenti o dei giornalisti, i gruppi<br />
religiosi - sta guadagnando terreno nel<br />
<strong>Burundi</strong> come nel resto dell’Africa<br />
poiché la gente è stanca di aspettare<br />
che i politici si affranchino dai loro interessi<br />
esclusivamente etnocentrici e<br />
egocentrici. Le associazioni prendono<br />
iniziative in nome della pace, chiedono<br />
trasparenza, assunzione di responsabilità<br />
e la promozione della vera democrazia.<br />
La Costituzione, adottata<br />
nell’agosto del 1998, prevede la presenza<br />
di rappresentanti delle organizzazioni<br />
della società civile all’interno<br />
dell’Assemblea nazionale. Una società<br />
civile che lotta per superare i traumi<br />
del colonialismo e del post-colonialismo,<br />
della dittatura e della guerra, è già un<br />
segno di speranza.<br />
Durante un’iniziativa presa di recente<br />
da donne di etnia hutu e tutsi<br />
di uno dei distretti più violenti di<br />
Bujumbura, è stato organizzato uno<br />
scambio di aiuti tra le diverse etnie<br />
come segno di solidarietà. Sham-il<br />
Idriss, direttore dell’organizzazione<br />
“Ricerca di una Terra Comune in<br />
<strong>Burundi</strong>”, ha descritto questo scambio<br />
dove “250 donne, anziane, giovani, fragili,<br />
forti, hutu, tutsi si sono affollate in una<br />
stanza per dimostrare la loro solidarietà”.<br />
Mentre fuori esplodevano i proiettili,<br />
le donne cantavano “Dateci la pace”.<br />
Il popolo del <strong>Burundi</strong> ha bisogno<br />
della pace. Mentre le differenti fazioni<br />
in guerra contrattano sedute al tavolo<br />
di pace di Arusha, i civili sono sfollati,<br />
affamati, ammalati, torturati e uccisi.<br />
Utilizzando le parole di P. Mateo<br />
Aguirre SJ, direttore del JRS Grandi<br />
Laghi: “La cosa più triste è che ai<br />
burundesi basta poco per vivere felicemente.<br />
Tutto ciò di cui hanno bisogno<br />
è la loro casa, un pezzo di terra e,<br />
naturalmente, molta pace”.<br />
Amaya Valcárcel<br />
è la responsabile delle politiche<br />
del JRS internazionale<br />
MAGGIO 2000 7
Rifugiati Shan in Thailandia<br />
Una comunità nascosta<br />
Rifugiati provenienti dallo Stato Shan, in<br />
Birmania, fuggono in Thailandia a causa<br />
dei reinsediamenti di massa forzati e altre<br />
gravi violazioni dei diritti umani. Tuttavia<br />
in Thailandia non sono riconosciuti come<br />
rifugiati e sono quindi costretti a trovare<br />
da soli i mezzi per il loro sostentamento,<br />
riferisce Mona Lazco.<br />
Una famiglia si nasconde nella giungla<br />
dopo il reinsediamento forzato<br />
Un villaggio della zona centrale dello Stato<br />
Shan, deserto dopo il reinsediamento<br />
Può rivelarsi difficile scoprire dove si trovino i rifugiati. Questo<br />
è il punto di vista degli operatori del JRS che stanno tentando<br />
di localizzare i membri del consistente gruppo di 100.000<br />
rifugiati Shan (Tai Yai) che secondo alcune fonti vivono lungo<br />
il confine settentrionale della Thailandia. I rifugiati Shan che si trovano in<br />
Thailandia vivono in capanne nascoste in un mare di appezzamenti di<br />
terreno, “una comunità silenziosa” sono le parole utilizzate da un operatore<br />
di una ONG per descriverli. Il governo thailandese non riconosce<br />
agli Shan lo status di rifugiati, descrivendoli come immigrati<br />
per motivi economici soggiornanti in Thailandia in modo illegale.<br />
Molti di costoro si sono integrati nella società thailandese grazie ai<br />
legami familiari. Molti sono dispersi in cantieri e fattorie nella<br />
Thailandia settentrionale, normalmente contrari a rivelare dove si<br />
trovi il loro rifugio, anche alle ONG che tentano di portar loro<br />
aiuto. Gli Shan, insieme ad altre minoranze etniche presenti in Birmania,<br />
sono stati vittime di repressioni e violazioni dei diritti umani<br />
perpetrate dai governi militari birmani sin quasi dall’indipendenza<br />
ottenuta nel 1948. La maggior parte delle minoranze presenti nell’Unione<br />
della Birmania ha ingaggiato una resistenza armata contro<br />
le truppe governative. Il conflitto continua a tutt’oggi, sebbene<br />
molte delle minoranze abbiano firmato accordi per il cessate-ilfuoco<br />
con il governo. Lo scenario dell’insurrezione nello Stato Shan<br />
è strettamente legato al suo mercato dell’eroina, presumibilmente<br />
il più vasto del mondo. I laboratori di eroina della zona un tempo<br />
controllata da Khun Sa, signore della guerra dello Shan, che firmò un<br />
cessate il fuoco nel 1996, sono ora in possesso del Consiglio per la Pace<br />
e lo Sviluppo dello Stato (CPSS) che governa la Birmania.<br />
Poco dopo l’accordo per il cessate il fuoco che sciolse l’esercito Mong<br />
Tai di Khun Sa, iniziò un massiccio reinsediamento della popolazione<br />
nello Stato Shan. Solamente durante quell’anno la Fondazione per i Diritti<br />
Umani dello Shan documentò che 1.400 villaggi furono spostati<br />
in zone di reinsediamento situate in aree strategiche, mossa che<br />
sradicò oltre 300.000 persone. Molti rifugiati fuggirono dallo Stato<br />
Shan durante i primi anni ’90 per ragioni economiche, ma negli<br />
scorsi quattro anni le motivazioni della loro fuga sono state direttamente<br />
connesse alla guerra civile e alla crisi umanitaria nella loro<br />
madrepatria. I rifugiati raccontano terribili storie di sofferenze patite<br />
sotto il governo della giunta birmana. La maggior parte di costoro<br />
è fuggita da reinsediamenti di massa, fame, lavori forzati e altre<br />
gravi violazioni dei diritti umani.<br />
In Thailandia, gli Shan sperano in un futuro migliore. La realtà<br />
è spesso dolorosamente diversa. I progetti di mandare a scuola i<br />
propri figli hanno spesso vita breve poiché la maggior parte dei<br />
genitori Shan non può permettersi di pagare le tasse scolastiche.<br />
Uno stipendio “ragionevole” per lavoratori Shan corrisponde alla<br />
metà, o ancor meno, del minimo salariale che verrebbe pagato ad<br />
8 Servir
Non è facile localizzare i<br />
rifugiati Shan in<br />
Thailandia. Vivono in<br />
capanne nascoste in un<br />
mare di appezzamenti di<br />
terreno, “una comunità<br />
silenziosa”.<br />
un lavoratore Thai per lo stesso lavoro. E in cambio i lavoratori Shan<br />
rischiano la propria salute: nelle coltivazioni di orchidee irrorano pesticidi<br />
privi di tute di protezione contro i letali prodotti chimici. Durante una<br />
visita nella zona di Fang, nella Thailandia settentrionale, siamo capitati<br />
nella casa di una vedova. Il figlio, un anno, e la figlia, nove anni, erano in<br />
casa. I vicini ci raccontarono di come il marito era morto pochi mesi<br />
prima, a causa della prolungata esposizione ai prodotti chimici che utilizzava<br />
per lavorare.<br />
Mentre un comitato di rifugiati Shan assiste i nuovi arrivati, molti rifugiati<br />
attraversano i confini della Thailandia dove sono soli e vulnerabili.<br />
Phongphan Phokthavi (Jub), operatore pastorale del JRS, che ha iniziato<br />
a lavorare con i rifugiati Shan lo scorso anno, trascorre lunghe giornate<br />
cercando i rifugiati che hanno bisogno di assistenza. Jub assiste le famiglie<br />
con progetti personalizzati. Alcuni sono stati messi nelle condizioni di<br />
iniziare piccoli progetti per la produzione di reddito. Sul fronte dell’istruzione,<br />
Jub ha preso contatti con le scuole, per aiutare i bambini Shan<br />
recando loro visite regolari. Dal momento che il materiale didattico nella<br />
lingua Shan è molto scarso, il JRS ha aiutato il Comitato Shan per l’Istruzione<br />
per la traduzione e la stampa di libri scolastici, ora largamente in<br />
uso sia nella Stato Shan che nelle scuole in Thailandia.<br />
Le ONG sostengono che i rifugiati Shan hanno il diritto di vivere nei<br />
campi profughi, simili a quelli aperti per i rifugiati appartenenti agli altri<br />
gruppi etnici di origine birmana. “Questo genere di campi offrirebbe protezione<br />
ai rifugiati che attualmente sono soggetti ad arresti e alla<br />
deportazione”, ha affermato un operatore di una ONG. “I campi metterebbero,<br />
inoltre, i rifugiati nelle condizioni di poter ricevere, alla luce del<br />
sole, gli aiuti umanitari, ovvero cibo, assistenza medica e scolastica. E,<br />
più importante, questo significherebbe un riconoscimento ufficiale della<br />
guerra civile e della crisi umanitaria in corso nello Stato Shan”. La Fondazione<br />
per i Diritti Umani dello Shan ha affermato che tale opzione<br />
dovrebbe essere concessa agli anziani, alle famiglie con bambini e alle<br />
persone disabili. Qualunque sarà il corso degli eventi, rimane il fatto che<br />
il popolo Shan ha bisogno di aiuto. Se non vi saranno negoziati condotti in<br />
onestà con la partecipazione di tutte le parti in causa, e tra queste<br />
l’ACNUR e le autorità thailandesi, il popolo Shan resterà una inascoltata<br />
minoranza etnica.<br />
Mona Laczo è la responsabile delle politiche e dell’informazione<br />
del JRS Asia meridionale<br />
Sarei stato ucciso<br />
Prima di fuggire in Thailandia, ho vissuto<br />
in un campo di reinsediamento<br />
nell’entroterra dello Stato Shan. Un giorno<br />
i soldati del CPSS arrivarono nel<br />
nostro campo e ci ordinarono di portare<br />
con noi cibo sufficiente per cinque<br />
giorni perché saremmo stati i loro portatori.<br />
Facemmo in fretta ciò che ci era<br />
stato ordinato, tutti eravamo spaventati<br />
all’idea di quello che ci sarebbe successo.<br />
I soldati ci trattennero per ben<br />
più di cinque giorni: siamo stati i loro<br />
portatori per 21 giorni. Per la maggior<br />
parte del tempo eravamo affamati, non<br />
avevamo cibo e loro non ce ne avrebbero<br />
dato. Sopravvivevamo grazie alle<br />
foglie e alle radici che trovavamo nella<br />
foresta. I soldati ci trattavano duramente<br />
e qualsiasi nostra resistenza veniva<br />
punita con percosse. Durante il viaggio<br />
con le truppe siamo stati testimoni<br />
dell’uccisione di un uomo sospettato<br />
di prestare aiuto ai soldati dell’esercito<br />
dello Stato Shan (ESS). I soldati del<br />
CPSS hanno prima picchiato brutalmente<br />
il sospetto per poi sottoporlo ad un<br />
linciaggio che ne ha causato la morte<br />
mentre costui si era avvicinato al fiume<br />
per dissetarsi. Siamo stati costretti a<br />
guardare. Quando feci ritorno al campo,<br />
preparai i bagagli e fuggii in Thailandia<br />
con mia moglie. Sapevo che se non me<br />
ne fossi andato il prima possibile, la<br />
prossima volta mi avrebbero ucciso.<br />
MAGGIO 2000 9
Scampati alla guerra<br />
Ventuno civili sono rimasti uccisi e altri 40<br />
feriti durante un bombardamento<br />
dell’Aviazione dello Sri Lanka sul mercato di<br />
Pudukudyiruppu, nella regione settentrionale<br />
del paese in mano ai ribelli. L’Esercito ha<br />
negato che siano stati presi di mira i civili<br />
nell’attacco effettuato nel settembre del<br />
1999. L’Aviazione, ha affermato un portavoce<br />
dell’Esercito, aveva mirato correttamente. Il<br />
bombardamento ha avuto luogo durante una<br />
giornata di mercato, quando centinaia di<br />
persone, compresi molti sfollati interni,<br />
affollavano l’area. P. Joel Kulanayagam SJ e<br />
P. Gabriel Alfreds SJ, due operatori del JRS<br />
di Pudukudyiruppu, hanno lavorato con coloro<br />
che erano stati colpiti nel bombardamento.<br />
Estato un privilegio per noi far<br />
visi-ta ai familiari di coloro che<br />
erano rimasti uccisi nell’attacco.<br />
Molti di loro hanno già perso dei<br />
parenti a causa della guerra. Abbiamo<br />
inoltre lavorato con i feriti, andando a<br />
visitarli regolarmente in ospedale. Il<br />
giorno dopo l’attacco abbiamo trovato<br />
Muthusamy che giaceva abbandonato<br />
in una delle corsie. I suoi familiari non<br />
sapevano cosa fosse accaduto, che lui<br />
era stato ferito dall’esplosione. Ci siamo<br />
messi in contatto con la sua famiglia<br />
che è arrivata immediatamente in<br />
ospedale. Muthusamy sorrideva.<br />
Mayilvahanam era ferito seriamente.<br />
Sua moglie doveva camminare per otto<br />
chilometri all’andata e otto al ritorno<br />
per andare a visitarlo in ospedale.<br />
Ha accettato la nostra offerta di<br />
portare del cibo a Mayilvahanam.<br />
Nell’esplosione la coppia ha perduto<br />
tutti i documenti necessari per ottenere<br />
del cibo. Abbiamo presentato questo<br />
caso all’Assistente del Rappresentante<br />
del Governo a Maritimepattu che ha<br />
promesso di occuparsi della questione<br />
immediatamente.<br />
Yoharasa è stato ucciso nell’attacco.<br />
Shantharani, la sua vedova, è rimasta<br />
in stato di shock per varie settimane.<br />
Stiamo fornendo assistenza alla sua<br />
famiglia, per consentire al figlio e alla<br />
figlia di andare a scuola.<br />
Selvarani ha passato molto tempo in<br />
ospedale a causa di ferite provocata<br />
dal bombardamento. Nel frattempo<br />
Vithya, la sua figlia minore, è stata<br />
ammessa all’Università. Durante le<br />
nostre visite, Selvarani ha condiviso<br />
con noi le sue preoccupazioni, anche<br />
se allo stesso tempo era sicura di farcela,<br />
una volta migliorate le sue condizioni.<br />
Ha educatamente declinato la<br />
nostra offerta d’aiuto. Tuttavia, il suo<br />
soggiorno in ospedale ha dovuto essere<br />
prolungato. Le abbiamo detto di contattarci<br />
nel caso avesse avuto bisogno<br />
del nostro aiuto. Alla fine, l’ha fatto e<br />
siamo stati felici di poterla aiutare.<br />
Selvarani è veramente una donna notevole:<br />
una donna piena di dignità.<br />
Benedict è stata un’altra vittima.<br />
Andando a trovarlo in ospedale,<br />
abbiamo conosciuto la sua famiglia.<br />
Volevamo aiutare i suoi figli nei loro studi<br />
e siamo rimasti esterrefatti dalla<br />
risposta di Benedict: “Padre grazie<br />
mille ma, finché potrò, mi occuperò io<br />
dei miei figli. Le vostre visite e le vostre<br />
benedizioni sono sufficienti per me. È<br />
stata una vera consolazione poter<br />
parlare con voi.” Ora Benedict è<br />
tornato al lavoro: vende pesce.<br />
Le nostre visite a coloro che erano<br />
rimasti coinvolti nel bombardamento ci<br />
hanno consentito di essere accanto a<br />
loro mentre soffrivano, di essere<br />
presenti per loro come loro per noi. Ci<br />
hanno frequentemente richiesto di<br />
benedirli. Questi sono stati momenti di<br />
profonda consolazione per noi in qualità<br />
di preti e compagni di Gesù.<br />
Quando finirà tutto ciò? Il pedaggio richiesto dalla guerra civile nello Sri Lanka è pesante:<br />
innumerevoli persone sono morte, vi sono circa 650.000 sfollati interni e altri ancora cercano<br />
rifugio in altri paesi.<br />
10 Servir
Alimentare fiamme<br />
della<br />
speranza<br />
P. Stjepan Kušan SJ spiega perché il JRS abbia aperto un<br />
ufficio a Belgrado, in Serbia, dove gli sfollati hanno un profondo<br />
bisogno di sperare nel futuro.<br />
Siamo stati usati dai politici e ora siamo<br />
abbandonati. La maggior parte dei rifugiati e degli<br />
sfollati sparsi nella Repubblica Federale Jugoslava<br />
(RFJ) condivide questa opinione. Probabilmente non c’è da<br />
meravigliarsi molto. La RFJ può vantare il primato di ospitare<br />
il maggior numero di sfollati in Europa: i 200.000 sfollati<br />
della Serbia e del Montenegro fuggiti a causa della crisi nel<br />
Kossovo che, lo scorso anno, ha goduto dell’attenzione delle<br />
maggiori testate internazionali, si uniscono ai 500.000 rifugiati<br />
dalle precedenti guerre della regione. In Serbia essi<br />
condividono lo stesso destino del resto della popolazione,<br />
mutilata da quattro guerre (in Slovenia, Bosnia, Croazia e<br />
Kossovo) negli ultimi nove anni.<br />
In Serbia domina uno scenario politico irrisolto, una situazione<br />
economica e sociale molto fragile, caratterizzata da<br />
redditi precari e infrastrutture carenti. Le condizioni di incertezza<br />
del Kossovo, la possibilità di un conflitto con il<br />
Montenegro, hanno alimentato l’insicurezza, che è ormai<br />
quasi tangibile nel paese, dove i rifugiati speravano di aver<br />
trovato un rifugio sicuro.<br />
I circa 650 “centri collettivi” o campi profughi della RFJ<br />
dimostrano nei fatti il punto di vista dei rifugiati, ovvero di<br />
essere stati abbandonati. La maggior parte dei campi versa<br />
in pessime condizioni, mancano le infrastrutture essenziali.<br />
Intere famiglie condividono le stesse stanze, e tutto appare<br />
come se i rifugiati fossero arrivati pochi giorni fa, mentre di<br />
fatto molti di loro sono lì da oltre sette anni. Coloro che<br />
vivono nelle zone urbane stanno un po’ meglio. Apparentemente<br />
integrati, sono, di frequente, individui o famiglie anonime,<br />
senza nessuno che si curi di loro. La maggior parte<br />
dei rifugiati sono serbi, ma ci sono anche molti rom.<br />
Quando il JRS ha aperto un ufficio operativo a Belgrado, lo<br />
scorso settembre, abbiamo immediatamente avvertito i sentimenti<br />
di frustrazione e disperazione. Costretti ad affrontare<br />
dure prove materiali e psicologiche, i rifugiati serbi<br />
necessitano di incoraggiamento, sostegno e, in particolare,<br />
di speranza nel futuro. Quando abbiamo iniziato a lavorare<br />
a Belgrado, abbiamo deciso di aiutare gli sfollati - molti dei<br />
quali avevano abbandonato il Kossovo solo da poco, in seguito<br />
alla firma dell’accordo di pace tra la NATO e la Serbia<br />
le fiamme<br />
Le ferite lasciate dalle guerre che hanno devastato l’Europa<br />
sud-orientale si riflettono in questo crocifisso della Croazia,<br />
crivellato di proiettili. I rifugiati della regione sono l’ennesima<br />
evidenza della tragedia. Il JRS lavora per infondere speranza e<br />
per la riconciliazione<br />
- andandoli a trovare regolarmente nei campi profughi. Stiamo<br />
cercando di migliorare le condizioni di vita dei campi, approfittando<br />
delle visite per informare i rifugiati della Bosnia e<br />
della Croazia circa le condizioni del rimpatrio.<br />
Più di ogni altra cosa, noi vogliamo dimostrare che qualcuno<br />
si preoccupa di loro. Per molti, l’assistenza del JRS proveniente<br />
dalla Croazia ha un valore particolare. Significa che<br />
quelli che erano dei nemici stanno diventando ora degli amici.<br />
Lavoriamo in stretta collaborazione con la Chiesa Serba-Ortodossa,<br />
una collaborazione molto significativa in<br />
quanto distrugge la sfiducia accumulata nel corso degli anni<br />
e incoraggia una riconciliazione al di là dei confini. Un rifugiato<br />
ci ha detto: “ Non potete immaginare quanto sia felice<br />
di vedere entrambi i nostri preti lavorare insieme”.<br />
Il JRS si prende inoltre cura di 300 famiglie che vivono in<br />
umidi seminterrati o miseri appartamenti di Belgrado.<br />
All’inizio, quando i nostri operatori sono andati a trovarli, i<br />
rifugiati esitavano a farli entrare, perché si vergognavano di<br />
mostrare lo stato in cui sono costretti a vivere. D’altro<br />
canto, si sentono anche imbarazzati al pensiero di infrangere<br />
la tradizionale ospitalità serba. Dopo averci consentito di<br />
entrare, i rifugiati hanno iniziato a parlare. Man mano che<br />
essi condividono le loro storie con noi, si può intravedere un<br />
barlume di fiducia e ci rendiamo conto che, nonostante i<br />
loro problemi, la speranza non è morta.<br />
Stjepan Kušan SJ, direttore del JRS Europa sud-orientale.<br />
MAGGIO 2000 11
Un contributo inestimabile<br />
P. Mark Raper SJ, direttore del JRS Internazionale<br />
“Dieci dei miei bambini sono morti e mio marito è stato ucciso ma non incolpo<br />
nessuno. Non provo rancore nei confronti di nessuno. Né mio marito odiava i Khmer<br />
Rossi. Non voleva vendicarsi per il male che avevano compiuto. Sono come lui. Se<br />
incontrassi colui che ha ucciso mio marito non lo odierei, perché non ho odio nel mio<br />
cuore: ho accettato di privarmi di tutto. In ogni caso non sono l’unica a soffrire. E’ un<br />
intero popolo, un’intera nazione a soffrire. Ma un giorno, ne sono certa, la Cambogia<br />
conoscerà nuovamente la felicità”.<br />
Queste parole di Anne Noeum Yok Tak, introducono Osservatore -cosa ne<br />
è della notte? (Veilleur, ou en est la nuit?), sottotitolato Il Piccolo Libro<br />
dei Morti, un documento straordinario al di là di ogni dubbio. Anne Noeum<br />
Yok Tak è la vedova di Pierre Chhuom Somchay, un cristiano della Cambogia che<br />
scrisse una preghiera, o poesia, in francese sul retro del certificato di battesimo di<br />
10 dei suoi 12 figli, mentre uno dopo l’altro soccombevano alla fame e alle malattie<br />
durante il regime di Pol Pot, negli anni che vanno dal 1975 al 1979. Alla fine anche<br />
lui venne ucciso. Nel novembre 1979, mentre continuavano i combattimenti, sua<br />
moglie Ann riuscì a portare con sé il foglio, camminando per 20 giorni fino al<br />
confine, dove trovò la salvezza nel campo profughi di Khao-I-Dang, in Thailandia.<br />
Durante il tragitto ebbe la fortuna di incontrare i due figli sopravvissuti. A metà del<br />
1981, quando P. Pedro Arrupe SJ mi chiese di lavorare con il JRS in Asia, Anne<br />
Noeum Yok Tak era già nel campo Phanat Nikhom in Thailandia, e si preparava al<br />
reinsediamento in Francia mentre si prendeva cura degli orfani del campo. A quel<br />
tempo, non era del tutto chiaro cosa io o gli altri del JRS potessimo offrire ai rifugiati.<br />
E così all’inizio i rifugiati furono i miei insegnanti. Innumerevoli persone come<br />
Noeum Yok Tak mi mostrarono come fosse minimo il nostro contributo rispetto a<br />
ciò potevamo ricevere. Venti anni fa il JRS nacque da una scelta di P. Arrupe e fu il<br />
suo ultimo dono ai Gesuiti in qualità di Superiore Generale della Compagnia di Gesù.<br />
Chiese ai suoi Gesuiti di intraprendere un nuovo apostolato “ di grande importanza<br />
per oggi e per il futuro e che porterà un grande beneficio spirituale alla Compagnia<br />
stessa”. P. Arrupe aveva una visione duplice: vedeva il bisogno di cibo, alloggi,<br />
giustizia e sostegno umano che milioni di sfollati avevano; ma vedeva anche l’inestimabile<br />
contributo che tali persone avevano da offrire a un mondo corrotto i cui idoli<br />
prevalenti sono benessere, privilegio e potere.<br />
Persone come Anne Noeum Yok Tak hanno una visione e una saggezza che salveranno<br />
il nostro mondo. Con il JRS abbiamo l’inestimabile opportunità di incontrare<br />
tali persone, di accompagnarle e di imparare da loro.<br />
Ciò che possiamo dar loro è quasi nulla in paragone a ciò che possiamo ricevere<br />
Il <strong>Jesuit</strong> <strong>Refugee</strong> <strong>Service</strong><br />
pubblica Servir in Inglese,<br />
Spagnolo, Italiano e<br />
Francese.<br />
Il JRS è stato creato da P.<br />
Pedro Arrupe SJ nel 1980. E’<br />
un’organizzazione cattolica<br />
internazionale la cui<br />
missione è accompagnare,<br />
servire e difendere la causa<br />
dei rifugiati e degli sfollati.<br />
Responsabile: P. Mark Raper SJ<br />
Editore: Danielle Vella<br />
Produzione: Alberto Saccavini<br />
Gli articoli possono essere<br />
riprodotti indicandone la fonte<br />
Se desiderate essere inclusi<br />
nella nostra mailing list, scrivete a:<br />
<strong>Jesuit</strong> <strong>Refugee</strong> <strong>Service</strong><br />
C.P. 6139, 00195 Roma Prati,<br />
Italia. Fax +39-06 687 92 83<br />
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L’Ufficio Internazionale del JRS<br />
pubblica, inoltre, un bollettino<br />
quindicinale, Dispatches, che<br />
raccoglie informazioni sui<br />
progetti del JRS nel mondo,<br />
riflessioni spirituali e possibilità<br />
di lavoro all’interno JRS. Per<br />
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Sito web del JRS:<br />
http://www.jesref.org/<br />
Foto di copertina: Bambini in<br />
uno dei campi per gli sfollati del<br />
<strong>Burundi</strong>, di Amaya Valcárcel<br />
Foto di: Tutte le foto sono del<br />
JRS, ad eccezione di quelle a<br />
pag.8, di proprietà della Fondazione<br />
Shan per i Diritti Umani.<br />
Amaya Valcárcel (pag.6, 7a<br />
destra, 12); Stepen Power SJ<br />
(pag.2); Katie Erisman MM<br />
(pag.3, in basso); P. Mark Raper<br />
SJ (pag.4, 5, 7a sinistra e<br />
centrale); Mona Lazco (pag.9);<br />
Quentin Dingham (pag.10).<br />
12 Servir