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MAT RAB INAF ERIA FER ILE - Zizioli+Lorenzini

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<strong>ERIA</strong><br />

<strong>MAT</strong><br />

<strong>INAF</strong><br />

<strong>FER</strong><br />

<strong>RAB</strong><br />

Comune di Pisogne<br />

18 aprile/10 maggio 2009<br />

a cura di<br />

Giampietro Guiotto<br />

<strong>ILE</strong>


Indice<br />

p. 5 Angelo Bordonari / Dell’ala e delle labbra<br />

p. 11 Resi Girardello / Il piccolo principe<br />

p. 17 Laura Agnello Modica / Tra corpo e mondo<br />

p. 23 Forge Monchieri / Mucche in transumanza<br />

p. 27 Chiara Zizioli + Alessandro Lorenzini / Due in uno<br />

p. 33 Ausilia Scalvinoni / Margherite<br />

Cortocircuiti: Letture scelte dagli artisti


COMUNE DI PISOGNE<br />

La Mostra “Materia Inafferrabile”, installazioni d’arte, nasce dal desiderio di animare<br />

lo splendido Centro Storico pisognese, creando un connubio tra elaborazione del<br />

pensiero artistico ed osservazione storico-urbanistica.<br />

Il percorso della mostra, che si snoda dalla Piazza al lungolago, dal quartiere<br />

rinascimentale della Puda a Piazza Alpini, offre l’opportunità di apprezzare e godere<br />

del Centro Storico e della nuova passeggiata, creando momenti di piacevole svago,<br />

arricchiti dalla visione delle opere d’arte.<br />

In questo cammino ideale, in cui Pisogne diviene luogo di riflessione artistica e<br />

officina di pensiero, gli artisti regalano spunti cui i visitatori daranno un senso proprio,<br />

reinterpretando e rielaborando le opere secondo il vissuto personale.<br />

Un grazie agli artisti ed agli organizzatori che hanno, con passione ed impegno, dato<br />

un apporto fondamentale a questo importante evento. Un particolare ringraziamento<br />

al sig. Federico De Lisi e al Cav. Gianfranco Monchieri per la loro squisita disponibilità<br />

a compartecipare in modo significativo a questo progetto.<br />

Pier Matteo Bertolini Oscar Panigada<br />

Assessore alla Cultura Sindaco<br />

3


4<br />

Le forme architettoniche corteggiano l’azzurro terso del lago, per stendersi, poi, sui<br />

verdi monti. E’ il paese di Pisogne, a cui si dedica questa mostra,<br />

nata dall’inafferrabilità della materia nelle forme artistiche.<br />

Installazioni e fotografie raccontano dell’essenza dell’esperienza temporale,<br />

quella che ci insegna a cambiare il nostro tempo e il nostro sguardo, a cogliere negli<br />

attimi di visione attimi di eternità, compenetrazione di passato, presente e futuro.<br />

L’arte vorrebbe portarci nel suo tempo pieno, quello della festa in cui nessuno si<br />

isola, ma gode reciprocamente con gli altri. Ancora una volta l’arte, nell’insistente<br />

volontà di disseminare ovunque la leggerezza dell’essere e del pensiero, si dichiara<br />

portatrice della condizione provvisoria di libertà.<br />

Anche il presente catalogo, pertanto, vuole essere un breve diario<br />

che illustra il tempo della mostra, i pensieri, le divagazioni mentali di ognuno,<br />

la comunanza di intenti, i flash visivi che, ci auguriamo, estendano ancora una volta<br />

il piacere di fare arte.<br />

Pisogne, Aprile 2009<br />

Il curatore<br />

Giampietro Guiotto


Angelo Bordonari / Dell’ala e delle labbra<br />

La scultura dell’artista Angelo Bordonari si presenta spezzata, manchevole,<br />

frammentata, ma rimanda subito alla pienezza della forma nascosta e allusa, come si<br />

trattasse di un’installazione di forma classica, finita nei suoi angoli più remoti. Sono,<br />

insomma, palesi in essa le mediazioni comunicazionali, che rimandano le opere, di<br />

ascendenza classica, ad idee plastiche eterne e riconoscibili, che l’artista dispiega<br />

con molto tatto nella materia.<br />

La difesa di un’arte intesa come transito straordinario tra il mondo antico e quello<br />

contemporaneo, ora attualizzata, si sposta, poi, nella riflessione della materia scultorea,<br />

in parte frantumata e in altre parti levigata e accarezzata. In essa si rivela l’opposizione<br />

tra interezza e precarietà della materia, ossimoro della condizione vitale, opposizione<br />

della vita e della morte, dell’amore e della perdita, incompletezza dell’Essere teso alla<br />

ricostruzione continua dei suoi frammenti corporei, sensoriali e conoscitivi.<br />

Così in “Inevitabilità” la grande ala spezzata si prolunga a terra inerme; essa porta<br />

con sé un piccolo e vuoto nido d’uccello, che segna l’attesa dell’ospite ormai volato<br />

lontano, a significare la necessità della morte come l’attesa della vita.<br />

L’intensa luce che emana dall’opera è coglibile come luce spirituale dell’intero<br />

universo, a suggerirci che l’artista non ci ammannisce un discorso intorno al cosmo,<br />

ma che ci ricorda come noi stessi dimentichiamo di essere mortali, nonostante morte<br />

e vita siano inevitabilmente presenti nella nostra vita. Insomma, l’arte può aiutarci a<br />

vedere ciò che non è palese e immediatamente visibile, a “Vedere attraverso il cuore<br />

della luce”, come l’artista esplicita in un’altra opera, due grandi labbra sospese e<br />

diafane alla riva del Lago tra due enormi alberi in fioritura. Esse non si incontreranno<br />

mai, ma, nella loro perseveranza impossibile, rivelano l’attesa possibile e il contatto<br />

impossibile, la possibilità dell’Essere eternamente teso verso l’Altro o l’ignoto che<br />

non conosce.<br />

Questa visione possibilista apre ad un mondo segreto e miracoloso, che ci spinge a<br />

percorrerlo a brevi passi, in silenzio, per visitarlo e conoscerlo. La realtà ontologica<br />

dell’opera d’arte apre così il suo carattere di rappresentanza, liberando la riflessione<br />

estetica dai problemi semiotici sulla natura del simbolo e sul loro potere significante,<br />

poiché il significato va colto nel simbolo stesso, “nel gioco o nella rappresentazione<br />

della attività simbolizzatrice” (Riccardo Dottori).<br />

Le sculture di Bordonari, nel tentativo di rendere le cose della nostra esistenza<br />

parzialmente e umanamente più vicine al nostro sentire, mostrano così il nostro<br />

frammento mancante, la parte di noi che non corrisponde alla maschera o<br />

all’immagine che copre il nostro essere, ma che veglia sull’inatteso e sul nascosto<br />

già insito nella nostra coscienza e che non ci è permesso di cogliere esattamente<br />

nella sua essenza.<br />

Angelo Bordonari si vota, così, a Mnemosyne, la musa della appropriazione attraverso<br />

il ricordo e, nello stesso tempo, la divinità della libertà dello spirito, “del futuro aperto<br />

e del passato irrepetibile”.<br />

5


6<br />

Nella spiritualità dei nostri sensi, l’artista cerca di cogliere la significanza che l’arte<br />

può rappresentare per noi, come ricorda Gadamer, che avanza citando un passo del<br />

Simposio di Platone, nel quale Aristofane racconta una storia sull’essenza dell’amore<br />

che riduce l’uomo a un frammento, a un sùmbolon toù antròpou alla ricerca di<br />

completamento. Il frammento diventa metafora dell’Essere riconoscibile nell’unità del<br />

cosmo, entità vagante alla ricerca di Sé attraverso l’Altro, amore o attesa di qualcuno<br />

che venga a completare la felicità e si avveri l’incontro.<br />

Questa metafora del filosofo tedesco, presa in prestito da Platone, traduce l’incontro<br />

tra le anime e la manifestazione della Bellezza, quella bellezza che può essere<br />

provata anche nell’arte attraverso il rimando all’invisibile, cioè a quel particolare<br />

frammento od opera che racchiuda in sé “l’evocazione magica di un possibile ordine<br />

sacro, dovunque esso sia”. Un frammento che sia apparizione sensibile dell’idea ed<br />

esperienza del simbolico, che allude sempre alla pienezza e all’armonia del vivere.


cortocircuiti<br />

letture scelte dall’artista<br />

Angelo Bordonari<br />

Shakespeare,<br />

Milan Kundera,<br />

André Comte Sponville<br />

Tu puoi vedere in me quella stagione dell’anno<br />

Quando le foglie ingiallite, o più nessuna, o<br />

poche,<br />

pendono dai rami tremanti al freddo inverno,<br />

nudi e desolati cori su cui cantavano tempo fa<br />

i dolci uccelli.<br />

In me vedi il crepuscolo del giorno,<br />

che va spegnendosi a occidente dopo il tramonto,<br />

sempre più portato via dalla notte nera,<br />

immagine della morte, che tutto sigilla nella<br />

quiete.<br />

In me vedi la fiamma di quel fuoco,<br />

che arde sulle ceneri della sua giovinezza,<br />

come fossero il letto di morte sul quale dovrà<br />

spirare,<br />

consumato da quello che fu già il suo alimento.<br />

Questo tu percepisci, ed è questo che rende il<br />

tuo amore più forte,<br />

amando proprio quello che dovrai lasciare tra<br />

breve.<br />

Shakespeare, Sonetti, LXXIII<br />

Quando l’uomo smette di gestire la propria<br />

Immortalità e non la considera più una cosa<br />

seria, sa che solo e unicamente qui è la<br />

Verità.<br />

Milan Kundera, L’immortalità<br />

L’oscurità, che ci separa dal più vicino,<br />

ci apre al più lontano.<br />

Non vediamo a cento passi, vediamo,<br />

benché a occhio nudo,<br />

A miliardi di chilometri ...<br />

La Via Lattea la nostra galassia,<br />

o almeno quella di cui facciamo<br />

Parte: più di cento miliardi di stelle<br />

e la più vicina al Sole<br />

è a trenta miliardi di chilometri.<br />

La notte, tutto cambia dimensioni.<br />

Il Sole, finché brilla,<br />

ci tiene in una sorta di prigione di luce,<br />

che è il mondo, il nostro mondo.<br />

Ecco che l’oscurità, quando il tempo è bello,<br />

ci apre alla Luce del cielo, che è l’universo.<br />

A stento indovino la terra che calpesto.<br />

Ma percepisco, meglio che in pieno giorno,<br />

l’inaccessibile che mi contiene.<br />

André Comte Sponville, Lo spirito dell’ateismo<br />

9


Resi Girardello / Il piccolo principe<br />

La precarietà sembra essere diventata il carattere peculiare di ogni forma artistica<br />

che si ritiene contemporanea. Il pensiero estetico, infatti, insiste sulla precarietà di<br />

ogni tipo di verità, ordine e costruzione, ma, mentre le arti visive possono articolarsi<br />

oggi nei vari linguaggi dell’evento performativo, l’architettura appare come l’arte<br />

che più deve fare i conti con il tempo e la persistenza che la limita. L’architettura<br />

contemporanea, quella che ci fornisce i musei più belli del mondo o i grattacieli<br />

svettanti sempre più in alto nel cielo, sottolinea questa continua battaglia alla quale<br />

l’architetto è sottoposto fino a rappresentare ogni costruzione costantemente in bilico<br />

tra precarietà e durata, tra durevolezza e mutabilità, tra materiale e immateriale. Le<br />

caratteristiche peculiari di questa architettura decostruttivista, quali il superamento<br />

dei rapporti di staticità tradizionale, la mancanza di ortogonalità e la disarmonia<br />

cromatica e dei materiali, sembrano sfidare persino la condizione di gravità, per<br />

confluire in un disegno architettonico illusorio e fantastico, destinato a consumarsi<br />

nella storia, nella cultura e nella geografia spaziale del momento.<br />

Nell’attualità della ricerca di nuove forme, l’architettura si misura con il tempo<br />

presente, ma nello stesso istante si slega da esso per promuovere la persistenza<br />

e la speranza di consegnare il nuovo al futuro. L’architettura contemporanea si<br />

rivela, così, indecisa se promuovere la precarietà o la persistenza, dimenticandosi<br />

che i centri storici e i piccoli paesi sono gli spazi più ambiti dal vivere e del nuovo<br />

benessere, i luoghi del passato in cui percepiamo di vivere meglio. Paradossalmente,<br />

come scrive l’architetto Mario Botta, negli spazi del passato che sono stati realizzati<br />

da popoli estinti per rispondere alle esigenze diverse dalle nostre, noi riconosciamo<br />

una qualità di vita superiore a quella presente nelle nuove costruzioni. Nel confronto<br />

tra locale e globale, tra passato e presente, tra tradizione e innovazione, l’uomo, da<br />

sempre, ritrova le radici della propria storia, il senso del proprio presente che deve<br />

vivere, la necessità di traghettare l’antico nel presente per renderlo attuale.<br />

In questa dialettica nuovo/antico, l’architettura, intesa come stratificazione di storia,<br />

sapienza artigianale ed espressione tecnologica dei materiali e creazione di forme<br />

simboliche della tensione umana, si riqualifica come arte maggiore sempre più<br />

interessata ad una ridefinizione di arte totale. Essa entra, così, in dialogo sempre<br />

più serrato con la scultura e le altri arti visive, nel tentativo di ridisegnare uno spazio<br />

estetico sempre più vicino al bisogno di bellezza generatrice di senso.<br />

In questo sconfinamento dei linguaggi artistici nel quale sembra inutile distinguere le<br />

varie arti, s’inserisce il lavoro “Castello in aria” di Resi Girardello, costruito interamente<br />

da fili di ferro e rame e da lamine metalliche.<br />

La solidità della struttura architettonica, tradotta in pareti perforate dal disegno a<br />

maglia metallica, allude ad un piccolo castello fiabesco tridimensionale parzialmente<br />

coperto da smalti metallizzati e argentati, che ripercorrono con il loro cromatismo<br />

sintetico l’intelaiatura dell’installazione. Nella rivisitazione fantastica dell’architettura<br />

classica, l’artista riperimetra con fili metallici i contorni di porte, finestre, guglie, torri<br />

e rosoni, per poi unificarli e trasformarli in forme del vuoto e in profili architettonici,<br />

e dunque del pensiero libero, semplice, infantile e poetico, che mette in ridicolo<br />

la funzionalità e la monumentalità di tutte le architetture della storia. L’arte di Resi<br />

Girardello, vicina a quella del ricamo o del ferro battuto, diventa elegante e colta,<br />

attenta e precisa, semplice e naturale in quanto legata alla manualità artigianale<br />

11


12<br />

antica, che interpreta il materiale e traduce la propria soggettività in atto creativo. I<br />

suoi castelli, come altre installazioni, liberati dalla costrizione della materia, dal peso<br />

scultoreo o architettonico, richiamano nelle strutture soltanto la forma originaria, ma,<br />

nell’eleganza e nella preziosità degli intrecci dei fili ferrosi, l’opera appare un grande<br />

e prezioso gioiello. L’artista consegna, così, alla povertà del filo di ferro o del rame un<br />

prezioso valore, che eleva ad una nuova dignità e inaspettata eleganza.<br />

Nel lunghissimo tempo necessario alla realizzazione delle opere fatte di svariatissimi<br />

materiali presi a prestito dalla natura e da tutto ciò che le sta intorno, quali nylon, ferro,<br />

rame, sassi, uova, piume di pavone e tessuti vari, Resi Girardello sembra sostenere<br />

che la manualità è la cosa più importante del suo lavoro, magia dell’artigianato che<br />

supera la tecnica dell’arte, perché le cose che lei tocca le parlano mostrandole il<br />

percorso o il disegno da seguire. Ogni materiale è per l’artista potenzialità di pensiero<br />

e, pertanto, può essere modificato, trasformato, lavorato e penetrato. In questo<br />

riconoscimento dei valori intrinseci di ogni materia, l’oggetto prodotto diventa analisi<br />

e riflessione delle caratteristiche intime del materiale trasformabile in arte. La ricerca<br />

e l’elaborazione degli elementi diversi conferiscono anche nell’opera “Castello in<br />

aria” la magia dell’inatteso, la gioia del misterioso, il godimento e il dialogo intimo e<br />

affettuoso dell’artista con la materia e l’oggetto manipolato.<br />

A differenza di molti artisti i quali lavorano con materiale di scarto o recupero, Girardello<br />

preferisce la povertà dei materiali vicini e dismessi, quelli che la saggia cultura veneta,<br />

da cui lei proviene, trattiene a sé come segni di rifiuto dello spreco consumistico<br />

attuale. La sua arte non trattiene, però, la nostalgia dei materiali inusitati, bensì la<br />

ricerca legata alla reinterpretazione di quello che nel tempo è stato creato e quindi<br />

è già interpretato. In essa si assiste allo sconfinamento della funzione originaria<br />

attribuita all’oggetto d’uso, alla funzionalità popolare assegnata al materiale e alla<br />

libertà assoluta, sciolta da qualsiasi rappresentazione, disegno o maglia persino<br />

ideologica, all’utilizzo dello spazio senza avere più limiti o regole costruttive.<br />

Come nel “Castello di Atlante” di Ludovico Ariosto, costruito fittiziamente per imbonire<br />

e imprigionare gli eroi crociati, ma in realtà privato di consistenza se non quella<br />

ideale, anche il castello di fili di ferro di Resi Girardello allude alle trappole visive,<br />

alla leggerezza del vivere e all’importanza del nulla e del vuoto, all’illusione della<br />

forma. Esso vuole soltanto alludere al luogo della liberazione da ogni costruzione<br />

e costrizione astratta e materiale. Paradossalmente, però, quest’artista continua a<br />

produrre maglie che vorrebbero imprigionare e coprire la forma, si ostina a intrecciare<br />

fitti fili che inseguono nel disegno e nel ricordo la forma allusa.<br />

L’artista, comunque non sembra essere preoccupata dalla tecnica da lei scelta.<br />

Essa decide di farsi possedere dal ritmo ossessivo del ricamo in fili di rame e<br />

ferro, accarezza e punge continuamente la struttura, traccia e rin-traccia il segno<br />

sommerso nella memoria, cosciente, però, che il tempo dell’esecuzione e il tempo<br />

impreciso del ricordo non coincidono con il tempo istantaneo dell’emozione. E’<br />

questo il momento della creazione artistica, l’atto di sospensione dal tempo reale, lo<br />

sprofondamento nella coscienza, la pausa, l’allontanamento da ogni preoccupazione<br />

della rappresentazione, in breve è la fuga. Dall’opera affiora il ricordo, mentre i ricami,<br />

o comunemente chiamati anche opere, rivendicano il ritmo naturale antico, il tempo<br />

lento privato, il respiro psichico e il silenzio del pensiero al femminile.<br />

Nel rapporto fisico e sensuale con il filo e con il supporto, l’artista ritorna ai tempi della<br />

sua infanzia, recupera la parte di sé svilita; ma di quel rito, fatto di disegno, fil di ferro<br />

e trame, rimane ora soltanto un’intatta nostalgia.


cortocircuiti<br />

letture scelte dall’artista<br />

Resi Girardello<br />

Norman MacCaig,<br />

Anonimo,<br />

K. Gibran<br />

L’ultima parola<br />

Non voglio dire di te<br />

in modo romantico<br />

Non voglio riempirti<br />

d’inflazioni verbali e pompose metafore.<br />

Ti voglio descrivere<br />

con il regolo, il compasso e il valore del pi greco.<br />

Quanta intelligenza i grilli e i cuculi<br />

nel trovare la loro autentica parola finale<br />

e mantenerla. Che artista<br />

il re di quaglie quando trasforma un campo intero<br />

nell’orchestra di una nota sola. Com’è sensata la rana,<br />

non dice altro che cra-cra<br />

Ma come posso io trovare<br />

quell’autentica parola finale se giace<br />

alla fine senza fine del<br />

valore del pi greco? e di quale utilità<br />

sono i regoli e i compassi<br />

per misurare le dimensioni<br />

delle dimensioni?<br />

Norman MacCaig, L’ultima parola<br />

Amami quando me lo merito meno,<br />

perché sarà quando ne ho più bisogno.<br />

Anonimo, frase n.79 dai Baci Perugina<br />

L’amore non possiede né vuole essere posseduto.<br />

K. Gibran, frase n. 129 dai Baci Perugina<br />

15


Laura Agnello Modica / Tra corpo e mondo<br />

Nella storia del pensiero occidentale, le visioni metafisiche vincenti si interposero<br />

su quelle sciamaniche e tribali, dure a morire, che anzi non morirono mai e vivono<br />

ancora oggi, per le quali l’anima, che è la dimensione irrazionale che cerca di<br />

staccarsi dal corpo, spinge per “liberarsi a suo piacimento e viaggiare in regioni<br />

lontane” (U. Galimberti, 1983). Oggi, per noi, il corpo è il risultato dello sguardo<br />

anatomico della scienza ed è, quindi, un aggregato di parti, incompatibile, però, con<br />

lo statuto di oggetto, perché esso è costantemente percepito e non è mai posto di<br />

fronte al soggetto pensante. Esso è macchina in cui ogni pezzo deve funzionare<br />

perfettamente e garantire il soggetto non-pensante.<br />

Il corpo per Laura Agnello Modica è, invece, un insieme di elementi metafisici e corporei<br />

costituito da riflesso, ombra, impronta, pelle, specchio, fotografia e, infine, parole. Il<br />

riflesso non è il reale, ma ha l’aspetto del reale. Per questo motivo ci confonde. Nel<br />

caso dell’ombra e dell’impronta, l’uomo sente una stretta connessione con il corpo,<br />

come un sintomo di appartenenza. L’impronta possiede, a differenza del riflesso e<br />

dell’ombra con cui è in forte affinità, una materialità che è un’oggettivazione dell’Io,<br />

o, meglio, del corpo che lo rappresenta. La pelle ha una funzione eminentemente<br />

protettiva, ma nel contempo è mezzo di comunicazione tra l’in sé - per sé e il mondo,<br />

predisposta a modificarsi seguendo forze interne ed esterne che entrano in contatto<br />

con essa. Essa è confine e soglia dell’Io, è sicura testimone del mondo psichico,<br />

romanzo visivo in cui si scrive la vita.<br />

Con questi parametri filosofici Laura Agnello Modica penetra l’universo storico<br />

lentamente, lo setaccia e lo scompone quasi scrivendoci sopra, incidendolo e<br />

manifestandolo. In questa sorta di comunicazione complessa, l’artista traduce il<br />

corpo in frammenti leggeri, galleggianti sul Lago e appesi all’interno dell’alta torre<br />

pisognese in pagine scombinate di pelle in vetroresina e in fogli A4, che raccontano<br />

la storia del mondo e le percezioni dell’uomo. Così, per la storia di Valcamonica e<br />

della sua prima terra, Pisogne, Agnello Modica percorre d’un balzo le vicende della<br />

signoria vescovile del Trecento e la gente sottomessa, ma ribelle e vigile che vi si<br />

rapportava; continua, poi, nell’ultimo Quattrocento e nei primi anni del Cinquecento,<br />

per cogliere artisticamente l’avvento di streghe e stregoni come segno inconfondibile<br />

di una ribellione di massa divenuta inesauribile, ma anche inestricabile, con il sacrificio<br />

del corpo eretico bruciato dagli inquisitori, come se si fosse trattato di una radicale e<br />

terribile scarificazione tribale.<br />

Un’immagine che serve all’artista per tradurre questi pensieri e cose è lo specchio,<br />

che garantisce la somiglianza e coglie oggi l’identità reciproca della donna, una<br />

volta ritenuta strega, oggi sentita come altra. L’immagine speculare, lasciata da<br />

un corpo durante il suo trapasso - una vera sindone profana -, diventa per questa<br />

artista testimonianza della diversità del suo essere l’altro/a. Oggi, però, la fisionomia<br />

dell’uomo è visibile a tutti soprattutto attraverso la fotografia, che è connessa al<br />

concetto di morte, poiché essa ci trasmette sempre un’immagine del passato,<br />

17


18<br />

anche del più prossimo. E l’eterno presente non rimane affidato che alla parola, anzi<br />

al Logos, che inscrive la storia, cattura l’arte nel suo aspetto emozionale e ce la<br />

conserva perennemente.<br />

Conservare il corpo e, conseguentemente, il mondo diventa svelamento del simbolo<br />

che racchiude in sé “un’immagine concentrata nello specchio dello spirito, ma per altro<br />

identica all’oggetto”(Goethe). Per molti secoli l’apparire del mondo segnò la sconfitta<br />

del corpo, che si tradusse in soma, pronto a divenire cadavere e, se vivo, servo<br />

dell’anima. Laura Agnello Modica, invece, in quest’opera-installazione che occupa<br />

la superficie del Lago e il vuoto dello spazio della torre pisognese, detta a corpo e a<br />

mondo la loro essenza, il loro nome: il corpo appare nel mondo e si manifesta come l’<br />

“altro”, l’irriducibile, il tutto che pensa, mentre il restante è mondo. Come per la pittura,<br />

anch’esso non appartiene alle apparenze, non è la pelle delle cose. Saggiamente,<br />

come sosteneva Maurice Merleau–Ponty , “l’arte ferma un istante gli uomini intenti al<br />

lavoro della loro vita, e in questo istante tutta la verità della vita si trova: “un attimo di<br />

visione, un sospiro, un sorriso – e il ritorno a un eterno riposo””.


cortocircuiti<br />

letture scelte dall’artista<br />

Laura Agnello Modica<br />

Italo Calvino,<br />

Roberto Andrea Lorenzi,<br />

Ken Follet<br />

Lettrice, ora sei letta.<br />

Il corpo conta in quanto parte d’un insieme d’elementi<br />

complicati, non tutti visibili e non tutti presenti, che si<br />

manifestano in avvenimenti visibili e immediati […] Tutti i<br />

segni che stanno sul confine tra te e […] tutti i poveri alfabeti<br />

attraverso i quali un essere umano crede in certi momenti di<br />

star leggendo un altro essere umano.<br />

E anche tu intanto sei oggetto di lettura, o Lettore: la Lettrice<br />

ora passa in rassegna il tuo corpo come scorrendo l’indice<br />

dei capitoli, ora lo consulta come presa da curiosità rapide e<br />

precise […]<br />

e da questo avvio lei prende lo slancio, percorre pagine e<br />

pagine da cima a fondo senza saltare una virgola […]<br />

S’insinua un dubbio: che lei non stia leggendo te uno e<br />

intero come sei, ma usandoti, usando i frammenti di te<br />

staccati dal contesto […]<br />

E ciò che lei sta decifrando sia questo apocrifo visitatore dei<br />

suoi sogni, non te.<br />

Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore<br />

Pisogne 1518: caccia alle streghe<br />

E’, dunque, possibile rintracciare un filo conduttore tra<br />

i due momenti di caccia alle streghe che interessarono<br />

la Valcamonica, dal 1485 al 1518. L’eresia medievale e<br />

l’eresia moderna del luteranesimo dispongono questo filo<br />

attraverso il quale può essere decifrata l’attività inquisitoriale<br />

e, nello stesso tempo, la stregheria come psicosi di<br />

massa. (…) Le zone di confine con la Svizzera, come sono<br />

appunto la Valtellina e la Valcamonica, sono le più inquiete<br />

e le più battute dagli inquisitori domenicani. Terremoti,<br />

carestie, guerre, pestilenze contribuiscono certamente alla<br />

formulazione più semplice, utile a spiegare questa calamità,<br />

opera del demonio. Perché opere demoniache, sono ritenute<br />

removibili attraverso il culto di chi la provoca, il diavolo<br />

appunto. Ma la società dominante utilizza tutto ciò per uno<br />

scopo assai complesso: “Se il capro espiatorio universale<br />

della morte nera in Germania era stato l’ebreo, quello della<br />

guerra di religione sarà la strega” (H.R. Trevor Roper).<br />

Ciò vale anche per la Valcamonica e per le zone alpine.<br />

La stregheria investe in breve tempo tutta la Valle, da<br />

Edolo a Pisogne, villaggi nei quali vengono bruciate vive<br />

più di sessanta donne ed alcuni uomini, streghe e stregoni<br />

colpevoli di avere assaltato uomini, donne ed animali e di<br />

avere seccato prati e piante con i loro incantesimi. Forse<br />

in questi assalti vi è la traccia, oltre che della povertà<br />

dominante e del periodo di ristrettezza economica, di quel<br />

disagio sociale, pure esso frutto della miseria, che anche in<br />

Valle contribuisce alla nascita del brigantaggio.<br />

Siamo nel 1510, ma i processi e le condanne per stregheria<br />

non accennano a finire. Nel 1518 altre otto streghe vengono<br />

arse a Pisogne. Di questi ultimi avvenimenti possediamo<br />

una relazione di voce laica, quella del veneziano Marino<br />

Sanuto che, pur non dubitando della realtà della stregheria,<br />

denuncia i sistemi con i quali vengono estorte le confessioni<br />

alle vittime. La voce di procedimenti giudiziari poco<br />

ortodossi doveva essere giunta a Venezia, che infatti invia<br />

un suo osservatore a Pisogne. L’accusa è qui sostenuta<br />

da frate Bernardino Grossi, un invasato che correva la<br />

Valle alimentando roghi e ricorrendo a qualsiasi pressione<br />

psicologica possibile pur di estorcere confessioni alle sue<br />

vittime. Nella vicenda sono implicati anche degli uomini,<br />

Antonio Decus, il Ciabattino e Bartolomeo Mori, sulla cui<br />

sorte nulla sappiamo, evidentemente accusati a loro volta da<br />

una delle vittime, che poi li discolpa davanti a tutti prima di<br />

essere bruciata.<br />

Anche qui, nuovamente, l’accusa e la confessione di sabba<br />

sul monte Tonale, estorta attraverso la prova del fuoco che<br />

dalla relazione di Sanuto appare un mezzo ordinariamente<br />

utilizzato. La relazione, dopo avere detto che “in<br />

21


22<br />

Valcamonica, in quattro diverse località, sono già state arse<br />

64 persone, maschi e femmine, e altrettanti e (anzi) di più<br />

si trovano in prigione”, quantifica il numero dei detenuti per<br />

stregoneria a circa 5000, una cifra che ha dell’incredibile.<br />

E’ una detenzione di massa, giustificabile solo se si pensa<br />

ad una vera e propria rivolta contadina contro l’inquisizione,<br />

qui strettamente connessa al potere politico. E’ questa<br />

detenzione di massa che costringerà Venezia ad assumere<br />

un punto di vista più flessibile attorno alla stregheria, in<br />

un’opera di sopimento delle esasperazione inquisitoriali, fino<br />

al punto di incorrere nell’ammonizione della bolla papale di<br />

Leone X, la “Honestis potentium votis” del 1521. (…)<br />

Le vicende camune della stregheria evidenziano come fosse<br />

soprattutto la donna ad esserne coinvolta. Essa rappresenta,<br />

a livello generale, uno dei tre poli della diversità, come<br />

si è storicamente data, accanto all’ebreo e, dall’età di<br />

Costantino, all’omosessuale. Passa, in questi avvenimenti,<br />

la misoginia tipica del clero riformato dall’azione degli ordini<br />

mendicanti e, ancora, la tradizione sessuofobica cristiana<br />

che voleva la donna corruttrice per natura. (…) Ma vi è qui<br />

anche la testimonianza di un radicale attaccamento alla<br />

realtà materiale e sociale, di una capacità ad esprimere<br />

la nascente angoscia del gruppo familiare in una società<br />

protocapitalistica e contraddittoria, che evidentemente la<br />

donna sapeva rappresentare in modo potenziato. In questa<br />

società culturalmente antropomorfica nella lettura e nella<br />

spiegazione dei fenomeni naturali e sociali, in cui non v’è<br />

scienza se non come rappresentazione, in cui la durezza<br />

della vita quotidiana e i toni crudi del vivere sono assunti<br />

come caratteri strutturali ineliminabili, in cui maggiormente<br />

valeva scongiurare i mali che abbatterli, la visione<br />

antropomorfica ed animistica essenziale alla spiegazione<br />

di ciò che quotidianamente accade si struttura in ideologia.<br />

(…).<br />

Roberto Andrea Lorenzi, Medioevo camuno. Proprietà,<br />

classi, società (1979), 2° ed., 1991<br />

“A man who makes ointments and medicines is called an<br />

apothecary, but a woman who does the same runs the risk of<br />

being called a witch. […]<br />

Men like to kill a woman, every now and again. […] That’s<br />

why I always tell people that only God works miracles. I<br />

don’t conjure spirits. I just use the herbs of the forest and my<br />

powers of observation.”<br />

“But he cannot go unobserved, as the horse presses his<br />

hoofprints into the mud, as the kitchen mouse makes dainty<br />

tracks across the butter, as the lecher deposits his vile seed<br />

to grow in the womb of the deceived maid, so the devil must<br />

leave – his mark! […]<br />

The servants of the evil one may be known by the mark he<br />

leaves upon them.”<br />

“This mark is dark in colour, ridged like a nipple, and rises<br />

from the clear skin around it. It may be on any part of the<br />

body. Sometimes it lies in the soft valley between a woman’s<br />

breasts, the unnatural manifestation cruelly mimicking the<br />

natural. But the devil best likes it to be in the secret places of<br />

the body: in the groin, on the private parts, especially—” […]<br />

“You are demanding that the woman’s body be examined for<br />

the Devil’s Mark.”<br />

Ken Follett, World without end, 2007, Macmillan editore


Forge Monchieri / Mucche in transumanza<br />

La tendenza dell’uomo a trovare simulacri che possano aiutarlo a vivere è antica.<br />

Nel contemporaneo, alle forme archetipiche del passato si affiancano sempre più<br />

nuovi oggetti e immagini di adorazione quotidiana, capaci di assecondare i nostri riti<br />

consumistici e di fornirci l’equivalente di quanto in passato era dispensato dal mondo<br />

religioso e mitico. Ammettiamolo: abbiamo sempre meno bisogno di santini e sempre<br />

più bisogno di icone o immagini di divi ed eroi, di oggetti divertenti senza funzione,<br />

portatori di nuovi significati simbolici, sprofondamenti interiori e immaginari. E non ci<br />

importa nemmeno se questi oggetti o immagini qualche esteta li definisce kitsch o<br />

banali. Si sa, il kitsch ha a che fare con l’estetica, con quella filosofia dell’arte nata<br />

nel ‘700 che pretendeva di dettare le regole del gusto e voleva distinguere quello<br />

buono da quello cattivo. Eppure, sentirsi sdolcinati e sentimentali per il possesso di<br />

immagini od oggetti persino volgari o pseudoartistici da adorare, amare e coccolare,<br />

è vitale come il dolore e l’amore promosso dalla pubblicità. Insomma, è qualcosa che<br />

ci rincuora.<br />

Il termine kitsch, inoltre, nato nella seconda metà dell’‘800 per indicare il “vedere<br />

qualcos’altro al posto di ciò che era esattamente richiesto”, non era già attivo in<br />

epoche lontane, come per esempio nel barocco spagnolo? Per persuadere i fedeli,<br />

durante gli autosacramentales, quei piccoli bambini nudi, appesi a corde in cima<br />

alla volta della cupola, non simulavano falsi ed ovvi angioletti sgambettanti? Forse<br />

nel barocco, come in tanti altri periodi in cui il regime ha sempre cercato il consenso<br />

massificato e acritico, bisognava offrire alle masse immagini degne di ammirazione e<br />

oggetti di devozione e stupore in grado di confortarle. Per fortuna è arrivata la Pop Art<br />

a ridicolizzare il kitsch; per fortuna Jeff Koons con le sue sculture oggettuali difende<br />

il nostro attaccamento ad oggetti del nostro desiderio, fino a poco tempo fa ritenuti<br />

volgari. La dipendenza psicologica dagli oggetti ci aiuta, inoltre, a promuovere la nostra<br />

immagine da vendere, ci aiuta a modellare la nostra identità che si definisce tramite<br />

le cose che compriamo, compresa l’arte, l’eterno feticcio del mondo materialista.<br />

Se qualcuno, quindi, fosse tentato di acquistare le mucche da collezione di Forge<br />

Monchieri per collocarle nel proprio giardino, rimarrebbe frustrato, perché queste<br />

opere d’arte non sono vendibili e nemmeno riproducibili. Nate come oggetti ideali<br />

e visualizzazione di un mondo agricolo ormai scomparso, le mucche dell’Azienda<br />

del Cav. Gianfranco Monchieri suscitano la nostalgia e la visione concreta di un<br />

territorio amato, l’ambiguità tra irrealtà e realtà del visibile. Nella parvenza di sculture<br />

oggettuali, esse vorrebbero mimare (o ridicolizzare?) l’arte concettuale e la bellezza<br />

del processo mentale dell’artista necessario alla costruzione dell’opera, ma, nella<br />

loro nuda oggettività, esse ammettono di non conoscere l’artista che le ha create e,<br />

quindi, nemmeno l’idea prima che le ha generate.<br />

In questo momento esse subiscono, però, una dislocazione temporale, una sorta<br />

di transumanza artistica dal luogo loro consueto, che è il parco dell’Azienda Forge<br />

Monchieri, alla piazza e lungolago di Pisogne, per partecipare ad un’esposizione<br />

d’installazione d’arte contemporanea. Decontestualizzate dal luogo originario, esse<br />

diventano ora, grazie al godimento visivo e al consenso del pubblico, inedite opere<br />

d’arte che generano nuove percezioni sensibili e riflessioni sul senso del vivere,<br />

temporanea visione di un mondo assurdo ed enigmatico, ma anche gioioso.<br />

23


24<br />

La mucca azzurra con nuvole bianche diventa, inoltre, omaggio a René Magritte,<br />

richiamo al cielo simbolo di serenità, tanto amato dall’artista. I paradossi visivi<br />

magrittiani, creati dall’assurdità del pensiero e visibili anche nell’opera L’impero delle<br />

luci nella quale una casa è avvolta nell’oscurità mentre il cielo sovrastante è diurno<br />

e rischiarato, ricompaiono ora nel manto della mucca, al quale è stato aggiunto un<br />

fulgido sole. Nelle immagini magrittiane, le nuvole, posate nella campagna a livello di<br />

terreno, avevano la funzione di cuscino, mentre le nuvole sul corpo delle mucche da<br />

collezione di Forge Monchieri fungono da manto d’aria, leggero e primaverile. Le altre<br />

mucche rosa, accovacciate a riposo e collocate davanti alle panchine della piazza,<br />

dialogano con la gente seduta anch’essa in relax, mentre quell’altra mucca di colore<br />

viola, situata nel piccolo frammento d’erba lungo il camminamento del lungolago,<br />

bruca silenziosamente l’ultimo squarcio d’erba rimasto.<br />

Nella loro irrealtà, esse diventano pensiero invisibile, come il dolore e il piacere, direbbe<br />

Magritte. Esse rappresentano in modo non più illusorio quello che è scomparso, la<br />

vita contadina e lo spazio della natura disintegrata dall’uomo. Un tempo, nel colore<br />

del manto delle autentiche mucche nere a chiazze bianche si stendeva, forse, un<br />

cielo tempestoso percorso da limpidissime nuvole bianche, mentre ora, grazie alla<br />

trasmutazione dell’arte, compaiono cieli azzurri, soli, lune e colori sgargianti. Mucche,<br />

o, più affettuosamente, vacche che rappresentano l’illogico, visioni della nostalgia e<br />

della meraviglia tesa a produrre universi inattendibili che si prendono gioco della<br />

nostra incontrovertibile ragione. Alla fine del loro peregrinare, e dopo aver assolto<br />

il loro compito artistico o concettuale, esse ritorneranno nel giardino delle Forge<br />

Monchieri, al legittimo proprietario che provvederà, come ogni anno, a cambiar loro il<br />

colore e i disegni del manto e a comunicarci, attraverso l’emozione del colore mutato,<br />

la vitalità e la fantasia che le accompagna.<br />

Grazie di cuore, mucche, di essere passate in transumanza a trovarci sul lungolago.<br />

E mille grazie alla famiglia Monchieri.<br />

Forge Monchieri<br />

Forge Monchieri, fondata nel 1970, è un azienda Leader nella fucinatura di pezzi in acciai speciali destinati al<br />

settore energetico (turbine a gas, turbine a vapore e compressori), eolico, petrolchimico e meccanica generale.<br />

Forgiatura (da foggiare, dare forma) consiste nel trasformare dei blocchi di acciaio (lingotti, materia prima)<br />

scaldandoli in forni fino a 1.250°C, dando la forma necessaria prevista a disegno e dando, nella stessa fase, la<br />

massima sanità richiesta in base al tipo di acciaio (analisi chimica).<br />

Forge Monchieri produce, oltre a particolari più leggeri, fucinati fino a Kg 100.000 (centomila chili-100 ton) di<br />

peso con una pressa idraulica, fra le più grandi d’Europa, da 12.000 ton (dodicimila).<br />

I particolari sono prodotti su commessa ed oltre il 75% sono destinati ai principali mercati europei ed extraeuropei<br />

(Cina, India, Stati Uniti, Brasile…)<br />

Il supporto di uno staff manageriale e l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia permettono il mantenimento di un<br />

elevato standard qualitativo sul prodotto finale, nel rispetto delle normative ambientali (ISO 14001), di qualità<br />

(ISO 9001) e di sicurezza (OHSAS 18001).<br />

L’Azienda occupa oltre 150 addetti e si sviluppa su un’area di circa 55.000 mq di cui 35.000 mq coperti e grazie<br />

al suo continuo sviluppo sia tecnologico che di risorse umane oggi si pone fra i primi produttori di fucinati nel<br />

mondo.<br />

La costruzione dei siti produttivi di Forge Monchieri è stata sempre realizzata ponendo particolare attenzione<br />

alla cura dell’estetica e dell’arte architettonica per sottolineare che si può fare industria creando del bello e<br />

piacevole.<br />

Le mucche in vetroresina situate all’esterno dello stabilimento di Forge Monchieri ne sono un esempio, ispirato<br />

alla cow- parade (conosciuta in tutto il mondo: www.cowparade.com.). Con tale iniziativa, pensando alle origini<br />

e alle tradizioni del territorio, si è voluto creare un connubio tra industria e natura, tra tecnologia e ambiente.<br />

Forge Monchieri, crede inoltre nella cultura come risorsa importante per il radicamento dell’impresa nel proprio<br />

territorio, e, per tale ragione, contribuisce da anni a valorizzare e promuovere l’arte, la cultura e le tradizioni,<br />

ospitando ogni anno nel proprio insediamento produttivo uno spettacolo del Festival teatrale Crocifixsus, della<br />

Provincia di Brescia, organizzato dall’Associazione Festival di Primavera.


Chiara Zizioli + Alessandro Lorenzini / Due in uno<br />

“Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti<br />

del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio”.<br />

(Guy Debord)<br />

Rifiutare ogni contemplazione, perché con essa hai finito di vivere, e non accettare<br />

di riconoscersi nelle immagini del bisogno che ti domina: solo così afferrerai la tua<br />

esistenza e il desiderio che essa esprime profondamente. L’affermazione di Guy<br />

Debord che ci porta a questo rifiuto/accettazione apre un ossimoro profondo, che<br />

fa dell’opera luminosa “Aspettando la grande onda” di Zizioli + Lorenzini un punto di<br />

non ritorno in arte e di rottura con le immagini. Questa estrema iconoclastia, ossia<br />

la distruzione impietosa di qualsiasi immagine, per qualcuno consegue alla morte<br />

dell’arte, mentre invece libera la parola assoluta, estrema, nuda, che ridisegna<br />

metafisicamente le immagini del mondo e ce lo riconsegna come nuovo, come fosse<br />

fatto di cieli nuovi e terra nuova. In questa morte dell’immagine, la parola “ultima”<br />

riprende così la sua sacralità: è verbo da rifulgere e da conseguire, è il Lògos di<br />

Platone e dei Vangeli, e ci costringe ad attendere qualcosa che deve accadere e<br />

che, con il semplice atto di pronunciarla, ci porta dentro un meraviglioso viaggio<br />

fatto di arrivi e partenze (proprio così, in un circuito rovesciato!), di occasioni fino<br />

al momento remote e di emozioni evidenti e giuste. “Aspettando la grande onda”<br />

è, allora, la frase-arte che sconvolge la storia dell’arte con una semplice proiezione<br />

luminosa delle parole, per ottenere la quale gli artisti devono procedere nel più alto<br />

luogo possibile e scrivere il più perpendicolare possibile, occupando di notte il Lago<br />

d’Iseo, che diviene la sede ideale di questa installazione.<br />

Zizioli + Lorenzini sembrano così lavorare nell’ambito della pubblicità e degli slogan,<br />

quindi si presume che essi conoscano bene il valore della comunicazione visiva e la<br />

menzogna legata al lavoro pubblicitario. Nella loro proposta realisticamente possibile<br />

di un fascio di luce esclusivamente notturna che proietta la frase “Aspettando la<br />

grande onda” essi producono l’irrealtà del pensiero, provocano nello spettatore un<br />

senso di disagio o di sconcerto fino a lasciarlo nell’attesa irreale di qualcosa che<br />

potrebbe avverarsi. L’opera prende di mira innanzitutto qualsiasi modalità visiva<br />

compresa l’arte stessa perché la vera rappresentazione è linguaggio convenzionale<br />

esattamente come lo è la parola e l’immagine. Gli artisti, nel mostrarci dunque il<br />

ragionamento semiotico e non l’emozione relativa ad esso, ammettano l’irrealtà della<br />

loro opera, intesa come idea disegnata che non coincide con la realtà.<br />

Se tale ragionamento è convincente, anche l’uso delle parole e l’uso delle immagini<br />

in arte non riguardano la realtà intesa come referente. Essi affermano la non verità e<br />

lo scollamento nei riguardi del mondo reale. Si scopre che il linguaggio verbale non<br />

è naturalistico ma costruzione mentale di realtà espressa attraverso il codice della<br />

lingua. Certo, folgorati da questa verità, ci si presenta un lato oscuro della condizione<br />

nella quale noi la riconosciamo. Sono le direzioni culturali in cui ci riconosciamo e che<br />

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28<br />

si escludono a vicenda: EAST/WEST, dicono gli artisti Zizioli + Lorenzini in un’altra<br />

opera; Oriente e Occidente, come dicevano gli Antichi, punti cardine che non ci<br />

donano un asse palese e sicuro, ma ci lasciano sconvolti e sempre in prova, come<br />

dei naufraghi o degli zingari.<br />

In questo gioco di simmetrie tra le parti, la coppia di artisti apre uno spiraglio di luce,<br />

un buco nella rete, una breccia nel muro, da dove ognuno può transitare, ideare,<br />

progettare e, nuovamente, parlare con voce inusuale affermando il suo Lògos: tra<br />

la partenza e la destinazione, muta e si trasforma la funzione del limite, che diviene<br />

un’unione di spazi di vita. L’idea basilare di ogni loro progetto è di trasformare la<br />

funzione del limite, di sciogliere la dicotomia tra interno e esterno, luce e oscurità,<br />

giorno e notte. Perché – come è stato scritto - la questione non è ciò che siamo, ma<br />

ciò che vorremmo essere. E l’arte senza immagini ci aiuta a conseguirlo.<br />

Ma un’arte senza immagini è ancora definibile come arte? Trans-arte, forse, poiché<br />

in essa l’opera si colloca e sta dove non c’è opera, aprendo completamente alla<br />

socialità e alla semiotica, alla politica e all’ermeneutica. E’ la realtà, dunque, a essere<br />

carica di non-senso, oppure essa si dispiega in ordinata naturalità e siamo noi con<br />

i nostri sensi, ragione, fantasia e regole linguistiche e mentali che sconvolgiamo la<br />

logica naturale fino ad inventarla? Questo rimane il mistero e il dubbio promosso dai<br />

due artisti Zizioli + Lorenzini, la parte nascosta della realtà e del nostro essere che<br />

ci è ignoto.


cortocircuiti<br />

Satisfaction<br />

letture scelte dagli artisti<br />

Chiara Zizioli +<br />

Alessandro Lorenzini<br />

Rolling Stones,<br />

Hunter S. Thompson,<br />

Guy Debord,<br />

Woody Allen<br />

I can’t get no satisfaction,<br />

I can’t get no satisfaction.<br />

‘Cause I try and I try and I try and I try.<br />

I can’t get no, I can’t get no.<br />

When I’m drivin’ in my car<br />

and that man comes on the radio<br />

and he’s tellin’ me more and more<br />

about some useless information<br />

supposed to fire my imagination.<br />

I can’t get no, oh no no no.<br />

Hey hey hey, that’s what I say.<br />

I can’t get no satisfaction,<br />

I can’t get no satisfaction.<br />

‘Cause I try and I try and I try and I try.<br />

I can’t get no, I can’t get no.<br />

When I’m watchin’ my TV<br />

and that man comes on to tell me<br />

how white my shirts can be.<br />

Well he can’t be a man ‘cause he doesn’t smoke<br />

the same cigarrettes as me.<br />

I can’t get no, oh no no no.<br />

Hey hey hey, that’s what I say.<br />

I can’t get no satisfaction,<br />

I can’t get no girl with action.<br />

‘Cause I try and I try and I try and I try.<br />

I can’t get no, I can’t get no.<br />

When I’m ridin’ round the world<br />

and I’m doin’ this and I’m signing that<br />

and I’m tryin’ to make some girl<br />

who tells me baby better come back later next week<br />

‘cause you see I’m on losing streak.<br />

I can’t get no, oh no no no.<br />

Hey hey hey, that’s what I say.<br />

I can’t get no, I can’t get no,<br />

I can’t get no satisfaction,<br />

no satisfaction, no satisfaction, no satisfaction.<br />

Jagger/Richards, I Can’t Get No<br />

Strani ricordi quella nervosa nottata a Las Vegas. Cinque<br />

anni dopo? Sei? Sembra passata una vita, o almeno<br />

un’epoca – quel tipo di culmine che non tornerà mai più.<br />

San Francisco e la metà degli anni Sessanta erano un<br />

bel tempo e un bel posto da vivere. Forse ha significato<br />

qualcosa. O forse no, alla lunga… ma nessuna spiegazione,<br />

nessun insieme di parole o musiche o ricordi può toccare la<br />

consapevolezza di essere stato là, vivo, in quell’angolo di<br />

tempo e di mondo. Qualunque cosa significasse…<br />

La storia è difficile da conoscere, per via di tutte le stronzate<br />

che ci aggiungono, ma anche senza essere sicuri di quello<br />

che dice la Storia pare del tutto ragionevole pensare che<br />

ogni tanto l’energia di un’intera generazione si concentri in<br />

un lungo bellissimo lampo, per ragioni che nessuno capisce<br />

– e che mai spiegheranno, retrospettivamente, ciò che è<br />

veramente accaduto.<br />

Potevi sprizzare scintille dovunque. C’era una fantastica<br />

universale impressione che qualunque cosa si facesse fosse<br />

giusta, che si stesse vincendo…<br />

E quella, credo, era la nostra ragion d’essere – quel senso<br />

di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio e del Male.<br />

Vittoria non in senso violento o militare: non ne avevamo<br />

bisogno. La nostra energia avrebbe semplicemente<br />

prevalso. Non c’era lotta – tra la nostra parte e la loro.<br />

Avevamo tutto l’abbrivo noi; stavamo cavalcando un’onda<br />

altissima e meravigliosa…<br />

Ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una<br />

qualsiasi collina di Las Vegas e guardare verso ovest, e con<br />

gli occhi adatti potevi quasi vedere il segno dell’alta marea<br />

– quel punto in cui l’onda, alla fine si è spezzata per tornare<br />

indietro.<br />

Hunter S. Thompson, Paura e disgusto a Las Vegas<br />

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32<br />

Più egli contempla meno vive; più accetta di riconoscersi<br />

nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende<br />

la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio. Lo<br />

spettacolo non è un insieme d’immagini ma un rapporto<br />

sociale fra individui mediato dalle immagini.<br />

Guy Debord, La società dello spettacolo<br />

Mickey: “Avevo bisogno di raccogliere le idee, riflettere<br />

un momento con logica, rimettere il mondo nella giusta<br />

prospettiva. Allora salii su di sopra, mi sedetti sul balcone<br />

e… e il film era un film che avevo visto tante volte in vita<br />

mia, fin da ragazzo, e sempre mi era piaciuto. Ed ecco che<br />

me ne stavo a guardare… a guardare tutta quella gente,<br />

lassù sullo schermo e, così, poco a poco, sapete, il film mi<br />

ha preso…<br />

E mi sono messo a pensare: come può saltarti in testa<br />

di ammazzarti? Cioè, non è una cretinata? Voglio dire,<br />

guardala là tutta quella gente, lassù, sullo schermo.<br />

Insomma, sono buffi tutti quanti, e… che importa se le cose<br />

vanno di male in peggio?<br />

Che importa se Dio non esiste, e se tu fai un giro soltanto<br />

sulla giostra, e dopo basta? Insomma, dico, non ti pare<br />

che valga la pena farne esperienza? Che diamine, mica<br />

tutto è uno strazio. Allora penso tra me e me, Gesù, dovrei<br />

smetterla di rovinarmi la vita cercando risposte che, tanto,<br />

non otterrò mai – e godermela invece, finché dura. E poi<br />

dopo, sai, chissà! Voglio dire, può darsi che, forse, di là c’è<br />

qualcosa. Nessuno può saperlo con certezza. Lo so, lo so,<br />

quel “forse” è un filo troppo sottile, per appenderci tutta la<br />

vita, ma è quanto di meglio abbiamo. Allora mi rilassai. E in<br />

effetti cominciai a divertirmi.”<br />

Woody Allen, Hannah e le sue sorelle


Ausilia Scalvinoni / Margherite<br />

La Bellezza della Natura<br />

Incontrare la bellezza della Natura ha qualcosa di meraviglioso. Nelle sue forme,<br />

colori e meccanismi rigenerativi, legati al tempo ciclico delle stagioni, se di stagioni<br />

si può ancora parlare, noi cogliamo la forza primordiale della rinascita e il concetto<br />

metafisico della creazione. In questa esperienza comunicativa e percettiva di<br />

bellezza, nella quale noi crediamo che la natura metta in mostra il suo splendore<br />

appositamente per noi; a parlarci è la potenza spirituale della solitudine. Entrambi soli,<br />

uomo e natura, abitano comunque la vita e il mondo; ma del Bello naturale le regole,<br />

a cui noi speriamo di attingere maggiore conoscenza, ci sono ignote. La natura,<br />

infatti, palpita lontano dal nostro tempo e dal nostro spazio; essa è disinteressata a<br />

noi e indifferente al nostro giudizio di gusto sulla sua bellezza. Ciò che ci colpisce<br />

e ci attrae di essa è solo un gioco interpretativo libero e indipendente dall’intelletto.<br />

All’uomo non resta che inventarsi e creare un Bello artistico, una bellezza dell’artificio<br />

che insegni a cogliere il bello naturale attraverso gli occhi dell’arte. Solo in quell’istante<br />

il bello naturale diventa riflesso di quello artistico, che aiuta a cogliere l’essenza della<br />

Bellezza in Natura, fino a renderla splendente.<br />

Eterne margherite<br />

La presenza dei fiori vivifica tutta l’atmosfera che ci circonda. Li compriamo, li<br />

ammiriamo e li regaliamo, forse anche per non dimenticare che esiste la bellezza,<br />

quella che ci colpisce e non sappiamo descrivere, quella che ci ammutolisce.<br />

L’esserci nel mondo è, per i fiori, testimonianza della eterna, naturale bellezza,<br />

radicata nell’universo ed estranea all’uomo. Che noi ce ne accorgiamo o meno, essi<br />

sono lì, comunque, per farci ricordare il bisogno umano di incontrare ed amare cose<br />

belle. L’insostituibile bellezza della natura diventa, così, incoraggiamento per l’artista<br />

a promuovere e riflettere sul concetto di bellezza del suo tempo.<br />

Da sempre poeti ed artisti si sono avvalsi del fiore per enucleare la loro idea estetica:<br />

nel ‘700, sensista ed illuminista, i poeti pretendevano di parlare al fiore per descrivere<br />

le loro aspre pene d’amore. Alla fine ‘800, l’Estetismo e il Simbolismo accentuano<br />

la sua sensualità formale: Dorian Gray è sorpreso da Lord Henry nel suo giardino<br />

“con il volto affogato nei fiori di lillà, bevendone febbrilmente il profumo come un<br />

vino”. Georgia O’Keeffe, nei primi decenni del ‘900, trasforma i fiori in ambigue<br />

astrazioni sensuali, anticipando, così, quel raffinato erotismo espresso poi da Robert<br />

Mapplethorpe. Andy Warhol, che ha sempre intravisto la morte in ogni cosa, li riduce<br />

a immagini coloratissime, ultimo ricordo di natura divenuta artificiale.<br />

Le margherite di Ausilia Scalvinoni sono, invece, forme che approdano ad un’ampia<br />

riflessione filosofica, occidentale e orientale. Lo sviluppo digitale che ha permesso<br />

33


34<br />

l’inversione del bianco e nero, quasi a farlo sembrare un negativo fotografico, insegue<br />

le forme, fino a illuminarle da dentro e far trasparire la loro essenza in bilico tra<br />

materia e spirito.<br />

L’intima natura ricompare, così, dall’oscurità drammatica e soffusa, per rivelarsi<br />

come manifestazione spontanea del perpetuo fiorire e sfiorire, intimità dell’essere<br />

che scopre il principio che rende eterni i fiori.<br />

Il colore, inteso come involucro emotivo della forma, scompare, per alludere alla<br />

forma primigenia, all’illuminazione di quell’istante in cui la forma è evanescente. Nei<br />

grigi e nei neri abissali, i loro steli si inclinano, la compostezza delle loro corolle si<br />

sfascia, mentre l’ultima parvenza di petalo sfoglia e ondeggia.<br />

Nel loro dinamismo di linee e movimenti sinuosi, si cristallizza la visione della fugacità<br />

dell’attimo, l’emersione dell’oscurità che cerca la luce, il desidero di sottrarsi all’abisso<br />

metafisico e impalpabile del mondo, la volontà di librarsi là dove il nulla incontra il<br />

vuoto. La loro esistenza e la loro vitalità di margherite si annullano per assumere le<br />

forme dell’inquietudine, della precipitazione, dello spreco di energie, dell’impazienza<br />

verso l’ignoto. Come ogni fiore, esse si scoprono prive di importanza nella pienezza<br />

cosmica. Pertanto, il nostro sguardo deve agire con delicatezza e tenerezza.<br />

A loro bisogna chiedere soltanto ciò che è conforme alla loro natura. Come per<br />

il poeta giapponese Basho, il nostro sguardo dev’essere quello dell’artista che<br />

guarda ogni fiore con il più modesto rispetto, convinto che ognuno di essi accolga<br />

in sé il segreto profondo della natura, che è “arte senza arte”. Ogni fiore, si sa, è<br />

sinonimo di una manifestazione di forte energia, nella quale è implicita l’idea del suo<br />

futuro esaurimento; ma il significato sotteso è quello che il fiore e l’uomo mutano e<br />

periscono, mentre la loro essenza permane e può vincere il tempo. La loro vita è<br />

soltanto una danza: i loro gambi si muovono come linee sinuose d’indicibile soavità,<br />

mentre i petali si dissolvono come tracce o riflessi di ondulazioni spirituali. Le forme<br />

non oppongono resistenza al soffio del vento: nel loro abbandono, fluttuano e in<br />

questo modo rimangono intatte. La loro materia è delicatissima e impalpabile, tenace<br />

e precaria, come ogni corpo e sostanza, mentre lo spirito che li anima svanisce nel<br />

tempo. Nella ricerca dell’artista, tesa alla perfezione della forma e alla manipolazione<br />

della luce, le margherite appaiono scheletri di forma che rappresentano l’inafferrabile,<br />

l’informale, il silenzio, la bellezza discreta che cela l’intangibile, il mistero del cosmo,<br />

la perdita dell’Io e l’abbandono del mondo.<br />

La fotografia di Ausilia Scalvinoni ci parla, così, di luce e oscurità, di dinamismo e<br />

immobilità, di silenzio e incomunicabilità, di vita e morte. La materia è destinata a<br />

perdere la forma, ma negli ultimi movimenti di vitalità riecheggia l’inno all’amore,<br />

la danza nel silenzio e nel vuoto, nella trasparenza dell’aria e nella profondità<br />

dell’acqua che ci riconduce al fiume eterno: essenze floreali al limite estremo della<br />

semplificazione, entità alla ricerca di una danza che corrisponda al ritmo delle<br />

pulsazioni del loro spirito vitale, emanazioni di luce e riverberi di natura che si<br />

estendono all’infinito.


cortocircuiti<br />

Primavera<br />

1. Funghi in città<br />

letture scelte dall’artista<br />

Ausilia Scalvinoni<br />

Italo Calvino,<br />

Giuseppe Ungaretti,<br />

Giangiorgio Pasqualotto,<br />

Vocabolario<br />

Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di<br />

cui s’accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati<br />

del fieno, che starnutano per pollini di fiori d’altre terre.<br />

Un giorno, sulla striscia d’aiola d’un corso cittadino, capitò<br />

chissà donde una ventata di spore, e ci germinarono<br />

dei funghi. Nessuno se ne accorse tranne il manovale<br />

Marcovaldo che proprio lì prendeva ogni mattina il tram.<br />

Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di<br />

città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti,<br />

per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano<br />

il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto.<br />

Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma<br />

che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai:<br />

non c’era tafano sul dorso di un cavallo, pertugio di tarlo<br />

in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede<br />

che marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di<br />

ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i<br />

desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.<br />

Così un mattino, aspettando il tram che lo portava alla<br />

ditta Sbav dov’era uomo di fatica, notò qualcosa d’insolito<br />

presso la fermata, nella striscia di terra sterile e incrostata<br />

che segue l’alberatura del viale: in certi punti, al ceppo<br />

degli alberi, sembrava si gonfiassero bernoccoli che qua<br />

e là s’aprivano e lasciavano affiorare tondeggianti corpi<br />

sotterranei. Si chinò a legarsi le scarpe e guardò meglio:<br />

erano funghi, veri funghi, che stavano spuntando proprio<br />

nel cuore della città! A Marcovaldo parve che il mondo<br />

grigio e misero che lo circondava diventasse tutt’a un<br />

tratto generoso di ricchezze nascoste, e che dalla vita ci si<br />

potesse ancora aspettare qualcosa, oltre la paga oraria<br />

del salario contrattuale, la contingenza, gli assegni familiari<br />

e il caropane.<br />

Italo Calvino, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, 1993<br />

Eterno<br />

Tra un fiore colto e l’altro donato<br />

l’inesprimibile nulla<br />

Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo, 1969<br />

Il vuoto dell’ikebana<br />

(…) il materiale stesso usato nell’ikebana - fiori e rami -<br />

mostra più di ogni altro il proprio carattere di transitorietà,<br />

di impermanenza e, nel contempo, allude al fatto che tale<br />

carattere anicca connota necessariamente ogni materiale, sia<br />

fisico che mentale: atomi e pensieri; rocce e verità. É tuttavia<br />

da precisare che il mujō (anicca) evidenziato nell’ikebana non<br />

può essere inteso nel senso della «caducità», perchè in questo<br />

termine si nasconde - almeno per gran parte della nostra<br />

tradizione occidentale - l’idea di una perdita e il sentimento<br />

della malinconia: questo e quella nascono come segni di<br />

delusione rispetto all’illusione della durata, spesso sognata<br />

addirittura come eterna. Qui, invece, si è in un orizzonte<br />

di significato in cui si è consapevoli che l’unica condizione<br />

reale è quella dell’impermanenza: pertanto la composizione<br />

secondo l’ikebana non è che una manifestazione concentrata,<br />

un «distillato» esteticamente efficace di tale impermanenza<br />

universale: allora contemplare fiori e foglie che cadono non<br />

equivale a soffrire o a godere morbosamente per la loro morte<br />

e, in generale, per la caducità del mondo, ma significa cogliere<br />

la bellezza della loro impermanenza e, con essa, quella della<br />

vita in generale.<br />

(...) evidente è la potenza del vuoto nell’ikebana se si<br />

considera il rapporto tra gli spazi creati dalla disposizione dei<br />

diversi rami. Se infatti, da un lato, (...) la studiata distanza<br />

tra un ramo e l’altro è funzionale a mostrarne il carattere<br />

non assoluto ma relativo, dall’altro lato questa distanza è<br />

funzionale a mettere in evidenza le caratteristiche proprie<br />

di ciascun ramo. Come a dire: l’impossibilità di concepire<br />

un elemento separatamente dagli altri non comporta la<br />

necessità di confonderlo con gli altri, ma, anzi, è radicata<br />

nella possibilità di coglierne la natura specifica. In tal<br />

modo l’ikebana si manifesta come «via» (dō), come arte<br />

per mostrare, grazie al vuoto che gira attorno ai fiori e ai<br />

rami, non solo le loro reciproche relazioni, ma anche le<br />

caratteristiche proprie di ciascuno. In questa operazione<br />

condotta dall’ikebana si potrebbero cogliere i segni di un<br />

eccesso di artificiosità, di una distanziazione massima<br />

dalla natura. In realtà nell’ikebana non si fa che evidenziare<br />

«distillandola» l’armonia asimmetrica che vige in natura<br />

ma che, normalmente, non appare perchè sommersa dalla<br />

37


38<br />

quantità di elementi che la costituiscono: le combinazioni<br />

di rami in un bosco o di fiori in un prato sono presenti in<br />

numero così alto che le qualità intrinseche di ciascuna<br />

di esse e dei singoli elementi che vi appartengono non<br />

possono venire percepite con chiarezza e precisione.<br />

L’ikebana, mediante l’uso del vuoto, non fa che ridurre la<br />

quantità di elementi percepibili per aumentare la possibilità<br />

e l’intensità di percepirne la qualità: produce povertà<br />

quantitativa per produrre ricchezza qualitativa. (...) è<br />

l’operazione con cui si ottiene una riduzione al minimo degli<br />

elementi impiegati, alla quale corrisponde un’espansione al<br />

massimo delle loro qualità e, di conseguenza, si producono<br />

le condizioni per un massimo di intensità percettiva.<br />

Questa «riduzione» degli elementi impiegati potrebbe<br />

indurre a spiegare soltanto il ruolo svolto dal vuoto spaziale,<br />

mentre fondamentale, nell’ikebana, è quello svolto dal vuoto<br />

temporale, ottenuto grazie alla qualità degli elementi impiegati.<br />

Queste due funzioni non sono staccate e semplicemente<br />

accostate, ma appaiono strettamente intrecciate; infatti<br />

si potrebbe dire che la riduzione al minimo degli elementi<br />

impiegati è funzionale non solo alla messa in rilievo delle<br />

loro qualità formali (struttura e colore dei fiori) ma anche<br />

e soprattutto all’evidenziazione della qualità specifica che<br />

con maggior intensità li determina tutti, indipendentemente<br />

dalle loro differenti qualità formali: l’impermanenza. Così,<br />

nell’ikebana, lo spazio vuoto attorno ad un ramo o a un fiore<br />

non serve soltanto a far risaltare le loro forme, ma finisce<br />

con l’esaltare la loro impermanenza. Se si intende l’ikebana<br />

non semplicemente come una forma di contemplazione, ma<br />

come un’esperienza pratica, l’importanza di questo carattere<br />

di impermanenza risulta ancor più evidente: in particolare, se<br />

si presta attenzione al fatto che il vuoto del vaso è metafora<br />

sensibile del vuoto della mente, ciò che emerge è non solo il<br />

processo «spaziale» per cui il vuoto del vaso rende possibile<br />

ed accoglie la disposizione dei fiori così come il vuoto della<br />

mente rende possibile ed accoglie la disposizione di idee<br />

ed emozioni, ma è soprattutto l’esperienza «temporale» per<br />

cui idee ed emozioni, al pari delle loro disposizioni, vengono<br />

vissute come impermanenti, transitorie, vuote di persistenza.<br />

Allora diventa chiaro che quando a proposito dell’ikebana si<br />

parla di un «massimo di intensità percettiva» non ci si riferisce<br />

soltanto all’evidenza con la quale si manifestano i contorni<br />

formali e i particolari botanici dei fiori, ma si intende soprattutto<br />

la forza con cui si esplica l’esperienza dell’impermanenza:<br />

quando, disponendo i fiori nel vuoto del vaso, si diventa<br />

consapevoli, in modo sensibile, che tutti gli eventi, compresi<br />

quelli che determinano la propria coscienza e, quindi, anche<br />

questa consapevolezza, sono permeati dallo stesso vuoto che<br />

in poco tempo fa diventare fiore un germoglio e che in poco<br />

tempo lo fa anche appassire.<br />

Giangiorgio Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e<br />

meditazione nelle culture d’Oriente, 1992<br />

Margherita<br />

Si dice abbia facoltà profetiche. Gli innamorati la sfogliano<br />

per sapere se il loro amore è ricambiato.<br />

Nel Medioevo, le donne riconoscevano pubblicamente di<br />

essere amare e di riamare quando concedevano al loro<br />

cavaliere il permesso di ornare il proprio scudo con due<br />

margherite.<br />

Opposto è il messaggio che altri hanno assegnato al fiore:<br />

quando una donna non era sicura dell’affetto dell’amato<br />

si ornava la fronte con margherite. E’ il simbolo della<br />

semplicità, freschezza e purezza.<br />

Vocabolario, http://www.tuttotutto.net/cassetto/linguaggio_<br />

fiori.htm


Angelo Bordonari<br />

Angelo Bordonari, nato<br />

a Brescia il 12/1/1951,<br />

laureato in Belle Arti nel<br />

1985 presso la University<br />

of Central England,<br />

Birmingham, Inghilterra.<br />

Dal 1985 al 2002 docente<br />

di scultura presso la<br />

University of Central<br />

England, Birmingham,<br />

Inghilterra.<br />

Dal 2003, docente di<br />

Scultura, presso la Libera<br />

Accademia di Belle Arti<br />

(L.A.B.A.) di Brescia.<br />

contact:<br />

angelobordonari@virgilio.it<br />

Catalogo a cura di<br />

Giampietro Guiotto<br />

Testi critici<br />

Giampietro Guiotto<br />

Resi Girardello<br />

Vive e lavora tra il Veneto e<br />

la Lombardia.<br />

Diploma di maturità<br />

artistica.<br />

Diplomata in Pittura<br />

all’Accademia di Belle<br />

Arti di Venezia nel 1995,<br />

dove ha concluso nel<br />

2005 il Biennio di Laurea<br />

Specialistica in Arti visive e<br />

discipline dello spettacolo.<br />

Dal 2001 è titolare di<br />

cattedra e attualmente<br />

insegna discipline pittoriche<br />

presso il Liceo artistico<br />

Boccioni di Valdagno (Vi).<br />

contact:<br />

resi3@interfree.it<br />

Referenze fotografiche<br />

Angelo Bordonari: ABBAS Photographer -<br />

contact: meabbas@hotmail.co.uk<br />

Laura Agnello Modica, Resi Girardello,<br />

Ausilia Scalvinoni, Zizioli + Lorenzini: a cura degli autori<br />

Le mucche da collezione di Forge Monchieri:<br />

a cura di Forge Monchieri<br />

Stampa<br />

Arti Grafiche Apollonio, Brescia<br />

Ringraziamenti<br />

Laura Agnello Modica<br />

Nata a Milano il 14 gennaio<br />

1986.<br />

Nel 2005 consegue il<br />

diploma presso il Liceo<br />

Artistico Statale di<br />

Bergamo, in Discipline<br />

Plastiche.<br />

Nel febbraio 2009 si<br />

diploma presso la Libera<br />

Accademia di Belle Arti<br />

(L.A.B.A.) di Brescia in Arti<br />

Visive-Scultura.<br />

contact:<br />

agnutz@yahoo.it<br />

Chiara Zizioli +<br />

Alessandro Lorenzini<br />

Chiara Zizioli è nata a<br />

Brescia il 29 marzo 1981.<br />

Alessandro Lorenzini è<br />

nato a Bovolone (VR) il 25<br />

settembre 1978.<br />

Entrambi si sono diplomati<br />

presso l’Accademia di Belle<br />

Arti “G.B. Cignaroli” di<br />

Verona.<br />

Da alcuni anni lavorano<br />

insieme nell’ambito<br />

dell’installazione e degli<br />

interventi sites specific.<br />

Vivono e lavorano a<br />

Verona.<br />

contact:<br />

www.ziziolielorenzini.it<br />

Ausilia Scalvinoni<br />

Nasce a Berzo Inferiore<br />

(Brescia) il 14 gennaio<br />

1954.<br />

Diplomata presso la Libera<br />

Accademia di Belle Arti<br />

L.A.B.A. di Brescia<br />

Affianca alla tecnica<br />

dell’acquerello una ricerca<br />

attraverso la tecnica dei<br />

pastelli.<br />

Parallelamente alla pittura<br />

effettua la sua ricerca<br />

anche negli ambiti della<br />

fotografia e dell’incisione.<br />

Vive e lavora a Brescia.<br />

contact:<br />

ausilia.scalvinoni@alice.it<br />

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