PLAUTO DI SARSINA: UN PROFILO* - Comune di Sarsina
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<strong>PLAUTO</strong> <strong>DI</strong> <strong>SARSINA</strong>: <strong>UN</strong> PROFILO<br />
verrà mai meno nella critica antica. È bensí vero che l’età augustea e il<br />
I sec. d. C. mettono un po’ da parte la letteratura arcaica proprio perché<br />
giu<strong>di</strong>cata, nell’insieme, incapace <strong>di</strong> creazioni in grado <strong>di</strong> contendere con<br />
i Greci e <strong>di</strong> superarli: ma si tratta <strong>di</strong> un momento assolutamente particolare,<br />
giustificato dai capolavori che le lettere latine seppero produrre nel<br />
corso <strong>di</strong> anni eccezionali. Fra essi, peraltro, nulla c’è che riguar<strong>di</strong> il teatro<br />
(ma sono perduti due testi celebratissimi dell’età augustea: il Thyestes <strong>di</strong><br />
Vario Rufo e la Medea <strong>di</strong> Ovi<strong>di</strong>o) e non è con le trage<strong>di</strong>e <strong>di</strong> Seneca che i<br />
Romani potevano emulare i tragici attici. Quando, alla fine del I sec. e<br />
durante tutto il II sec. d. C., la letteratura arcaica ritorna trionfalmente<br />
d’attualità (<strong>di</strong> moda, anzi), si ripropone, in sostanza, la posizione <strong>di</strong> Cicerone<br />
e i testi latini e greci sono collocati, come punto <strong>di</strong> partenza per<br />
una valutazione, su un piano identico, giu<strong>di</strong>cando <strong>di</strong> volta in volta a chi<br />
spetti la palma. Inoltre, in questo periodo, la letteratura arcaica e il teatro<br />
in particolare sono considerati la fonte inesauribile della più autentica<br />
lingua latina, cui attingere preziosità lessicali e morfologiche, vocaboli<br />
particolarmente espressivi perché rari e desueti e, insomma, la pura et incorrupta<br />
Latinitas.<br />
Il modo ciceroniano <strong>di</strong> porre il problema del rapporto fra le comme<strong>di</strong>e<br />
<strong>di</strong> Plauto, o <strong>di</strong> altro autore <strong>di</strong> palliatae, e i modelli greci è, lo ripetiamo,<br />
<strong>di</strong> grande importanza, in quanto implica che il giu<strong>di</strong>zio sia<br />
formulato <strong>di</strong> volta in volta, analizzando concretamente i testi messi a confronto.<br />
Va da sé, d’altro canto, che questo giu<strong>di</strong>zio gli antichi possono<br />
averlo formulato, ed in effetti lo formularono, in base a criteri ben <strong>di</strong>versi<br />
dai nostri, giungendo a valutazioni che possiamo o anche dobbiamo respingere.<br />
Nelle Noctes Atticae <strong>di</strong> Gellio c’è un passo famoso 48, in cui un<br />
brano <strong>di</strong> Cecilio Stazio 49 è paragonato al passo corrispondente <strong>di</strong> Menandro<br />
50. Il caso è emblematico: più d’uno dei moderni ha con<strong>di</strong>viso, un<br />
tempo, la sostanziale condanna <strong>di</strong> Cecilio come incapace <strong>di</strong> rendere adeguatamente<br />
in latino le raffinatezze menandree; ma la critica più scaltrita<br />
ha invece colto le peculiarità dei due testi, per cui (e par quasi incre<strong>di</strong>bile)<br />
essi in sostanza risultano “incommensurabili”, essendo il gusto e gli<br />
intenti dell’uno e dell’altro estremamente <strong>di</strong>versi. Inoltre a Gellio sfugge<br />
48 2, 23, 1 ss.<br />
49 V. 142 ss. Ribb³; sull’interpretazione metrica del canticum staziano vd. C. QUESTA,<br />
Numeri innumeri. Ricerche sui cantica e la tra<strong>di</strong>zione manoscritta <strong>di</strong> Plauto, Roma 1984,<br />
pp. 381-397.<br />
50 Fr. 404 Koe.<br />
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