Il viaggio in Italia di Anton van Dyck - Fondazione Internazionale ...

n° 336 - luglio 2008
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Il viaggio in Italia di Anton van Dyck
Tra Genova e Palermo gli itinerari del maestro fiammingo
che rivoluzionò la ritrattistica del suo tempo
Il periodo trascorso in
Italia rappresenta una
tappa fondamentale per
il percorso artistico del
pittore fiammingo, che
vi giunse nell’autunno
del 1621, quando aveva
ventidue anni: nonostante
la giovane età la
sua fama aveva già varcato
i confini della città
natale, procurandogli
nel corso dell’anno precedente
un invito a Londra
presso il re Giacomo
I. Proprio grazie a una
licenza di otto mesi concessagli
dalla corte inglese,
van Dyck potè intraprendere
il viaggio
in Italia. Dopo una sosta
a Genova presso i fratelli
de Wael, pittori
suoi concittadini che vi
si erano stabiliti da alcuni
anni, proseguì per
Venezia e Roma. Qui
trascorse alcuni mesi dedicandosi
allo studio dei
maestri del Cinquecento:
dal Taccuino italiano, nel
quale sono raccolti
schizzi e disegni tratti
dalle opere che ebbe la
possibilità di vedere visitando
chiese e palazzi,
e che costituisce una sorta
di diario di viaggio illustrato,
appare evidente
che van Dyck dedicò la
massima attenzione soprattutto
allo studio
della pittura di Tiziano,
la cui lezione, in particolare
per quanto riguarda
l’impiego dello
sfumato, fu determinante
per numerose
opere del periodo geno-
vese; è il caso del Vertumno
e Pomona, dipinto
per la famiglia Doria,
nel quale la derivazione
tizianesca appare evidente
non soltanto nella
tecnica pittorica, ma anche
nell’impianto compositivo
del quadro,
molto vicino a quello
della Danae di Tiziano,
che van Dyck poteva ammirare
proprio nella collezione
Doria.
Analogamente, risulta
netta la ripresa da Tiziano
dell’unico dipinto
di soggetto allegorico
eseguito da Van Dyck
nel periodo italiano, Le
età dell’uomo, tema al
quale il maestro veneto
aveva dedicato una tela
che il pittore fiammingo
ebbe modo di conoscere
visitando la collezione
Aldobrandini a Roma:
dal dipinto di Tiziano
deriva anche la rappresentazione
dell’età matura
in forma di incontro
amoroso, mentre è
del tutto originale nel
dipinto di van Dyck la
composizione, con un
andamento circolare che
allude al ciclo della vita,
ma allo stesso tempo
isola i vari momenti dell’esistenza,
pur contigui,
disponendo le figure
delle tre età in
modo che si volgano reciprocamente
le spalle.
L’uso dello sfumato di
derivazione veneta, impiegato
in senso emotivo
e drammatico, caratterizza
anche le opere
Le tre età dell’uomo - Vicenza, Museo Civico di Arte e Storia
di soggetto religioso del
periodo italiano, come
la Crocifissione che van
Dyck dipinse per la famiglia
Balbi: il Cristo,
visto di scorcio in una
prospettiva che accentua
il pathos della scena,
si staglia contro un cielo
tempestoso che incombe
sull’oscuro e desolato
paesaggio. Il legame con
gli esempi della scuola
veneta risulta qui molto
più stretto che con la
tecnica di Rubens, analogamente
a quanto si
può riscontrare nei ritratti,
nonostante van
Dyck avesse collaborato
per diversi anni con Rubens
e fosse venuto in
contatto con la ritrattistica
ufficiale dell’aristocrazia
genovese proprio
attraverso le sue
opere.

La frequentazione di Rubens
ebbe probabilmente
un’influenza determinante
su van Dyck nella
scelta di Genova come
punto di riferimento in
Italia, malgrado questa
fosse una città al di fuori
dell’itinerario classico
del grand tour, il percorso
obbligato per gli artisti
stranieri in visita nel nostro
paese. Rubens infatti
aveva soggiornato
e operato a Genova fra
il 1603 e il 1606, eseguendo
oltre a numerosi
ritratti della nobiltà,
la grande pala con la Circoncisione
per la chiesa
dei Gesuiti. Negli anni
fra la fine del Cinquecento
e l’inizio del nuovo
secolo la committenza
cittadina era molto attiva,
incaricando dell’esecuzione
di opere a
destinazione sia pubblica
che privata artisti
quali Caravaggio, Procaccini,
Guido Reni e
Simon Vouet.
I ritratti che Rubens dipinse
durante il soggiorno
genovese seguono
i canoni ormai consolidati
della ritrattistica
di corte, che poneva il
soggetto in posa frontale
e statica: così, Maria
Serra Pallavicino -
moglie del banchiere del
Duca di Mantova, al cui
seguito Rubens si era
recato a Genova - appare
immobilizzata nel fasto
della ricchissima veste,
vera protagonista del
quadro, che concentra
in sé tutta la personalità
e la vitalità del soggetto.
I ritratti di van Dyck,
per contro, presentano
un carattere fortemente
innovativo, costituendo
un nuovo modello non
solo di magnificenza,
ma anche di naturalismo,
ottenuto mediante
un uso attentamente calibrato
di luce, colore
e movimento, che traeva
origine dallo studio della
scuola veneta: esemplare
in tal senso è il ritratto
di Elena Grimaldi Cattaneo,
che introduce per
la prima volta il tema
della dama accompagnata
da un servitore,
destinato a divenire il
prototipo per molte
opere successive.
A Genova l’artista adottò
una particolare procedura
nella realizzazione
dei ritratti, l’impiego
di bozzetti dipinti a olio
che venivano utilizzati
per fissare le fisionomie
dei soggetti e trasferirle
in un secondo momento
nella composizione sulle
grandi tele, alte più di
due metri, che restavano
nel suo studio fino al
completamento e alla
definitiva collocazione
nel palazzo del committente.
In realtà non si
trattava di semplici bozzetti,
poiché il volto del
personaggio da ritrarre
veniva rifinito in ogni
particolare e le variazioni
apportate nella stesura
finale erano insignificanti
o addirittura
inesistenti. La ricerca
dell’espressività nei volti,
nelle mani e negli
sguardi, alla quale van
Dyck dedicava un’attenta
cura, risalta particolarmente
nei ritratti
di bambini, tema ricorrente
sia all’interno di
dipinti che raffigurano
interi nuclei familiari,
sia come soggetto individuale,
trattato con straordinaria
vivacità e tenerezza;
così nel Fanciullo
genovese su una terrazza,
l’impostazione
aulica della composizione,
con lo sfondo a
colonne e l’ampia ve-
duta affacciata sulla campagna,
è animata dal movimento
del cagnolino
che salta a lambire la
mano del piccolo padrone,
e dallo sguardo
infantilmente malizioso
che questi rivolge verso
l’osservatore. Illumina
la scena, tutta giocata
su toni bassi, il colore
pag. 2
Elena Grimaldi Cattaneo - Washington, The National Gallery of Art

vivo dell’abito, accarezzato
dal variare della luce
sulle superfici cangianti
del velluto rosso, un colore
particolarmente caro
al pittore fiammingo,
che produce spesso una
sorta di squarcio nelle
tinte cupe di molti suoi
dipinti. Una peculiarità
di tutte queste tele sono
le notevoli dimensioni:
si tratta infatti quasi
sempre di opere nelle
quali il soggetto è raffigurato
a grandezza naturale,
e questa caratteristica,
originata dall’esempio
dei ritratti
della corte spagnola, alla
quale l’aristocrazia genovese
guardava come
punto di riferimento, è
giustificata dalla grandiosità
monumentale
degli ambienti che dovevano
ospitare i ritratti
e che richiedeva dimensioni
adeguate. La magnificenza
dei palazzi
che la nobiltà genovese
aveva edificato per farne
le proprie dimore era famosa
in tutta Europa,
grazie anche al volume
I palazzi di Genova, che
Rubens pubblicò nel
1622; quando van Dyck
partì per l’Italia l’opera
era in preparazione e probabilmente
il rapporto
con Rubens, che della
città aveva riportato
grande impressione nel
corso dei suoi soggiorni,
ebbe un ruolo significativo
nella scelta di una
meta che avrebbe potuto
assicurare al giovane
artista una committenza
numerosa e
dalle ingenti risorse economiche.
La Strada
Nuova, aperta nel Cinquecento,
era al tempo
di Rubens - e lo è tuttora
con il nome di via
Garibaldi - una orgogliosa
parata di palazzi
monumentali, residenze
delle famiglie preminenti
che, come notava
Rubens con ammirato
stupore nella prefazione
del suo testo, pur essendo
abitazioni private di gentiluomini
al governo di
una repubblica, potevano
essere paragonate
alle dimore di principi
assoluti. I patrimoni
delle grandi famiglie genovesi
si erano formati
soprattutto nel corso del
Cinquecento, in seguito
a un accordo commerciale
e politico stipulato
nel 1528 tra Carlo V e
Andrea Doria: da allora
i mercanti genovesi, presenti
da tempo in Spagna,
si trasformarono in
banchieri, divenendo i
principali finanziatori
della corona spagnola.
Il desiderio di apparire
e fare sfoggio delle proprie
ricchezze che aveva
spinto i Magnifici (così
si chiamavano fra loro i
nobili genovesi) alla costruzione
dei grandi palazzi,
si esprimeva anche
nelle quadrerie, raccolte
di dipinti che ne
ornavano le sale e riunivano
decine di opere di
grande valore, collocate
sulle pareti in file sovrapposte
fino a 3-4 metri
di altezza. Per Van
Dyck, l’incontro con
queste vere e proprie antologie
delle scuole di
pittura italiane della generazione
precedente,
ebbe importanza determinante:
all’epoca la collezione
Doria, una fra le
più importanti, comprendeva
circa seicento
dipinti di maestri quali
Giorgione, Veronese,
Tintoretto, Caravaggio;
vi compariva anche Rubens,
il cui Ritratto a cavallo
del Doria, raffigurava
il padrone di casa
secondo un’iconografia,
quella del ritratto equestre,
fino ad allora riservata
ai sovrani. A questo
modello si ispirò Van
Dyck per il ritratto di
Anton Giulio Brignole
Sale a cavallo, nel quale
il soggetto guarda verso
l’osservatore tenendo il
cappello piumato nella
destra, in un gesto di saluto
che lo pone in una
dimensione umana assai
distante dal trionfalismo
celebrativo rubensiano
e si iscrive in quello
studio anche psicologico
dei personaggi, proprio
della pittura di van
Dyck.
Dopo la fortunata esperienza
genovese, dal febbraio
al novembre del
1622 van Dyck si tra-
Santa Rosalia - Collezione privata
pag. 3

sferì a Roma, dove studiò
l’arte classica e dei
maestri del Rinascimento,
e in seguito a Firenze
e Venezia: la città
costituiva uno dei principali
punti di riferimento
per i pittori dell’epoca,
che vi potevano
studiare le opere di artisti
come Tiziano, Lotto,
Paolo Veronese. Nuovamente
a Roma, van
Dyck confermò il successo
che lo aveva accompagnato
sino ad allora,
ritraendo aristocratici
e cardinali. Fu
anche a Milano e a Torino,
dove ebbe modo
di conoscere la famiglia
Savoia; in seguito a questo
incontro, nel 1624
Emanuele Filiberto di
Savoia, viceré di Sicilia
per conto del re di
Spagna, chiamò a Palermo
van Dyck, che ne
eseguì il ritratto. La presenza
dell’artista nell’isola
rivestì un’importanza
particolare, perché
contribuì alla nascita
di un’intera corrente
della pittura siciliana
del XVII secolo,
sviluppatasi attorno a
Pietro Novelli, detto il
Monrealese. A Palermo
van Dyck conobbe e frequentò
Sofonisba Anguissola,
ormai quasi
novantenne, che era stata
per molto tempo ritrattista
ufficiale alla corte
spagnola di Sicilia. Delle
sue esperienze palermitane
- dalle feste popolari
della Commedia dell’arte
palermitana a una
processione di autodafè
dell’Inquisizione che lo
colpì molto - van Dyck
conservò il ricordo nel
Taccuino italiano. Nel luglio
1624 alcuni monaci
francescani ritrovarono
in una grotta le reliquie
di santa Rosalia: fu proprio
van Dyck a creare
l’iconografia della santa,
divenuta patrona di Palermo
per aver scacciato
la peste che infuriava in
città e che colpì ed uccise
anche il Duca Emanuele
Filiberto. Il pittore,
senza più un mecenate
e committente,
tornò a Genova, dove rimase
ancora tre anni
prima di fare definitivamente
ritorno in patria.
Durante il secondo
soggiorno a Genova, van
Dick fu attivo soprattutto
come ritrattista, e
l’impatto della sua arte
fu decisivo ed esercitò a
lungo una forte influenza
sulla scuola pittorica locale:
l’artista riesce a farci
condividere la concezione
aristocratica della
società alla quale appartengono
i suoi modelli,
l’etichetta che contraddistingue
quel mondo,
il rispetto delle convenzioni,
ma nello stesso
tempo ciò che colpisce
nei ritratti è una profonda
capacità di osservazione
e di resa psicologica
delle figure, senza
bisogno di un simbolismo
particolare.
ilaria occhipinti
Vertunno e Pomona - Genova, Palazzo Bianco
pag. 4
Emanuele Filiberto di Savoia - Londra, Dulwich
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