Il ARC HITET TURA - Il Giornale dell'Architettura
Il ARC HITET TURA - Il Giornale dell'Architettura
Il ARC HITET TURA - Il Giornale dell'Architettura
Create successful ePaper yourself
Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.
“ I pezzi forti<br />
di quest’ultima<br />
Biennale<br />
si muovono<br />
tra i due poli<br />
del «miracolo»<br />
e del «trauma»:<br />
tra l’esperienza<br />
del sottrarci<br />
al mondo<br />
dell’utilità<br />
e la ferita<br />
p s i c h i c a<br />
provocata<br />
da una violenza<br />
e s t e r n a<br />
”<br />
Le ampie<br />
condivisioni<br />
di principio, le<br />
f o r t i<br />
c o n v e r g e n z e<br />
c u l t u r a l i ,<br />
mancano però<br />
di adeguati<br />
riscontri nelle<br />
p r a s s i<br />
“<br />
”<br />
Le affinità elettive<br />
di Sejima tra miracoli e traumi<br />
Una rampa che si avvita nell’umido di una nuvola<br />
(Tr a n s s o l a r). Un castello d’aria (o nell’aria),<br />
pronto a disfarsi al primo soffio di vento<br />
(quello di Junya Ishigami, apparso nella p r ev<br />
i e w del 27 agosto, disfatto la mattina del 28, premiato<br />
come migliore installazione il 29!). E ancora: lastre<br />
trasparenti per «nuovo modo prototipico di vivere»: un modulo<br />
di 350 mm (un Modulor dell’ambiguità?) che<br />
teorizza la «s c o m o d i t à» (Sou Fujimoto) come «impulso a<br />
molteplici attività umane». Una cappella per la contemplazione<br />
dei ciliegi della Valle del Jerte e un masso di<br />
granito scavato come metafora di un «futuro protetto,<br />
profumato, sicuro» (Smiljan Radic+Marcela Correa) per ricordare<br />
il terremoto del 27 febbraio in Cile.<br />
Per parafrasare Mario Perniola, si direbbe che i «p e z z i<br />
f o r t i» di quest’ultima Biennale si muovono tra i due<br />
poli del «m i r a c o l o» e del «t r a u m a»: tra l’esperienza del<br />
«sottrarci al mondo dell’utilità» e la ferita psichica provocata<br />
da una violenza esterna. Comune a entrambi è il<br />
fatto di sottrarsi a ogni spiegazione razionale.<br />
«People meet in architecture»: il titolo scelto equivaleva<br />
a un messaggio. Finalmente, dopo dimenticabili<br />
edizioni all’insegna del miracolo tecnologico e del<br />
computer al potere, veniva promesso un ritorno alla riflessione<br />
sulla natura sociale dell’architettura e alla sua<br />
responsabilità nel configurare una via d’uscita alla<br />
crisi.<br />
Di buon auspicio anche la lista degli invitati: un ovvio<br />
allargamento a Oriente, un netto restringimento<br />
degli arci-architetti (con l’eccezione inspiegabile di<br />
Rem Koolhaas che, tolta la casacca di nihilista dell’ipermodernità,<br />
ha camuffato il suo congenito cinismo con<br />
la tunica del p r e s e r v a z i o n i s t a a p r è s Morris e Ruskin).<br />
In realtà, tolti pochi appropriati casi (dai tedeschi di<br />
r a u m l a b o r ai sudafricani Noero Wolff Architects o agli<br />
indiani di S t u d i o - M u m b a i), Sejima ha disegnato la mostra<br />
come una speciale autobiografia delle sue affinità<br />
elettive: mettendo così in campo il dispiegamento com-<br />
6 | IL MAGAZINE DELL’<strong>ARC</strong><strong>HITET</strong><strong>TURA</strong><br />
posito di una poetica dell’etereo e del trasfigurante che<br />
ha come tratto unificante il tentativo di esplorare una<br />
nozione non canonica di spazio attraverso un approccio<br />
più simile alla libertà individuale dell’artista che a<br />
quella compromissoria dell’architetto. <strong>Il</strong> suono, la luce,<br />
l’ombra e il buio, le parole e il tatto influiscono sulla<br />
percezione dello spazio; ma questo non era affatto ignoto<br />
né ai costruttori del Pantheon né a Le Corbusier q u a ndo<br />
progettava la Tourette, ad Erik Gunnar A s p l u n d<br />
quando pensava al cimitero di Stoccolma o a C a r l o<br />
S c a r p a quando costruiva la tomba Brion.<br />
E allora che cosa è cambiato da giustificare l’enorme<br />
presunzione di trovare nel miracolo dell’alterità ciò che<br />
ogni buona architettura dovrebbe per sua natura garantire<br />
e contenere? Perniola direbbe l’egemonia del<br />
presente sul passato, la perdita di specificità, l’eclisse<br />
del sistema professionale. Si tratta di una mutazione<br />
genetica del sistema culturale, definibile, senza retorica,<br />
epocale e che corrisponde al ritratto di società dove<br />
tutti scrivono ma pochi leggono, tutti parlano e nes-<br />
Convergenze e latitanze<br />
Questa di Kazuyo Sejima consolida la serie delle<br />
Biennali che pongono all’attenzione internazionale<br />
declinazioni di temi generali. «People meet<br />
in architecture» è un titolo splendido, acuta<br />
sintesi di questioni antiche e attuali. «A i l a t i », la riflessione<br />
di Luca Molinari, curatore del Padiglione italiano, scava<br />
nella stessa direzione; così altri padiglioni nazionali. Accantonato<br />
ogni equivoco, l’a r c h i t e t t u r a (tecnica e arte civile)<br />
afferma il suo ruolo sociale. «Less architects, more arc<br />
h i t e c t u r e » - come anche le questioni proposte dall’I n / A r c h<br />
quest’anno nella sua prima partecipazione veneziana.<br />
Come sempre interpretazioni plurime, ma la 12. Mostra<br />
internazionale di Architettura è ben singolare. Irrompe nel<br />
dibattito contemporaneo con messaggi semplici (comprensibili<br />
a chiunque viva o s’incontri in ambienti costruiti)<br />
peraltro che aleggiano da tempo: a più di cinquant’anni<br />
dalle tesi del Team X; un po’ meno da Architecture without<br />
architects, la provocatoria apologia di Bernard Rudofsky;<br />
a quasi quaranta da Architecture de surviedi Yona Friedman<br />
che ad aprile era in mostra ai Magazzini del sale; a pochi<br />
mesi dal convegno della Fondazione Zevi Per un’architettura<br />
e un’arte frugale; a poche settimane da l’Eloge du vide<br />
di Jorge Cruz Pintosull’ultimo numero del «Carré Bleu».<br />
Le ampie condivisioni di principio, le forti convergenze<br />
culturali, mancano però di adeguati riscontri nelle prassi.<br />
“ L’edizione non è inutile<br />
se ci spinge a ripensare<br />
il significato, a riconsiderare l’utilità<br />
della formula, a controbilanciare<br />
l’arbitrio del curatore<br />
con un comitato scientifico<br />
che l’aiuti a sbrogliare la matassa<br />
dei pensieri, come una volta<br />
l’editor nei confronti dello scrittore.<br />
Ma questa è un’altra storia.<br />
E non è detto<br />
che possa accadere<br />
”<br />
«A i l a t i » (aspira a un palindromo?) si avvale d’installazioni<br />
come metafore ed esplora il futuro, soprattutto ospita alcuni<br />
giovani eroi che iniettano fiducia con esempi coraggiosi<br />
di spazi ad alto contenuto civile immessi nei magmi<br />
soffocanti prodotti dai più. Senza rinunciare a sperimentazioni<br />
innovative sugli assunti della sostenibilità, declinando<br />
in forme nuove il «privilegio al paesaggio» e la cultura<br />
delle stratificazioni, tutto riafferma che compito primo<br />
del costruire è contribuire al miglioramento della condizione<br />
umana. «People meet in architecture» attiva una<br />
riflessione su architettura, nuovi valori e stili di vita; può<br />
proiettare un’ombra lunga, può far uscire dal torpore, innescare<br />
conseguenze. Può segnare l’eclissi delle archistar,<br />
il disinteresse per autonomie disancorate dai contesti, la<br />
presa di coscienza che l’assenza di qualità favorisce criminalità<br />
e devianze. Nel nostro contesto stimola la qualità<br />
della domanda, precondizione della «qualità diffusa», perché<br />
domande ben poste e articolate richiedono buoni progetti<br />
e buone realizzazioni e poi incidono sui processi formativi<br />
e sui vari fattori della filiera produttiva. Quindi<br />
sprona anche la committenza pubblica: strumento per elevare<br />
le relazioni tra individui/attività/spazi, l’architettura<br />
ha il compito di generare una res publica tesa ad aggregare<br />
e dare senso a ogni comunità.<br />
Quasi simultanea Shanghai 2010 «Better City, Better Li-<br />
suno ascolta. Da questo punto di vista, la 12. Biennale<br />
offre una metafora assai brillante con il Wall of Nam<br />
e s di Hans Ulrich Obrist: 850 nomi trascritti sul muro,<br />
come una Spoon River della civiltà del talk show;<br />
un’intera stanza delle Corderie dedicata all’e s a l t a z i one<br />
narcisistica del critico-curatore come il borgesiano<br />
archivista del mondo, ridotto al format di nastri registrati,<br />
voci mute il cui concerto produce il più assordante<br />
silenzio.<br />
Non sarebbe bastato dunque a Sejima di svolgere onestamente<br />
il suo tema, prendendosi il tempo necessario<br />
allo sviluppo di una mostra sotto gli occhi di un pubblico<br />
così globalmente esteso? E non avrebbe potuto riflettere<br />
con più coerenza su tutti i passaggi di un racconto<br />
di cui sfugge il finale?<br />
Certo. Ma la logica della Biennale è diventata sempre<br />
più istantanea e, nonostante le voci provenienti dagli<br />
ambiti più diversi, la scelta del curatore è sempre più<br />
simile al coup de théâtre tanto amato dalla società della<br />
comunicazione. La stessa nozione di mostra, che in<br />
un recente passato implicava l’elaborazione di un sapere<br />
mai sottratto al controllo dell’autocritica, si è<br />
schiantata sotto l’incombente leggerezza dell’evento,<br />
dell’estemporaneità spettacolare; da consumare, cioè,<br />
entro la data di scadenza pena la perdita di valore nutrizionale.<br />
L’edizione tuttavia non è inutile se ci spinge<br />
a ripensare il significato dell’istituzione (ha ancora<br />
senso la cadenza ravvicinata di una biennale?), a riconsiderare<br />
l’utilità della formula (un’esposizione allargata<br />
a dismisura per catturare la benevola attenzione<br />
del mitico pubblico generalista nella perdurante convinzione<br />
che la comunicazione sia di per sé un dialogo) ,<br />
a controbilanciare l’arbitrio del curatore con un comitato<br />
scientifico che l’aiuti a sbrogliare la matassa dei pensieri,<br />
come una volta l’editor nei confronti dello scrittore.<br />
Ma questa è un’altra storia. E non è detto che possa<br />
accadere.<br />
Fulvio Irace<br />
fe» attraverso Urbanian / City Being / Urban Planet sembra<br />
enunci obiettivi analoghi. Mostra eccezionali sperimentazioni;<br />
delinea una rigenerazione urbana polimerica,<br />
senza precedenti per dimensioni e chiarezza di programma.<br />
Afferma però futuri diversi da quelli sottesi alle variegate<br />
ma convergenti linee della mostra veneziana.<br />
Convegni, congressi, libri, riviste, mostre, istituti, associazioni:<br />
sono utili per quanto aiutino davvero a cambiare le<br />
cose. Venezia 2010 spinge verso coraggiose mutazioni: i<br />
suoi messaggi non possono riecheggiare solo in mondi ristretti,<br />
devono far riflettere e produrre effetti, dovrebbero<br />
improntare il senso comune, rimbalzare con energia per<br />
raggiungere nel profondo politica e governi regionali perché,<br />
diceva Gandhi, «in democrazia nessun fatto di vita si sottrae<br />
alla politica». Ma i nostri governi, al di là del condividere<br />
le conferenze delle Nazioni unite sugli insediamenti<br />
umani o del sottoscrivere abulicamente le risoluzioni dell’Unione<br />
europea (anche quella che proprio su questi temi<br />
sollecita «politiche esemplari»), hanno mai dedicato<br />
anche una sola seduta a riflettere, in termini strutturali, su<br />
come promuovere la qualità delle trasformazioni del territorio?<br />
<strong>Il</strong> Parlamento, i politici, hanno coscienza che regole<br />
e procedure sono, fra i principali ostacoli alla qualità dei<br />
paesaggi voluta dalla Costituzione?<br />
Massimo Pica Ciamarra