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Grecia<br />

atti del convegno<br />

MittelFest 2001 · inaugurazione<br />

MittelFest<br />

M i t t e l F e s t<br />

MittelFest<br />

musica e arti visive<br />

Cividale del Friuli<br />

<strong>Scuola</strong> <strong>Normale</strong> <strong>Superiore</strong><br />

Pisa


MittelFest · Settore Musica e Arti Visive<br />

<strong>Scuola</strong> <strong>Normale</strong> <strong>Superiore</strong> di Pisa<br />

ATTI DEL CONVEGNO<br />

MITTELFEST 2001 · INAUGURAZIONE<br />

MITTELFEST


Gustav Klimt, Musik, in “Ver Sacrum”, 1901<br />

6


Grecia CIVIDALE DEL FRIULI, VENERDÌ 20 LUGLIO 2001<br />

CHIESA DI SAN FRANCESCO<br />

MITTELFEST IN COPRODUZIONE CON LA SCUOLA NORMALE SUPERIORE DI PISA<br />

Relazioni di:<br />

Salvatore Settis, direttore della <strong>Scuola</strong> <strong>Normale</strong><br />

Introduzione<br />

Chiara Martinelli, ricercatrice della <strong>Scuola</strong> <strong>Normale</strong><br />

Musica e poesia in Grecia<br />

Carlo Pernigotti e Luisa Prauscello, dottorandi di ricerca della <strong>Scuola</strong> <strong>Normale</strong><br />

‘Spartiti musicali’ nella Grecia ellenistica: pluralità delle occasioni del canto<br />

e discontinuità della tradizione<br />

François Lissarrague, centre Louis Gernet, Parigi<br />

Iconografia musicale<br />

Michael Stüve, direttore Musica Ricercata<br />

Gli strumenti musicali dell’antica Grecia<br />

Eugenio Lo Sardo, Ministero Beni Culturali<br />

Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei, Athanasius Kircher e la musica greca<br />

Concerto:<br />

Dialogo della musica antica et della moderna<br />

IACOPO PERI (1561-1633)<br />

Euridice (1600): Finale “Biond’arcier”<br />

JACOPO CORSI (1561-1604)<br />

Dafne (1596-1597): Aria di Apollo “Non curi la mia piant”<br />

7


MICHAEL STÜVE (1953)<br />

Hellenika:<br />

EURIPIDE<br />

Frammento dell’Oreste , 408 a.C.<br />

(Pap. Vienna G 2315)<br />

ANONIMO<br />

Peana “Keklyth’, Helikôna bathydendron”, 138 a.C.<br />

(Delfi Inv. N. 515, 526, 494, 499)<br />

ANONIMO<br />

Interludio, IV sec. d. C.<br />

(Anonimo Bellermann § 104)<br />

SEIKILOS<br />

Epigramma e scolion “Hóson zês”, I sec. a.C.<br />

(“Epitafio di Sic<strong>il</strong>o”, Copenaghen Inv. n. 14897<br />

MESOMEDE DI CRETA<br />

Proemio alla Musa “Áeide mûsá moi phíle” , 117-138 d.C.<br />

(pubblicato da Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei, Dialogo della musica antica et della<br />

moderna, Firenze 1581)<br />

MESOMEDE DI CRETA<br />

Proemio a Calliope “Kalliópeia sophá”, 117-138 d.C.<br />

(pubblicato da Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei, Dialogo della musica antica et della<br />

moderna, Firenze 1581)<br />

ANONIMO<br />

Interludio, IV sec. d. C.<br />

(Anonimi Bellermann § 100 e 97)<br />

ANONIMO<br />

Lamento sulla morte di Aiace “Autophóno cherí”, II sec. d.C.<br />

(Pap. Berlino 6870)<br />

ANONIMO<br />

“Chryséa phórminx” (Contraffazione del preludio della prima ode pitica di<br />

Pindaro, Athanasius Kircher, Musurgia universalis...., Roma 1650)<br />

LIMENIO<br />

Prosodion del peana, 128 a.C. (Delfi Inv. 214)<br />

8


MESOMEDE DI CRETA<br />

Inno a Nemesi “Némesi pteróessa”, 117-138 d.C.<br />

(pubblicato da Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei, Dialogo della musica antica et della<br />

moderna, Firenze 1581)<br />

ANONIMO<br />

Frammento strumentale di Contrapollinopolis, II sec. d.C.<br />

(Pap. Berlino 6870)<br />

ANONIMO<br />

Inno paleocristiano, Ossirinco , III sec. d.C.<br />

(Pap. Oxy. 1786)<br />

MESOMEDE DI CRETA<br />

Inno al Sole “Chionoblephárou pater Aûs”, 117-138 d.C.<br />

(pubblicato da Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei, Dialogo della musica antica et della<br />

moderna, Firenze 1581)<br />

GIULIO CACCINI (1550-1618)<br />

Il rapimento di Cefalo (1600)<br />

coro finale:<br />

Ineffab<strong>il</strong>e ardore<br />

Muove sì dolce<br />

Quand <strong>il</strong> bell’anno<br />

EMILIO DE’ CAVALIERI (1550-1602)<br />

La Pellegrina (1589)<br />

VI Intermedio<br />

Ballo del Granduca “O che nuovo miracolo”<br />

Musica Ricercata<br />

Michael Stüve, direttore<br />

9


Introduzione SALVATORE SETTIS<br />

Il mº Carlo de Incontrera, che ha invitato la <strong>Scuola</strong> <strong>Normale</strong> <strong>Superiore</strong> di Pisa<br />

a presentare, nel quadro di questo Mittelfest, qualche riflessione sulla musica<br />

degli antichi Greci, conosce benissimo i rischi che correva se noi avessimo accettato<br />

di venire a parlare qui a Cividale. Sono due rischi in qualche modo opposti,<br />

e legati a quello che la <strong>Normale</strong> è e a quello che essa non è. La <strong>Normale</strong> ‘non<br />

è’ un istituto di studi musicali, e pertanto parlare davanti a un pubblico con forte<br />

e marcata cultura musicologica come quello di Cividale è un rischio, specialmente<br />

per me che di musica non so proprio nulla. D’altra parte, la <strong>Normale</strong> è<br />

un luogo di segnalata e alta tradizione in molti campi del sapere, fra cui proprio<br />

gli studi sul mondo antico, greco e romano: e pertanto c’è <strong>il</strong> rischio che quello<br />

che vi presenteremo possa eccedere in specialismo. Ma <strong>il</strong> mº de Incontrera sa<br />

anche che la <strong>Normale</strong> ha un fortissimo interesse per la musica e la sua storia, e<br />

infatti organizza da trent’anni la serie “I concerti della <strong>Normale</strong>”, offerti non<br />

solo ai normalisti ma alla città di Pisa, e organizzati prima con la consulenza del<br />

mº Piero Farulli e da alcuni anni proprio con l’aiuto di Carlo de Incontrera. Il<br />

quale sa anche che proprio in <strong>Normale</strong> è stato progettato e diretto l’ultimo<br />

grande sforzo di sintesi interpretativa della cultura greca, un’opera in cinque<br />

volumi pubblicata da Einaudi col titolo “I Greci. Storia Arte Cultura Società”<br />

(<strong>il</strong> quinto volume uscirà in novembre di quest’anno); un’opera <strong>il</strong> cui successo si<br />

misura dal solo fatto che a partire dall’anno prossimo verrà integralmente tradotta<br />

in tedesco, e subito dopo in inglese.<br />

Se abbiamo accettato di partecipare, è stato dunque non solo per la gioia di essere<br />

qui con voi oggi, ma anche per l’interesse che abbiamo al confronto fra le<br />

nostre ricerche specialistiche e un pubblico più vasto, <strong>il</strong> cui prof<strong>il</strong>o culturale è<br />

tale da garantire non solo e non tanto l’attenzione al messaggio che intendiamo<br />

dare, quanto <strong>il</strong> controllo della sua qualità.<br />

Di tutti, quello che meno conosce <strong>il</strong> tema proposto sono proprio io: tutto ciò<br />

che potrò fare sarà dunque introdurre gli altri relatori con qualche riflessione su<br />

due punti diversi e convergenti: da un lato, sul ruolo della civ<strong>il</strong>tà greca nella storia<br />

recente dell’Europa e nella stessa idea di una civ<strong>il</strong>tà comune europea; dall’altro,<br />

sul ruolo della musica nella cultura greca antica.<br />

< Delfi, le rovine del santuario di Atena Pronaia<br />

11


Cominciamo dal primo punto. Vorrei affrontarlo partendo da una piccola serie<br />

di citazioni, scelte a caso fra migliaia (letteralmente) di testi sim<strong>il</strong>i, che rivendicano<br />

una discendenza dai Greci delle nostre coordinate culturali. Cominciamo<br />

dalla famosa sentenza di Hegel, secondo cui “Al nome Grecia l’uomo colto europeo<br />

subito si sente in patria”. Con spirito non troppo diverso, Hannah Arendt<br />

poteva sostenere che nè la rivoluzione americana nè quella francese sarebbero<br />

mai state possib<strong>il</strong>i senza l’esempio che veniva dall’antichità classica, e Popper<br />

richiamava i f<strong>il</strong>osofi presocratici come modello della dinamica moderna del pensiero<br />

scientifico fra congettura e confutazione. John Stuart M<strong>il</strong>l scrisse che “la<br />

battaglia di Maratona, anche come evento della storia inglese, è più importante<br />

della battaglia di Hastings. Se in quel remoto giorno <strong>il</strong> risultato dello scontro<br />

fosse stato diverso (se i Greci non avessero vinto), Britanni e Sassoni forse<br />

vagherebbero ancora per le selve”. In queste e m<strong>il</strong>le altre citazioni, i Greci compaiono<br />

con significato ‘fondante’: e non solo di risultati o di azioni o di memorie,<br />

ma di ‘valori’ ancora attuali. Lo vediamo ancor meglio nel contrasto fra due<br />

altre citazioni, le ultime: da un lato G<strong>il</strong>bert Murray, Regius Professor di greco a<br />

Oxford, che assegnava ai Greci “la ricerca di Verità, Libertà, Bellezza, Ragione<br />

ed Eccellenza nella vita individuale, e di fratellanza nella vita internazionale”, e<br />

più in generale l’origine stessa del “Pensiero Equ<strong>il</strong>ibrato”; dall’altro lato, Albert<br />

Hofmann (noto come “<strong>il</strong> padre dell’LSD”, che proprio in questi anni ha argomentato<br />

in favore degli stimolatori della psiche sostenendo che anche i Greci,<br />

nei misteri di Eleusi, usassero un allucinogeno sim<strong>il</strong>e all’LSD.<br />

Tutti questi esempi sono accomunati da una tendenza implicita, tanto più<br />

potentemente operativa quanto più essa vien data per scontata: la tendenza a<br />

considerare i Greci come la radice ultima e unica di tutta la civ<strong>il</strong>tà “occidentale”,<br />

e ‘dunque’ aventi titolo a legittimare valori e pratiche del nostro tempo,<br />

anche opposte fra loro quanto lo sono <strong>il</strong> “pensiero equ<strong>il</strong>ibrato” e gli “stati alterati<br />

di coscienza”. Si dà così per dimostrato <strong>il</strong> valore preternazionale e fondativo<br />

della cultura greca, e la storia dei Greci (come nella citazione di Stuart M<strong>il</strong>l<br />

sulla battaglia di Maratona) assume lo status di storia universale, non solo necessaria<br />

a intendere <strong>il</strong> mondo moderno, ma anche fonte di legittimazione e di ispirazione<br />

per <strong>il</strong> suo (per <strong>il</strong> nostro) futuro. I Greci, come “primi inventori” della<br />

f<strong>il</strong>osofia e dell’arte, della scienza e della bellezza; i Greci, che seppero sperimentare<br />

sopra di sé in forma originaria tutte le passioni del mondo e dell’uomo,<br />

quelle di Edipo e di Medea, di Antigone e di Odisseo. Un paesaggio culturale<br />

fatto di sentenze arcane e pregnanti pronunciate una volta per tutte, d’impeccab<strong>il</strong>i<br />

monumenti contro un cielo sempre azzurro dietro <strong>il</strong> quale s’indovinano<br />

dèi benigni pronti a incarnarsi in bronzi e in marmi di bellezza irraggiungib<strong>il</strong>e.<br />

Una civ<strong>il</strong>tà popolata di modelli e di archetipi, di pietre di fondazione e di cifre<br />

universali, di motti delfici e di colonne doriche, di atleti che s’incoronano e di<br />

artisti dediti alla Bellezza, di passioni politiche da cui emerge una polis cristalli-<br />

12


na e una democrazia che dà spazio alla libertà e all’individuo, di f<strong>il</strong>osofi che tracciano<br />

con st<strong>il</strong>o implacab<strong>il</strong>e l’agenda di tutte le f<strong>il</strong>osofie possib<strong>il</strong>i.<br />

Paradossalmente, una tale immagine dei Greci resiste, e anzi si consolida, proprio<br />

mentre <strong>il</strong> posto della cultura classica nei percorsi educativi e nella cultura<br />

generale sembra restringersi ogni giorno di più. Meno sappiamo <strong>il</strong> greco, più<br />

parliamo dei Greci. Quanto più f<strong>il</strong>osofi e saggisti perdono la capacità di controllare<br />

criticamente in prima persona lo spessore e <strong>il</strong> senso originario dei testi<br />

della cultura greca, tanto più marcatamente essa diventa, in uno spirito tutto<br />

“postmoderno”, <strong>il</strong> serbatoio ideale a cui attingere elementi staccati, da rimontare<br />

poi ad arbitrio in più o meno gratuiti collages. La patria di quello che con linguaggio<br />

degno di un mito di fondazione si volle chiamare “miracolo greco” è<br />

diventata così come un retrobottega da cui prelevare a piacimento questo o<br />

quell’arnese, quasi fosse attrezzeria di teatro da riciclare di continuo. Ma quanto<br />

più arbitrari e meno colti sono questi esercizi di accanito citazionismo, tanto<br />

più essi innalzano la cultura greca sopra un piedistallo irraggiungib<strong>il</strong>e, estirpandola<br />

dalla storia per proiettarla su un piano che si pretende “universale”.<br />

Non è questa l’immagine dei Greci che vogliamo oggi proporvi. Come un<br />

monumento provato dagli anni, essa è infatti attraversata da crepe numerose e<br />

profonde. Per esempio, se vogliamo simboleggiare <strong>il</strong> carattere fondante della<br />

civ<strong>il</strong>tà greca nella giornata di Maratona, lo identifichiamo implicitamente con<br />

una vittoria dei Greci (leggi: degli Europei) sui Persiani, che stanno qui per un<br />

Oriente indeterminato e statico, l’ “altro” -perennemente uguale a se stessorispetto<br />

a un’Europa caratterizzata, a partire dalla grecità, da un accentuato<br />

dinamismo e da un continuo progresso; e per questo radice e madre della modernità.<br />

Formulazioni come queste ci appaiono oggi non solo strettamente eurocentriche,<br />

ma anche limitative e “datate”; “datate”, intendo, in quanto coestensive<br />

a una concezione della civ<strong>il</strong>tà europea come culminazione d’ogni altra, e<br />

pertanto legittimata al colonialismo, all’annessione, alla “missione civ<strong>il</strong>izzatrice”.<br />

L’opposizione Greci/barbari veniva in tal modo a tradursi in quella Europa/”altri”,<br />

riattualizzata e proiettata ora verso le Americhe, ora in Asia o in Africa,<br />

ribadendo l’identità fra un “noi” orgogliosamente europeo e i Greci, padri e<br />

maestri di una stessa civ<strong>il</strong>tà.<br />

Proprio questa identificazione, che sembrò garantire alla cultura greca un ruolo<br />

perpetuamente vitale nel mondo moderno -quasi dovesse diffondervisi con le<br />

armi, le merci e le tecniche dell’Occidente-, suona oggi al contrario come un<br />

canto funebre. Quale può essere <strong>il</strong> posto dei Greci in un mondo caratterizzato<br />

sempre di più dalla mescolanza dei popoli e delle culture, dalla condanna dell’imperialismo<br />

e dalla fine delle ideologie, dalla fiera rivendicazione delle identità<br />

etniche e nazionali e delle tradizioni locali contro ogni tentazione “annessionistica”?<br />

Che senso ha cercare radici “comuni”, quando tutti sembrano piuttosto<br />

impegnati a distinguere le proprie da quelle del vicino? Come possiamo<br />

13


vantarci di aver vinto sugli “altri” a Maratona senza pensare all’Algeria o al Vietnam?<br />

Con quale ostinata presunzione potremmo mai chiedere ai Cinesi o agli<br />

Indiani di riconoscersi nei Greci, implicandone l’identità con un “noi” tutto<br />

europeo, senza offrire in cambio <strong>il</strong> desiderio di identificarci, noi, nella loro antichità?<br />

Se quella è la nostra immagine dei Greci, se quello è <strong>il</strong> loro ruolo nella<br />

“storia universale” che vogliamo costruire, riducendo la storia universale a storia<br />

dell’Europa e dell’espansione europea, allora davvero i Greci sono destinati<br />

a diventare <strong>il</strong> primo bersaglio di una cultura vicina a soccombere, <strong>il</strong> prototipo<br />

dei dead white males da uccidere domani.<br />

Dobbiamo ricordarci, al contrario, che i Greci (i “Greci senza miracolo” di<br />

Louis Gernet) non sempre innalzarono monumenti e pronunciarono detti<br />

memorab<strong>il</strong>i, nè furono indaffarati a fondare la coscienza dell’Europa moderna<br />

per distinzione dall’Oriente, ma anzi nell’Oriente si mossero con gioia e disinvoltura<br />

e ansia di scoperta, cercandovi merci e miti e saggezza, imparando e<br />

insegnando. Li troviamo sulle coste del Mar Nero o della Spagna, in Sic<strong>il</strong>ia o in<br />

India, a costruire un’infinita varietà di culture locali, o a immaginare viaggi dei<br />

loro eroi oltre le colonne d’Ercole; sempre curiosi di vedere e di conoscere, con<br />

quello spirito che un sacerdote egizio, parlando con Solone, riconobbe come<br />

una loro caratteristica: “un Greco vecchio non esiste, voi Greci siete sempre fanciulli”<br />

(lo racconta Platone nel Timeo ). Li troveremo sempre pronti a “ibridizzarsi”<br />

con le civ<strong>il</strong>tà e i popoli che incontravano, ponendo e ricevendone domande,<br />

creando oggetti culturali a volte davvero assai poco “classici”. Potremo, per<br />

questa strada, apprezzarli di più e meglio proprio sentendoli meno “uguali a<br />

noi”, più “altri”, più “stranieri”. Questo nuovo processo di comprensione, quale<br />

è in corso ai livelli più alti degli studi specialistici, significa relativizzare la<br />

compattezza della civ<strong>il</strong>tà greca, significa evidenziarne i debiti e i contatti con<br />

altre culture e le numerose varianti regionali; significa, in ultimo, incrinare<br />

profondamente, fino a distruggerla, quella “rotonda” classicità a cui pure si<br />

ancorarono tanti discorsi e tanti progetti della storia e della cultura moderna.<br />

Dovremo porre in r<strong>il</strong>ievo l’‘alterità’ dei Greci rispetto alla nostra cultura (quanto<br />

sia diversa la loro dalla nostra libertà, la loro dalla nostra politica, la loro dalla<br />

nostra uguaglianza), ma anche analizzare di volta in volta le ragioni per cui,<br />

anzichè riconoscerne l’alterità, si è preferito così spesso costruirne un’identità<br />

fittizia con “noi”. Ogni volta che lo si è fatto non è stato mai per caso, bensì<br />

rispetto a una posta in gioco estranea, come è ovvio, ai Greci, alle loro preoccupazioni<br />

e pensieri; e costantemente propria, invece, di questo o di quell’altro<br />

“noi”: perciò è stato ed è possib<strong>il</strong>e invocare l’esempio greco per ragioni assolutamente<br />

opposte fra loro. Perciò le ragioni di quelle identificazioni aiuteranno<br />

anche a intendere l’uno o l’altro “noi” di volta in volta in azione, che sia in Germania,<br />

in Italia o in America: identità e alterità entreranno in gioco quasi a ogni<br />

passo, in perpetua tensione fra loro. Insomma, i Greci senza miracolo saranno<br />

14


molto più interessanti dei Greci del “miracolo”. Forse anche la loro musica ci<br />

apparirà più interessante e ricca di spunti se non la vedremo come una proiezione<br />

all’indietro della musica europea, ma nel contesto delle pratiche musicali<br />

del Mediterraneo orientale, greco e non-greco.<br />

Vengo così al mio secondo punto. Quale era <strong>il</strong> ruolo della musica nella civ<strong>il</strong>tà<br />

greca? Una premessa è necessaria: ‘tutto’ quello che sappiamo dei Greci è f<strong>il</strong>trato<br />

attraverso <strong>il</strong> gigantesco naufragio della maggior parte della loro “produzione culturale”.<br />

I testi letterari che abbiamo sono forse <strong>il</strong> 5, forse <strong>il</strong> 10 per cento di quelli<br />

che si potevano trovare nelle biblioteche di Pergamo o di Alessandria; se passiamo<br />

alle arti figurative, la pittura, che vi aveva un ruolo centralissimo (basti<br />

pensare ai nomi di Apelle o di Parrasio), è interamente perduta; quanto alla scultura,<br />

i Greci avevano ben chiara una gerarchia dei materiali secondo cui la scultura<br />

in bronzo era considerata più “nob<strong>il</strong>e” e pregiata di quella in marmo, ma di<br />

bronzi greci ne abbiamo pochissimi, meno di cento, quando sappiamo che nella<br />

sola Olimpia ce n’erano molte migliaia; quanto alle sculture in marmo, non ne<br />

abbiamo che una minima parte. Dell’intero patrimonio figurativo dell’antichità,<br />

in altri termini, abbiamo oggi probab<strong>il</strong>mente meno dell’1-2 per cento. Con la<br />

musica, le cose stanno ancora peggio: i resti che ne abbiamo sono certamente<br />

molto, molto meno dell’1 per m<strong>il</strong>le. È per porre rimedio a questa documentazione<br />

così drammaticamente lacunosa che gli studiosi del mondo antico hanno<br />

elaborato negli ultimi secoli le sofisticate tecniche e metodologie della f<strong>il</strong>ologia<br />

testuale e dell’archeologia, finalizzate a ricostituire un quadro meno incompleto<br />

della civ<strong>il</strong>tà antica, della sua cultura letteraria e artistica come della sua storia<br />

politica ed economica e della sua cultura “materiale” (gli oggetti della vita quotidiana).<br />

Si può anche dire che l’estrema lacunosità della documentazione ha giocato<br />

come un potente stimolo all’interpretazione, obbligando a mettere a punto<br />

strategie interpretative non solo diverse, ma talora opposte fra loro.<br />

Ma è importante osservare che, al di là delle perdite e delle lacune, quello che<br />

più si è modificato con l’inesorab<strong>il</strong>e trascorrere del tempo è proprio l’immagine<br />

generale della cultura greca. Le enormi perdite di documentazione hanno<br />

infatti provocato una ‘dislocazione della percezione’ dei Greci in aree estremamente<br />

significative. Farò solo due esempi. Se c’è qualcosa che a tutti viene in<br />

mente parlando dei Greci, è l’immagine di un tempio (come <strong>il</strong> Partenone o i<br />

templi di Paestum o di Agrigento), o di una scultura, come i marmi del Partenone<br />

al British Museum, o <strong>il</strong> Laocoonte in Vaticano. Sono immagini ‘monocrome’,<br />

dominate dal candore del marmo delle qualità più pregiate: eppure, l’architettura<br />

e la scultura greca erano coloratissime, arricchite di una policromia<br />

vivace e multiforme, di cui solo un limitato numero di sculture reca una qualche<br />

pallida traccia. Immaginiamo di entrare in un grande museo di scultura<br />

antica, per esempio ai Musei Vaticani, e di trovarci in una grande sala con centinaia<br />

di sculture bianchissime, di quel bianco abbagliante che tanto appartiene<br />

15


alla più comune immagine della classicità. Chiudiamo gli occhi per un istante,<br />

immaginiamo le carni degli Apolli e delle Veneri colorarsi come d’incanto, colorarsi<br />

i loro panneggi, i loro capelli, i tronchi d’albero a cui a volte si appoggiano,<br />

i serpenti che stringono fra le loro spire Laocoonte e i suoi figli. Ci parrà, se<br />

riapriamo gli occhi davanti a uno spettacolo tanto mutato, di essere in un’altra<br />

dimensione, “non-classica”: ebbene, è solo in questa dimensione sorprendentemente,<br />

quasi fastidiosamente estranea, che possiamo riconoscere l’autentico<br />

“colore” della grecità. Lo stesso accade coi bronzi: siamo così abituati a vedere i<br />

bronzi antichi con la patina verdastra creata dai secoli di abbandono, che tutta<br />

la scultura in bronzo europea, dal Rinascimento in qua, ha adottato ‘quel’ verde<br />

come <strong>il</strong> colore del bronzo. Eppure, sappiamo che i bronzi antichi erano, invece,<br />

lucidi e splendenti, di un colore dorato quasi più vicino all’oro che alla<br />

‘nostra’ immagine del bronzo; che quelle statue sorridevano da labbra di rame<br />

rossastro, mostrando denti d’argento; che i loro occhi erano di pietre e vetri<br />

colorati. Un’immagine, per la sua violenta policromia, che ci appare quasi “barbarica”,<br />

per contrasto alla monocroma compostezza dei bronzi come li vediamo<br />

nei musei: ma quell’immagine violenta ed estranea, così diffic<strong>il</strong>e da accettare, è<br />

la sola immagine autentica dell’arte greca.<br />

Non diversamente stanno le cose nella musica greca. Qui, come ho detto, la<br />

perdita della documentazione è tanto vasta e radicale da farcene dimenticare<br />

perfino l’esistenza. Quasi non sappiamo più quanto profondamente la musica<br />

permeasse ogni aspetto della vita pubblica e privata dei Greci; quasi abbiamo<br />

dimenticato che le tragedie di Esch<strong>il</strong>o Sofocle Euripide erano drammi in musica,<br />

e che quando leggiamo Pindaro e gli altri poeti lirici dobbiamo immaginare<br />

i loro testi non “accompagnati” dalla musica, ma ‘intrisi’ di musica, pensati<br />

con la musica e per la musica (visto che l’autore della musica, dei testi e delle<br />

danze era di solito la stessa persona, quasi in un grandioso e originario<br />

Gesamtkunstwerk). È un’immagine drammaticamente perduta per sempre:<br />

come la scultura greca, nata policroma, è “diventata” monocroma, così la parola<br />

poetica greca, nata come squisitamente e intimamente musicale, ha perduto<br />

per sempre la propria “colonna sonora”. Il potere della musica nella città greca<br />

era ritenuto così grande, che i diversi generi della musica furono non solo codificati,<br />

ma anche associati a valori etici e civici che si ritennero ‘costitutivi’ della<br />

natura stessa del cittadino, della vita associata nella polis, del rapporto fra le varie<br />

generazioni all’interno della società. Si spiega così come Platone abbia tanto<br />

insistito (in particolare nella Repubblica e nelle Leggi ) sulla necessità di codificare<br />

la musica e la danza, e di impedire e punire le innovazioni troppo audaci,<br />

considerandole distruttive per la vita politica della città. Si spiega così come la<br />

musica non vi fosse intesa come qualcosa di aggiuntivo, un’arte fra le altre, ma<br />

come quella che, coinvolgendo emotivamente più di ogni altra, doveva aiutare<br />

a comprendere le altre; e come nei testi antichi è molto più fac<strong>il</strong>e trovare <strong>il</strong> lin-<br />

16


guaggio musicale, o metafore tratte dalla pratica musicale, per spiegare le arti<br />

figurative, piuttosto che <strong>il</strong> contrario.<br />

Un quadro come questo, del quale le relazioni che seguiranno vi offriranno altri<br />

e più ricchi elementi, ha un’enorme potenza evocativa, in nulla diminuita dalla<br />

quasi totale assenza di documentazione. Basta a dimostrarlo <strong>il</strong> fatto stesso che<br />

un genere musicale centrale nella tradizione europea, l’opera, sia nato all’origine<br />

proprio come un tentativo di “ricreare” la tragedia greca nella sua intima<br />

commistione di parola e musica. Se riflettiamo a questa origine dell’opera, possiamo<br />

ben comprendere quanto anche le assenze nella documentazione, le perdite<br />

anche dolorose, possano alla fine provocare una vitale tensione creativa;<br />

quanto persino i processi di distruzione possano, in una storia delle civ<strong>il</strong>tà vista<br />

nel lungo periodo, innescare un opposto e fecondo processo produttivo. Ma che<br />

cosa può darci, ‘oggi’, la memoria della musica greca antica? Era, essa, più sim<strong>il</strong>e<br />

alla “nostra”, o a musiche “altre” (per esempio “orientali”)? Come possiamo<br />

interpretare, in senso non solo f<strong>il</strong>ologico, ma propriamente musicale, le pochissime<br />

tracce di partiture musicali che ci sono rimaste? Torna qui la tensione che<br />

abbiamo visto fra “identità” e “alterità” dei Greci, e lo si potrebbe mostrare mettendo<br />

a confronto le rare esecuzioni della musica greca antica conservata, che<br />

ora cercano di rendercela più accettab<strong>il</strong>e col farla più sim<strong>il</strong>e a musica a noi già<br />

fam<strong>il</strong>iare, e ora invece puntano sulla sua totale diversità.<br />

Di questi ed altri temi altri parleranno meglio di me. Vorrei concludere con<br />

un’ultima citazione, che ‘non’ riguarda i Greci, ma riguarda la musica. La prima<br />

registrazione fonografica di un’esecuzione musicale (<strong>il</strong> pianista era un bambino<br />

di undici anni) fu fatta nello studio di Thomas Edison nel 1887, e tutti sappiamo<br />

quanta strada si sia fatta da allora ai nostri CD. Ma già nel 1888, l’editoriale<br />

(non firmato) dello Spectator si preoccupava del fatto che ascoltare le esecuzioni<br />

degli altri potesse limitare la creatività dei musicisti del futuro. “L’ingegnosità<br />

scientifica del nostro tempo -scrive l’editorialista- finirà col creare nel<br />

mondo che ci lasceremo dietro un “troppo pieno”: forse lasceremo di noi ‘troppo’,<br />

e con ciò finiremo col limitare la libera crescita della nostra posterità”. Non<br />

intendo, concludendo con questa citazione, implicare che è meglio che la musica<br />

greca antica sia andata perduta nei gorghi della storia; ma solo suggerirvi di<br />

riflettere alla tensione drammatica fra quello che sappiamo del nostro passato e<br />

quello che ne ignoriamo (la più gran parte); a quanto possa essere fecondo e<br />

creativo <strong>il</strong> nostro desiderio di riempire le lacune della documentazione, l’impulso<br />

irresistib<strong>il</strong>e a interrogarci su quello che abbiamo perduto per sempre.<br />

17


Musica e poesia in Grecia MARIA CHIARA MARTINELLI<br />

Della musica della civ<strong>il</strong>tà greca antica ci sono giunti pochissimi documenti, e<br />

del periodo in cui essa fu indissolub<strong>il</strong>mente legata alla grande produzione letteraria<br />

non ci è arrivato praticamente niente 1 . Eppure <strong>il</strong> significato che essa aveva<br />

nella vita dei Greci dei più vari livelli sociali, a partire dal momento della loro<br />

formazione culturale e, via via, nelle diverse occasioni della vita quotidiana, lo<br />

possiamo ricavare da una serie molteplice di testimonianze dall’arte figurativa,<br />

dalla riflessione f<strong>il</strong>osofica, e, in modo particolare, dalla letteratura.<br />

Più di una volta nelle parole dei poeti per connotare qualcosa di negativo, la<br />

discordia, la guerra, la morte, lo si associa alla mancanza di musica: così, ad<br />

esempio, Sofocle, nell’Edipo a Colono 2 , definisce <strong>il</strong> destino di morte “senza danze,<br />

senza lira, senza canti” e nelle Fenicie di Euripide 3 si rimprovera ad Ares, la<br />

divinità della guerra che causa enormi sofferenze, di contrapporsi alle feste in<br />

cui i giovani danzano accompagnati dal canto, guidando invece una processione<br />

dove la musica non ha posto. La gioia e la festa sono, al contrario, indissolub<strong>il</strong>mente<br />

legate alla musica; così i vecchi che formano <strong>il</strong> coro di un’altra tragedia<br />

di Euripide, l’Eracle, si augurano (v. 676) di non dover mai vivere senza i<br />

doni delle Muse, appunto la musica, <strong>il</strong> canto, la danza.<br />

Nei più vari tipi di celebrazione i Greci di ogni classe sociale godevano della musica,<br />

non solo e non tanto ascoltando l’esibizione di artisti ‘professionali’, ma suonando,<br />

cantando e danzando. Il termine da cui è derivato lo stesso nome di “musica”,<br />

mouçikhv (sott. tevcnh, “l’arte delle Muse”) definiva infatti non solo l’arte dei<br />

suoni, ma anche la poesia e la danza: <strong>il</strong> giovane, che doveva diventare un mouçiko;ç<br />

ajnhvr, veniva formato dunque a saper praticare quest’arte e allo stesso tempo ad<br />

essere in grado di recepire <strong>il</strong> messaggio di una cultura che veniva proposta dai poeti,<br />

nei canti per le feste come nelle opere drammatiche, attraverso la parola, che si<br />

univa più volte strettamente alla musica e talora all’azione gestuale.<br />

Il periodo della grande fioritura della poesia legata al canto e spesso alla danza<br />

è quello arcaico e tardo-arcaico della grande lirica (che va dal VII secolo a.C.<br />

all’inizio del V secolo) e quello ‘classico’ del dramma attico (V secolo). Si tratta<br />

in entrambi i casi di un tipo di poesia che non riusciremmo a capire senza tener<br />

< Fig. 1, anfora attica a figure rosse del pittore Brygos, 430 a.C. ca.: citarodo (particolare)<br />

(Boston, Museum of Fine Arts 26.61).<br />

19


presente che essa venne composta e “pubblicata”, a differenza di quelle moderne<br />

(dove l’occasione è un evento interiore e <strong>il</strong> destinatario è per lo più l’indefinib<strong>il</strong>e<br />

lettore che l’autore immagina o desidera, ma non vede), per una ben individuab<strong>il</strong>e<br />

occasione sociale, con precisi committenti, e fece per lo più parte integrante<br />

di un cerimoniale.<br />

La lirica, che si sv<strong>il</strong>uppa in un contesto storico del tutto rinnovato rispetto a<br />

quello dell’epica, 4 è composta ed eseguita per particolari occasioni, che la distinguono<br />

chiaramente in generi, già chiari alla coscienza degli antichi.<br />

Così la lirica corale si rivolge ad un pubblico vasto, riunito in occasione di particolari<br />

cerimonie (ad esempio grandi feste pubbliche legate al culto degli dei e agli agoni<br />

sportivi). Conosciamo, in parte anche grazie alle testimonianze dirette di quanto<br />

ci è arrivato dell’opera di grandi poeti come Pindaro e Bacch<strong>il</strong>ide, diversi generi di<br />

canti, alcuni dei quali dovevano affondare le loro radici in epoche precedenti.<br />

Così, ad esempio, <strong>il</strong> peana, per lo più legato al culto di Apollo (con <strong>il</strong> quale veniva<br />

comunemente identificata la divinità “salvifica” Peana o Peone, originariamente<br />

indipendente), con la funzione fondamentale di invocare la salvezza da<br />

un male o esprimere gratitudine per uno scampato pericolo (nel primo libro<br />

dell’Iliade ci viene riferito che lo intonano gli Achei, dopo aver restituito al<br />

sacerdote Crise la figlia, fonte dell’ira di Apollo, con <strong>il</strong> quale si vuole attraverso<br />

<strong>il</strong> canto ribadire appunto la riconc<strong>il</strong>iazione). 5<br />

Canti di invocazione o ringraziamento alla divinità, i prosodi, venivano intonati<br />

durante solenni processioni ai templi e agli altari degli dei, ad accompagnare<br />

dunque le parti introduttive dei riti (ne abbiamo, con ogni probab<strong>il</strong>ità, diverse<br />

testimonianze figurative, che mostrano processioni o danze processionali<br />

accompagnate da strumenti musicali).<br />

Del ditirambo, dedicato a Dioniso, sappiamo che conobbe un’evoluzione in<br />

senso fortemente spettacolare: nelle Grandi Dionisie celebrate ad Atene, almeno<br />

dalla fine del VI secolo si svolgevano gare 6 in cui dieci cori di cinquanta<br />

ragazzi e altrettanti di cinquanta uomini, tratti da ciascuna delle tribù in cui era<br />

articolata la polis (quindi 20 cori, in tutto un migliaio di cittadini), si esibivano<br />

cantando e danzando.<br />

Cori entravano in azione anche in vari momenti della cerimonia nuziale: nel<br />

corteo di amici che accompagnava la sposa dalla casa di suo padre alla sua nuova<br />

casa (l’imeneo: già nell’Iliade 7 ne troviamo una descrizione fra le raffigurazioni<br />

dello scudo di Ach<strong>il</strong>le, e Saffo ce ne dà un’altra, relativa alle nozze di Ettore<br />

e Andromaca 8 ) e, più avanti, durante la notte di nozze, davanti alla camera<br />

degli sposi (l’epitalamio).<br />

Cori cantano e danzano anche per festeggiare i vincitori delle grandi gare panelleniche<br />

(i giochi Olimpici, Pitici, Nemei ed Istmici) e non: ciò avviene con le<br />

composizioni dette epinici, di cui abbiamo notevoli esempi soprattutto da Bacch<strong>il</strong>ide<br />

e Pindaro, che ci testimoniano quale livello di raffinatezza e anche di<br />

20


magnificenza nell’allestimento un ricco committente<br />

poteva aspettarsi.<br />

Il coro era in genere formato da individui della<br />

stessa classe di età e dello stesso sesso, in numero<br />

variab<strong>il</strong>e: dei cori masch<strong>il</strong>i del ditirambo si è<br />

già detto, e si possono ricordare anche canti<br />

riservati a cori di fanciulle, i cosiddetti parteni,<br />

di cui abbiamo testimonianze in alcune odi di<br />

Alcmane e di Pindaro. Per alcuni ambiti, ad<br />

esempio la Sparta di Alcmane, dove l’istruzione<br />

dei cori doveva essere istituzionalizzata, siamo<br />

informati che essi erano guidati da un corego<br />

(che si distingueva in genere per un abbigliamento<br />

più ricco ed era scelto in base a caratteristiche<br />

di eccellenza fisica e tecnica). Nei cori che<br />

venivano formati di volta in volta per le varie<br />

occasioni (come accadeva di solito ad Atene),<br />

normalmente erano i poeti-musicisti ad occuparsi<br />

dell’addestramento dei cantanti. E in<br />

genere i poeti curavano anche l’istruzione<br />

coreografica del coro.<br />

L’accompagnamento era eseguito precipuamente,<br />

a quanto sembra, con la kiqavra [fig. 1, vedi p.<br />

18], uno strumento della famiglia delle lire 9 , talvolta<br />

invece con l’aujlovç [fig. 2] 10 (così ad esempio<br />

nel ditirambo eseguito alle Grandi Dionisie)<br />

e probab<strong>il</strong>mente, qualche volta, con entrambi 11 .<br />

Ad un ambito più ristretto si rivolgeva la lirica<br />

monodica: suo luogo era soprattutto <strong>il</strong> simposio<br />

[fig. 3], dove si riunivano e si intrattenevano<br />

dopo un pasto comune persone della stessa cerchia.<br />

Si tratta di una vera e propria istituzione,<br />

dove, insieme alle varie occupazioni ritualizzate<br />

per l’occasione (la preghiera, lo stesso bere<br />

secondo precise regole, <strong>il</strong> gioco, l’amore), si eseguivano<br />

canti ora con l’accompagnamento di<br />

strumenti a corde, in particolar modo la luvra<br />

[fig. 4] 12 e <strong>il</strong> bavrbitoç [fig. 5, vedi p. 27] 13 , ora<br />

al suono dell’ aujlovç. Spesso <strong>il</strong> simposio aveva<br />

un carattere marcatamente politico: in questo<br />

caso allora costituiva <strong>il</strong> momento d’incontro dei<br />

21<br />

Fig. 2, anfora attica a figure rosse del<br />

pittore Kleophrades, 480 a.C., auleta<br />

(particolare).<br />

(London, British Museum E 270).<br />

Fig. 3, coppa attica a figure rosse di<br />

Douris (?), 480 a.C. ca.: scena<br />

simposiale.<br />

(München, Staatliche<br />

Antikensammlung inv. nr. 2361).<br />

Fig. 4, cratere attico a figure rosse da<br />

Gela, 440 a.C. ca.: Orfeo suona la lira<br />

fra i Traci.<br />

(Berlin, Staatliche Museen 3172).


partecipanti ad una fazione dove si deliberavano decisioni comuni e venivano<br />

eseguite composizioni legate all’hic et nunc della situazione politica: una testimonianza<br />

di questo tipo di produzione l’abbiamo nelle odi di Alceo. Ma nel<br />

simposio si agitavano anche altre tematiche e così altrove troviamo dominanti i<br />

temi dell’amore o della riflessione etica più generale, temi cari soprattutto all’elegia<br />

(che pure non disdegnava anche argomenti politici), in epoca arcaica<br />

anch’essa cantata con l’accompagnamento dell’aujlovç, mentre in una sorta di<br />

recitativo accompagnato ancora dell’aujlovç era eseguita la poesia giambica, che<br />

si incentrava sui temi dell’invettiva e della beffa, forse mezzo per risolvere le tensioni<br />

interne alla comunità. Se poeti creativi in queste occasioni eseguivano odi<br />

di loro composizione, altri partecipanti al simposio ne potevano ripetere di vecchie:<br />

così Teognide promette al suo amico Cirno che i canti in suo onore da lui<br />

composti avranno un’ampia circolazione nei simposi futuri. 14<br />

Ad un ambiente ristretto, che non è <strong>il</strong> simposio, si rivolgeva anche la produzione<br />

di un altro fra i grandi lirici monodici, Saffo: educatrice in una cerchia religiosa,<br />

detta tiaso, dove, nel culto reso ad Afrodite, alle Muse e alle Cariti, venivano<br />

formate le ragazze in vista dell’unica funzione che la civ<strong>il</strong>tà del tempo<br />

riservava alle donne libere, cioè <strong>il</strong> matrimonio e la vita coniugale.<br />

La musica ha un ruolo importante anche nelle rappresentazioni teatrali dell’Atene<br />

del V secolo, tragedia -momento di aggregazione della comunità cittadina<br />

e insieme sede di un dibattito appassionato al quale la stessa comunità partecipava<br />

con profonda adesione- e commedia, dove si rispecchiavano fatti contemporanei,<br />

dibattiti politici e culturali, tensioni sociali e civ<strong>il</strong>i. In entrambe si<br />

alternavano brani puramente recitati a brani eseguiti in recitativo e a canti corali,<br />

al suono dell’aujlovç, accompagnati da movenze di danza, oltre a canti solistici<br />

degli attori e a dialoghi lirici fra attori e coro. Anche qui l’elemento musicale<br />

non era qualcosa di accidentale, ma costituiva un fattore importante nell’impatto<br />

che ci si aspettava che lo spettacolo avesse sul pubblico. Quando Aristofane,<br />

nelle Rane, sottopone a critica due diversi modi di comporre tragedie quali<br />

quello di Esch<strong>il</strong>o e quello di Euripide, dedica particolare attenzione anche alla<br />

loro musica; e, d’altra parte, sappiamo da più di una testimonianza che i brani<br />

lirici di maggior impatto rimanevano nella memoria degli Ateniesi, che erano<br />

in grado di eseguirli in vari tipi di occasioni. 15<br />

In questa unione fra parola, musica e talora danza, dominante fu, nella cultura<br />

della Grecia arcaica e classica, <strong>il</strong> valore della parola, spesso in testi poetici altamente<br />

sofisticati e complessi. Era la parola che, come ci risulta da esplicite testimonianze<br />

degli stessi poeti (gli inni, dice Pindaro all’inizio della seconda Olimpica,<br />

sono “signori della cetra”), doveva condizionare alle sue esigenze l’espressione<br />

ritmica e melodica. E così possiamo, pur nella mancanza di documenti di<br />

cui si diceva, farci un’idea almeno del ritmo della poesia, che si basava sulla successione<br />

ordinata di s<strong>il</strong>labe brevi e lunghe: fino al V sec. a.C. l’andamento rit-<br />

22


mico era conforme allo schema metrico del testo.<br />

La musica che accompagnava questi testi doveva essere molto semplice, consistendo<br />

in un accompagnamento monodico che non doveva oscurare la comprensione<br />

delle parole. Sembra inoltre che ciascun tipo di pezzo avesse una sua<br />

forma e un suo ethos, anche musicale, distinto, con caratteristiche volte a provocare<br />

reazioni diverse negli ascoltatori: la fruizione musicale non era infatti<br />

qualcosa di meramente estetico, ma, come risulta dall’elaborazione dei f<strong>il</strong>osofi,<br />

era considerata avere vere e proprie capacità psicagogiche. Delle caratteristiche<br />

musicali più tecniche legate ai tipi di composizione sentiamo parlare dai poeti<br />

stessi: fra le aJrmonivai (disposizioni degli intervalli in una determinata successione<br />

di suoni) si distingueva ad esempio quella dorica, austera e nob<strong>il</strong>e, da<br />

quella frigia, tipica dell’entusiasmo dionisiaco e del ditirambo. Usare una al<br />

posto dell’altra, come ci dicono i f<strong>il</strong>osofi, sarebbe stato considerato non solo<br />

esteticamente sconveniente, ma deleterio sul piano etico.<br />

E inoltre sembra di poter affermare che fino al V secolo i poeti-musicisti non<br />

componessero i loro brani con criteri di originalità assoluta, ma per lo più rielaborassero<br />

e variassero motivi tradizionali ormai impostisi e definiti con una<br />

certa regolarità, secondo un procedimento che ci è noto anche per altre culture<br />

musicali come ad esempio quella dell’India: a questo probab<strong>il</strong>mente tali motivi<br />

musicali dovrebbero <strong>il</strong> nome di novmoi (cioè “leggi” oppure “modi usuali”). I<br />

poeti stessi attestano talvolta esplicitamente nelle loro composizioni questo procedimento:<br />

così più di una volta Pindaro, ad esempio nella Olimpica I (novmoç<br />

i{ppioç) 16 e nella Pitica II (Kaçtovreion). 17<br />

Anche l’articolazione delle composizioni rispondeva a criteri di regolarità: essa<br />

avveniva di solito attraverso la ripetizione (sia nel ritmo che nella melodia) di<br />

una struttura più o meno ampia fatta di versi anche differenti fra loro (la strofe);<br />

le composizioni più complesse (come alcune odi dei grandi lirici corali)<br />

vedevano la ripetizione di una struttura detta triade in cui due strofe uguali tra<br />

loro erano seguite da una struttura ritmicamente diversa (l’epodo); <strong>il</strong> dramma<br />

sv<strong>il</strong>uppa soprattutto un tipo di articolazione in cui si susseguono coppie strofiche<br />

l’una diversa dall’altra, forse legato alle esigenze del teatro (ad esempio la<br />

necessità di introdurre cambiamenti ritmici e melodici in un testo in cui si agitano<br />

tematiche e finalità di vario genere in rapporto agli avvenimenti scenici).<br />

Ma nella seconda metà del V secolo nasce e si va imponendo, grazie all’azione<br />

in Atene di alcuni musicisti, la ‘scuola del Nuovo Ditirambo’, <strong>il</strong> cui esponente<br />

più noto è Timoteo di M<strong>il</strong>eto, 18 un nuovo modo di intendere i rapporti fra<br />

musica e poesia: <strong>il</strong> ritmo e anche <strong>il</strong> senso del testo sono progressivamente subordinati<br />

alle nuove idee musicali che vengono ad essere sv<strong>il</strong>uppate di per se stesse.<br />

Nell’ambito di una concezione poetica e musicale tesa soprattutto al mimetismo,<br />

dove testo e musica dovevano corrispondere alla varietà delle situazioni<br />

e dei sentimenti descritti, la struttura generale tendeva a svincolarsi dall’ordina-<br />

23


ta ripetizione di strutture uguali tra loro a favore di forme libere, con continui<br />

cambiamenti di ritmo. Le melodie, prima semplici, venivano ad essere arricchite<br />

da abbellimenti, che snaturavano <strong>il</strong> ritmo verbale, e modulazioni, sia nella<br />

linea vocale che, anche indipendentemente, nel suo accompagnamento. Le<br />

accresciute potenzialità degli strumenti musicali (un maggior numero di fori<br />

negli aujloiv e di corde nella kiqavra) fac<strong>il</strong>itavano la possib<strong>il</strong>ità di modulazioni,<br />

in conformità con i mutamenti di carattere delle situazioni descritte. I generi<br />

poetici, prima rigorosamente distinti nelle modalità del loro accompagnamento<br />

e delle loro caratteristiche musicali, venivano a confondersi in forme nuove<br />

e indeterminate. Diventata sempre più complessa, la partitura musicale non<br />

poteva in questi casi essere affidata ai ‘d<strong>il</strong>ettanti’ della tradizione, richiedendo <strong>il</strong><br />

virtuosismo vocale e strumentale di un professionista: così decade la funzione e<br />

l’importanza del coro negli spettacoli drammatici, mentre si impongono figure<br />

di virtuosi idolatrati dal pubblico.<br />

Questa evoluzione, che, insieme alle nuove strutture, individualistiche, di pensiero<br />

portate avanti dai sofisti e da Socrate, andò di pari passo con i radicali<br />

mutamenti politici e sociali della fine del V secolo, fin dai suoi momenti iniziali<br />

non poté che destare scandalo ed esecrazione in chi vedeva da essa minacciata<br />

un’arte profondamente integrata in sé e strettamente funzionale alla tradizione<br />

religiosa e civ<strong>il</strong>e. Ne sappiamo qualcosa dalle feroci parodie dedicate dalla commedia<br />

di Aristofane ai nuovi poeti (ma già ad Euripide) 19 : non è casuale,<br />

comunque, che lo stesso Aristofane si trovi a ridurre, nel corso della sua carriera,<br />

numero e ampiezza delle parti affidate al coro, per dare maggior spazio ai<br />

canti degli attori, evidentemente preferiti dal pubblico. Più tardi, quando ormai<br />

la “nuova musica” si è affermata, arriverà la decisa condanna di Platone, che giudica<br />

la nuova arte assolutamente pericolosa, visto che essa suscita nell’uomo<br />

emozioni e passioni tali da turbarne l’equ<strong>il</strong>ibrio. 20<br />

Ma, come si è detto, le nuove tendenze si erano ormai affermate. La rivoluzione<br />

musicale aveva iniziato un processo che comportò alla fine l’emancipazione della<br />

musica pura dalla poesia, che, gradualmente venne ad essere vista come un’arte a<br />

sé stante: così è la grande produzione poetica a partire dall’Ellenismo. Il legame<br />

parola-musica sopravvisse comunque fino in età romana, soprattutto nella tradizione<br />

cultuale, solitamente conservativa, ma anche in vari tipi di composizioni<br />

destinate allo spettacolo. Continuavano ad essere eseguiti, almeno nell’epoca ellenistica,<br />

brani che passavano per essere (e forse erano veramente) musica dei grandi<br />

del passato come Euripide, comunque per lo più destinati ad una esecuzione<br />

ben diversa da quella originaria, e cioè come ‘estratti’, arie da concerto per cantanti<br />

che si esibivano in poutpourri di composizioni. Ormai le personalità che si<br />

affermano nell’ammirazione del pubblico sono gli esecutori, mentre non emergono<br />

più grandi personalità di poeti-musicisti paragonab<strong>il</strong>i a quelle del passato.<br />

24


Note:<br />

1. Fino alla metà dell’800 erano noti solo gli inni attribuiti a Mesomede, musico greco vissuto<br />

al tempo di Adriano (II sec. d.C.), che erano stati pubblicati da Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei nel<br />

1581, e i sei brevi brani strumentali posti alla fine di una raccolta di scritti teorici anonimi<br />

di età tarda pubblicata nel 1841 da F.Bellermann (Anonyma de musica scripta Bellermanniana);<br />

altre composizioni, che erano fatte risalire all’antichità, sono oggi per lo più<br />

considerate spurie (<strong>il</strong> più noto è <strong>il</strong> frammento della prima Pitica di Pindaro, vv. 1-8, che <strong>il</strong><br />

gesuita Athanasius Kircher pubblicò nel 1650, dichiarando di averlo scoperto in un manoscritto<br />

nella biblioteca di un convento a Messina, manoscritto la cui esistenza non è stata<br />

più segnalata, anche perché negli anni successivi la biblioteca venne distrutta da un incendio).<br />

A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo <strong>il</strong> patrimonio dei testi a noi noti si è relativamente<br />

arricchito grazie alla scoperta di alcune iscrizioni (fra cui, particolarmente notevoli,<br />

due inni, eseguiti a Delfi nel 128 a.C., di musicisti attici, di nome rispettivamente Ateneo<br />

e Limenio, testimonianza del successo ottenuto da compositore ed esecutori; un canto<br />

che <strong>il</strong> musico Sic<strong>il</strong>o fece incidere sulla propria pietra tombale nel II sec. d.C.; <strong>il</strong> frammento<br />

di un inno ad Asclepio trovato ad Epidauro su una pietra incisa probab<strong>il</strong>mente alla<br />

fine del III secolo d.C., ma più vecchio, forse, di alcuni secoli), e un certo numero di brevi<br />

frammenti papiracei, <strong>il</strong> più antico dei quali (P. Leid. inv. 510), contenente una selezione di<br />

brani dall’Ifigenia in Aulide di Euripide, risale al III sec. a.C. Dei documenti musicali greci<br />

in nostro possesso esiste una recentissima raccolta con edizione critica e commento<br />

(Documents of Ancient Greek Music, edited by E.Pöhlmann and M.L. West, Oxford 2001).<br />

2. Vv. 1221 s.<br />

3. Vv. 784 ss.<br />

4. Lo sv<strong>il</strong>uppo della vita associata a livello aristocratico e- in particolare nella polis democratica-<br />

a livello popolare offre ai cittadini motivi sempre più frequenti di partecipare,<br />

come spettatori o esecutori, a diverse forme di vita sociale che includevano uno ‘spettacolo’:<br />

nuove feste religiose, cerimonie di associazioni di devoti a particolari divinità, banchetti<br />

a cui partecipavano gli appartenenti alla stessa fazione politica.<br />

5. Iliade I, vv. 472-474:“Tutto <strong>il</strong> giorno i Greci placarono <strong>il</strong> dio con <strong>il</strong> canto, intonando un<br />

peana bellissimo in onore del dio arciere, che si rallegrava ad udirli” [trad. G. Paduano,<br />

Torino 1997].<br />

6. La competizione è una caratteristica strutturale dell’agire dei Greci. E così nelle feste come<br />

quelle ora descritte si affrontavano non solo cori, ma anche cantanti solisti e strumentisti,<br />

quali suonatori di aujlovç e di kiqavra (che eseguivano brani puramente strumentali).<br />

7. Iliade XVIII, 490-496: “Vi fece poi due città di uomini, bellissime: in una erano nozze e<br />

banchetti; conducevano spose dalle loro stanze alla luce di fiaccole splendenti, in corteo<br />

per la città; si levava alto l’imeneo, e giovani danzatori volteggiavano; fra di loro suonavano<br />

flauti e cetre: le donne in piedi, ognuna sulla sua porta, guardavano con stupore”<br />

[trad. G.Paduano, cit.].<br />

8. Fr. 44 Voigt.<br />

9. È questo un gruppo di strumenti a corda (per <strong>il</strong> quale v. M.L.West, Ancient Greek Music,<br />

Oxford 1992, 48 ss.), la cui struttura essenziale consisteva in una cassa armonica e in due<br />

bracci che, partendo da essa, erano collegati da una traversina su cui si fissavano -in<br />

numero variab<strong>il</strong>e- corde di uguale lunghezza, collegate dall’altro capo alla parte inferiore<br />

della cassa. Di questi strumenti la kiqavra rappresenta lo stadio più evoluto: la sua grande<br />

cassa di risonanza, che continuava anche nelle basi dei due bracci, consentiva un ampio<br />

volume di suono e fece sì che essa diventasse lo strumento professionistico per eccellenza.<br />

Per <strong>il</strong> suo impiego nella lirica corale cfr. West, Ancient Greek Music, cit., 336, 346;<br />

M.Maas-J.McIntosh Snyder, Stringed Instruments of Ancient Greece, New Haven and<br />

London 1989, 31, 60.<br />

25


10. Di solito tradotto come “flauto”, <strong>il</strong> termine indica invece uno strumento ad ancia<br />

(semplice o doppia); fra gli strumenti moderni <strong>il</strong> più vicino ad esso nella struttura essenziale<br />

è l’oboe. Aveva in genere due canne, ciascuna con un certo numero di fori.<br />

11. Si veda ad esempio Pindaro, Olimpica III, 6 ss.: “Ora da me le ghirlande annodate<br />

alla chioma reclamano un debito eretto dal dio: che io fonda in giusta misura <strong>il</strong> vario tono<br />

di cetra e clamore di flauti e una trama di voci per <strong>il</strong> figlio di Ainesídamos [trad. L.Lehnus,<br />

M<strong>il</strong>ano 1981].<br />

12. Lo strumento a corda di uso più comune (normalmente adoperato nell’educazione dei<br />

giovani), che consisteva in una cassa armonica costituita in origine da un guscio di tartaruga<br />

e in due bracci che, a differeza della kiqavra, non costituivano un prolungamento<br />

della cassa ma erano a questa applicati.<br />

13. Amato in particolare dai poeti di Lesbo, era uno strumento la cui maggiore differenza<br />

con la luvra consisteva nella presenza di due lunghi bracci ricurvi. Le dimensioni molto<br />

ridotte della cassa di risonanza e la lunghezza delle corde dovevano produrre un suono<br />

di volume non ampio e di intonazione grave.<br />

14. Teognide, vv. 239-243: “Sarai presente a tutte le feste e a tutti i banchetti posando sulle<br />

labbra di molti: te celebreranno al suono degli auli brevi d’acuta nota giovani seducenti<br />

nell’armonia di melodiose canzoni” [trad. F.Ferrari, M<strong>il</strong>ano 1989].<br />

15. Plutarco, ad esempio, racconta (Vita di Nicia, 29, 4) come alcuni Ateniesi sopravvissuti<br />

al disastro m<strong>il</strong>itare di Siracusa (413 a.C.) nel corso della guerra del Peloponneso,<br />

ottennero cibo e acqua grazie alla loro capacità di cantare brani di Euripide.<br />

16. V. 101.<br />

17. V. 69.<br />

18. Insieme a frammenti minori, di lui ci è giunta una parte piuttosto ampia di una estesa<br />

composizione incentrata sulla battaglia di Salamina (fr. 15 Page).<br />

19. Euripide, almeno nell’ultimo periodo della sua attività, sembra partecipe di alcune<br />

delle nuove tendenze: così si potrebbe interpretare <strong>il</strong> maggior ricorrere di canti astrofici,<br />

per lo più affidati agli attori. Aristofane, d’altro canto, gli rimproverava, non sappiamo<br />

quanto a ragione, l’uso di una ridondante aggettivazione e di frequenti anadiplosi come<br />

semplici pretesti per modulazioni musicali. E ancora, ne deprecava la mescolanza di<br />

motivi provenienti da generi musicali diversi (Rane, vv. 1301 ss.: “lui prende <strong>il</strong> suo miele<br />

dappertutto: canti di puttane, canzoni di Meleto, motivetti per l’aulo della Caria, compianti<br />

funebri, arie di danza”[trad. D.Del Corno, M<strong>il</strong>ano 1985]). D’altra parte variazioni di<br />

ritmo compaiono in particolare nelle virtuosistiche monodie tardo-euripidee; ed è ancora<br />

Euripide a introdurre in alcune delle sue ultime tragedie canti corali che sembrano<br />

scorrelati dall’azione, basati come sono sulla narrazione di vicende mitiche e sul rincorrersi<br />

di belle immagini, forse precorrendo o rifacendosi al procedimento, che ci viene<br />

attestato per <strong>il</strong> tragico Agatone, di introdurre al posto degli stasimi della tragedia canti<br />

corali privi di aggancio con la situazione scenica, che si configurano come veri e propri<br />

riempitivi.<br />

20. Ciò si basa sulla concezione diffusa, attestata tra l’altro dai Pitagorici e da Damone,<br />

secondo la quale la musica poteva alterare lo stato d’animo di chi la ascoltava, e che<br />

quindi collegava a diversi effetti emozionali ed etici ritmi o modi musicali diversi.<br />

> Fig. 5, vaso attico, 470 a.C. ca.: Alceo e Saffo con barbitoi. (München, Staatliche<br />

Antikensammlung inv. nr. 2416).<br />

26


‘Spartiti musicali’ nella Grecia ellenistica: LUCIA PRAUSCELLO<br />

pluralità delle occasioni del canto e CARLO PERNIGOTTI<br />

discontinuità della tradizione<br />

Nonostante le più antiche testimonianze a noi pervenute, figurative e letterarie,<br />

documentino un indissolub<strong>il</strong>e e precoce legame fra elemento musicale, orchestico<br />

e testuale, deponendo così a favore di una diffusione generalizzata di una<br />

profonda cultura musicale nella società greca fin dai tempi più remoti, <strong>il</strong> principale<br />

ostacolo per chi voglia tentare di ricostruire gli aspetti più propriamente<br />

tecnici di questa intensa attività, come ad es. la tecnica di composizione, le<br />

modalità di diffusione e trasmissione dei testi musicali, è dato, paradossalmente,<br />

proprio dall’esiguità e parzialità dell’evidenza documentaria. Attualmente<br />

infatti, sebbene si tratti di un corpus suscettib<strong>il</strong>e di aumentare nel corso degli<br />

anni grazie a nuove scoperte papirologiche ed epigrafiche, per fare luce sul sistema<br />

notazionale della musica greca 1 non possediamo più di una quarantina di<br />

scarni frammenti di tradizione diretta, tutti datab<strong>il</strong>i in un periodo compreso fra<br />

<strong>il</strong> III sec. a.C. e <strong>il</strong> IV/V d.C. 2 Ci si trova dinanzi ad una selettività della testimonianza<br />

che investe in primo luogo l’asse cronologico: si tratta cioé di documenti<br />

posteriori almeno di due secoli alla grande stagione della lirica corale e<br />

del teatro attico del V sec. a.C.<br />

Perché dunque un tale vacat temporale nella nostra evidenza documentaria? Una<br />

prima ragione va sicuramente ricercata nel fatto che sino alla fine del V/inizi del<br />

IV sec. a.C. <strong>il</strong> principale veicolo di conoscenza e diffusione del patrimonio musicale<br />

era la performance orale, strettamente legata all’hinc et nunc della singola<br />

occasione del canto, capace di condizionarne l’esecuzione non solo a livello<br />

testuale ma anche ritmico e melodico, rapportandosi in prima istanza all’orizzonte<br />

di attesa del pubblico di volta in volta presupposto. Questo complesso<br />

intreccio di improvvisazione secondo le singole istanze performative e di osservanza<br />

dei novmoi ereditati, unitamente alla conseguente semplicità/ripetitività<br />

della linea melodica tradizionale presupposta da una tale realtà, non doveva verosim<strong>il</strong>mente<br />

comportare l’esigenza di un complesso sistema notazionale, 3 supporto<br />

necessario per le fioriture, i melismi e le barocche modulazioni (kampaiv) della<br />

musica del ‘nuovo ditirambo’.<br />

Tale ricostruzione, pur nella sua riconosciuta problematicità per quanto riguarda la<br />

possib<strong>il</strong>ità di stab<strong>il</strong>ire con esattezza i limiti temporali della comparsa degli spartiti, 4<br />

< Fig. 3, Neapolitanus Gr. III C 4, 83 r , XV saec. = Mesomede, Inni 4-5.<br />

29


sembra comunque confortata, nelle sue linee generali, dall’evidenza iconografica<br />

(questa volta fortunatamente già di epoca classica). Infatti varie raffigurazioni<br />

vascolari del VI/V sec. a.C rappresentanti scene di scuola5 mostrano con chiarezza<br />

come l’insegnamento del canto e della pratica strumentale, nei suoi vari livelli<br />

(d<strong>il</strong>ettantesco e professionale), fosse, a quanto sembra, interamente orale: l’allievo<br />

apprendeva la tecnica per via mimetica, tentando di riprodurre <strong>il</strong> più fedelmente<br />

possib<strong>il</strong>e la gestualità e prassi esecutiva del maestro. All’evidenza iconografica si<br />

affiancano inoltre significative testimonianze letterarie che, sebbene più tarde, sembrano<br />

confermare la relativa stab<strong>il</strong>ità e continuità6 del sistema educativo musicale<br />

nei suoi vari gradi di specializzazione. In tal senso, per un livello di istruzione musicale<br />

di base (come sembra suggerire l’associazione con la figura del grammatodidavvçkaloç),<br />

una delle testimonianze più esplicite è Plut. Mor. 790 e 7- f 2:<br />

wJçga;roiJ gravmmata kai; mouçikh;n didavçkonteç aujtoi; proanakrouvontai<br />

kai; proanaginwvçkouçin uJfhgouvmenoi toi'ç manqavnouçin, ou{twç oJ<br />

politiko;ç ouj levgwn movnon oujd juJpagoreuvwn e[xwqen, ajlla; pravttwn<br />

ta; koina; kai; dioikw'n ejpeuquvnei to;n nevon, e[rgoiç a{ma kai; lovgoiç<br />

plattovmenon ejmyuvcwç kai; kataçchmatizovmenon.<br />

“I maestri di grammatica e di musica guidano gli allievi eseguendo loro per<br />

primi <strong>il</strong> pezzo o dando lettura del testo: così non è solo parlando o dando suggerimenti<br />

dall’esterno, ma impegnandosi di persona nell’amministrazione<br />

della cosa pubblica, che un politico indirizza sulla giusta via i giovani, che<br />

vengono plasmati e formati dall’insegnamento vivo e combinato delle azioni<br />

e delle parole” (traduz. di G. Pisani, Plutarco, Moralia III, Pordenone 1992).<br />

L’intero passo plutarcheo, istituendo una ben precisa equiparazione tra la figura<br />

del maestro (didavçkaloç) e quella dell’uomo pubblico (politikovç), evidenzia<br />

in entrambi i casi la priorità, educativa e maieutica, dell’exemplum pratico:<br />

compito del grammatodidavvçkaloç<br />

(colui che impartiva i primi rudimenti dell’istruzione:<br />

leggere e scrivere), così come del maestro di musica strumentale<br />

(kroumatopoiovç), era quello di guidare l’allievo mostrandogli per primo le<br />

varie tecniche esecutive. 7 Una distinzione così netta, quella greca, fra teoria e<br />

prassi esecutiva, che la tecnica della notazione, in altre parole l’atto stesso di trasferire<br />

per iscritto <strong>il</strong> dettato musicale, non veniva considerata come specifica sfera<br />

di competenza del futuro compositore-esecutore: la composizione e la notazione<br />

erano percepite e praticate come due distinte attività professionali (da qui<br />

la difficoltà di noi moderni a dissociare due pratiche attualmente coincidenti), 8<br />

per cui non era sorprendente <strong>il</strong> caso di un compositore (melopoiovç: letteralmente<br />

“autore di canti”) che non fosse in grado di notare i segni musicali o di<br />

decifrare a prima vista uno spartito. 9<br />

30


Una dimensione ‘educativa’, scolastica, profondamente diversa, dunque, dalla<br />

nostra, che richiede una progressiva e parallela acquisizione di un bagaglio di<br />

informazioni sia teoriche sia pratiche da parte dell’allievo. Allo stesso modo, l’aspetto<br />

più propriamente teorico come la riflessione matematica sull’ampiezza<br />

degli intervalli, la loro divisib<strong>il</strong>ità interna e scomposizione numerica sono riservati,<br />

nell’universo culturale greco, esclusivamente all’ambito della speculazione<br />

f<strong>il</strong>osofico-matematica.<br />

A questa prima ‘strozzatura’ diacronica si sovrappone un ulteriore ‘f<strong>il</strong>tro’ interpretativo:<br />

l’estrema settorialità del destinatario di questi scritti. La quasi totalità<br />

dei testi con notazioni musicali a noi pervenuti è costituita infatti da ‘copioni’<br />

annotati degli stessi cantanti, strumentisti o maestri: in altri termini da quelli<br />

che potremmo chiamare i ‘professionisti della musica’. L’evoluzione del gusto<br />

musicale, precorsa e nel contempo testimoniata dalla scuola del ‘nuovo ditirambo’<br />

(aspramente criticata, sul versante f<strong>il</strong>osofico, da Platone e Aristotele, e<br />

ridicolizzata, su quello letterario, dal conservatore Aristofane), con <strong>il</strong> progressivo<br />

affermarsi della monodia astrofica, dotata di maggiori possib<strong>il</strong>ità espressionistiche<br />

e mimetiche rispetto alla struttura strofica corale, garante, con la sua<br />

uniformità ritmico-melodica, anche dell’uniformità dell’ethos, portava con sé,<br />

come naturale conseguenza, l’esigenza di un nuovo tipo di virtuoso del canto,<br />

di attore professionista (tragwidovç), che, grazie a numerose fonti epigrafiche<br />

di età ellenistica, sappiamo facente parte, a partire dal III sec. a.C., di vere e proprie<br />

compagnie teatrali istituzionalizzate (çuvnodoi o koina; tw'n Dionuçiakw'n<br />

tecnitw'n), legalmente riconosciute e articolate secondo una precisa gerarchia<br />

interna.<br />

La tecnicità del destinatario presupposta da questi spartiti è per noi estremamente<br />

interessante sia in quanto strumento priv<strong>il</strong>egiato per ricostruire la complessa<br />

realtà sociale ed artistica sottesa a nuove forme di spettacolo teatrale<br />

proprie dell’età ellenistica (<strong>il</strong> teatro ormai divenuto luogo di ejpideivxeiç o ajkroavçeiç,<br />

esibizioni pubbliche in cui i virtuosi cantavano, accompagnati dalla<br />

kiqavra o dall’aujlovç, qualsiasi testo sia lirico sia drammatico), 10 sia come prezioso<br />

elemento di confronto/verifica testuale con quello che per noi è <strong>il</strong> principale<br />

‘bacino collettore’ della nostra tradizione manoscritta per i testi classici: la<br />

prassi editoriale alessandrina. 11<br />

Gran parte di questi testi con notazioni musicali rientrano infatti in una omogenea<br />

e ben precisa categoria tipologica: selezioni antologiche di brani tragici<br />

(monodie, excerpta corali ma anche sezioni in metri originariamente destinati<br />

alla sola recitazione o, tutt’al più, al recitativo: trimetri giambici e sistemi anapestici)<br />

e non (peani, prosodi, nomoi, accanto a interludi puramente strumentali),<br />

destinate non tanto ad essere adoperate come testi di lettura ad uso della<br />

scuola, quanto all’ampio spettro di soluzioni esecutive in cui si articolava <strong>il</strong><br />

macrocosmo musicale greco, pubblico e privato, in età ellenistica. Si tratta<br />

31


Fig. 7, P. Leid. inv. 510 = Eur. I. A.<br />

1499 (?)-1509, 784-792, III a.C.<br />

Fig. 8, P. Vind. G 2315 = Eur. Or. 338-<br />

344, III a.C.<br />

infatti di una tipologia di documenti che presuppone<br />

una pratica profondamente diversa da<br />

quella attuale: la trascrizione fisica della partitura<br />

non serviva unicamente a garantirne la diffusione<br />

e riproducib<strong>il</strong>ità ad opera di ogni potenziale<br />

fruitore e/o esecutore come avviene oggi,<br />

ma rispondeva soprattutto all’esigenza della singola<br />

performance puntualmente circoscritta nella<br />

sua dimensione temporale e spaziale. Da questo<br />

punto di vista l’alta frequenza di papiri<br />

musicali che presentano una successione contigua<br />

di componimenti di natura spesso molto<br />

diversa, come ad es. <strong>il</strong> già citato P.Berol. 6870,<br />

sembra deporre a favore di un ut<strong>il</strong>izzo del supporto<br />

scrittorio essenzialmente come promemoria<br />

specifico del programma da eseguire: più che<br />

di antologia in questo caso sarebbe forse preferib<strong>il</strong>e<br />

parlare pertanto di vere e proprie suites di<br />

brani di volta in volta apprestate dal musicista.<br />

Tutto questo in un universo estremamente<br />

diversificato e pluralista, che comprendeva dunque<br />

non solo ejpideivxeiç teatrali, cavallo di battaglia<br />

di richiestissimi virtuosi che radunavano<br />

folle oceaniche per i loro recitals, 12 così come di<br />

più um<strong>il</strong>i e periferici mestieranti radunati in<br />

associazioni minori (çumfwnivai) che percorrevano<br />

la cwvra egiziana guadagnandosi a mala<br />

pena di che vivere, 13 ma anche singole esibizioni<br />

simposiali, in occasione di occorrenze più o<br />

meno ufficiali o private che abbracciavano così<br />

gran parte della vita quotidiana greca, 14 cerimonie<br />

festive e religiose, 15 sino a sconfinare in<br />

performances ecletticamente eterodosse. 16<br />

Inoltre, come si è già sopra accennato, alcuni di<br />

questi papiri musicali rappresentano per noi la<br />

più antica fase della tradizione del testo di Euripide:<br />

si tratta di P.Leid. inv. 510, antologia euripidea<br />

con excerpta dell’Ifigenia in Aulide della<br />

metà del III sec. a.C. [fig. 7] e P.Vind. G 2315,<br />

recante parte del I stasimo dell’Oreste, anch’esso<br />

testimone della fine del III sec. a.C [fig. 8].<br />

32


Entrambi i testi ci consegnano infatti significative varianti testuali rispetto al<br />

resto della tradizione medievale, lasciandoci nel contempo gettare uno sguardo<br />

su quello che doveva essere un f<strong>il</strong>one di tradizione tendenzialmente distinto ed<br />

indipendente da quello testimoniatoci dall’ecdotica alessandrina, strettamente<br />

legato agli aspetti performativi dei testi eseguiti e vincolato a sistemi di organizzazione<br />

interna (ritmizzazione e articolazione metrica) più fluidi ed ‘altri’<br />

rispetto a quelli codificati dalla moderna prassi colometrica. Nel III sec. a.C. si<br />

possono così osservare già operanti le linee di un graduale, profondo mutamento<br />

culturale che ha di fatto determinato la perdita di gran parte del patrimonio<br />

musicale scritto: già per i dotti f<strong>il</strong>ologi alessandrini la produzione poetica<br />

arcaica e classica (lirica corale, monodica e poesia drammatica) doveva essere<br />

percepita come destinata esclusivamente alla lettura, con conseguente disinteresse<br />

agli aspetti più propriamente performativi. Lo stretto legame che i testi<br />

musicali a noi giunti mostrano con l’alta professionalità e specializzazione presupposte<br />

devono presumib<strong>il</strong>mente già da prima avere contribuito ad una precoce<br />

separazione fra tradizione della musica e tradizione del testo.<br />

Un insieme di testimonianze, dunque, quelle offerte dai papiri musicali, che<br />

lasciano problematicamente aperte molteplici prospettive di ricerca, che<br />

dovranno essere affrontate non solo dagli specialisti dello studio della musica<br />

nell’antichità ma da chiunque voglia tentare di avere una visione globale e onnicomprensiva<br />

della civ<strong>il</strong>tà greca.<br />

Note:<br />

1. La notazione greca comprendeva due diversi<br />

sistemi semiografici: uno destinato alla musica strumentale,<br />

presumib<strong>il</strong>mente più antico, forse derivato<br />

da un alfabeto epicorico argivo, ed un secondo<br />

destinato alla musica vocale (tale distinzione, netta<br />

nei trattati teorici, sembra in parte sfumare negli<br />

spartiti a noi giunti). Entrambi ut<strong>il</strong>izzavano le lettere<br />

dell’alfabeto ionico classico o nella forma normale<br />

(ojrqovn), o disposte orizzontalmente (ajneçtrammevnon:<br />

suono innalzato di una diesis enarmonica o cromatica)<br />

o rovesciate (ajpeçtrammevnon: ulteriore innalzamento<br />

di una seconda diesis enarmonica o cromatica)<br />

o con l’aggiunta di un apex o modificate nella<br />

figura. A ciò va aggiunta la presenza di segni chironomici<br />

(indicanti effetti di pausazione, superallungamento<br />

della s<strong>il</strong>laba - anche attraverso la reduplicazione<br />

vocale -, legatura etc.) che dovevano servire<br />

ad interpretare ritmicamente <strong>il</strong> dettato, spesso<br />

andando a modificare la maglia metrica sottostante.<br />

Tutti questi çhvmata (segni) venivano solitamente<br />

apposti supra lineam rispetto al testo del mevloç a cui<br />

33<br />

Fig. 1, Kopenhagen inv. nr. 14897 =<br />

epitafio di Sic<strong>il</strong>o, II d.C.


Fig. 2, Neapolitanus Gr. III C 4, 82 v ,<br />

XV saec. = Mesomede, Inni 1-4.<br />

si riferivano, cfr. M.L. West, Ancient Greek Music,<br />

Oxford 1992, pp. 254-276.<br />

2. Si tratta per lo più di frammenti papiracei, a cui va<br />

aggiunta qualche iscrizione - i peani delfici (128 a.C.),<br />

un inno esametrico ad Asclepio (SEG 30. 390) e uno<br />

a Sinuri (Mylasa inv. 3) di età ellenistica, l’epitafio di<br />

Sic<strong>il</strong>o (II d.C., vd. fig. 1): tutti documenti conosciuti<br />

solo a partire dalla metà dell’800 - unitamente alla<br />

testimonianza della tradizione manoscritta (gli inni<br />

citarodici di Mesomede di Creta, di età adrianea - vd.<br />

figg. 2-3 (fig. 3, vedi p. 28) - e numerosi scritti teorici<br />

di tarda età imperiale). L’edizione più recente di tali<br />

documenti è quella di E. Pöhlmann-M.L. West, Documents<br />

of Ancient Greek Music, Oxford 2001.<br />

3. Basti pensare all’importanza dell’elemento estemporaneo<br />

nella prassi simposiale e, conseguentemente,<br />

alla scarsa r<strong>il</strong>evanza ed ut<strong>il</strong>ità del testo scritto: eseguire<br />

era molto spesso un ricreare, un rifare ogni volta.<br />

4. L’altezza cronologica in cui sarebbe stata introdotta<br />

e si sarebbe diffusa l’adozione del sistema notazionale<br />

è uno dei problemi tuttora più dibattuti e su cui<br />

manca un consenso generale da parte degli studiosi,<br />

fondamentalmente divisi tra metà V (notazione strumentale)/fine<br />

V (notazione vocale) e tardo IV sec. a.C.,<br />

cfr. e.g. rispettivamente West, op. cit., pp. 269-273 e<br />

G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana,<br />

Torino 19912 , p. 9. Per i tentativi di E. Pöhlmann, Beiträge<br />

zur antiken und neueren Musikgeschichte,<br />

Frankfurt am Main 1988, pp. 61-69, di individuare<br />

traccia di spartiti musicali in raffigurazioni vascolari<br />

antecedenti alla fine del V sec. a.C., rappresentanti<br />

scene di canto e di lettura (probab<strong>il</strong>mente si tratta in<br />

realtà di semplici “libretti”), cfr. le giuste obiezioni<br />

mosse da A. Bélis, La trasmissione della musica nell’antichità,<br />

in F. Berti-D. Restani, Lo specchio della<br />

musica. Iconografia musicale nella ceramica attica di<br />

Spina, Bologna 1988, pp. 34-35, West, op. cit., pp.<br />

263-264 n. 23 e L.P.E. Parker, Cons<strong>il</strong>ium et ratio? Papyrus<br />

A of Bacchylides and Alexandrian Metrical Scholarship,<br />

«CQ» 51 (2001), p. 36 n. 19. Sull’ipotetica esistenza,<br />

già nel V sec. a.C., di una rudimentale semiografia<br />

per <strong>il</strong> solfeggio concorrente a quella “savant”,<br />

cfr. Pöhlmann-West, op. cit., p. 8.<br />

5. Cfr. e.g. hydria di Phintias, 500 a.C. ca.: lezione di<br />

lira (München, Staatliche Antikensammlung, n. inv.<br />

2421); skyphos attico a figure rosse di Pistoxenos,<br />

datato al 475 a.C.: Ificle a lezione di lira da Lino<br />

(Schwerin, Landesmuseum, n. inv. 708), vd. fig. 4;<br />

skyphos attico a figure rosse di Douris, 480 a.C. ca.:<br />

lezione di lira ed aulo (Berlin, Staatliche Museen, n.<br />

inv. F 2285), vd. fig. 5-6.<br />

6. H.-I. Marrou, Histoire de l’éducation dans l’anti-<br />

34


quité, Paris 19656 , p. 553 n. 7 ribadisce l’aspetto eminentemente<br />

orale dell’insegnamento musicale anche<br />

per epoche successive a quella classica.<br />

7. Un livello sempre elementare dell’insegnamento<br />

musicale è testimoniato anche da Ael. V.H. 3. 32<br />

(Alessandro Magno impara a suonare la kiqavra): la<br />

dinamica del racconto, con <strong>il</strong> maestro che dice, al<br />

cospetto dell’alunno, quale corda pizzicare e l’alunno<br />

che ne indica (deivxaç) un’altra, lascia presupporre una<br />

modalità di apprendimento ugualmente mimetica.<br />

Sul versante dell’istruzione professionistica cfr. invece<br />

Plut. Demet. 1. 6 (i maestri in questo caso sono i<br />

tebani Ismenia ed Antigenida, acclamati virtuosi dell’auletica<br />

fra <strong>il</strong> V/IV sec. a.C.).<br />

8. Cfr. A. Bélis, Les Musiciens dans l’Antiquité, Paris<br />

1999, pp. 159 e 163.<br />

9. Conosciamo comunque delle eccezioni significative,<br />

vd. ad es. P.Berol. 6870 (antologia musicale del II-<br />

III sec. d.C., contenente, nell’ordine, un peana, un<br />

interludio strumentale, un excerptum tragico: anche<br />

questa sola contiguità esecutiva di ‘occasioni’ del<br />

canto così statutariamente diverse in epoca classica<br />

traduce bene la profonda modificazione della percezione<br />

della dimensione spettacolare in età imperiale).<br />

In questo importante papiro infatti la mano che ha<br />

vergato <strong>il</strong> pezzo strumentale è la medesima che ha<br />

redatto <strong>il</strong> testo, e l’interludio strumentale stesso presenta<br />

tante e tali correzioni, così profondamente<br />

diverse dalla prima versione, da fare pensare non ad<br />

un semplice errore di copiatura ma alle tracce materiali<br />

di un compositore al lavoro: ci troveremmo dunque<br />

dinanzi addirittura ad un esemplare autografo di<br />

una partitura originale. Il medesimo problema si<br />

ripresenta anche per P. Mich. 2958 (II d.C.); cfr. Bélis,<br />

op. cit., p. 177.<br />

10. Talora con interventi episodici di un coro, quasi a<br />

riprodurre, mimeticamente e visivamente, l’integrità<br />

dello spazio orchestico del teatro classico del V sec.<br />

a.C. L’esempio più noto è quello di S.I.G. 648 B: l’auleta<br />

Satiro di Samo nel 194 a.C., nello stadio di Delfi,<br />

si esibì in uno spettacolo comprendente <strong>il</strong> canto delle<br />

parti di Dioniso nelle Baccanti di Euripide, con l’accompagnamento<br />

della cetra e con l’intervento amebeo<br />

del coro (a\içma meta; corou' Diovnuçon kai; kiqavriçma<br />

ejk Bakcw'n Eujripivdou; cfr. B. Gent<strong>il</strong>i, Lo spettacolo nel<br />

mondo antico, Roma-Bari 1977, pp. 17-18 n. 39): un’ab<strong>il</strong>e<br />

operazione di antologizzazione musicale, con<br />

conversione in canto anche di metri originariamente<br />

recitati (trimetri giambici). Un altro esempio di canto<br />

amebeo fra coro e attore, questa volta nel I sec. a.C.,<br />

sempre nell’ambito di una performance che prevedeva<br />

selezioni tragiche, ancora una volta dalle Baccanti<br />

35<br />

Fig. 4, skyphos attico a figure rosse<br />

di Pistoxenos, da Cerveteri, 475 a.C.<br />

ca.: Ificle a lezione di lyra da Lino.<br />

(Schwerin, Landesmuseum n. inv.<br />

708).<br />

Fig. 5, coppa attica a figure rosse di<br />

Douris, 480 a.C. ca.: lezione di<br />

musica (lyra).<br />

(Berlin, Staatliche Museen F 2285).<br />

Fig. 6, coppa attica a figure rosse di<br />

Douris, 480 a.C. ca.: lezione di<br />

musica (aulos).<br />

(Berlin, Staatliche Museen F 2285).


di Euripide, è testimoniato da Plut. Crass. 33. 6, sebbene in un contesto significativamente<br />

diverso (simposiale): quando la testa di Crasso venne portata al cospetto di Orode,<br />

re dei Parti, durante un banchetto (eJçtiavçeiç kai; povtoi) che comprendeva la rappresentazione<br />

di molti spettacoli provenienti dalla Grecia (kai; polla; pareiçhvgeto tw'n ajpo;<br />

th'ç JEllavdoç ajkouçmavtwn), l’uJpokrithvç (attore) Giasone di Tralle stava per l’appunto intrattenendo<br />

i convitati con una selezione tragica comprendente parti di Agave che includevano<br />

anche l’intervento del coro: ∆Iavçwn o[noma Tralliano;ç h\iden Eujripivdou Bakcw'n ta; peri;<br />

th;n jAgauvhn [...] ajidomevnwn de; tw'n ejfexh'ç ajmoibaivwn pro;ç corovn ktl. (“un attore tragico, di<br />

nome Giasone, di Tralle, stava cantando <strong>il</strong> brano delle Baccanti di Euripide che riguardava<br />

Agave [...] quando poi fu cantato <strong>il</strong> dialogo seguente col coro...”, trad. di C. Carena,<br />

Plutarco. Le vite di Nicia e di Crasso, M<strong>il</strong>ano 1993).<br />

11. Contro <strong>il</strong> tentativo di T.J. Fleming-E.C. Kopff, Colometry of Greek Lyric Verses in Tragic<br />

Texts, «SIFC» s. III 10 (1992), pp. 758-770, e T.J. Fleming, The Survival of Greek Dramatic<br />

Music from the Fifth Century to the Roman Period, in B. Gent<strong>il</strong>i- F. Perusino, La<br />

colometria antica dei testi poetici greci, Roma 1999, pp. 17-29, di istituire un legame diretto<br />

fra f<strong>il</strong>ologia alessandrina e testi con notazioni musicali, cfr. da ultimo le obiezioni della<br />

Parker, art. cit., pp. 35-36 n. 16.<br />

12. Uno degli elementi più appariscenti della vita culturale ellenistica è proprio una più<br />

accentuata spettacolarità, insieme con la creazione di nuovi contesti performativi. L’esibizione<br />

di questi tragwidoiv era vissuta come un momento di puro intrattenimento che<br />

godeva di grande popolarità: è in contesti come questo che <strong>il</strong> testo poetico continuò ad<br />

essere espresso in stretto legame con l’elemento musicale, diversamente da quanto<br />

avveniva nella cultura ‘alta’, erudita e scritta delle corti ellenistiche, cfr. R. Pretagostini,<br />

«Mousike»: poesia e «performance», in S. Settis, I Greci. Storia Cultura Arte Società. 2.<br />

III, Torino 1998, p. 626.<br />

13. Il mondo sommerso di questi spesso mediocri ‘artisti di provincia’, secondo la felice<br />

definizione di P. Collart, Réjouissances, divertissements et artistes de province dans<br />

l’Egypte romaine, «RPh» 18 (1944), pp. 132-155, ci è noto soprattutto grazie a papiri egiziani<br />

di età tolemaica e romana: statutariamente inferiori rispetto alla potente corporazione<br />

dei tecni'tai dionisiaci, le loro associazioni, interamente profane, erano costituite da<br />

effettivi variab<strong>il</strong>i (essenzialmente strumentisti, danzatori e qualche cantante: da un minimo<br />

di due a dieci e più elementi) solitamente ingaggiati da committenze private per un<br />

periodo limitato di tempo, cfr. Bélis, op. cit., pp. 61 ss.<br />

14. Si pensi al già citato episodio narrato da Plut. Crass. 33. 2 ss., ancora più significativo<br />

in quanto attesta <strong>il</strong> persistere di tale prassi simposiale in zone periferiche della cultura<br />

mediterranea del I sec. a.C. Un’altra testimonianza, sempre in un contesto di banchetto<br />

e brindisi privato, è Plut. Lys. 15. 4 ss., in cui si narra della commovente esibizione<br />

‘estemporanea’ di un vecchio focese che, per impedire la distruzione di Atene (404 a.C.)<br />

dinanzi ai generali spartani brindanti alla sconfitta del nemico, intona un brano euripideo<br />

(celebre episodio immortalato anche da J. M<strong>il</strong>ton, Sonn. VIII, 12-14): ei\ta mevntoi çunouçivaç<br />

genomevnhç tw'n hJgemovnwn kai; para; povton tino;ç Fwkevwç a[içantoç ejk th'ç Eujripivdou jHlevktraç<br />

th;n pavrodon, [...] pavntaç ejpiklaçqh'nai, kai; fanh'nai çcevtlion e[rgon th;n ou{twç eujklea' kai;<br />

toiouvtouç a[ndraç fevrouçan ajnelei'n kai; diergavçaçqai povlin (“I capi si riunirono allora per<br />

decidere, ma quando, nel corso di una bevuta, un Focese intonò l’inizio della parodo dell’Elettra<br />

di Euripide [...] tutti furono presi da un moto di pietà e compresero l’assurdità di<br />

voler distruggere e cancellare dalla faccia della terra una città tanto gloriosa e che dava i<br />

natali a uomini di tanto valore”, trad. di G. Pisani, Plutarco, Le vite di Lisandro e di S<strong>il</strong>la,<br />

M<strong>il</strong>ano 1997).<br />

15. Cfr. la celebrazione della panhvguriç tw'n Nemeivwn nel 205 a.C. descritta in Plut. Ph<strong>il</strong>op.<br />

11. Qui P<strong>il</strong>ade, rinomato kiqarwidovç del suo tempo, intona casualmente l’incipit dei Persiani<br />

di Timoteo proprio durante l’ingresso nel teatro di F<strong>il</strong>opemene, vincitore di Mantinea:<br />

a[rti d j aujtw'n eijçelhluqovtwn, kata; tuvchn Pulavdhn to;n kiqarwido;n a[idonta tou;ç Timoqevou<br />

36


Pevrçaç ejnarxavçqai ktl. (“Essi erano appena entrati quando per un caso fortuito <strong>il</strong> citaredo<br />

P<strong>il</strong>ade, eseguendo i Persiani di Timoteo, cominciò a cantare”, trad. di E. Melandri, Plutarco,<br />

Vite parallele. F<strong>il</strong>opemene. Tito Flaminio, M<strong>il</strong>ano 1997).<br />

16. Si pensi soprattutto all’episodio dei prigionieri ateniesi nelle latomie quale descritto<br />

da Plut. Nic. 29. 2 ss., parte dei quali ebbe salva la vita sia per avere insegnato ciò che<br />

essi ricordavano delle tragedie di Euripide (ejkdidavxanteç o{ça tw'n ejkeivnou poihmavtwn<br />

ejmevmnhto: dunque presumib<strong>il</strong>mente i pezzi più famosi - quelli che chiameremmo highlights)<br />

sulla base della loro esperienza di spettatori tragici e occasionali coreuti, sia intonando<br />

i canti in prima persona (tw'n melw'n a[içanteç). Questo passo plutarcheo è inoltre<br />

particolarmente importante perché testimonia non solo la consolidata fama di Euripide<br />

nella Magna Grecia dell’ ultimo squarcio del V sec. a.C., ma sembra anche prevedere<br />

come modalità di diffusione della poesia euripidea una qualche forma di operazione<br />

antologizzante: mavliçta ga;r wJç e[oike tw'n ejkto;ç JEllhvnwn ejpovqhçan aujtou' th;n mou'çan oiJ<br />

peri; Sikelivan kai; mikra; tw'n ajfiknoumevnwn eJkavçtote deivgmata kai; geuvmata komizovntwn<br />

ejkmanqavnonteç ajgaphtw'ç metedivdoçan ajllhvloiç (“Infatti pare che quelli di Sic<strong>il</strong>ia amassero<br />

la poesia di Euripide più di tutti gli altri Greci abitanti fuori della Grecia, studiavano a<br />

memoria con amore i brevi brani e saggi che via via giungevano fino a loro, portati da<br />

qualcuno, e se li scambiavano a vicenda”, trad. di C. Carena, op. cit., corsivi nostri).<br />

37


Iconografia musicale<br />

Non è fac<strong>il</strong>e intervenire dopo queste relazioni,<br />

oltretutto parlo in italiano da francese e vi chiedo<br />

scusa per i miei errori. Vorrei fare un discorso<br />

un po’ diverso da quelli fatti fino ad ora:<br />

anch’io mi lamento della perdita della musica<br />

antica, non voglio però farvi piangere di più,<br />

basta così! È però vero, siamo quasi nella condizione<br />

degli affreschi che si intravedono in questa<br />

chiesa: qualcosa che c’era, ma che è andata<br />

perduta.<br />

Quello che abbiamo sulla musica greca sono in<br />

primo luogo i discorsi dei Greci - ovvero i trattati<br />

teorici -, secondariamente gli elenchi dei<br />

vincitori nelle competizioni e, infine, bellissimo<br />

materiale visivo. Possediamo un intero percorso<br />

visivo sulla musica, che non posso esplorare in<br />

tutti i particolari in questa mezz’ora; voglio solo<br />

sceglierne un aspetto: quello dell’inquadramento<br />

religioso e mitologico. Consideriamo i vasi -<br />

che abbiamo già esaminato come ‘documenti’,<br />

in quanto permettono di vedere aspetti tecnici<br />

degli strumenti - come ‘monumenti’. Qui [fig.<br />

1] abbiamo Apollo con la lyra, raffigurata in<br />

modo molto preciso, che ci aiuta a capire la<br />

struttura degli strumenti; ma questo oggetto è<br />

anche un vaso per bere, che viene ut<strong>il</strong>izzato per<br />

<strong>il</strong> simposio. Il simposio è <strong>il</strong> momento in cui si<br />

beve tra amici, è una attività masch<strong>il</strong>e, prettamente<br />

masch<strong>il</strong>e, senza la presenza di donne<br />

(aspetto di cui bisognerà forse parlare in seguito);<br />

è una attività collettiva in cui la memoria<br />

comune della poesia e della musica viene attivata<br />

nei bevitori dagli oggetti d’uso, dai vasi <strong>il</strong>lu-<br />

39<br />

FRANÇOIS LISSARRAGUE<br />

Fig. 1, coppa attica a fondo bianco,<br />

da Delfi, 470 a. C., Apollo<br />

(Delfi, Museo archeologico)<br />

< Fig. 1a, lyra. Ricostruzione<br />

di Giorgos Polyzos, 1991.


Fig. 2, cratere attico a figure nere,<br />

firmato da Kleitias, 570 a. C., la Musa<br />

Calliope (Firenze, Museo<br />

archeologico 4209)<br />

Fig. 3, anfora attica a figure rosse,<br />

pittore di Berlino, 490 a. C.,<br />

suonatore di kitara<br />

(New York MMA 56. 171.38)<br />

Fig. 4, cratere attico a figure rosse,<br />

firmato da Euphronios, 510 a. C.,<br />

concorso musicale<br />

(Parigi, Louvre G 103)<br />

strati con i più vari argomenti, comprese le raffigurazioni<br />

della pratica musicale, della didattica,<br />

come abbiamo visto, ma anche dei grandi<br />

miti e delle divinità legate alla musica, tra le quali<br />

Apollo, chiaramente, è la figura più cospicua.<br />

Faccio un brevissimo elenco di questi casi.<br />

Su questo particolare del vaso François a Firenze<br />

[fig. 2] c’è una lunga processione di divinità tra<br />

le quali le Muse. Calliope è vista di fronte, sta<br />

suonando la syrinx inventata da Pan, uno strumento<br />

che nella pratica musicale trasforma <strong>il</strong><br />

viso, deformandolo. La Musa, invece, ha un<br />

nome molto preciso “colei che ha un bel viso”,<br />

che non viene deformata e che quindi controlla<br />

lo strumento. Altro è la cetra ovvero la kithara -<br />

non ne parlerò a lungo perché lo farò in seguito<br />

- che è lo strumento del concertista, del vero<br />

virtuoso. Qui [fig. 3] abbiamo un bellissimo<br />

disegno del Pittore di Berlino, siamo intorno al<br />

500 a. C., che fa vedere la vivacità, la forza della<br />

musica dalla quale <strong>il</strong> suonatore è preso. Ultimo<br />

in questa brevissima lista di strumenti è<br />

l’aulos, di cui si è già parlato. Alla figura 4 abbiamo<br />

l’esempio di un cratere per mescolare <strong>il</strong><br />

vino, su cui si vede un giovane suonatore che sta<br />

salendo su una piccola tribuna, forse una piccola<br />

scena, per un concorso. Queste raffigurazioni,<br />

dunque, non sono da parte dei Greci frutto<br />

di un interesse da musicologi, ma da bevitori al<br />

simposio, che amano <strong>il</strong> connubio della musica<br />

col vino. Un secondo scopo delle rappresentazioni<br />

può essere <strong>il</strong> voler tramandare <strong>il</strong> ricordo<br />

della vittoria ad un bel concorso, un successo:<br />

pertanto è questo che abbiamo, non “documenti”<br />

ma “monumenti”, che mantengono in circolo<br />

la memoria di un evento tra i bevitori.<br />

Non posso prendere in esame tutte le storie<br />

mitiche che circolano sulla musica, poiché ce ne<br />

sono moltissime; ne ho scelte due: quella di<br />

Orfeo e quella di Marsia, giacché tutte e due<br />

mettono in questione, problematizzano lo sta-<br />

40


tuto della musica nella cultura, oppure lo statuto<br />

degli strumenti.<br />

Nella cultura moderna noi conosciamo la storia<br />

di Orfeo come legata ad Euridice, al tema della<br />

vittoria sulla morte, della forza superiore dell’amore,<br />

ma nella versione in cui lui la guarda e lei<br />

sparisce negli Inferi: una storia tristissima sulla<br />

quale non voglio insistere anche perché i Greci<br />

non lo fanno. I Greci, o meglio, quelli che hanno<br />

prodotto questi vasi, gli Ateniesi del V secolo<br />

a. C., non hanno creato alcuna iconografia di<br />

Euridice; ciò che abbiamo nei vasi del V sec. è<br />

la storia di Orfeo divisa in due momenti, quello<br />

del potere della sua musica e quello della sua<br />

morte. Parto da questo vaso [fig. 5] sul quale è<br />

raffigurato un suonatore di kithara in un concorso,<br />

che sta per salire sul bema (piedistallo).<br />

C’è una iscrizione “chaire Orpheus” che è un<br />

saluto: “Salve Orfeo”. Non credo che questo sia<br />

<strong>il</strong> nome del musicista; lo interpreto come un<br />

saluto, un paragone, una metafora della bravura<br />

del musicista paragonab<strong>il</strong>e a quella di Orfeo,<br />

ma sono sicuro che questa non sia la raffigurazione<br />

di Orfeo stesso, perché l’iconografia che<br />

lo riguarda è diversa: non suonando lui la kithara,<br />

come questo musicista, ma la lyra. Un f<strong>il</strong>one<br />

iconografico relativo ad Orfeo è di questo tipo<br />

[fig. 6]: un suonatore dall’aspetto perfettamente<br />

greco, seduto, con la lyra, è attorniato da<br />

uomini che lo ascoltano, vestiti da barbari, da<br />

Traci: ne hanno i capelli, gli animali, la zeira, <strong>il</strong><br />

vestito che li caratterizza come barbari; siamo<br />

dunque nella Tracia, cioè “fuori” dalla Grecia,<br />

luogo in cui Orfeo suona e incanta <strong>il</strong> mondo<br />

intorno a lui. Una osservazione va fatta anche<br />

riguardo a questo aspetto: nella pittura moderna<br />

noi siamo abituati a vedere Orfeo che incanta<br />

gli animali, non i guerrieri, ma l’iconografia<br />

del V secolo non conosce questa rappresentazione<br />

e al contrario è veramente specifica: mette<br />

in scena Orfeo che immob<strong>il</strong>izza i cavalieri.<br />

41<br />

Fig. 5, oinochoe a figure nere, classe<br />

di Briachos, 500 a. C., concorso<br />

musicale (Roma V<strong>il</strong>la Giulia, M 534)<br />

Fig. 6, cratere attico a figure rosse,<br />

pittore di Orfeo, 440 a. C., Orfeo fra i<br />

Traci<br />

(Berlino Staatliche Museen 3172)


Fig. 7, cratere attico a figure rosse,<br />

pittore di Napoli, 440 a. C., Orfeo fra<br />

i Traci (Hamburgo 1968. 79)<br />

Fig. 8, stamnos attico a figure rosse,<br />

pittore della Dokimasia, 490 a. C., la<br />

morte di Orfeo (Bas<strong>il</strong>ea, ex<br />

collezione Bolla, in deposito all’<br />

Antikensammlung)<br />

Fig. 9 e 9a, id, particolare<br />

Fig. 9a.<br />

Che siano cavalieri lo si vede dal vestito: di solito<br />

<strong>il</strong> guerriero si muove, ma in queste raffigurazioni<br />

essi sono completamente immob<strong>il</strong>izzati.<br />

Osservate come <strong>il</strong> secondo a sinistra, che vediamo<br />

frontalmente, tenga gli occhi chiusi, totalmente<br />

assorbito nell’ascoltare la musica: è quasi<br />

pietrificato, immob<strong>il</strong>izzato, come se <strong>il</strong> potere<br />

della musica fosse capace di bloccare l’attività<br />

dei guerrieri. Ci sono molti altri esempi dello<br />

stesso periodo (460 a. C.), in cui vediamo alcuni<br />

guerrieri con <strong>il</strong> cavallo alla loro destra, dunque<br />

cavalieri che non si muovono.<br />

Su questa immagine [fig. 7] c’è un particolare<br />

molto interessante: vediamo Orfeo seduto, con<br />

una corona d’alloro - raffigurato in modo molto<br />

apollineo, dunque - e sotto di lui ci sono una<br />

tartaruga e una pietra. La tartaruga, l’animale<br />

che serve a creare la lyra - e sappiamo da un<br />

Inno omerico che è stato Ermes a inventare lo<br />

strumento - finché è viva non ha voce, ma<br />

appena muore suona, prende voce. L’oggetto<br />

stesso, inoltre, è duro come una pietra. Il simbolo,<br />

però, è più profondo, giacché per i Greci<br />

la pietra è simbolo della morte, e pietrificare<br />

qualcuno (come nel mito della Gorgone che<br />

pietrifica gli uomini) è un tipo di morte. Nuovamente<br />

dunque le immagini giocano sul concetto<br />

di “vivo” e sul simbolo della “pietra”, sulla<br />

capacità di immob<strong>il</strong>izzare gli uomini, su un<br />

mondo che si blocca.<br />

L’altro aspetto del mito di Orfeo compare quasi<br />

contemporaneamente nell’iconografia. Le<br />

prime immagini che abbiamo raccontano la<br />

morte di Orfeo e qui [fig. 8] lo si vede a terra<br />

ammazzato dalle donne. La forza di Orfeo è<br />

capace di bloccare tutte le attività masch<strong>il</strong>i; per<br />

questa ragione sono le donne ad ammazzarlo e<br />

in modo molto violento: a sinistra una tiene un<br />

sasso enorme, un’altra ha una pietra, altre hanno<br />

dei pestelli e nella coscia di Orfeo c’è uno<br />

spiedo. Non usano, pertanto, delle armi da<br />

42


guerra, ma oggetti, sia naturali (pietre, sassi) sia<br />

della vita quotidiana, della cucina, del lavoro,<br />

che vengono ut<strong>il</strong>izzati nella violenza istantanea<br />

di questo scatenamento da parte delle donne<br />

tracie. Vediamo nei particolari (figg. 9, 9a) i sassi<br />

e <strong>il</strong> pestello - strumento che serve per lavorare<br />

<strong>il</strong> grano - diventare un bastone, un’arma violentissima.<br />

C’è una distorsione tra l’uso normale<br />

degli oggetti e quello che accade. Se mettiamo<br />

assieme queste immagini con quelle analizzate<br />

poco fa, concludiamo che abbiamo da una<br />

parte gli uomini che non fanno più nulla, dall’altra<br />

le donne che si scatenano: c’è quindi un<br />

contrasto molto forte tra la percezione della<br />

musica da parte degli uomini e delle donne.<br />

Quello che le donne fanno, però, è solo salvare<br />

l’oikos e la vita di famiglia, giacché gli uomini<br />

sono bloccati. In questo racconto - non sono io<br />

a inventarlo, è così che viene raccontato dalle<br />

immagini - l’unico modo per sbloccare questa<br />

situazione è sopprimere Orfeo, ammazzarlo. Su<br />

questo vaso [fig. 10], una hydria - un vaso attico<br />

della metà del V secolo, ut<strong>il</strong>izzato dalle donne<br />

per prendere l’acqua alla fontana e portarla a<br />

casa - vediamo due disegni [figg. 11 e 12] che<br />

fanno capire meglio lo svolgersi dell’azione:<br />

abbiamo Orfeo al centro, che compare nuovamente<br />

a destra mentre sta cadendo, cercando di<br />

difendersi con la lyra - diventata un’arma, in<br />

questo caso - mentre le donne lo aggrediscono<br />

con degli spiedi. Dietro un albero c’è un uomo<br />

che si nasconde, quindi ne deduco che l’episodio<br />

non riguardi una lotta tra uomini e donne -<br />

giacché gli uomini non fanno nulla, sono ancora<br />

bloccati - e che <strong>il</strong> motivo del conflitto sia lo<br />

statuto stranissimo della musica nel mondo dei<br />

barbari. C’è un eccesso da parte degli uomini<br />

che ascoltano e non fanno più nulla e c’è un<br />

eccesso da parte delle donne che al posto di<br />

ascoltarla la distruggono. Ci troviamo, credo,<br />

davanti ad una visione del “cattivo uso della<br />

43<br />

Fig. 10, idria attica a figure rosse,<br />

pittore delle Niobidi, 460 a. C., morte<br />

di Orfeo (Boston MFA 90.156)<br />

Fig. 11 e 12 (sotto), id, disegno


Fig. 13, cratere attico a figure rosse,<br />

pittore della Centauromachia del<br />

Louvre, 440 a. C., Orfeo i Traci e le<br />

donne trace (Napoli, Museo<br />

Archeologico H 2889, inv. 81 868)<br />

Fig. 14, id, particolare<br />

musica”. È di questo che parlano le immagini<br />

relative al “non ascoltare bene”. Sull’altra parte<br />

dello stesso vaso [fig. 12]: compaiono di nuovo<br />

Orfeo, una donna con una spada, poi un’altra<br />

con una falce - utens<strong>il</strong>e per <strong>il</strong> lavoro dei campi<br />

ma anche strumento che serve a tagliare la testa<br />

e altre… “parti”, pensate a Urano che fu castrato<br />

- poi di nuovo un uomo che non si muove:<br />

dunque è veramente insistente la descrizione di<br />

questo contrasto tra <strong>il</strong> movimento delle donne e<br />

l’immob<strong>il</strong>ità degli uomini.<br />

In un altro vaso [fig. 13], al Museo di Napoli,<br />

abbiamo una soluzione grafica un po’ diversa. Si<br />

tratta di un cratere in cui l’immagine viene divisa<br />

su due livelli. Al livello superiore c’è Orfeo,<br />

nello stesso schema iconografico, seduto con la<br />

lyra e intorno a lui uomini che non si muovono<br />

tra i quali uno è un Tracio, con un bel vestito<br />

ornato di bende nere e <strong>il</strong> cappello da cavaliere;<br />

al livello inferiore ci sono già le donne che arrivano<br />

correndo di nuovo con un’ascia, una lancia<br />

e altri strumenti. L’ascia non è un’arma di<br />

guerra, chiaramente: veniva usata per tagliare <strong>il</strong><br />

legno, ma serve anche per <strong>il</strong> sacrificio e si evidenziano,<br />

dunque, dietro questa storia, anche<br />

delle connotazioni sacrificali.<br />

Esaminiamo un altro particolare [fig. 14] dello<br />

stesso vaso, con <strong>il</strong> contrasto già descritto con<br />

Orfeo ascoltato da uomini e ammazzato da<br />

donne: versione stranissima per noi. Noi siamo<br />

abituati a una mitologia organizzata, da dizionario,<br />

da libri scolastici, ma di fatto non c’è<br />

mitologia al di fuori dei testi o delle immagini<br />

che la fanno funzionare: non c’è nel mondo greco<br />

una mitologia teorica come la Bibbia, un<br />

libro chiuso, completo, intoccab<strong>il</strong>e; la mitologia<br />

greca è sempre aperta alle trasformazioni, un<br />

mito agisce sull’altro, è molto malleab<strong>il</strong>e. Anche<br />

la musica funzionava così: si parlava di improvvisare,<br />

di ricreare, non di conservare e bloccare,<br />

ma di far giocare le possib<strong>il</strong>ità significative di<br />

44


ognuna di queste storie. Il caso di Orfeo è interessante<br />

perché vediamo che le storie per noi<br />

prestab<strong>il</strong>ite - Euridice, gli animali - in realtà non<br />

appaiono; sappiamo altresì che c’è una tragedia,<br />

quasi contemporanea a questi vasi, perduta per<br />

noi, di Esch<strong>il</strong>o, nella quale le donne che uccidono<br />

Orfeo sono delle Menadi, cioè delle donne<br />

della cerchia di Dioniso. In questa raffigurazione,<br />

da quello che vediamo, nessuna delle<br />

donne ha <strong>il</strong> tirso, né gli elementi dionisiaci,<br />

quindi i pittori hanno scelto di rappresentarla<br />

come ho cercato di descriverla: con donne e<br />

uomini “barbari” dal punto di vista greco, e<br />

anche se le donne hanno dei tatuaggi, questi le<br />

possono caratterizzare come barbare o come<br />

schiave, ma certamente non come seguaci di<br />

Dioniso. Poi con <strong>il</strong> tempo compaiono altri miti<br />

che raccontano la versione esch<strong>il</strong>ea: Orfeo, che<br />

voleva onorare solo Apollo e non aveva alcun<br />

interesse per Dioniso, viene ammazzato dalla<br />

donne che sono, in questo caso, delle Menadi.<br />

La versione dei vasi, ripeto, è un contrasto tra<br />

uomini e donne e in questo conflitto ciascuno<br />

non usa bene la musica, non la sa “sentire” e<br />

“ut<strong>il</strong>izzare” adeguatamente.<br />

Ci sono, poi, altri miti attorno ad Orfeo: le donne<br />

lo ammazzano, lo fanno a pezzi e la testa di<br />

Orfeo ha vita sua propria, viene trasportata dal<br />

mare e finisce a Lesbo, luogo ove sorge un oracolo<br />

di Orfeo. Abbiamo pochissime immagini della<br />

fine del V secolo, tra le quali questa [fig. 15] su<br />

cui vediamo alcune delle Muse con gli strumenti,<br />

una a sinistra con l’aulos, l’altra a destra con la<br />

lyra; la testa di Orfeo è al suolo, l’uomo che la sta<br />

guardando forse è Eumolpo, ma l’identificazione<br />

non è sicura. La testa [fig. 16] è interessantissima:<br />

è una testa viva, ha occhi aperti che parlano.<br />

Si è anche insistito sullo statuto della parola<br />

nella pratica musicale greca e quanto descritto<br />

è un caso limite, perché riguarda la parola<br />

“oracolare”, che profetizza dicendo cose che<br />

45<br />

Fig. 15, idria attica a figure rosse,<br />

Gruppo di polignoto, 440 a. C.,<br />

scoperta della testa di Orfeo (Bas<strong>il</strong>ea,<br />

in deposito all’ Antikensammlung)<br />

Fig. 16, id, particolare


Fig. 17, coppa attica a figure rosse,<br />

pittore della testa di Orfeo, 400 a.C.,<br />

la testa oracolare di Orfeo<br />

(Cambrige, Corpus Christi College)<br />

Fig. 18, oinochoe attica a figure<br />

rosse, 450 a. C., Atena butta l’aulos<br />

di fronte a un satiro (Berlino, F 2418)<br />

acquistano senso tramite un’interpretazione<br />

specifica. È proprio ciò che si vede su questo<br />

vaso [fig. 17] della fine del V secolo, sul quale<br />

vediamo la testa “viva”, con occhi e bocca aperti<br />

e un giovane seduto che scrive le parole dell’oracolo;<br />

a destra <strong>il</strong> dio Apollo, con un ramo<br />

d’alloro, indica la testa e lo scrittore. Il potere<br />

della musica di Orfeo diventa, in questo episodio,<br />

<strong>il</strong> potere oracolare della parola, sotto <strong>il</strong> controllo<br />

di Apollo.<br />

Un’altra storia importante nell’iconografia musicale<br />

e mitologica è quella di Marsia e dell’aulos.<br />

L’aulos è uno strumento inventato da Atena al<br />

momento della morte di Medusa: quando la<br />

Gorgone viene decapitata da Perseo, le sorelle<br />

piangono, emettendo grida stridenti che Atena<br />

cerca di imitare usando una canna e inventando<br />

così uno strumento sim<strong>il</strong>e all’aulos. Suonando<br />

questo strumento mimetico, che imita un grido<br />

naturale - o quasi naturale - si accorge però che<br />

<strong>il</strong> suo viso ne viene deformato e quindi lo getta<br />

via, perché, ovviamente, vuole essere una dea<br />

con un bel viso - capite adesso perché in precedenza<br />

avevo insistito sull’importanza del significato<br />

del nome della musa Calliope. Gettato da<br />

Atena, lo strumento viene raccolto da Marsia <strong>il</strong><br />

satiro, già brutto di viso e che quindi non si<br />

preoccupa della propria bellezza ma solo del suono<br />

dell’aulos. Qui [fig. 18] abbiamo una delle<br />

poche immagini con Atena che ha da poco gettato<br />

via l’aulos: si vedono i due tubi e <strong>il</strong> satiro che<br />

sembra accorgersi in questo stesso momento di<br />

questo bellissimo strumento.<br />

La storia prosegue: Marsia suona l’aulos, diventa<br />

un suonatore perfetto, eccezionale, e si vanta<br />

di poter suonare meglio di Apollo, commettendo<br />

<strong>il</strong> peccato di hybris, d’orgoglio, nel paragonarsi<br />

alla divinità: atto insopportab<strong>il</strong>e, poiché<br />

non si deve gareggiare con gli dei (e credo proprio<br />

che Apollo sia una delle divinità più suscettib<strong>il</strong>i).<br />

Abbiamo una iconografia specifica sulla<br />

46


gara tra Apollo e Marsia. Questa [fig. 19] è l’unica<br />

scultura che in questa occasione prendo in<br />

esame: è un r<strong>il</strong>ievo di Mantinea della fine del IV<br />

sec. a. C., dunque più tardo dei vasi esaminati<br />

fino ad ora. Lo faccio vedere perché <strong>il</strong> disegno<br />

con Marsia che suona somiglia molto allo schema<br />

del Marsia che scopre l’aulos, iconografia<br />

che sarà probab<strong>il</strong>mente una citazione, forse da<br />

Mirone, ma non voglio discutere questo. In<br />

questo r<strong>il</strong>ievo si vede a sinistra, seduto sulla roccia,<br />

Apollo con la kithara, <strong>il</strong> grande strumento,<br />

e a destra Marsia, che suona; al centro, infine,<br />

uno schiavo in costume barbaro con un coltello<br />

in mano, particolare molto importante, perché<br />

- vi ricordate la storia? - Marsia perderà la gara<br />

e verrà scorticato da Apollo, con una violenza<br />

spaventosa. Non ho portato <strong>il</strong> quadro di Tiziano<br />

su questo argomento, una delle cose più spaventose<br />

nella storia dell’arte, una vera e propria<br />

macelleria. Dietro anche a questa pratica musicale,<br />

pertanto, c’è una violenza pari a quella delle<br />

donne tracie che ho fatto vedere prima: un<br />

vero e proprio delirio, lo scatenamento di un<br />

furore incredib<strong>il</strong>e. Non credo, dunque, che la<br />

musica serva sempre ad “adoucir les mœurs”: c’è<br />

di più, dietro a questo semplicistico assunto.<br />

Il concorso, dunque, si svolge così: Marsia suona,<br />

<strong>il</strong> giudice re Mida stab<strong>il</strong>isce che lui è più<br />

bravo di Apollo, ma a questo punto <strong>il</strong> dio gli<br />

tende un tranello e chiede a Marsia di suonare<br />

rovesciando lo strumento, cosa che con la lyra si<br />

può fare, mentre con l’aulos è impossib<strong>il</strong>e.<br />

Un’altra versione dice che Apollo decide di cantare<br />

mentre suona, altra cosa che con l’aulos non<br />

si può fare. Questo aspetto è molto importante:<br />

di nuovo <strong>il</strong> mito tratta di una riflessione sulla<br />

parola del canto legata allo strumento, evidenziando<br />

come questo sia <strong>il</strong> limite dell’aulos, col<br />

quale non si può cantare e suonare assieme, possib<strong>il</strong>ità<br />

che, al contrario, la lyra si ha. Questa<br />

considerazione ha delle conseguenze r<strong>il</strong>evanti<br />

47<br />

Fig. 19, r<strong>il</strong>ievo attico, da Mantinea,<br />

350 a. C, Apollo e Marsia (Atene,<br />

Museo Archeologico 215)


Fig. 20, cratere attico a figure rosse,<br />

pittore di Cadmos, 430 a. C., satiro<br />

auleta e Apollo con la lira (Bologna,<br />

Museo Civico, Pell. 301)<br />

Fig. 21, cratere attico a figure rosse,<br />

430 A. C., satiro suonatore e Apollo<br />

(mercato antiquario, New York,<br />

Sotheby’s 11.XII.1989 n°125)<br />

Fig. 22, cratere attico a figure rosse,<br />

pittore di Cadmos, 430 a. C.,<br />

particolare del collo con satiro auleta<br />

e Apollo (Ruvo, Museo Jatta 1093)<br />

nella pratica musicale: attorno alla fine del V e<br />

inizio del IV secolo c’è una forte critica all’aulos,<br />

coerentemente con quanto indicato; Alcibiade,<br />

ad esempio, dice di non voler suonare l’aulos<br />

perché è brutto e rende brutto <strong>il</strong> viso e, in<br />

secondo luogo, impedisce di cantare, mentre la<br />

parola è più importante della musica.<br />

Dunque, nel mito di Marsia c’è tutto questo,<br />

però, se esaminiamo come alla fine del V secolo<br />

a. C. i pittori attici hanno trattato l’argomento,<br />

facciamo nuovamente alcune scoperte interessanti.<br />

Anche se questa versione del mito è conosciuta<br />

da tutti, perché già Erodoto nella sua Storia<br />

parla di un posto in Frigia in cui si vede, sulla<br />

piazza, appesa ad un albero, la pelle di Marsia,<br />

testimoniando la diffusione del racconto,<br />

l’interesse dei pittori nelle raffigurazioni non<br />

riguarda <strong>il</strong> momento del castigo, l’aspetto violento<br />

della vicenda, ma <strong>il</strong> mettere insieme, come<br />

in questa immagine [fig. 20], un satiro che suona<br />

l’aulos - che potrebbe essere Marsia - e Apollo<br />

con l’alloro che tiene la lyra. Viene evidenziata<br />

la competizione tra i due strumenti, affiancati,<br />

però, in una sfida che non finisce in modo<br />

violento. La stessa cosa qui [fig. 21]: siamo<br />

intorno al 440, 430 a. C.: l’iconografia di Marsia<br />

viene organizzata in un modo che definirei<br />

“pacifico”, con Apollo di fronte ad un satiro e la<br />

lyra sotto di esso, dunque non in contrapposizione<br />

conflittuale, o che addirittura escluda l’uno<br />

o l’altro dei due strumenti, ma in una combinazione<br />

degli stessi. Poi abbiamo alcune donne<br />

con strumenti musicali, probab<strong>il</strong>mente le<br />

Muse e direi, quindi, che secondo la logica di<br />

queste immagini Marsia risulta essere uno degli<br />

esseri della cerchia di Dioniso che viene integrato<br />

nel mondo di Apollo.<br />

Abbiamo un disegno molto bello [fig. 22] - vi<br />

do forse l’impressione di inventare tutto, ma, al<br />

contrario, è tutto chiaramente espresso - su un<br />

grande cratere del Museo Jatta di Ruvo. Sul col-<br />

48


lo abbiamo un satiro seduto che suona, Apollo<br />

che l’ascolta, un altro satiro che danza e probab<strong>il</strong>mente<br />

una Musa a sinistra. Esaminando l’insieme<br />

del vaso [fig. 23] - un cratere per mescolare<br />

<strong>il</strong> vino del banchetto e ribadisco che <strong>il</strong> contesto<br />

è importantissimo, poiché <strong>il</strong> vino è Dioniso<br />

e le raffigurazioni di satiri sono legate anche<br />

a questo aspetto - al centro abbiamo un satiro,<br />

posto di fronte ad Atena, l’inventrice dell’aulos<br />

e ad Apollo seduto un po’ a destra. Forse <strong>il</strong> disegno<br />

è più chiaro [fig. 24]: c’è <strong>il</strong> satiro Marsia<br />

che suona la kithara accanto ad un albero di palma,<br />

l’albero di Apollo, poi Atena in piedi, quindi<br />

Apollo - i nomi sono scritti: la cosa notevole<br />

è che Marsia suona lo strumento di Apollo,<br />

dunque non è rappresentato alcun conflitto,<br />

quanto piuttosto uno scambio. Il pittore ha<br />

scelto di non far vedere la violenza e la contrapposizione<br />

tra Dioniso e Apollo, ma piuttosto di<br />

integrarli in modo pacificato. C’è poi un tripode<br />

accanto al satiro, forse è <strong>il</strong> premio ad un concorso<br />

o una offerta al dio Apollo. Abbiamo moltissimi<br />

di questi tripodi ad Atene o a Delfi. In<br />

questa raffigurazione c’è forse l’accenno ad un<br />

concorso musicale, <strong>il</strong> ditirambo - è una delle<br />

possib<strong>il</strong>ità che possono essere prese in esame -<br />

ma la cosa che mi interessa è farvi vedere <strong>il</strong> gioco<br />

tra Dioniso, Apollo e Marsia, secondo modalità<br />

che sembrano abbastanza pacifiche.<br />

Andando avanti nel tempo ritroviamo nella<br />

ceramica italiota, campana e lucana la raffigurazione<br />

del coltello già vista sul r<strong>il</strong>ievo di Mantinea.<br />

In questo vaso [fig. 25], oggi perduto, c’è <strong>il</strong><br />

satiro inginocchiato e Apollo stesso che tiene <strong>il</strong><br />

coltello: è evidente che non è più <strong>il</strong> momento<br />

della gara ma quello del castigo. Inequivocab<strong>il</strong>mente<br />

si sta suggerendo <strong>il</strong> momento dello scorticare,<br />

che, però, non si fa esplicitamente vedere<br />

(l’esplicitazione avverrà solo nella scultura<br />

romana, mai nella pittura vascolare). Consideriamo<br />

ancora questo cratere per <strong>il</strong> vino [fig. 26],<br />

49<br />

Fig. 23, id, insieme del vaso<br />

Fig. 24, id, disegno<br />

Fig. 25, cratere campano a figure<br />

rosse, 360 a. C., Apollo con <strong>il</strong><br />

coltello, (vaso perduto, ex collezione<br />

Hope)


Fig. 26, cratere campano a figure<br />

rosse, 350 a. C., Apollo con la harpe<br />

(mercato antiquario, New York, NFA<br />

11.XII.1991)<br />

Fig. 27, oinochoe lucana a figure<br />

rosse, 360 a. C., Apollo con la lira e<br />

satiro con <strong>il</strong> coltello (Taranto, Museo<br />

Nazionale 20305)<br />

di provenienza campana, con evidenziata non la<br />

qualità musicale del satiro o di Apollo, ma la<br />

forza del dio che è in grado di castigare ogni<br />

essere umano che pretenda di essere più bravo<br />

di lui. Questo significato del mito, dunque, è<br />

differente da quelli precedentemente esaminati:<br />

<strong>il</strong> dio tiene uno strumento che è un tipo di harpe,<br />

di falce, lo stesso strumento che Perseo ut<strong>il</strong>izza<br />

per tagliare la testa della Gorgone. Il punto<br />

notevole è che, come scrive Erodoto quando<br />

parla della pelle del satiro nella città di Frigia<br />

dove è stato scorticato Marsia, questa pelle viene<br />

chiamata askos, parola greca molto interessante.<br />

Askos può essere la pelle di Marsia come<br />

in questo caso, oppure può essere la pelle di<br />

capra che serve per fare un otre per <strong>il</strong> vino, ma<br />

può essere anche la parte che nel sacrificio greco<br />

viene data al sacerdote, può essere vocabolo<br />

specifico legato al rito del sacrificio. Su questa<br />

immagine [fig. 27], infine, di una piccola brocca<br />

per <strong>il</strong> vino, abbiamo una donna, Apollo con<br />

la lyra e un satiro che tiene egli stesso <strong>il</strong> coltello<br />

del sacrificio, quasi anticipando <strong>il</strong> suo castigo.<br />

Non c’è più alcuno strumento musicale, solo <strong>il</strong><br />

coltello; <strong>il</strong> satiro ha un piede su una roccia e di<br />

fronte a lui, sulla linea del sole, c’è un oggetto<br />

che può sembrare due cose: può essere un askos,<br />

un otre, ma assomiglia anche molto alla custodia<br />

di un flauto. È chiaro che <strong>il</strong> pittore fa una<br />

specie di anticipazione della conclusione della<br />

vicenda, che acquista senso solo conoscendo <strong>il</strong><br />

mito, ovvero è necessario che ci sia qualcuno in<br />

grado di narrarlo, come sto facendo io, o forse,<br />

ancora meglio, in grado di cantare questa storia<br />

al simposio. Dunque sono le immagini che<br />

creano le possib<strong>il</strong>ità di espressione musicale,<br />

poetica o narrativa, e queste possib<strong>il</strong>ità possono<br />

venire o no ut<strong>il</strong>izzate, a seconda della voglia dei<br />

bevitori: ne traggono ispirazione se lo desiderano,<br />

altrimenti discorrono d’altro.<br />

Per non lasciarvi con queste storie così violente<br />

50


e tristi, torniamo ora ad occuparci di satiri e<br />

musica esaminando alcune immagini in cui gli<br />

strumenti musicali sono diversamente ut<strong>il</strong>izzati.<br />

Su questa scena di simposio [fig. 28] <strong>il</strong> satiro<br />

porta sulla spalla un otre pieno di vino; regge un<br />

tipo di lyra lunga, tipo barbitos, per cantare al<br />

simposio, ma dal suo braccio pende anche una<br />

custodia, la sybene, che serve per custodire l’aulos;<br />

porta infine un cestino con gli oggetti e la<br />

coppa necessari al banchetto. Il satiro è una<br />

figura centrale nell’immaginario del simposio<br />

(credo che nella realtà non ce ne siano molti,<br />

forse alcuni, ma non molti…); questo immaginario<br />

animale-umano, questo simbolo del<br />

bestializzarsi nel bere e nel cantare, viene, molto<br />

spesso, nell’iconografia del banchetto, collegato<br />

ad un tipo di musica che combina la lyra e<br />

l’aulos, ricordando però che l’aulos è uno degli<br />

strumenti più influenti sull’animo umano e che<br />

provoca la mania dionisiaca più della lyra.<br />

Abbiamo anche dei satiri come questo [fig. 29],<br />

vestito da concertista, che suona la grande<br />

kithara tra Ermes a sinistra e Dionisio a destra:<br />

non so se questa sia una versione comica o no,<br />

ma chiaramente è un décalage, uno slittamento<br />

tra l’iconografia standard del concorso musicale<br />

di cui si è parlato e una versione divina e satiresca<br />

assieme, con molto garbo ed eleganza.<br />

Abbiamo altre situazioni musicali di satiri che<br />

giungono all’oscenità, raffigurati nel denudarsi<br />

e nell’esibire <strong>il</strong> sesso [fig. 30, vedi p. 49], oppure<br />

giocate con analogie, sulle quali vi lascio<br />

meditare, tra l’aulos e <strong>il</strong> sesso [fig. 31]. In questo<br />

caso la scena è rappresentata con un po’ di<br />

discrezione: la custodia viene appesa al sesso del<br />

satiro che tiene l’aulos in mano... Stiamo esaminando<br />

raffigurazioni antecedenti all’iconografia<br />

di Marsia che abbiamo già visto, ma <strong>il</strong> mito<br />

completo esiste già nella cultura greca, perché<br />

Erodoto scrive poco dopo questo periodo.<br />

Per concludere brevemente: vi ho fatto vedere,<br />

51<br />

Fig. 28, idria attica a figure rosse,<br />

500 a. C., <strong>il</strong> satiro sulla strada del<br />

symposio (Monaco,<br />

Antikensammlung 2424)<br />

Fig. 29, cratere attico a figure rosse,<br />

da Spina, 460 a. C., satiro concertista<br />

tra Ermes e Dionisos (Ferrara, Museo<br />

Archeologico, inv. 4110, T55A VP)<br />

Fig. 31, piatto attico a figure rosse,<br />

firmato da Epictetos, 510 a. C.<br />

(Parigi, Cabinet des Méda<strong>il</strong>les)


passando da Orfeo a Marsia, diverse cose; credo che ci sia una poesia grafica in<br />

queste storie musicali. Altri miti sono più gradevoli, io ho scelto questi due che<br />

sono violentissimi, ma legati ai confini del mondo greco, alla Frigia e al mondo<br />

tracio. Non una Frigia storica, quanto una “Frigia per gli Ateniesi”: è <strong>il</strong> punto<br />

di vista degli Ateniesi sul mondo estero e quindi sul loro stesso. All’interno di<br />

questo mondo si descrive, destinando la riflessione all’ambito del simposio, <strong>il</strong><br />

cattivo uso della musica, ma anche <strong>il</strong> buon ascolto senza esagerazioni e con l’attento<br />

controllo della parola, del canto e del gioco con <strong>il</strong> vino e la musica.<br />

> Fig. 30, coppa attica a figure nere, 520 a.C., Satiro con l’aulos<br />

(Monaco, Antikensammlung WAF 2088)<br />

52


Gli strumenti musicali dell’antica Grecia MICHAEL STÜVE<br />

Assai poco sappiamo degli strumenti musicali dell’antica Grecia, come del resto<br />

del suono e della musica da essi prodotti. Il turbamento che suscita la consapevolezza<br />

che le nostre conoscenze sull’antico st<strong>il</strong>e musicale sono talmente insufficienti<br />

da non permetterci neppure di giudicare se la melodia della prima ode<br />

pitica di Pindaro tramandataci da Athanasius Kircher sia autentica oppure sia<br />

solo una contraffazione (anche se indubbiamente molto suggestiva), è paragonab<strong>il</strong>e<br />

al disagio che proverebbe un musicista di oggi, se dovesse spiegare ad<br />

esempio, come erano fissate le corde dell’antica lyra allo zygon, la traversa fra i<br />

due bracci dello strumento, per non parlare del problema della loro accordatura.<br />

Gli scarsi reperti archeologici, le tante raffigurazioni e le descrizioni riportate<br />

in letteratura da Omero (VIII sec. a. C.) a Polluce (II sec. d. C.) ci danno un<br />

quadro di grande vivacità musicale, ma dal punto di vista organologico rimangono<br />

aperti molti problemi. Mi limiterò dunque a presentare a grandi linee gli<br />

strumenti dei quali esiste maggiore documentazione, suddivisi in tre gruppi in<br />

accordo con la maggior parte dei testi: i cordofoni, gli strumenti a fiato e quelli<br />

a percussione. Occorre precisare che essi erano già noti da molto tempo in<br />

Medio-Oriente e che i Greci quindi hanno copiato semplicemente strumenti<br />

già in uso fin dai tempi dei Sumeri e degli Assiri (come l’arpa, le lyre a undici e<br />

a dodici corde, <strong>il</strong> liuto, cioè la cosidetta pandoura). Vorrei ricordare anche che<br />

l’interesse per la musica greca antica è dovuto alla grande influenza che essa ha<br />

esercitato sulla nostra musica, la musica dell’Abendland, ed <strong>il</strong> fatto che a sua volta<br />

abbia risentito di numerosi influssi esterni non diminuisce l’importanza che<br />

ha avuto per la nostra cultura.<br />

I. Strumenti a corda<br />

La lyra, con le sue numerose varianti, è lo strumento più antico e rappresentativo<br />

dell’antica Grecia. Nelle raffigurazioni vascolari l’arpa è rappresentata<br />

soltanto una volta prima della fine del V sec a. C., mentre <strong>il</strong> liuto vi compare<br />

dalla metà del IV sec. a. C. Questi strumenti tuttavia erano già presenti in<br />

Mesopotamia nel 2000 a. C. e venivano suonati con le dita o con <strong>il</strong> plettro,<br />

mai con l’arco.<br />

< Fig. 2a, kithara, ricostruzione di Giorgos Polyzos, 1989.<br />

55


Fig. 1, Barbitos e doppio aulos.<br />

Pelike a figure rosse<br />

Pittore dell'Angelo Volante<br />

Provenienza: Chiusi (480 a.C. ca)<br />

Museo Archeologico di Firenze<br />

Fig. 1a, Barbitos, ricostruzione<br />

Giorgos Polyzos, 1989.<br />

1. La lyra. La lyra era costituita da una cassa di<br />

risonanza con due bracci uniti all’apice mediante<br />

una traversa; ad essa venivano assicurate le<br />

corde, tese in mezzo ai bracci, poggiate su un<br />

ponticello (magas) e fissate ad una cordiera<br />

situata alla base della cassa di risonanza. Lo strumento<br />

veniva sostenuto dal braccio sinistro del<br />

suonatore, inf<strong>il</strong>ato in una fascia dello strumento<br />

stesso; <strong>il</strong> plettro - come dimostrano molte<br />

raffigurazioni - di solito era legato allo strumento<br />

mediante una cordicella.<br />

La parola chelys, tartaruga, nell’antichità significava<br />

anche ‘lyra’. Martin Litchfield West distingue<br />

fra ‘box lyres’ (lyre a cassa) e ‘bowl lyres’ (lyre<br />

a scodella) [vedi fig. 1a, p. 34] e fa rientrare la<br />

chelys tra queste ultime: essa consisteva in un<br />

guscio di tartaruga chiuso da una pelle, al quale<br />

venivano legate le corna di un animale. Un altro<br />

tipo di lyra a scodella era <strong>il</strong> barbitos [fig. 1 e 1a],<br />

con lunghi bracci, quindi con lunghe corde, che<br />

emetteva un suono piuttosto grave. È possib<strong>il</strong>e<br />

vederlo raffigutato sul famoso vaso 2416 di<br />

Monaco [vedi fig. 5, p. 23] in mano a Saffo ed<br />

Alceo vissuti tra <strong>il</strong> VII ed <strong>il</strong> VI sec. a. C. I poeti<br />

di Lesbo lo chiamavano barmos. La chelys appare<br />

nell’iconografia solo verso la fine dell’VIII<br />

secolo a. C., <strong>il</strong> barbitos ancora più tardi. Erano<br />

strumenti suonati per lo più dai d<strong>il</strong>ettanti ed in<br />

occasioni conviviali.<br />

Già nelle culture minoica e micenea (dopo <strong>il</strong><br />

1600 a. C.) era in uso una lyra appartenente alla<br />

famiglia delle ‘lyre a cassa’, con una cassa di<br />

legno <strong>il</strong> cui fondo era di forma rotonda. Di solito<br />

veniva raffigurata con sette corde. Più tardi,<br />

invece, nell’ VIII sec., essa stranamente si presentava<br />

con solo tre o quattro corde: si tratta<br />

della lyra che Omero chiama phorminx, lo strumento<br />

dell’aedo, del poeta cantore-narratore<br />

che raccontava le gesta divine degli dei e degli<br />

eroi. Certo, <strong>il</strong> fatto che vi fossero ora tre, ora<br />

quattro corde ci fa pensare al tetracordo, all’in-<br />

56


tervallo di quarta, diviso in un primo momento<br />

da una sola nota, più tardi da due. Ma c’è chi<br />

sostiene, che le quattro corde della phorminx<br />

non si limitassero all’intervallo di quarta, ma<br />

fossero accordate in re-la-fa-mi; altri ancora<br />

ritengono che l’accordatura fosse estremamente<br />

variab<strong>il</strong>e. In verità non ne sappiamo nulla. A<br />

Terpandro (VIII - VII sec. a. C.) viene attribuito<br />

<strong>il</strong> merito di aver riportato le corde a sette.<br />

Siamo nel periodo di transizione dalla musica<br />

pentatonica a quella eptatonica.<br />

Terpandro viene considerato <strong>il</strong> padre della citarodia,<br />

del canto accompagnato dalla kithara. Si<br />

ritiene che i termini kitharis o kithara appartenessero<br />

ad una lingua diversa dal greco, ma non<br />

sappiamo a quale. La kithara [fig. 2a, p. 50], la<br />

lyra più grande e pesante dell’antichità, era lo<br />

strumento del virtuoso che si esibiva durante i<br />

giochi panellenici. I bracci dello strumento erano<br />

formati da un prolungamento della cassa di<br />

legno. Le volute ed i meccanismi a zig-zag [fig.<br />

2], sim<strong>il</strong>i a quelli degli strumenti egiziani e<br />

minoici, fanno supporre che lo strumento avesse<br />

un sistema di accordatura molto sofisticato. Il<br />

loro funzionamento tuttavia non è tuttora noto.<br />

Il dorso della kithara non era piatto, ma alquanto<br />

convesso, come evidenziano alcune raffigurazioni<br />

che mostrano lo strumento di lato. Il fondo<br />

invece era piatto.<br />

Vi era anche una lyra più piccola con una cassa<br />

armonica <strong>il</strong> cui fondo era sim<strong>il</strong>e ad una culla<br />

vista di lato, che viene perciò chiamata dagli<br />

organologi tedeschi ‘Wiegen-Kithara’. Era lo<br />

strumento delle Muse e delle donne.<br />

La kithara, contrariamente al più leggero barbitos<br />

ed alla chelys, veniva tenuta in posizione retta,<br />

parallela al corpo. La corda più vicina al corpo<br />

era quella più grave, chiamata hypate: ‘la più<br />

alta’. Le corde successive - salendo la scala - erano<br />

denominate:<br />

Parhypate: ‘la corda accanto alla più alta’<br />

57<br />

Fig. 2, Kithara.<br />

Anfora a collo distinto a figure nere<br />

Produzione attica (510-500 a.C.)<br />

Museo Archeologico di Firenze


Fig. 3, Trigonon (arpa).<br />

Ricostruzione di Giorgos Polyzos,<br />

1990.<br />

Fig. 4, Trichordon (Pandoura).<br />

Ricostruzione di Giorgos Polyzos,<br />

1991.<br />

Lichanos: ‘dito indice’<br />

Mese: ‘la media’<br />

Trite: ‘la terza’<br />

Paranete: ‘la corda accanto alla più bassa’<br />

Nete: ‘la più bassa’<br />

La nete, ‘la più bassa’, produceva <strong>il</strong> suono più<br />

acuto. Tale nomenclatura fu poi ut<strong>il</strong>izzata per<br />

indicare i suoni della scala eptatonica.<br />

Nel periodo classico nel quale Frinide e Timoteo<br />

invocavano la ‘nuova Musa’, le corde della<br />

kithara vennero aumentate fino ad un massimo<br />

di dodici.<br />

Nell’antichità esistevano molti altri tipi di lyra e<br />

di alcuni conosciamo anche i nomi: la phoinix o<br />

phoinikion proveniva probab<strong>il</strong>mente dalla Fenicia;<br />

<strong>il</strong> pythikon o daktylikon veniva suonato in<br />

occasione dei giochi pitici, forse con tutte le<br />

dita, senza plettro; <strong>il</strong> pentachordon era una lyra<br />

molto antica proveniente dalla Scizia; altri nomi<br />

noti sono: skindapsos o kindapsos, lyrophoinix o<br />

lyrophoinikion, spadix, byrte, psaltinx ecc.<br />

Mentre di questi tipi di lyra non sappiamo molto,<br />

conosciamo invece molto bene la forma di<br />

una lyra proveniente dalla Tracia e raffigurata<br />

molte volte: uno strumento sim<strong>il</strong>e al barbitos,<br />

ma più corto. Di esso tuttavia non conosciamo<br />

<strong>il</strong> nome.<br />

2. L’arpa. L’arpa [fig. 3], sicuramente uno degli<br />

strumenti più antichi, si trova rappresentata in<br />

Grecia solo a partire dal V secolo. Tuttavia Saffo<br />

ed Alceo conoscevano già questo strumento e lo<br />

chiamavano paktis (pektis nel dialetto ionicoattico).<br />

Lo consideravano lo strumento dell’amore<br />

e del piacere. Lo si vede di solito in mano<br />

alle Muse o a donne sedute, appoggiato sul loro<br />

ginocchio sinistro. Il numero delle corde variava<br />

da nove a venti. Spesso la cassa di risonanza<br />

era appoggiata al seno della suonatrice; le corde<br />

erano tese tra la cassa ed una base sott<strong>il</strong>e che<br />

poggiava sul ginocchio.<br />

58


Il trigonos era un’arpa di forma triangolare e con la cassa di risonanza situata al<br />

lato opposto della suonatrice. La sambyke (latino sambuca) era invece un’arpa<br />

dal registro acuto e dal “suono ignob<strong>il</strong>e” (Quint<strong>il</strong>iano), sim<strong>il</strong>e all’omonima<br />

macchina da guerra costituita da due navi sulle quali poggiava una scala inclinata<br />

verso le mura della città assediata.<br />

Non sappiamo quale forma avessero le arpe denominate klepsiambos, enneachordon,<br />

cioè arpa a nove corde, nablas e heptagonon che Aristotele definisce<br />

“strumento edonistico”.<br />

Alla fine del IV secolo tutti i tipi di arpa erano denominati psalterion, cioè<br />

‘strumento pizzicato’. Nel medioevo <strong>il</strong> termine salterio venne poi attribuito ad<br />

un tipo di cetra con corde tese su una cassa di risonanza. Strumenti sim<strong>il</strong>i, forse<br />

usati soprattutto per impartire lezioni di musica, nell’antichità furono l’epigoneion<br />

con quaranta corde e <strong>il</strong> simikon con trentacinque. Il termine simikon<br />

probab<strong>il</strong>mente deriva da Simos, teorico vissuto nel V secolo a. C., mentre l’epigoneion<br />

indicherebbe la posizione dello strumento, che veniva tenuto sulle<br />

ginocchia, come nel mondo arabo, turco e greco ancora oggi viene suonato <strong>il</strong><br />

kanonaki, strumento <strong>il</strong> cui nome fa riferimento ai ‘canonisti’, gli antichi teorici<br />

della musica.<br />

3. Il liuto. Il liuto antico è rappresentato in una dozzina di raffigurazioni fra <strong>il</strong><br />

330 ed <strong>il</strong> 200 a. C. Veniva suonato dalle Muse e dalle donne, con <strong>il</strong> plettro o<br />

con le dita. Il liuto a tre corde era detto trichordon [fig. 4]. Dal III secolo in poi<br />

<strong>il</strong> liuto venne chiamato pandoura. Nel Medioevo la pandoura fu detta mandora.<br />

Il liuto bulgaro dal lungo manico viene ancora chiamato tanbura.<br />

Nella Bibbia, verso nono del salmo 144 attribuito a Davide (1000-960 a. C.),<br />

viene nominato uno strumento a dieci corde:<br />

“O Dio, voglio cantare a te un nuovo canto, voglio inneggiare a te sul decacordo.”<br />

Sulla base di questo verso durante la riforma cistercense del XII secolo, i monaci<br />

che codificavano <strong>il</strong> canto gregoriano costrinsero ogni melodia in un ambito<br />

di decima. L’antico decacordo però era probab<strong>il</strong>mente uno strumento a cinque<br />

corde doppie accordate in modo pentatonico<br />

II. Strumenti a fiato<br />

Fin dall’antichità esistevano i tre tipi di strumenti a fiato che ritroviamo ancora<br />

oggi: gli strumenti ad ancia (cennamelle), i flauti e gli strumenti a bocchino<br />

(trombe). Essi erano detti aulos, syrinx o iynx e salpinx.<br />

1. L’aulos. L’ aulos (termine che inizialmente significava semplicemente ‘tubo’ o<br />

‘condotto’) è la cennamella antica, non è quindi un flauto, come spesso viene erroneamente<br />

tradotto. Come la lyra tra gli strumenti a corda, era <strong>il</strong> più diffuso tra gli<br />

strumenti a fiato. Veniva di solito suonato in coppia come doppio aulos [fig. 1,<br />

59


Fig. 1b, Aulos doppio.<br />

Ricostruzione di Giorgos Polyzos,<br />

1989.<br />

vedi p. 52, e 1b]: <strong>il</strong> suonatore teneva in bocca le<br />

ancie di due strumenti diversi. Per evitare una<br />

fuga d’aria incontrollata (chiudere strettamente<br />

le labbra attorno a due ancie non è affatto fac<strong>il</strong>e)<br />

e per sostenere la pressione che occorre per<br />

soffiare dentro due strumenti nello stesso tempo,<br />

i virtuosi di questo strumento indossavano spesso<br />

la phorbeia (lat. capistrum) [vedi fig. 2, p. 17],<br />

una specie di bavaglio con due fori, <strong>il</strong> cui scopo<br />

forse era anche quello di ridurre le inevitab<strong>il</strong>i<br />

smorfie. Si narra che l’ aulos fu gettato via dalla<br />

sua inventrice, la dea Atena, quando si accorse<br />

quanto esso deturpasse <strong>il</strong> suo bel viso; lo strumento<br />

- dice <strong>il</strong> mito - fu raccolto da Marsia che<br />

come auleta entrò in competizione con Apollo,<br />

virtuoso suonatore di lyra.<br />

Come i nostri clarinetti ed i nostri oboi, anche<br />

l’aulos è composto da più parti: <strong>il</strong> bocchino con<br />

un ancia semplice o - più frequentemente - con<br />

una doppia ancia che <strong>il</strong> suonatore teneva in<br />

bocca, era inserito nella parte superiore della<br />

canna ornata da un rigonfiamento (holmos), ben<br />

visib<strong>il</strong>e nella maggior parte delle raffigurazioni.<br />

La canna c<strong>il</strong>indrica si inseriva all’interno di holmoi<br />

puramente ornamentali, senza cambiare<br />

diametro, che di solito era di 8 - 10 mm. L’aulos<br />

poteva essere allungato mediante più holmoi<br />

che separavano <strong>il</strong> bocchino dalla canna principale<br />

nella quale si trovavano cinque fori, uno<br />

per ogni dito di una mano. In questo modo lo<br />

strumento poteva essere allungato ed <strong>il</strong> suono<br />

portato ad un registro più grave.<br />

Con Pronomo di Tebe (circa 400 a. C.) i fori<br />

dell’aulos vennero aumentati fino a 24 e, non<br />

potendo più essere chiusi contemporaneamente<br />

dalle dita, fu introdotto un meccanismo di chiavi<br />

(anelli e chiavistelli) per realizzare con un<br />

unico strumento l’intera gamma dei modi e delle<br />

armonie. Tuttavia per i diversi registri erano<br />

necessari più strumenti: secondo Aristosseno<br />

(ca. 354 - 300 a. C.) la famiglia dell’ aulos era<br />

60


formata da cinque tipi di strumenti:<br />

parthenioi, l’ aulos delle fanciulle;<br />

paidikoi, dei ragazzi;<br />

kitharisterioi, dei suonatori di lyra;<br />

teleioi, degli adulti;<br />

hyperteleioi, dei più maturi.<br />

La nomenclatura più moderna definisce tali registri come soprano, mezzosoprano,<br />

tenore, baritono e basso. L’intervallo fra la nota più grave dell’hyperteleion<br />

e quella più acuta del parthenion era di oltre tre ottave.<br />

Gli auloi erano di canna, di osso (tibie di daino), di avorio, di legno o di metallo,<br />

oppure avevano parti di osso o di legno inserite in strutture metalliche.<br />

Quando non veniva usato, lo strumento veniva custodito nella sybene, un sacco<br />

di pelle, che spesso vediamo raffigurato, mentre <strong>il</strong> delicato bocchino era riposto<br />

in una scatolina chiamata glottokomeion.<br />

Come la lyra, anche l’aulos comprendeva numerose sottoclassi di strumenti<br />

come gli elymoi di origine frigia, un doppio aulos con la canna sinistra allungata<br />

mediante l’aggiunta di un corno di bovino. Secondo Aristofane emetteva un<br />

suono piuttosto rozzo, forse sim<strong>il</strong>e al ronzio delle vespe. Nato come strumento<br />

di culto, nell’epoca romana venne impiegato nel teatro.<br />

Gingros, gingras, gingrias o gingrainos era chiamato un aulos corto, dal registro<br />

acuto e dal suono lamentoso, usato spesso per l’insegnamento della musica.<br />

Ginglaros era invece <strong>il</strong> nome di un aulos singolo di provenienza egiziana, che per<br />

la sua lunghezza impegnava entrambe le mani. Nell’Italia meridionale fu chiamato<br />

tityrinos.<br />

I pythikoi erano auloi dal registro di baritono (teleioi) e venivano suonati durante<br />

i giochi pitici. Tecnicamente molto elaborati, permettevano di suonare molti<br />

modi diversi su una larga scala di registri. In questo si distinguevano dagli<br />

auloi dal registro acuto, usati per accompagnare i cori e la poesia ditirambica. I<br />

paroinioi erano auloi con una canna piuttosto corta ed erano usati nei convivi.<br />

Gli auloi suonati nello spondeion, la parte più solenne del nomos pitico, erano<br />

strumenti lunghi, dal suono cupo e dal registro grave. Accompagnavano anche<br />

gli inni. Nelle processioni invece si suonavano gli embaterioi, mentre la musica<br />

da danza era accompagnata dai daktylikoi, nome con <strong>il</strong> quale vengono indicati<br />

sia un tipo di lyra che di aulos.<br />

Alcuni auloi avevano <strong>il</strong> bocchino in posizione laterale. Forse venivano anch’essi<br />

chiamati plagiauloi, benchè questo termine si riferisse soprattutto al flauto.<br />

Tra le cennamelle si può annoverare anche la zampogna, raffigurata per la prima<br />

volta su un cammeo del periodo ellenistico. Si dice che fosse lo strumento suonato<br />

dall’imperatore Nerone.<br />

2. Il flauto. Il flauto dell’antichità era costituito da un’unica canna forata o<br />

61


da più canne di diversa lunghezza. La syrinx, <strong>il</strong> flauto di Pan, è un flauto con<br />

canne di diversa lunghezza. Nell’antica Grecia erano di uguale lunghezza all’esterno,<br />

ma accorciate all’interno mediante tappi di cera. Era lo strumento dei<br />

pastori e non ha avuto grande importanza nell’antichità, se non come base di<br />

partenza per la costruzione dell’organo. La Musa Calliope rappresentata sul<br />

vaso François di Firenze suona proprio la syrinx ut<strong>il</strong>izzata anche in ambito cultuale<br />

ad Efeso e Delo.<br />

Iynx era <strong>il</strong> nome di un flauto formato da un’unica canna forata. Veniva suonato<br />

come la syrinx, soffiando l’aria attraverso <strong>il</strong> taglio apicale, oppure - come<br />

nei nostri flauti traversi - attraverso un foro laterale (plagiaulos). Il suono dell’iynx<br />

era dolce ed assomigliava al fruscio del vento.<br />

L’epitonion era un piccolo flauto usato dal maestro del coro per indicare ai cantanti<br />

la nota con la quale iniziare.<br />

L’organo. Parlando dei flauti non possiamo non citare l’organo (tyrrhenos<br />

aulos), inventato dall’ingegnere Ctesibio di Alessandria (III sec. a. C.), chiamato<br />

anche hydraulis, perché inizialmente funzionava mediante un meccanismo<br />

idraulico tramite <strong>il</strong> quale l’aria veniva forzata in una galleria sottostante ad una<br />

serie di canne di bronzo fissate ad una tastiera. Ogni canna aveva un tappo<br />

comunicante con la galleria, che poteva essere aperto attraverso la tastiera, permettendo<br />

così all’aria di entrare nella canna. F<strong>il</strong>one di Bisanzio, allievo di Ctesibio,<br />

descrive l’organo come “una syrinx suonata con le mani, detta hydraulis”.<br />

Sembra che l’organo fosse lo strumento preferito da Nerone e forse è stata proprio<br />

sua l’idea di sostituire <strong>il</strong> meccanismo idraulico con quello pneumatico per<br />

diminuirne le dimensioni. Certo, si parla anche di un organo <strong>il</strong> cui polmone<br />

venne realizzato con la pelle di due elefanti e che suonava grazie a 12 mantici.<br />

Il suo suono poteva essere sentito a distanza di un miglio. Nel VIII secolo l’organo<br />

pneumatico da Bisanzio si diffuse anche nell’Europa del Nord.<br />

3. La salpinx. La salpinx era la tromba dell’antica Grecia. Non era un vero e<br />

proprio strumento musicale come sembra fosse per gli etruschi, ma serviva piuttosto<br />

per fare segnalazioni durante i combattimenti, nei concorsi sportivi come<br />

le corse dei cavalli, nel lavoro, in occasione di riunioni ed anche durante le cerimonie<br />

religiose. La salpinx (latino tuba) consiste, appunto, di un tubo c<strong>il</strong>indrico<br />

di bronzo di lunghezza compresa fra gli 80 ed i 120 cm. Il fondo dello strumento,<br />

la campana, aveva la forma di un tulipano. Il bocchino era di osso. La<br />

tromba era già conosciuta da Omero che la menziona nell’Iliade (XVIII, 219;<br />

XXI, 388), ma sembra non fosse nota ai suoi eroi che non la suonano mai.<br />

Dopo <strong>il</strong> IV secolo a. C. vennero istituiti concorsi di salpinx e si dice che alcuni<br />

virtuosi di questo strumento fossero in grado di farlo sentire dalla distanza<br />

di sei miglia.<br />

62


Gli strumenti più comuni per le segnalazioni<br />

erano tuttavia le conchiglie ed i corni ai quali<br />

veniva aggiunto un bocchino.<br />

Il Museo Nazionale degli Strumenti musicali di<br />

Roma possiede una bellissima raccolta di strumenti<br />

antichi tra i quali vi sono anche dei<br />

fischietti in terracotta a forma di cinghiale e di<br />

gallo, di epoca ellenistica. Passando dagli strumenti<br />

a fiato agli aerofoni in generale, dobbiamo<br />

nominare <strong>il</strong> rhombos, un pezzo di legno<br />

legato ad una corda che, fatto roteare nell’aria,<br />

emetteva un suono sim<strong>il</strong>e al muggito del bue.<br />

Veniva suonato nel culto di Dioniso assieme al<br />

tamburo ed ai piatti a sonagli.<br />

III.Strumenti a percussione<br />

Gli strumenti a percussione nell’antichità avevano<br />

due diverse funzioni: evidenziare <strong>il</strong> ritmo e produrre<br />

suoni chiassosi durante <strong>il</strong> culto orgiastico.<br />

1. Gli strumenti ritmici. Le melodie dell’aulos<br />

o della lyra potevano essere accentuate dal battito<br />

delle mani o dei piedi (specialmente nelle<br />

danze, come riportato nell’Odissea, VIII, 256),<br />

ma spesso si vedono raffigurate donne che danzano<br />

accompagnandosi con i krotala [fig. 5a],<br />

strumenti sim<strong>il</strong>i alle castagnette o nacchere, formati<br />

da due pezzi di legno uniti da un lato, che<br />

venivano battuti l’uno contro l’altro dalle dita<br />

di una mano [fig. 5]. Erano lunghe circa 12-15<br />

cm, quindi <strong>il</strong> loro ritmo doveva essere più lento<br />

di quello delle castagnette spagnole che sono<br />

più corte.<br />

L’auleta, quando accompagnava <strong>il</strong> coro, spesso<br />

indicava <strong>il</strong> ritmo battendo per terra <strong>il</strong> kroupalon<br />

(denominato anche kroupeza, lat. scabellum),<br />

una calzatura dalla doppia suola di legno.<br />

2. Gli strumenti di culto. Tra gli strumenti a<br />

percussione maggiormente usati nelle cerimonie<br />

in onore di Dioniso e di Cibele vi era <strong>il</strong> tympanon<br />

63<br />

Fig. 5, Krotala.<br />

Coppa attica a figure rosse<br />

Pittore di Antiphon (intorno a 480 a.C.)<br />

Museo Archeologico di Firenze<br />

Fig. 5a, Krotala.<br />

Ricostruzione di Giorgos Polyzos,<br />

1989.


Fig. 6, Tympanon.<br />

Hydria greca a figure rosse<br />

Pittore di Meidias (420-410 a.C.)<br />

Museo Archeologico di Firenze<br />

Fig. 6a, Tympanon.<br />

Ricostruzione di Giorgos Polyzos,<br />

1989.<br />

Fig. 7, Kymbala.<br />

Ricostruzione di Giorgos Polyzos,<br />

1989.<br />

> Fig. 8, Seistron. Ricostruzione di Giorgos Polyzos, 1990.<br />

(<strong>il</strong> nostro tamburello), spesso suonato da donne.<br />

Il suo diametro era di 30 - 50 cm ed ambedue i<br />

lati erano ricoperti di pelle [fig. 6 e 6a].<br />

I kymbala [fig. 7] erano una tipica coppia di<br />

piatti a sonagli di bronzo, di circa 18 cm. di diametro,<br />

che venivano impugnati tramite un<br />

anello situato sul dorso. Sono ancora in uso in<br />

Medio Oriente.<br />

I rhoptra erano strumenti di metallo sim<strong>il</strong>i ai<br />

krotala di legno.<br />

Nel culto di Iside, che dall’antico Egitto si era<br />

diffuso anche a Roma, venivano suonati i sistri<br />

[seistron, fig. 8] dei quali esiste una grande collezione<br />

nel Museo nazionale di Strumenti musicali<br />

di Roma. Erano formati da una staffa sorretta<br />

da un manico, alla quale erano fissati dei<br />

cavetti ricoperti da una spirale di f<strong>il</strong>o di bronzo.<br />

Lo strumento produceva un piacevole suono<br />

quando veniva agitato.<br />

Alcune raffigurazioni mostrano donne che tengono<br />

nella mano sinistra uno strumento particolare<br />

a forma di scala e lo toccano con la mano<br />

destra. Si presume che si tratti della psithyra<br />

analoga ai sistri.<br />

Bibliografia:<br />

L. Cervelli, (ed.), La Galleria armonica, Catalogo del<br />

Museo degli strumenti musicali di Roma, Roma 1994.<br />

G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana,<br />

Torino 1991 2 .<br />

R.H. Hoppin, Medieval Music, New York, London 1978.<br />

D. Minrow, Instruments of the Middle Ages and the<br />

Renaissance, London 1976.<br />

Soc. Biblica Italiana, La Bibbia concordata, IV, Antico<br />

Testamento, Libri poetici, M<strong>il</strong>ano 1982.<br />

M. West, Ancient Greek Music, Oxford 1992.<br />

Le <strong>il</strong>lustrazioni 1, 2, 5, 6, sono qui riprodotte per gent<strong>il</strong>e<br />

concessione della Soprintendenza Archeologica<br />

della Toscana.<br />

64


Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei, Athanasius Kircher EUGENIO LO SARDO<br />

e la musica greca<br />

Devo concludere questa bellissima serata e trascinarvi via a malincuore dal<br />

mondo greco. L’argomento di cui parlerò è ben lontano dagli eroi di Maratona<br />

e dalla splendida armonia dei vasi antichi. Sposterò la leva del tempo di due m<strong>il</strong>lenni<br />

in una Italia snervata, post-michelangiolesca, con due figure che, a distanza<br />

di tempo, si fronteggiano: Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei (1520-1591), da un lato, grande<br />

teorico della musica, fiorentino, padre di Gal<strong>il</strong>eo e, dall’altro, Athanasius<br />

Kircher, gesuita nato in Germania nel 1602 e vissuto a Roma dove fondò un<br />

famoso Museo e scrisse moltissime opere, di cui una sulla musica, intitolata<br />

Musurgia universalis. 1 Quella in cui ci troviamo non è più l’Italia dell’alto Rinascimento<br />

percorsa da geni universali, ma è ancora un paese pieno di fermenti,<br />

di accademie e di fornitissime biblioteche, tanto che i primi ritrovamenti di<br />

musica greca avvennero proprio nelle nostre collezioni.<br />

Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei e Athanasius Kircher furono i primi a pubblicare i brevi frammenti<br />

di musica antica 2 che per secoli restarono le uniche testimonianze di una<br />

grande tradizione artistica, rimasta inesplorata e diffic<strong>il</strong>mente studiab<strong>il</strong>e per la<br />

scarsità delle fonti. Nelle loro opere narrano come questi ritrovamenti avvennero<br />

e giustificano e teorizzano <strong>il</strong> motivo per cui hanno ricercato e pubblicato le<br />

antiche melodie. Ma, mentre gli Inni attribuiti a Mesomede - pubblicati da<br />

Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei - sono in genere ritenuti autentici, poiché esistono più codici<br />

che riportano le stesse trascrizioni, diverso è <strong>il</strong> caso della melodia della Prima<br />

ode pitica di Pindaro - pubblicata da Kircher - che i f<strong>il</strong>ologi per lo più ritengono<br />

un intelligente falso d’autore.<br />

Su tale giudizio pesano dei preconcetti basati su una valutazione poco lusinghiera<br />

dei lavori del grande gesuita tedesco, spesso accusato di essere un geniale<br />

m<strong>il</strong>lantatore per aver propugnato una teoria interpretativa dei geroglifici<br />

egizi dimostratasi infondata. In realtà gli egittologi riconoscono a Kircher <strong>il</strong><br />

merito innegab<strong>il</strong>e di essere stato <strong>il</strong> vero iniziatore della loro disciplina. Il tentativo<br />

fallito di leggere l’antica scrittura va per loro inquadrato in un preciso<br />

ambito cronologico, come ha chiarito Sergio Donadoni in un recente articolo,<br />

per cui <strong>il</strong> codice di lettura del gesuita non poteva non essere che quello del-<br />

< Athanasius Kircher, Musurgia universalis, Lib. VII, p. 541, Romae,<br />

Typis Ludovici Grignani, 1650.<br />

67


la sapientia aegyptia, tramandata da Orfeo, Pitagora e Platone e poi dai neoplatonici<br />

come Proclo e Giamblico e tradotta da grandi umanisti, della levatura<br />

di Mars<strong>il</strong>io Ficino. 3<br />

Ritengo, tra l’altro, che nel confronto tra le figure di Athanasius Kircher e di<br />

Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei pesi - almeno dal punto di vista di chi si occupa della storia<br />

moderna dell’Italia - un antico discrimine. La definitiva chiusura e la dispersione<br />

delle collezioni del museo kircheriano, uno dei più grandi musei scientifici<br />

d’Europa, furono in parte dovute alla volontà dei liberali italiani di cancellare la<br />

memoria degli studi compiuti nello Stato della Chiesa da insigni ecclesiastici.<br />

Chiesa e oscurantismo nella Nuova Italia, dovevano coincidere, Chiesa e condanna<br />

di Gal<strong>il</strong>ei, Chiesa e rogo di Giordano Bruno. I Gesuiti erano <strong>il</strong> simbolo<br />

più evidente della politica controriformista e Kircher ne era stato uno dei maggiori<br />

ideologi nella seconda metà del Seicento. È una disputa antica che non è<br />

qui <strong>il</strong> caso di affrontare, perché molte posizioni che, sentimentalmente o politicamente,<br />

si possono condividere, da un punto di vista storiografico andrebbero<br />

almeno riviste. Il gesuita di Fulda, che fu una figura centrale del mondo intellettuale<br />

del secondo Seicento, successore di Clavio e di Scheiner alla cattedra di<br />

matematiche del Collegio Romano, come risulta da una lettera all’amico e protettore<br />

Fabri de Peiresc, era ad esempio convinto della fondatezza dell’eliocentrismo<br />

gal<strong>il</strong>eiano, teoria che non poteva abbracciare pubblicamente.<br />

Gal<strong>il</strong>ei e Kircher, quindi, due nomi e due simboli di un radicato d<strong>il</strong>emma italiano,<br />

della profonda frattura che attraversa la società civ<strong>il</strong>e e che emerge ogniqualvolta<br />

si parla di scuola e di sistema educativo: Gal<strong>il</strong>ei da un lato (anche se<br />

si tratta di Vincenzo) e Kircher dall’altro, ragione e oscurantismo, nuova scienza<br />

e aristotelismo. Vedremo come anche in questo caso le generalizzazioni non<br />

aiutino a comprendere la complessità del tema, anche se i pregiudizi continuano<br />

ad avere <strong>il</strong> loro peso.<br />

Da un punto di vista cronologico Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei fu <strong>il</strong> primo a pubblicare dei<br />

testi musicali greci nell’Occidente europeo. Erano testi trascritti in diversi codici,<br />

conservati in biblioteche italiane e straniere. Ma la pubblicazione avvenne nell’ambito<br />

di una riforma della tradizione musicale, per rafforzare le basi teoriche<br />

delle nuove tendenze che la Camerata dei Bardi, di cui Gal<strong>il</strong>ei era un importante<br />

esponente, intendeva imporre nel panorama fiorentino del tardo Rinascimento.<br />

Vincenzo, liutista e grande virtuoso, era nato a Santa Maria del Monte nel<br />

1520, e aveva compiuto i suoi studi musicali a Firenze. Risiedè per un lungo<br />

periodo a Venezia e a Pisa dove sposò Giulia, figlia di Cosimo Ammanati. Nel<br />

1568 pubblicò la sua prima opera teorica, <strong>il</strong> Fronimo, un dialogo Sopra l’arte di<br />

ben intavolare la musica negli strumenti artificiali sia di corde come di fiato, et in<br />

particolare nel liuto (ripubblicato a Venezia nel 1584) e lì affermava che i Greci<br />

erano stati i veri inventori di quell’arte, di cui avevano studiato scientificamente<br />

gli effetti sull’ascoltatore. Essi pensavano, egli scriveva, che “gli animi<br />

68


umani fossero armonia” e “ credeano che da dolci et soavi concenti fossero eccitati<br />

a temperare i discordanti affetti”. Alcuni anni dopo, nel 1581, dette alle<br />

stampe <strong>il</strong> Dialogo sopra la musica antica et moderna, dedicato a Giovanni Bardi,<br />

uno dei maggiori esponenti di quella Camerata fiorentina di cui si è detto.<br />

Nell’opera, in cui gli interlocutori sono lo stesso Bardi e Pietro Strozzi, Gal<strong>il</strong>ei<br />

riafferma quanto accennato nel primo dialogo. I Greci sono per lui i veri maestri<br />

ed inventori della musica e presso di loro quell’arte era tenuta in altissima considerazione.<br />

Nel Dialogo l’autore si soffermava particolarmente sulla riscoperta della<br />

monodia antica e sulla sua possib<strong>il</strong>e applicazione al panorama musicale contemporaneo.<br />

Esprimeva in tal modo l’avversione “al contrappunto esasperato” e<br />

auspicava <strong>il</strong> ritorno alla presunta semplicità della scuola musicale greca. Citando<br />

Platone ribadiva la superiorità della parola sulla musica. Questa evoluzione dette<br />

luogo alla nascita degli “intermedi” (messi in scena durante le nozze di Francesco<br />

de’ Medici con Bianca Capello nel 1579) e da questo si giunse al melodramma.<br />

Scrive al riguardo Mario Baroni che <strong>il</strong> proposito degli intellettuali che<br />

dettero vita alla Camerata fiorentina aveva le sue radici nell’idea tipicamente<br />

umanistica di studiare e di ridare circolazione moderna non solo alla concezione<br />

musicale degli antichi greci, ma all’uso che della musica essi avevano fatto nello<br />

spettacolo tragico. Ebbe pertanto origine uno st<strong>il</strong>e adatto a sottolineare le situazioni<br />

emotive, e a studiare gli “affetti” indotti nell’animo di chi ascolta dalla<br />

musica. Vedremo come questa linea di sv<strong>il</strong>uppo musicale incontrò tra i suoi maggiori<br />

interpreti personaggi come Marin Mersenne, lo stesso Kircher e Cartesio,<br />

nel Seicento, per giungere, nel Settecento a Rameau, a Matheson ecc. Non si<br />

trattava, come avevano teorizzato i primi musicisti e umanisti della Camerata fiorentina,<br />

di una subordinazione della musica alla parola o meglio all’orazione, ma<br />

piuttosto di una subordinazione di parola e musica insieme a questo ideale pervasivo<br />

di tutta la civ<strong>il</strong>tà artistica barocca: esprimere o imitare gli affetti al fine di<br />

soggiogare <strong>il</strong> pubblico, per commuoverlo ed emozionarlo. 4<br />

Le opere di Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei, <strong>il</strong> “lamento del conte Ugolino” e le “lamentazioni<br />

di Geremia” sono andate perdute, ma ci sono rimaste varie testimonianze della<br />

produzione della Camerata.<br />

Gal<strong>il</strong>ei, oltre che sugli strumenti musicali greci, dissertava nel suo dialogo sul<br />

sistema di notazione musicale degli antichi. In un volume della seconda metà<br />

del IV secolo dopo Cristo, conservato nella biblioteca del “Cardinal Sant’Angiolo”<br />

(ora alla Vaticana), intitolato delle note degli antichi musici greci opera di<br />

un autore noto come Alypio, egli trovava i differenti segni che usavano gli “antichi<br />

per dinotare le corde dello strumento, a differenza”, come egli stesso scriveva,<br />

“di quelli che significavano <strong>il</strong> suono della voce”. 5 In altri termini Gal<strong>il</strong>ei riferiva<br />

come nell’antichità si usassero due sistemi di notazione alfabetica: quella<br />

strumentale con le lettere dell’alfabeto fenicio e quella vocale con le lettere dell’alfabeto<br />

attico. Cosa confermata dagli scritti di Boezio.<br />

69


Troppo complesso e superiore alle mie capacità sarebbe ora, senza l’aiuto di supporti<br />

grafici addentrarsi, nell’intricatissimo mondo della musica classica e della<br />

sua notazione. Basta qui ricordare che <strong>il</strong> sistema descritto da Alypio era noto ai<br />

musicisti bizantini e che alcuni dei frammenti di cui trattiamo, tramandati<br />

attraverso Bisanzio, ne rispettavano l’impostazione.<br />

Operazione sim<strong>il</strong>e a quella di Gal<strong>il</strong>ei compì Kircher che, dopo aver già trattato<br />

di musica greca nel suo excursus storico e in particolare alle pagine 212 e 213<br />

della Musurgia, pubblicava nel libro VII della stessa opera (iconismo XIII) una<br />

tabella tratta dall’Alypio.<br />

Alla suddetta tabella aggiungeva un esempio, Musicae veteris Specimen, 6 dove,<br />

trascritta con la notazione antica, diciamo Alypiana, apparivano i primi versi<br />

dell’ode pitica di Pindaro: “o aurea cetra d’Apollo”. Stranamente Kircher, che<br />

aveva citato l’opera di Gal<strong>il</strong>ei (ma molte sono le lacune e gli errori delle opere<br />

del gesuita!) affermava che quello, per quanto se ne sapeva, era l’unico esempio<br />

rimasto di musica antica. L’aveva trovato nella famosa biblioteca del monastero<br />

del S. Salvatore di Messina, durante <strong>il</strong> viaggio che aveva compiuto da Roma a<br />

Malta tra <strong>il</strong> 1637 e <strong>il</strong> 1638, viaggio che gli permise di osservare i vulcani sic<strong>il</strong>iani<br />

e di sollevare fondamentali ipotesi sul nucleo ardente della terra e sulla<br />

deriva dei continenti. Anche in questo caso è necessario controllare quanto egli<br />

afferma, perché di quel frammento da lui pubblicato si è successivamente persa<br />

ogni traccia. Ciò che scrive appare però, alla luce delle ricerche compiute, quanto<br />

meno verosim<strong>il</strong>e. Il monastero del San Salvatore al Faro era infatti uno dei<br />

più antichi monasteri bas<strong>il</strong>iani della città dello stretto. Nel 1546 Carlo V ne<br />

ordinò lo spostamento per permettere la costruzione di una fortezza che dominava<br />

<strong>il</strong> fondamentale specchio d’acqua. Il S. Salvatore trovò una nuova sede<br />

presso <strong>il</strong> porto di Messina, iuxta portum, come scrive <strong>il</strong> Kircher nella Musurgia.<br />

È proprio lì che i monaci gli avrebbero mostrato questo libro di inni tra le cui<br />

pagine era trascritta la prima ode pitica e la relativa melodia.<br />

Molti manoscritti provenienti dal S. Salvatore, anche musicali si conservano<br />

oggi nel mondo. Alcuni sono alla biblioteca dell’Università di Messina 7 altri nel<br />

monastero di San N<strong>il</strong>o di Grottaferrata presso Roma, altri ancora in Spagna alla<br />

Biblioteca dell’Escurial e alla Biblioteca Reale di Madrid, altri forse si conservano,<br />

come è avvenuto per le pergamene della città dello stretto, in chissà quale<br />

biblioteca privata. La dispersione di questo ingente patrimonio è dovuta agli<br />

eventi connessi alla ribellione anti-spagnola di Messina del 1674 e alla riconquista<br />

della città nel 1678. Gravissimi furono le distruzioni e i saccheggi. Fu<br />

raso al suolo <strong>il</strong> palazzo civico (i cui archivi si sono ritrovati solo di recente) e la<br />

popolazione si ridusse drasticamente da 120.000 a 15.000 abitanti. Kircher<br />

> Organo idraulico da Musurgia universalis, 1650.<br />

70


morì nel 1680, due anni dopo lo svolgersi di questi drammatici eventi, e fino<br />

a quel momento nessuno dei suoi tanti acerrimi critici smentì quanto egli aveva<br />

scritto nella Musurgia Universalis, pubblicata nel 1650, trenta anni prima<br />

quindi. Il fatto che egli avesse visto un codice di inni risalente al nono secolo<br />

dopo Cristo a Messina - città di grandi tradizioni greche, dove trovò rifugio nel<br />

’400 anche Costantino Lascaris, profugo da Costantinopoli, che vi fondò una<br />

scuola - appare assolutamente verosim<strong>il</strong>e. Nella stessa Musurgia, 8 affrontando <strong>il</strong><br />

tema della musica greca nel capitolo dedicato alla polifonia antica, egli riferiva<br />

che i bibliotecari messinesi, appartenenti all’ordine bas<strong>il</strong>iano presso cui è ancora<br />

viva la tradizione del canto bizantino, avevano voluto mostrargli quel manoscritto<br />

redatto, egli dice, circa settecento anni prima del momento dell’incontro<br />

(ergo nel nono-decimo secolo d.C.) e in cui erano trascritti molti inni su<br />

otto linee, non su cinque.<br />

Con Gal<strong>il</strong>ei e con Kircher ci troviamo quindi dinanzi a due casi sim<strong>il</strong>i: trascrizioni<br />

certamente bizantine d’antiche musiche greche e sappiamo quanto la cultura<br />

contemporanea sia in debito per gli accurati lavori compiuti nel “Greco<br />

impero”. 9 Sta di fatto che molti f<strong>il</strong>ologi e grecisti, per giusta prudenza, usano<br />

due pesi e due misure perché nel caso di Kircher, non essendosi trovato l’originale,<br />

parlano apertamente di contraffazione.<br />

Personalmente non ne sarei tanto sicuro. Credo che <strong>il</strong> gesuita abbia effettivamente<br />

avuto tra le mani un libro di inni, quello su cui dubiterei è la datazione,<br />

sapendo quanto egli fosse poco attento al riguardo, come dimostra <strong>il</strong> caso dell’Asclepio<br />

e degli Hermetica che egli faceva risalire al mitico Ermete Trismegisto,<br />

mentre <strong>il</strong> Casaubon aveva già dimostrato l’inconsistenza di tale attribuzione.<br />

Ma di Kircher non ci si libera fac<strong>il</strong>mente perché l’uomo, con le sue contraddizioni,<br />

ha dei tratti d’altissimo genio e le sue luci e le sue ombre non sono esclusivamente<br />

personali. Nei suoi libri la difformità dello st<strong>il</strong>e latino lascia intravedere<br />

più mani all’opera. Le sue erano posizioni largamente dibattute all’interno<br />

della Compagnia di Gesù, che sottoponeva ad attenta verifica i libri dei propri<br />

membri.<br />

Abbiamo parlato dei meriti di Kircher nell’egittologia e nella vulcanologia e,<br />

senza voler cadere nell’errore dei suoi fautori - di affermare con Antonio “For<br />

Brutus is an honourable man, So are they all, all honourable men” 10 - bisogna<br />

dire che anche in campo musicale molti riconoscono al sapiente gesuita grandi<br />

virtù, non ultima quella di altissima testimonianza della scuola musicale romana<br />

e della pubblicazione f<strong>il</strong>ologicamente corretta, riscontrata su altri manoscritti<br />

esistenti, di un famoso oratorio di Giacomo Carissimi, lo Jephte. Ciò non<br />

basterebbe a stab<strong>il</strong>ire l’autenticità della melodia dell’ode pitica, ma rende meno<br />

aprioristicamente scettici su quanto da lui pubblicato.<br />

Marchingegni e artifizi ad esempio, da lui inventati, che oggi potrebbero sembrare<br />

vacui sogni barocchi, come le cassette matematiche, hanno una invece<br />

72


loro perfetta ut<strong>il</strong>ità. Mara Miniati, del Museo della scienza di Firenze, descrive<br />

nei dettagli l’uso dell’unico originale a noi pervenuto. Si trattava di uno strumento<br />

da consultare con l’aiuto di un manuale di riferimento, un po’ come <strong>il</strong><br />

sestante e le tavole delle effemeridi. Permetteva di compiere una serie di operazioni<br />

complesse: matematiche, algebriche, astronomiche … musicali. Spostando<br />

delle barrette inserite in nove differenti alloggiamenti, con un funzionamento<br />

sim<strong>il</strong>e a quello di un regolo matematico, si ottenevano le relative risposte.<br />

L’ultima f<strong>il</strong>a della cassetta, ideata per soddisfare le necessità di un sovrano e<br />

<strong>il</strong> poco tempo a lui riservato per apprendere, concerneva la musica. Grazie alla<br />

combinazione corretta dei “bacoli musurgici” tutti avrebbero potuto scrivere e<br />

apprendere differenti st<strong>il</strong>i, anche in quelli dell’antica Grecia.<br />

Giancarlo Bizzi, in Enciclopedismo e Roma barocca 11 definisce la Musurgia universalis<br />

uno straordinario viaggio nell’universo dei suoni e delle macchine<br />

sonanti e dedica un interessante articolo alla tabula mirifica, omnia contrapunctisticae<br />

artis arcana rivelans. Bizzi dimostra come questa Tabula mirifica sia uno<br />

schema logico-assiomatico che contiene in sé la rete delle relazioni possib<strong>il</strong>i tra<br />

i suoni. Non sono in grado di seguire le sue dimostrazioni ma so che Pierre Boulez<br />

era fortemente attratto da questo aspetto della musicologia kircheriana.<br />

Come dimostrano questi due esempi egli comunque aveva una tale padronanza<br />

della tecnica musicale e delle matematiche combinatorie da poter proporre e<br />

produrre musiche derivanti da algoritmi o da schemi logico-assiomatici, procedura<br />

mutuata in seguito dal grande Bach.<br />

Vediamo quindi quasi due partiti contrapporsi: da un lato i grecisti, come <strong>il</strong><br />

grande Bruno Gent<strong>il</strong>i che negli atti del convegno internazionale sulla musica<br />

antica tenuto ad Urbino nel 1985, dichiara che la melodia dell’ode pitica è un<br />

falso 12 , dall’altro i musicisti. Gent<strong>il</strong>i poi nell’edizione valliana delle Pitiche di<br />

Pindaro, nel vasto apparato di note di corredo, non ritiene neanche necessario<br />

citare l’esistenza di questo falso che, comunque viene sempre riproposto nelle<br />

edizioni di musica greca, almeno nelle due che sono riuscito a trovare.<br />

Diversi i giudizi dei musicisti 13 che, più attenti all’aspetto estetico, restano affascinati<br />

dal frammento edito da Kircher. Carlo Del Grande nel suo Dizionario<br />

della musica e dei musicisti ritiene che <strong>il</strong> brano edito dal gesuita “in quanto melodia<br />

è bella e degna di Pindaro” 14 . Potremmo concludere con queste parole e con<br />

quello che dice Vlad al riguardo. “La melodia in questione è davvero bellissima<br />

ed essere stato capace di inventare una melodia degna di Pindaro è di per sé un<br />

titolo di gloria tale da compensare ogni accusa di falso”.<br />

Non sapremo mai se Kircher veramente vide quest’antica testimonianza della<br />

musica greca nel convento di Messina. Forse la famosa ode pitica non è che una<br />

delle tante applicazioni della sua tabula mirifica, un geniale esperimento di arte<br />

combinatoria. Ma saremmo oggi, con tutti i nostri strumenti elettronici, capaci<br />

di padroneggiare con eguale maestria lo sterminato universo dei suoni?<br />

73


Note:<br />

1. Musurgia universalis, sive Ars magna consoni et dissoni in X. Libros digesta. Qua universa<br />

Sonorum doctrina, et Ph<strong>il</strong>osophia, Musicaeque tam theoricae, quam practicae<br />

scientia, summa varietate traditur, admirandae Consoni, et Dissoni in mundo, adeòque<br />

universâ naturâ vires effectusque, uti noua, ita peregrina variorum speciminum exhibitione<br />

ad singulares usus, tum in omnipoenè facultate, tum potissimùm in Ph<strong>il</strong>ologià,<br />

Mathematicà, Physicà, Mechanicà, Medecinà, Politicà, Metaphysicà, Theologià, aperiuntur<br />

et demonstrantur. Tomus I. Romae, ex typographia haeredum F. Corbelletti, Anno<br />

Jub<strong>il</strong>aei 1650. 2 vol. In-fol. , 690 pp. tavv., <strong>il</strong>l..-Tomus II. Qui continet In Lib. VII. Musicam<br />

Mirificam. In Lib. IX Magiam Consoni et Dissoni, in Lib X. Harmoniam Mundi, Romae,<br />

Typis Ludovici Grignani, 1650. In-fol.,462 pp<br />

2. Le opere edite di Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei sono le seguenti: Intavolatura del liuto, 1563, Fronimo,<br />

I ed. 1568, Primo libro di Madrigali a quattro e cinque voci, 1574, Dialogo della musica antica<br />

e moderna, 1581 Firenze. Nel Dialogo della musica antica et della moderna alle pp.96-97<br />

editò gli inni attribuiti al musicista cretese Mesomede, musicista alla corte di Adriano (II sec.<br />

d.C), ritrovati in un codice della “libreria del cardinal Sant’Angiolo a Roma”.<br />

Le maggiori opere di storia della musica che trattano del periodo greco, come la New<br />

Oxford History of Music, a cura di Egon Wellesz (la sezione dedicata alla musica greca è<br />

a firma di Isobel Henderson), annoverano tra i frammenti di musica ellenica anche questi<br />

testé citati. Kircher compì nella Musurgia universalis (Roma 1650) un’operazione non<br />

dissim<strong>il</strong>e stampando <strong>il</strong> testo e la melodia della prima ode pitica di Pindaro, dando luogo<br />

però ad una infinità di diversi pareri, a tal punto divergenti che un famoso musicologo,<br />

R.P. Winnington-Ingram in un articolo uscito nel 1958 su “Lustrum” elencava una pagina<br />

intera di studiosi che dibattevano sull’autenticità o meno del frammento musicale edito<br />

dal gesuita.<br />

3. Sergio Donadoni, I geroglifici di Athanasius Kircher, pp.101-110, p. 104, in Athanasius<br />

Kircher. Il Museo del Mondo. Macchine, esoterismo, arte, catalogo a cura di E. Lo Sardo,<br />

Edizioni De Luca, Roma 2001, della mostra tenuta a Roma, Palazzo di Venezia, nel feb.apr.<br />

2001. Del resto con <strong>il</strong> suo dizionario arabo-copto-latino è considerato oggi dagli egittologi<br />

l’iniziatore della loro disciplina e <strong>il</strong> nostro Sergio Donadoni scrive al riguardo che<br />

<strong>il</strong> Kircher nella sua grandiosa opulenza barocca tentò di “dar voce all’ineffab<strong>il</strong>e, di cogliere<br />

nel passato la potenzialità di un futuro”.<br />

4. Mario Baroni, Enrico Fubini, Paolo Petazzi, Piero Santi, Gianfranco Vinay, Storia della<br />

musica, Torino, Einaudi 1988, testo di Baroni, p. 119.<br />

5. Dialogo, cit. ed. 1581, pp. 96-97. Scrive al riguardo Kircher: “Duplicemque signorum<br />

characterum, notarumque ordinem servat: primus ordo significat characteres, qui cantui<br />

voce perficiendo servirent; secundus ordo instrumentis competit, ea fere ratione, qua<br />

etiamnum, notae musicae vocalis distinctae sunt a notis, quas tabulaturas vulgo vocant<br />

musicae instrumentali servientibus, quem ordinem Alipij multi non intelligentes binas<br />

hasce notas pro una sumentes, uti Liardus, et ex eo salomon Caus specimina, quae mundo<br />

exhibere voluerunt, antiquae musicae vitiosissime et falsissime reddiderunt”. Musurgia<br />

univeralis, cit., p. 540.<br />

6. “Inveni autem hoc musicae specimen, ut alias memini in celeberrima <strong>il</strong>la totius Sic<strong>il</strong>iae<br />

Bibliotheca monasterij S. Salvatoris iuxta Portum Messanensem in fragmento Pindari<br />

antiquissimo, notis musicis veterum Graecorum insignito, quae quidem notae, sive characteres<br />

musici cum iis, quos Alypius in tono Lydio exhibet sunt iidem; verba odes Pindaricae<br />

notis musicis veteribus usitatis expressa sequuntur; tempus non notae; sed<br />

quantitas syllabarum dabant “, Musurgia universalis, cit. p. 541.<br />

< Athanasius Kircher, antiporta da De Sepi, Romani Collegii, 1678.<br />

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7. Maria Bianca Foti, in particolare in I codici bas<strong>il</strong>iani del Fondo del SS. Salvatore. Catalogo<br />

della Mostra, Messina 1979.<br />

8. Pp. 212-213.<br />

9. Raffaele Cantarella scrive nell’edizione da lui curata dei Tragici greci edita da Mondadori<br />

a proposito dei ritrovamenti papiracei e delle trascrizioni medievali :”E tuttavia, dopo<br />

i comprensib<strong>il</strong>i entusiasmi dei primi ritrovamenti, abbiamo avuto conferma che la qualità<br />

dei testi medievalli più autorevoli non è, in generale, inferiore a quella dei papiri: ciò che<br />

testimonia gli alti meriti f<strong>il</strong>ologici dei dotti bizantini”. P. LIII.<br />

10. W. Shakespeare, Julius Caesar, atto III, scena II, l. 79.<br />

11. In Enciclopedismo e Roma barocca: Athanasius Kircher e <strong>il</strong> Museo del Collegio Romano<br />

tra Wunderkammer e Museo scientifico, a cura di Mariastella Casciato, Maria Grazia<br />

Ianniello e Maria Vitale, Venezia, Mars<strong>il</strong>io 1986.<br />

12. Come dimostrato da A. Rome, secondo Gent<strong>il</strong>i (in La musica in Grecia, a c. di B. Gent<strong>il</strong>i<br />

e R. Pretagostini, Roma - Bari, 1988, p. VI n 1), nel 1932 in Les études classiques, I,<br />

1932, pp.3-11 e IV, 1935, pp. 337-350, cfr. Vlad, infra.<br />

13. Vedi al riguardo gli articoli apparsi di recente in due opere a cura di chi scrive: R. Zarpellon,<br />

La musica degli affetti, in Il Museo del Mondo, cit., pp. 261-276 e R. Vlad, Kircher<br />

sapiente musicologo, in Iconismi e Mirab<strong>il</strong>ia da Athanasius Kircher, Edizioni dell’Elefante,<br />

Roma 1999, pp. 63-67. All’articolo di Vlad devo molte delle informazioni sulle opinioni<br />

di musicologi e musicisti sull’Ode pitica di Kircher.<br />

14. Cit. in Vlad, p. 65, vedi supra.<br />

76


Indice<br />

Grecia · Cividale del Friuli, 20 luglio 2001 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7<br />

Introduzione · Salvatore Settis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11<br />

Musica e poesia in Grecia · Maria Chiara Martinelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19<br />

‘Spartiti musicali’ nella Grecia ellenistica:<br />

pluralità delle occasioni del canto · Carlo Pernigotti e Luisa Prauscello . . . . . . . . 29<br />

Iconografia musicale · François Lissarrague . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39<br />

Gli strumenti musicali dell’antica Grecia · Michael Stüve . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55<br />

Vincenzo Gal<strong>il</strong>ei, Athanasius Kircher<br />

e la musica greca · Eugenio Lo Sardo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67<br />

79


Finito di stampare<br />

nel mese di febbraio dell’anno 2002<br />

dalla Stella Arti Grafiche di Trieste

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