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OPENGATE NUMERO 3 OTTOBRE 2005 LE PORTE DELLA BELLEZZA 20 Bryce Dallas Howard Bryce Dallas Howard di persona esprime lo stesso carisma che sul grande schermo. Nel film The Village - il capolavoro del regista M. Night Shyamalan - la rossa protagonista cresciuta artisticamente sulla scena teatrale newyorkese interpreta una ragazza cieca, figlia del leader spirituale di un villaggio perso nei boschi dell’America del Nord. Un film d’esordio complesso e intenso per una figlia d’arte: suo padre, infatti, è Ron Howard, mentre il suo padrino è Henry Winkler, ovvero Fonzie della serie Happy Days. Eppure Bryce, a differenza di tante sue omologhe, non ha mai chiesto aiuto ai suoi genitori. Scelta da Shyamalan che l’aveva vista a teatro, è stata chiamata a sostituire nientedimeno che Nicole Kidman in Manderlay, nuovo film del capriccioso e geniale Lars Von Trier. Che effetto le ha fatto il suo primo film? Un sogno diventato realtà. Un’esperienza diventata magica. Night è stato per me una specie di angelo che ha trasformato la mia vita in qualcosa di fantastico. Do grande valore al tempo trascorso con lui sia come regista che come amico. Di Marco Spagnoli Come è stata scelta? Recitavo a New York in Come vi pare nel ruolo di Rosalinda. Night è venuto a vedermi senza che lo sapessi e dopo tre settimane mi ha invitato a pranzo per offrirmi il ruolo senza alcun provino. È stato un miracolo. Un miracolo? Sì, certamente, perché quasi sempre nella vita di un attore si immagina che un giorno qualcuno arriverà per proporti la parte dei tuoi sogni. Purtroppo il più delle volte questo non succede e io mi ritengo estremamente fortunata. Anche con Lars Von Trier ho avuto la parte grazie alla stessa commedia in cui mi ha notato Night. Momenti critici ? Per un attore il momento più difficile è quello dell’attesa. Quando leggi la sceneggiatura e affronti la parte tutto diventa più semplice, perché è ciò per cui sei nato. Privarsi dell’uso dello sguardo per recitare equivale ad essere un’attrice con un handicap… Per tutta la durata delle riprese mi dicevo: non vedo l’ora di girare un film in cui possa usare i miei occhi. Sarebbe tutto molto più facile. Come attrice so come atteggiare il volto per esprimere i sentimenti del mio personaggio. Tuttavia è stata una grandissima lezione potere fare affidamento solo su quello che senti. Ho incontrato molte persone nell’Istituto Lighthouse di New York per i non vedenti. Io stessa passavo circa novanta minuti al giorno completamente bendata. Volevo riportare l’esperienza della cecità non come un handicap. Night voleva che il mio personaggio fosse principalmente una ragazza forte, romantica, ma anche un mezzo
dre, non starebbe facendo un grande servizio ai suoi lettori. Il suo ruolo è quello di una donna leader… I timori possono annichilire le persone. Ivy è la dimostrazione che si riesce a non essere controllati dalle proprie paure. Una donna è un leader migliore? Non necessariamente. Io stessa maschiaccio che - tra l’altro - fosse anche cieca. A questo si accompagna anche un uso particolare della voce… È vero: per me l’utilizzo della voce è un modo per arrivare alla vita emotiva del personaggio. Volevo trovare un registro più profondo per fare in modo che la sua emotività venisse radicata nel suo linguaggio. Inoltre desideravo che potesse avere anche - di quando in quando - anche un tono più giocoso. Parliamo della paura… Mi sono preparata sulla paura stando per una settimana in una sorta di campo di addestramento con gli altri attori. Eravamo nei boschi e io - ogni tanto - di notte mi alzavo per andare a fare una passeggiata bendata. Un’esperienza terrorizzante, ma - del resto - in quel periodo tutti gli attori si sono confrontati con il senso delle proprie angosce. Cosa si prova a ‘sostituire’ Nicole Kidman? Nicole Kidman è insostituibile. Manderlay è il secondo atto di una trilogia, non un sequel. È un film indipendente e quindi è abbastanza normale che ci sia un'altra attrice. È vero: il mio ruolo è lo stesso di quello interpretato dalla Kidman ma nel contempo è completamente diverso, è un'altra faccia di Grace, così come io sono diversa da lei. Non le pesa essere citata sempre come la figlia di Ron Howard? Ho lavorato per un po’ per Vanity Fair e - come ex giornalista - capisco il senso di tutto questo. Se un giornalista non menzionasse il fatto che sono la figlia di mio pa- trovo abbastanza sorprendente che Night abbia messo proprio una donna al centro del suo film. Una scelta insolita. Ad ogni modo diciamo che il genere non c’entra. Quello che conta è l’anima della persona. 21 OPENGATE NUMERO 3 OTTOBRE 2005
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