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2. La percezione del suono musicale

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T. Pecker Berio, Fondamenti <strong>del</strong> linguaggio <strong>musicale</strong> a.a. 2008-2009 / <strong>2.</strong> <strong>La</strong> <strong>percezione</strong> <strong>del</strong> <strong>suono</strong> <strong>musicale</strong><br />

Il paragone con la pittura si rivela di nuovo istruttivo per illustrare la prevalenza <strong>del</strong> tempo sullo<br />

spazio nella <strong>percezione</strong> <strong>del</strong>l’evento sonoro. Il quadro è fisso davanti a noi; man mano che ci<br />

allontaniamo ne perdiamo i dettagli, i precisi contorni, la chiarezza dei colori. Lo spazio in cui il<br />

quadro è esposto non lo conduce come condurrebbe il <strong>suono</strong>. Il quadro non vibra, non può essere<br />

amplificato (in questo contesto potremmo suggerire un altro paragone, che riguarda l’animazione e<br />

poi il cinema, che sono un modo di far vivere l’immagine nel tempo, di dotarla di movimento e di<br />

‘amplificarla’).<br />

Ma vi è di più: Per percepire i rapporti formali, prospettici e simbolici di un dipinto, noi operiamo<br />

spontaneamente e simultaneamente un’analisi e una ‘traduzione’ (o trasposizione) <strong>del</strong>lo spazio<br />

figurato. Recepiamo le distanze e i confini nominali che il quadro presenta tra i colpi di pennello e<br />

tra una figura e l’altra, e li traduciamo in termini di spazio reale: quello spazio che il quadro viene a<br />

rappresentare o a figurare. Nell’ascolto ciò non succede; non può succedere per l’ovvia assenza di<br />

elementi figurativi, ma non succede neanche metaforicamente: <strong>La</strong> moltiplicazione <strong>del</strong> <strong>suono</strong> nella<br />

grande orchestra, la sua amplificazione attraverso la riproduzione stereofonica (e oggi con la vera e<br />

propria spazializzazione <strong>del</strong> <strong>suono</strong> con mezzi tecnologici e informatici) partecipano all’evento<br />

sonoro, incidono sulla sua proiezione e sulla sua qualità inducendo nell’ascoltatore una netta<br />

consapevolezza <strong>del</strong>lo spazio, ma non variano la sua sostanza primaria che giunge alla nostra<br />

<strong>percezione</strong> in quanto tale.<br />

Un esempio concreto, valido sia per la musica ascoltata dal vivo sia (seppure in misure minore) per<br />

la musica riprodotta. Se ascoltiamo la stessa musica in luoghi diversi (o tramite diversi mezzi di<br />

diffusione), oppure se cambiamo posto, allontanandoci dal palcoscenico di una sala da concerto, in<br />

un teatro d’opera o all’aperto, ci rendiamo conto che la sonorità cambia: può variarne (non sempre<br />

diminuendo!) l’intensità, il riverbero, la plasticità dei singoli ‘colori’ (torneremo a parlare di questa<br />

affascinante e ambigua qualità <strong>del</strong> <strong>suono</strong>, che è il timbro), e ancor’altri aspetti; ma non cambia la<br />

sostanza <strong>del</strong>la musica. Il messaggio sonoro ci giunge nella sua essenzialità, qualunque sia (e<br />

ovunque siamo situati ne) lo spazio nel quale esso viene riprodotto.<br />

Il senso di distanza può essere evocato con mezzi sonori (ad esempio le trombe fuori scena nelle<br />

sinfonie di Mahler, o il dialogo tra corno inglese e l’oboe fuori scena nel terzo movimento <strong>del</strong>la<br />

Symphonie fantastique di Berlioz), ma si tratta piuttosto di un effetto rivolto all’immaginazione<br />

poetica altrettanto, se non più, che all’udito. Infatti, nell’ascolto di una registrazione di simili<br />

momenti, l’operazione perde effetto e può sembrare una semplice riduzione d’intensità.<br />

Un altro paragone, sempre con fenomeni visivi: un oggetto può essere ‘barrato’ o nascosto dalla<br />

presenza di un altro; un <strong>suono</strong> - no. Il <strong>suono</strong> può essere attenuato, attutito, smorzato, sfumato; può<br />

essere assorbito da una massa di suoni che sembra cancellarlo, ma in realtà esso contribuisce alla<br />

formazione di tale massa e incide sulla sua qualità sonora. Finché risuona, il <strong>suono</strong> è udibile (anche<br />

se, per l’appunto, non sempre e necessariamente in maniera distinta). L’illustrazione più diretta di<br />

questa fondamentale differenza tra <strong>suono</strong> e immagine sta nel fatto che basta chiudere gli occhi per<br />

non vedere, mentre per non udire non basta tappare le orecchie...<br />

Un oggetto è detto opaco quando blocca il passaggio <strong>del</strong>la luce. Un <strong>suono</strong> non può bloccare il<br />

passaggio <strong>del</strong>le onde sonore di un altro <strong>suono</strong>. Un <strong>suono</strong> può essere descritto come opaco soltanto<br />

metaforicamente. Quando definiamo “opachi” o “densi” gli accordi che aprono il primo episodio<br />

(“Gli auguri primaverili”) <strong>del</strong>la Sagra <strong>del</strong>la primavera di Igor Stravinsky, prendiamo in prestito<br />

termini che nei campi <strong>del</strong>la vista e <strong>del</strong>la fisica hanno una valenza precisa, scientifica. Senza il<br />

sussidio <strong>del</strong>la metafora sarebbe molto difficile descrivere verbalmente simili oggetti sonori e<br />

l’esperienza <strong>del</strong>l’ascolto in generale.<br />

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