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Anno XXVII - n° 2 - Ottobre 2010 - Attivecomeprima Onlus

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Ho sempre portato avanti la convinzione che ogni persona, in queimomenti così complicati e dolorosi, deve essere libera di dire quelloche sta provando e pensando, che non sta facendo una scena,come invece pensano molti miei colleghi medici. Se quando sei malatohai bisogno di sincerità è perché senti di dover magari metterea posto delle cose, in quanto forse a Gennaio non ci sarai più. E nonlo fai per sentirti dire “Ma no, non pensare a queste cose, vedraiche andrà tutto bene...”.È vero, non è facile trovare il tempo, ma cerco di ricordarmi che cosami hanno raccontato i pazienti, le loro storie familiari, le loro difficoltàe questo mi serve per capire di cosa ha bisogno quella specificapersona. Una cosa che a loro piace molto, è condividere l’emozionedella risposta alle terapie, cosa che fa piacere anche a noi medici se,a maggior ragione, ci sentiamo di averli aiutati nel modo migliore.La cosa che fa più paura non è la malattia, quello che fa più pauraè il dolore; il collegamento fatto non solo dal paziente, ma anche daiparenti è che il cancro sia legato all’esperienza del dolore. Quindi èl’occasione per parlare da subito delle cure palliative, ma dico ancheche non è scontato, che la terapia può funzionare bene e che questepreoccupazioni possono essere inutili o premature.Come riesce a dare speranza?Questa è una domanda che mi piace tantissimo perché è una dellecose che ho cambiato, dopo la mia personale esperienza di malattia.Forse ero molto più brava prima a dare speranza; adesso sono piùrealista e quindi parlo con più facilità al paziente di come stannoveramente le cose.Sono convinta che saperlo, anche se può far male (ed è quello che hovoluto per me) aiuti a mettere a posto delle cose, prima che succedaqualcosa di irreparabile. Credo che questo sia un grande rispettoper l’altra persona perché gli si dà la possibilità di organizzarsi e diagire. In questo mio modo di comunicare al paziente, c’è però ancheil messaggio che, sempre e comunque, saremo insieme e che ogniproblema che si presenterà, lo risolveremo in due. Non vuol dire “tifaccio guarire”, ma cercheremo, in tutti i modi, di non soffrire e distare il meglio possibile.Viene accettato meglio questo modo di comunicareo quello che aveva prima?Non lo so, mi sembra uguale, non è cambiato molto. Non ho trovatopeggioramenti, Devi mandargli bene il messaggio, ad esempio ildiscorso della cronicizzazione, che può diventare una malattia comeil diabete, che l’hai per tutta la vita. Questo rende più facile il dialogo.È un po’ meno facile con i parenti, perché per loro è più complicatorapportarsi con una persona cara che sa la verità. La vivono megliodopo, ma all’inizio relazionarsi con qualcuno che ti dice: “Guarda cheforse morirò”, “Il mio cancro è brutto” è spiazzante. È molto piùfacile avere un medico che rassicuri, che dica che tutto è andato benee che non succederà più nulla.Cosa le ha tolto e cosa le ha dato questa esperienza?Mi ha tolto alcune cose, per esempio alcune amicizie; amicizie travirgolette, perché io consideravo amicizia quello che poi invece si èspento nel tempo. Mentre mi ha dato altri rapporti che io pensavosuperficiali e che sono diventati importanti. Una persona che io frequentavoin modo superficiale, la mamma di un compagno di scuoladi mio figlio, mi ha accompagnato a comprare la parrucca, un gestoche io reputo importantissimo perché non è comprare la parruccasoltanto, ma stare due ore a dire: “stai bene, non stai bene”. Alcunirapporti li ho persi perché qualcuno fa fatica ad accettarti conla tua realtà. Mi ha dato una libertà estrema perché mi haliberato di una grossa paura, la paura della morte. Ho ancora imiei momenti di angoscia, non l’angoscia per la malattia, macapire che sei “finibile”, che ad un certo punto non ci sarai più;devi imparare a non schivare più certe paure, a fare delle scelte inmodo diverso... ecco la libertà. Alle volte scherzo e dico di esserecome il Grillo Parlante che dice liberamente le cose che pensa, cheprende le “misure” in modo diverso. Ho così rapporti più puliti, chenon nascono dal bisogno o dall’aiuto pratico, ma chi veramente mivuol bene mi segue in tutta la mia strada, anche se non condivide,perché l’amicizia, in fondo, è questo, tu puoi dire “io non la pensocome te, ma ti aiuto”.Quello che mi ha tolto forse è la tranquillità per il futuro delle personevicine a me. In casa mia, il tumore alla mammella è ubiquitario, c’èsempre stato in quasi tutte le generazioni, mia mamma era costantementemalata, o meglio costantemente terrorizzata dal tumore dellamammella e, quando le è davvero venuto, sono spariti tutti gli altrisintomi. Ero io il suo medico curante e questo mi ha messo in unacondizione pesante. Ha avuto 2 tumori, ma è morta di infarto. Noiabbiamo vissuto molto male e quando anche mia sorella più giovaneha avuto il tumore al seno, ha seguito la stessa strada in modoincondizionato, cioè si è messa in mano a me. È stato pesantissimo,una grandissima responsabilità ancora, anche perché non ha maimesso in discussione nessuna delle scelte fatte, mai voluto chiederealtri pareri. Ormai sono passati 12 anni, ma lo ricordo ancora comeun periodo molto stressante. Il problema più grosso è stato con miamamma che si è sentita portatrice della malattia, e che ha vissutodicendo “guarda che cosa vi ho dato”, cosa che io sto vivendoun pochino con mia figlia. Forse questa è la cosa più brutta che stovivendo in questo momento, l’apprensione. Abbiamo messo tutte lenostre figlie in pre-allarme in quanto mia sorella ha 2 femmine comemio fratello, mentre io ne ho una sola e un figlio maschio. Devono tuttitenersi controllati, anche se in modo diverso.Come ha comunicato con suo marito, con i suoi figlie con i suoi fratelli?Con molta fatica, perché non ho voluto nascondere la realtà.Mia figlia l’ho messa in mano ad un collega e quello che faccio ècercare di farle esempi di esiti buoni.Io e mia sorella abbiamo deciso che purtroppo questa cosa sarebbestata la nostra eredità e la condividiamo; ci siamo molto avvicinate.Con mio figlio, che aveva 24 anni, è stata molto dura, ha smesso distudiare, si è chiuso in casa, non parlava assolutamente del problema,dovevo stare attentissima solo se dicevo che avevo mal di testa.Ho deciso di contattare un gruppo di psicologi per questo.Mio marito è stata una presenza costante. Anche lui è oncologo, èstato presentissimo nel senso fisico del termine e mi ha aiutata moltoper le cose pratiche, mi aiuta a ricordarmi le medicine, ma non è maiintervenuto nelle mie scelte riguardo alle terapie e non ne parla mai.Ha lo stesso atteggiamento di mio figlio, hanno come una cappa cheli isola da quanto sta accadendo. Credo che se ad un certo puntoriuscissero a parlarne, diventerebbe tutto più normale.Per me è andata bene così, perché come non volevo dai colleghidei suggerimenti, non lo volevo neanche da lui. Però se ci penso, èsempre stato così per tutte le cose della nostra vita, abbiamo stipulatoun tacito accordo. Io voglio avere la responsabilità di sbagliare e nondarla a nessun altro.Come riesce a non identificarsi troppo quando ha davanti a séun paziente che sta male, o che è peggiorato?Questa è la mia più grossa fatica, nel senso che non è la malattia nellaquale mi identifico, ma nel modo che la persona ha nell’interpretarla.Se vedo pazienti che buttano via la vita, lunga o corta che sarà... chesi lasciano andare e si commiserano, persone alle qualicerco di dare un pezzo in più di vita da vivere, lasciarselascivolare addosso, divento cattiva, e mi viene voglia digridare loro “Guarda che possiamo vivere lo stesso, pienamentee bene, anche se non sappiamo per quanto!”.9Info autorePaola Bertolotti. Psicologa e psicoterapeuta.Conduce in Associazione i gruppi di sostegno psicologico “Riprogettiamo l’esistenza” e “Decido di vivere”.

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