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Un giorno sbagliai i miei calcoli. Avevo atteso il silenzio
dopo lo stridio degli ingranaggi nella toppa. Ma muti e
felpati erano stati i passi scalzi di Lei. Furono la prima cosa
che notai, indelebile istantanea impressa nella mia retina.
Quei piedi snelli, dalle unghie smaltate di un rosa
madreperlaceo, avvitati su caviglie eleganti, morbidi, ma
con tendini tesi come spilli sottopelle e la pianta appena
accennata del piede orrendamente callosa, macchiata da
sporcizia esaltata dal bianco freddo della pelle.
Ricordo. Io, tutta scura, ma lucente, immobile. Lei, che se
ne accorge, che mi vede. Il suo volto che si sfregia in una
maschera disumana, le pupille che scompaiono nell’orrore,
la bocca che si storce in un grido di disgusto. E quel verso di
rabbia inorridita che mi fa scattare immediatamente dentro,
come ustionata. Nascondo mio figlio. Siamo stati scoperti.
La sentii urlare dal piano di sopra, un frastuono terribile, un
vero baccano. I suoi ruggiti rimbombavano come esplosioni
in tutto il nostro piccolo seminterrato e io non sapevo dove
trovare rifugio. Mi tenevo stretta al frutto della mia carne e
pregavo. Avevo colto in Lei l’incendio dell’odio, la superbia
della superiorità della razza. Ora avevo la conferma che ai
loro occhi saremo stati soltanto occupanti abusivi,
clandestini immondi.
La sera, tornato il mio compagno, cercai di convincerlo a
scappare. Sapevo che il nostro destino era quello dei
condannati ingiustamente, dei fuggitivi che si illudono di
trovare un luogo ospitale per poi scoprirlo infestato. Riuscì
a dissuadermi dal compiere una fuga precipitosa. Avremmo
finito le scorte che avevamo accumulato e poi saremmo
partiti l’indomani.
La luce che filtrava dalla finestra mi svegliò un’ultima volta
da una notte convulsa. La guardai illuminare le nostre
poche cose, il nostro giaciglio e gli ultimi cereali per la
colazione.
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