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la vita cronica - Odin Teatret

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LA VITA CRONICA<br />

Dedicato a Anna Politkovskaya e Natalia Estemirova<br />

scrittrici russe in difesa dei diritti umani, assassinate da sicari nel 2006 e 2009<br />

per <strong>la</strong> loro opposizione al conflitto ceceno.<br />

Testi: Ursu<strong>la</strong> Andkjær Olsen e <strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> - Attori: Kai Bredholt, Roberta<br />

Carreri, Jan Ferslev, Elena Floris, Donald Kitt, Tage Larsen, Sofía Monsalve, Iben<br />

Nagel Rasmussen, Fausto Pro, Julia Varley - Dramaturg: Thomas Bredsdorff<br />

Consulente letterario: Nando Taviani - Disegno luci: <strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong><br />

Consulente luci: Jesper Kongshaug - Spazio scenico: <strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong><br />

Consulenti spazio scenico: Jan de Neergaard, Antonel<strong>la</strong> Diana - Musica:<br />

melodie tradizionali e moderne - Costumi: <strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong>, Jan de Neergaard<br />

Disegni: Giulia Capodieci - Copertina: Peter Bysted - Direttore<br />

tecnico: Fausto Pro - Assistenti al<strong>la</strong> regia: Raúl Iaiza, Pierangelo Pompa<br />

e Ana Woolf - Regia e drammaturgia: Eugenio Barba.<br />

<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> ringrazia: Sergio Bini Bustric, Lena Bjerregaard, Hanne<br />

Bredholt, Philip Doo<strong>la</strong>n, Luca Ruzza e <strong>la</strong> mente collettiva di Wroc<strong>la</strong>w.<br />

<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong>: Eugenio Barba, Kai Bredholt, Roberta Carreri, C<strong>la</strong>udio<br />

Coloberti, Chiara Crupi, Jan Ferslev, Elena Floris, Lene Højmark, Nathalie<br />

Jabalé, Hanne Jensen, Donald Kitt, Søren Kjems, Tage Larsen, Else Marie<br />

Laukvik, Lai<strong>la</strong> Lehmann, Sofía Monsalve, Augusto Omolú, Pierangelo Pompa,<br />

Fausto Pro, Sigrid Post, Iben Nagel Rasmussen, Francesca Romana Rietti,<br />

Anne Savage, Mirel<strong>la</strong> Schino, Pushparajah Sinnathamby, Rina Skeel, Ulrik<br />

Skeel, Nando Taviani, Valentina Tibaldi, Julia Varley, Frans Winther.<br />

Una produzione Nordisk Teater<strong>la</strong>boratorium (Holstebro), Teatro de La Abadía (Madrid),<br />

The Grotowski Institute (Wroc<strong>la</strong>w).<br />

Primo spettacolo: 12 settembre 2011, Holstebro.


2<br />

Sullo spettacolo<br />

Personaggi:<br />

una Madonna Nera, <strong>la</strong> vedova di un combattente basco,<br />

una rifugiata cecena, una casalinga rumena, un avvocato danese, un<br />

- una Madonna Nera<br />

- un musicista rock delle isole Faroe<br />

musicista rock delle isole Faroe, un ragazzo colombiano che cerca suo<br />

- <strong>la</strong> vedova di un combattente basco - un ragazzo colombiano che cerca<br />

padre scomparso in Europa, una violinista di strada italiana, due<br />

- una rifugiata cecena<br />

- suo padre scomparso in Europa<br />

mercenari.<br />

- una casalinga rumena<br />

- una violinista di strada italiana<br />

- un avvocato danese<br />

- due mercenari<br />

L'azione si svolge contemporaneamente in Danimarca e in altri paesi<br />

d'Europa nel 2031, dopo <strong>la</strong> terza guerra civile.<br />

Individui e gruppi con retroterra diversi si ritrovano insieme e si scontrano<br />

pressati da guerre, disoccupazione, emigrazione. Che accade quando i nuovi<br />

venuti vogliono insediarsi in un paese straniero e far parte di una società che<br />

pensa di avere solide radici culturali? Quali incomprensioni e scoperte sorgono<br />

da questo confronto? Come si vive in un paese in guerra in cui i soldati si vedono<br />

solo quando tornano di lontano in una bara?<br />

Un ragazzo approda dall'America Latina nel febbrile carnevale delle civili<br />

contrade d'Europa. È al<strong>la</strong> ricerca di suo padre scomparso. È poco più di un<br />

bambino e ignora ciò che tutti sanno: che <strong>la</strong> <strong>vita</strong> è una ma<strong>la</strong>ttia <strong>cronica</strong> da cui<br />

il nostro pianeta con <strong>la</strong> sua storia non riesce a liberarsi. Tutti sanno che esistono<br />

mille porte che conducono al<strong>la</strong> libertà, e tutti alimentano questo loro sapere<br />

mangiando senza fame e bevendo senza sete. Tutti sanno che provengono da<br />

un grande passato, e da questa grandezza ognuno si ritaglia il suo brandello<br />

d'onore e d'identità.<br />

Rispondono alle domande del giovane straniero insegnandogli a sfuggire<br />

al peggiore dei vizi - <strong>la</strong> Speranza. "Smetti<strong>la</strong> di cercare tuo padre", gli sussurrano<br />

mentre lo accompagnano da una porta all'altra.<br />

Non è l'innocenza né <strong>la</strong> conoscenza a salvare il giovane. Scoprirà da solo<br />

<strong>la</strong> sua porta, tra lo sconcerto di noi tutti che non crediamo all'incredibile: che<br />

una vittima valga, da so<strong>la</strong>, più di ogni valore. Più di Dio.


4<br />

Eugenio Barba<br />

Incomprensibilità e speranza<br />

Mi è stato detto spesso che i miei spettacoli non sono molto comprensibili. Penso<br />

allora a una riflessione di Niels Bohr: il contrario del<strong>la</strong> verità non è <strong>la</strong> menzogna,<br />

ma <strong>la</strong> chiarezza. La verità è che a me in genere piace <strong>la</strong> chiarezza. Nei libri<br />

apprezzo <strong>la</strong> complessità, ma se sono irreparabilmente oscuri <strong>la</strong> noia si insinua.<br />

A teatro è diverso. Mi capita di guardare uno spettacolo comprensibile e di<br />

pensare a un panorama pietrificato: una distesa di ghiaccio. Vivo questa<br />

sensazione: un panorama immobile è un panorama disperato.<br />

Non c'è speranza quando si è convinti che non ci sia niente da fare. La<br />

disperazione, prima d'essere uno stato d'animo, è l'accettazione più o meno<br />

dolorosa dello status quo, l'ammissione delle forze in campo, di tutto quel che è<br />

evidente, giudizioso e al quale, in fin dei conti, ci sottomettiamo. La disperazione<br />

è l'inazione che deriva dall'intendere non solo bene, ma fin troppo bene quel che<br />

ci circonda, quel che sta dietro gli avvenimenti e quello che si prospetta davanti,<br />

nel futuro.<br />

Un misterioso legame lega <strong>la</strong> speranza all'incomprensibilità, mi dico. Forse<br />

non è un mistero, <strong>la</strong> speranza è solo un modo di conservare <strong>la</strong> possibilità di<br />

illudersi. A me sembra qualcosa di più: un'indecifrabile forza oscura che mi aiuta<br />

a vedere in dettaglio quello che voglio rifiutare, senza rifugiarmi nel<strong>la</strong> condanna<br />

generica e nel<strong>la</strong> rassegnazione. E senza illudermi d'aver trovato <strong>la</strong> chiave che<br />

rende chiaro ciò che invece sperimento come complessità che confonde.<br />

Mi piacerebbe che i miei spettacoli fossero come correnti di mare, non<br />

come panorami immobili.<br />

Ho appena terminato un altro spettacolo. Lo guardo, mi sembra diverso<br />

dagli altri. Una domanda mi angoscia: non sarà immobile?<br />

Compare nel<strong>la</strong> mia mente l'immagine di Fridtjof Nansen, scienziato,<br />

direttore dell'Ufficio Internazionale per i Rifugiati per <strong>la</strong> Società delle Nazioni,<br />

Premio Nobel per <strong>la</strong> pace. Morì settantenne nel 1930. Negli anni del<strong>la</strong> maturità,<br />

fu un esploratore po<strong>la</strong>re, il più creativo degli esploratori norvegesi. Le navi che si<br />

aprivano <strong>la</strong> strada verso il Polo Nord, nei lunghi mesi del gelo si trovavano<br />

imprigionate dai ghiacci. Non si poteva fare nul<strong>la</strong>. La so<strong>la</strong> speranza era riuscire a<br />

non soccombere e attendere il cambiamento del clima. Perché il tempo non è


immobile e anche <strong>la</strong> notte più lunga, come canterà Brecht, non è eterna. Nansen<br />

non si accontentò di attendere. Sognò a occhi ben aperti contro <strong>la</strong> disperazione.<br />

Sognò un controsenso: <strong>la</strong> navigazione di una nave imprigionata dai ghiacci<br />

invincibili. La sua nave si chiamava Fram (avanti), un nome che poteva<br />

trasformarsi in derisione. Nansen studiò i ghiacci; le condizioni del<strong>la</strong> resistenza<br />

psichica e fisica degli uomini al<strong>la</strong> morsa omicida delle stagioni ge<strong>la</strong>te; calcolò le<br />

correnti. Perché anche il mare ghiacciato si muove e muta. Si <strong>la</strong>sciò imprigionare<br />

dal gelo e sfruttò <strong>la</strong> sua lentissima, disperatamente lunga deriva. La trasformò in<br />

una paradossale navigazione apparentemente statica, pronto a riprendere<br />

l'iniziativa al primo cambio di stagione. Nansen è il grande maestro del<strong>la</strong> speranza<br />

profonda.<br />

Una nave presa dal<strong>la</strong> morsa del ghiaccio: faccio teatro per trasformar<strong>la</strong> in<br />

un minuscolo e precario isolotto di resistenza per me e per un pugno di compagni,<br />

attori e spettatori. Su quest'isolotto che mille sentieri di mare legano al<strong>la</strong><br />

geografia circostante, intessiamo spettacoli che paiono e sono oscuri. Tento di<br />

portare al<strong>la</strong> luce le forze buie che abitano in me, nel<strong>la</strong> mia biografia, nel<strong>la</strong> storia<br />

in cui sono immerso, nel<strong>la</strong> mia conquistata differenza, nelle differenze che altri<br />

hanno saputo conquistarsi. Vorrei ripagare gli spettatori del<strong>la</strong> fatica d'esser venuti<br />

a teatro facendo esplorare loro una nave incastrata nel ghiaccio, che sembra<br />

immobile, eppure si sposta, seguendo buie correnti sottomarine, tanto profonde<br />

che <strong>la</strong> loro esistenza sembra impossibile.<br />

Aldilà dello sciame effimero delle mille piccole speranze quotidiane, vi è <strong>la</strong><br />

speranza profonda, che sta oltre il confine del Grande Gelo e del<strong>la</strong> sua paura.<br />

Forse per tener viva <strong>la</strong> speranza profonda non c'è altro mezzo che guardar<strong>la</strong> dal<br />

suo rovescio, fissando <strong>la</strong> faccia buia del<strong>la</strong> sua negazione. Tener viva <strong>la</strong> speranza -<br />

negare <strong>la</strong> disperazione - è un'impresa difficile, e in certi momenti storici lo si sa<br />

fin troppo bene. L'azione dello sperare, infatti, è ardua quanto quel<strong>la</strong> del<br />

resistere. Significa reagire in prima persona, spesso con atti incomprensibili<br />

secondo i criteri del mestiere e le aspettative degli altri.<br />

Non bisogna <strong>la</strong>sciarsi ingannare dai titoli. Questo mio ultimo spettacolo, La<br />

<strong>vita</strong> <strong>cronica</strong>, non è uno spettacolo disperato. La speranza vi si annida dentro come<br />

il "sì " si annida nel "no".<br />

Senza speranza non si vive. Questo vuol dire che <strong>la</strong> speranza può essere una<br />

virtù o una condanna. Può nutrire illusioni mediocri, credenze perniciose e feroci.<br />

Può ispirare le "verità" che i diversi leader delle dottrine proc<strong>la</strong>mano eterne e che<br />

i filosofi chiamano "idoli del<strong>la</strong> tribù" o "menzogne <strong>vita</strong>li".<br />

Uno dei totalitarismi più raffinati del nostro tempo, mi scopro a riflettere,<br />

è l'obbligo del<strong>la</strong> chiarezza, il disprezzo per lo stato del non-capisco, <strong>la</strong> generale<br />

condivisa svalutazione dell'esperienza dell'incomprensione e dei suoi effetti<br />

5


segreti che spingono a scelte decisive nel<strong>la</strong> nostra <strong>vita</strong>. Il culto del<strong>la</strong> chiarezza,<br />

che servì a illuminare le menti, oggi contribuisce a ottenebrarle.<br />

Ogni volta che accendiamo <strong>la</strong> televisione, che apriamo un giornale o che<br />

ascoltiamo un politico o un esperto, il mondo ci viene presentato come qualcosa<br />

che è stato compreso e che può essere spiegato. Ogni informazione ci fornisce<br />

fatti coerentemente interpretati, commentati, pronti per essere c<strong>la</strong>ssificati.<br />

Oppure espone l'impaziente attesa del<strong>la</strong> soluzione degli enigmi del<strong>la</strong> politica e<br />

del<strong>la</strong> cronaca. Una spiegazione ci sarà. Se tarda a venire, il fatto lentamente<br />

finirà fra i rifiuti delle notizie inspiegate e quindi destinate all'oblio. Chi par<strong>la</strong> o<br />

scrive teme soprattutto di non esser chiaro. Il bisogno d'essere capiti ci spinge a<br />

occultare ciò che noi stessi sperimentiamo, ma non siamo in grado di<br />

comprendere a fondo. Persino nel comportamento linguistico, le espressioni che<br />

non possono essere chiaramente tradotte dall'una all'altra lingua vengono<br />

scartate. Il dono del<strong>la</strong> chiarezza perde vigore quando seppellisce il dono dell'ambiguità<br />

e l'esperienza del non afferrare tutto.<br />

Se mi domando: "Che cosa è il teatro?", posso trovare molte risposte bril<strong>la</strong>nti. Ma<br />

nessuna mi pare concretamente utile per agire nel mondo che mi circonda e per<br />

tentare di cambiarne almeno un piccolo angolo. Se invece mi domando in quale<br />

recinto paradossale dello spazio e del tempo si possano far affiorare le forze<br />

oscure che spadroneggiano nel<strong>la</strong> Storia e nell'interiorità dell'individuo, e come<br />

renderle percettibili nel<strong>la</strong> loro fisicità senza produrre violenza, distruzione e<br />

autodistruzione, <strong>la</strong> risposta mi appare evidente: è il recinto chiamato teatro.<br />

Ho fatto, fino ad ora, spettacoli che si riferivano ad avvenimenti ed esperienze<br />

del passato o del presente. Per <strong>la</strong> prima volta, La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong> è immaginata in un<br />

futuro prossimo, simu<strong>la</strong>to, simultaneo. La scena è <strong>la</strong> Danimarca e l'Europa: diversi<br />

paesi allo stesso tempo. La storia è quel<strong>la</strong> dei primi mesi dopo una guerra civile.<br />

Non è un'ambientazione credibile (anche se non tanto incredibile da essere<br />

conso<strong>la</strong>nte). Non è un insieme comprensibile.<br />

Molte voci, giorno e notte, con molti mezzi, pretendono di spiegarci i<br />

differenti perché del<strong>la</strong> storia che assedia le nostre vite e minaccia di trascinarle nel<br />

caos. Le risposte intelligibili fanno ammutolire le domande che ci riguardano profondamente,<br />

ne annacquano l'urgenza, diventano pillole tranquillizzanti. Lo sappiamo,<br />

ma non possiamo farne a meno. La finzione del<strong>la</strong> comprensibilità rassicura.<br />

Non credo che il mio compito nel teatro consista nel fornire un'interpretazione<br />

attendibile degli avvenimenti che altri hanno narrato. Non credo neppure<br />

che consista nel mostrare delle vie d'uscita dal<strong>la</strong> morsa in cui ci sentiamo intrappo<strong>la</strong>ti.<br />

Anche se volessi farlo, non ne sarei capace. Credo all'impegno verso un<br />

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altro compito: dare forma e credibilità all'incomprensibile e agli impulsi che sono<br />

un mistero anche per me, trasformandoli in una matassa di azioni-in-<strong>vita</strong> da<br />

offrire al<strong>la</strong> contemp<strong>la</strong>zione, al fastidio, al<strong>la</strong> ripugnanza e al<strong>la</strong> misericordia degli<br />

spettatori. Questo è l'impegno che mi costringe ancora al mestiere del teatro.<br />

Vorrei che questa matassa di azioni-in-<strong>vita</strong> infettasse <strong>la</strong> zona dove, in ciascuno di<br />

noi, <strong>la</strong> miscredenza si intreccia all'ingenuità.<br />

Si crede che uno spettacolo teatrale abbia innanzi tutto il compito di<br />

comunicare. È vero fino a un certo punto. Per me il suo compito primario consiste<br />

nel creare re<strong>la</strong>zioni e condizioni di <strong>vita</strong> potenziata. Per chi? Per lo spettatore, per<br />

l'attore?<br />

Tra le tante ripercussioni che amo del teatro, vi è il momento in cui fa<br />

capolino una domanda bizzarra: che cosa si nasconde in quel che sembra<br />

totalmente chiaro? La chiarezza è una forma di cecità, manipo<strong>la</strong>zione o censura?<br />

Ancora uno spettacolo incomprensibile? Vorrei che La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong> aprisse uno<br />

spiraglio nel magma buio e incandescente dell'individuo, e sul suo <strong>la</strong>borioso e <strong>vita</strong>le<br />

zigzag per liberarsi da un abbraccio ge<strong>la</strong>to: quello imp<strong>la</strong>cabile e indifferente del<strong>la</strong><br />

Gran Madre degli Aborti e dei Naufragi, Nostra Signora <strong>la</strong> Storia.<br />

Un avvocato danese (Tage Larsen): "Con emozioni assolutamente nuove, con sentimenti mai<br />

sentiti prima si deve edificare <strong>la</strong> patria." Foto: Rina Skeel


Eugenio Barba<br />

Il primo giorno<br />

(Dal mio diario) 16 settembre 2007: preso due decisioni. La prima l’ho chiamata<br />

L’interferenza del teatro. Quattro mesi senza viaggiare dedicati a un’attività<br />

tutta da inventare a Holstebro e vil<strong>la</strong>ggi dintorno. Come può l’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong><br />

interferire (sovvertire, creare Disordine, trasformarsi in un geyser di energia<br />

sotterranea) in ambienti guidati da programmi e obblighi prestabiliti (scuole,<br />

ospedali, chiese, fabbriche, prigioni)?<br />

La seconda decisione è più temeraria: un nuovo spettacolo con tutti gli<br />

attori. Sapremo ancora creare uno spettacolo insieme dopo tanti anni? Ho già il<br />

titolo: La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong>, il verso di una poesia di Paulo Leminski che Aderbal [Freire<br />

Filho] mi fece scoprire sorseggiando un bicchiere di Tanat uruguayano. Per ora il<br />

titolo di <strong>la</strong>voro sarà XL, Extra Large.<br />

Ho telefonato subito a Nando [Taviani] e raccontato <strong>la</strong> prima immagine: una<br />

bara di cristallo piena d’acqua nel<strong>la</strong> quale nuota un’anguil<strong>la</strong> e una giovane<br />

annegata. Poi altre idee, Antigone circondata da venerandi dottori,<br />

Sant’Agostino, San Gero<strong>la</strong>mo, Origene, il bambino dell’ultima scena di Aliosha nei<br />

Fratelli Karamazov, <strong>la</strong> prima frase di Pedro Páramo di Juan Rulfo: "Sono venuto a<br />

Coma<strong>la</strong> perché mi hanno detto che qui abita mio padre, un certo Pedro Páramo".<br />

Qual è il tempo del<strong>la</strong> primavera, delle energie vergini, ignorate eppure<br />

accanto a te, dentro di te? La risposta è evidente: <strong>la</strong> fine di una guerra, tra lutti<br />

e macerie. Incomprensibilità che si tinge di speranza. Gli attori si allontanano dal<br />

dolore e dal<strong>la</strong> disperazione scossi da un filo invisibile, ma udibile: <strong>la</strong> musica.<br />

Incomprensibilità come compassione, intuizione del<strong>la</strong> sofferenza e del<strong>la</strong><br />

gioia dell’altro. E <strong>la</strong> speranza? Il piacere infantile di raccontare segreti, porre<br />

domande, amare, inocu<strong>la</strong>re dubbi, attraversare paesi, libri, teatri.<br />

Mi sento già stanco all’idea che debbo fare il meglio che posso. Spero di<br />

avere fortuna e, con i miei attori, far meglio del meglio che posso.<br />

L’intelligenza, a teatro, non fa piangere. Sarò capace di far versare una<br />

<strong>la</strong>crima ad almeno uno spettatore? John Keats: il poetico è esperienza senza<br />

pensiero. Non dimenticare Laurence Sterne: I progress as I digress.<br />

L’impietosa sca<strong>la</strong>ta del calvario insieme ai miei attori: le tensioni e<br />

incomprensioni per realizzare insieme <strong>la</strong> tradizione del<strong>la</strong> rottura, per lottare<br />

giorno dopo giorno contro i cliché che ci allontanano dalle nostre fonti <strong>vita</strong>li.<br />

La <strong>vita</strong> sotterranea del teatro.<br />

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La casalinga rumena (Roberta Carreri): "I wanna die easy, when I die." Foto: Tommy Bay


Thomas Bredsdorff<br />

Il teatro cronico<br />

Il canto dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> sarà tra poco alle sue ultime note. Al prossimo<br />

anniversario rotondo compirà 50 anni e il suo direttore ha da tempo raggiunto<br />

un’età più che venerabile. L’energia non impone ancora limiti, ma <strong>la</strong> biologia lo<br />

farà presto. Ineluttabilmente, a una data che si approssima ogni giorno di più.<br />

Di rego<strong>la</strong>, il nostro pensiero rimanda a domani <strong>la</strong> consapevolezza del<strong>la</strong> fine<br />

imminente. Parliamo volentieri del<strong>la</strong> morte, ma non del<strong>la</strong> nostra. L’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong><br />

ha scelto un’altra strategia: guardare negli occhi <strong>la</strong> fine che si avvicina. Cosa<br />

succede a un collettivo che fissa lo sguardo sul<strong>la</strong> propria fine? Questo era il punto<br />

di partenza del<strong>la</strong> Vita <strong>cronica</strong>.<br />

Vi sono diverse possibilità. Si può commettere suicidio insieme, come ha<br />

fatto il collettivo religioso riunito intorno al suo forte leader a Jonestown nel<strong>la</strong><br />

giung<strong>la</strong> del<strong>la</strong> Guyana. Si possono anche evidenziare i segnali di morte nel<strong>la</strong> cultura<br />

in cui si vive e conso<strong>la</strong>rsi constatando che non si è gli unici ad aver raggiunto<br />

un’età venerabile, condividendo il declino dell’Occidente, secondo le parole del<br />

filosofo Spengler. O si può sperare che qualcosa d’inatteso salti fuori. È quello<br />

che, ai miei occhi, è successo nel processo che si è concluso con La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong>.<br />

A un certo momento del<strong>la</strong> lunga preparazione in cui lo spettacolo ha preso forma,<br />

abbiamo <strong>la</strong>vorato in Polonia. Barba fu in<strong>vita</strong>to a Wroc<strong>la</strong>w dal Grotowski Institute<br />

ad aprire le sue prove, in forma di Masterc<strong>la</strong>ss, nell’antica città sull’Odra del<strong>la</strong><br />

Slesia po<strong>la</strong>cca e a condividere il suo sapere con gente di teatro e dell’accademia<br />

che ha osservato durante un’intera settimana il <strong>la</strong>voro sul futuro spettacolo in una<br />

fase in cui non era realizzato neanche a metà.<br />

I 37 partecipanti da Iran, Italia, Spagna, Brasile, Inghilterra, Messico,<br />

Polonia, insomma da tutti i paesi immaginabili, erano seduti in silenzio dal<strong>la</strong><br />

mattina al tardo pomeriggio, e al<strong>la</strong> fine del<strong>la</strong> giornata avevano l’opportunità di<br />

porre domande sul processo ed esprimere le loro reazioni a proposito di quello che<br />

avevano visto e sentito.<br />

Le giornate cominciavano con qualcosa che, alle lezioni di ginnastica dei<br />

miei tempi, si chiamavano "esercizi in piedi sul pavimento", cioè con gli attori<br />

distribuiti su tutto il pavimento in uno spazio vuoto, ognuno occupato dal suo<br />

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progetto iso<strong>la</strong>to, domando uno strumento musicale o un oggetto, oppure<br />

perfezionando una danza, una canzone, un movimento. Ma a differenza delle ore<br />

di ginnastica del<strong>la</strong> scuo<strong>la</strong>, un uomo seduto osservava intensamente ognuno degli<br />

attori - insieme ad altri 37 seduti - per scoprire quello che era decisivo:<br />

individuare il momento in cui un attore eseguiva un’azione con potenzialità di<br />

sviluppo. Questo tipo di elementi che racchiudevano energia e futuro venivano<br />

estratti dal maestro dal<strong>la</strong> væksthus (vivaio) e trapiantati più tardi nello spazio<br />

scenico delle prove dove le proposte degli attori venivano intrecciate davanti agli<br />

occhi dei partecipanti.<br />

Scrivo "spazio scenico", ma nel corso del<strong>la</strong> settimana questa definizione si<br />

rivelò un concetto ben fluido. Come i lettori di questo programma potranno<br />

vedere di persona quando entreranno nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong>, il pavimento è coperto da un<br />

rettangolo di semplici assi di legno di pino, una sorta di zattera che riempie solo<br />

una parte del<strong>la</strong> sa<strong>la</strong>. Quando arrivammo in Polonia, l’intero spettacolo si svolgeva<br />

su queste assi. Le assi erano tutta <strong>la</strong> scena, <strong>la</strong> scena erano soltanto le assi.<br />

A metà del<strong>la</strong> settimana Barba ha deciso che l’azione non doveva avvenire<br />

solo sulle assi, ma anche al loro esterno. Ne emerse un nuovo significato. Da quel<br />

momento, l’essere "dentro" o "fuori" non risultava più soltanto dalle parole e dai<br />

movimenti dei singoli attori, ma anche dallo spazio. La zattera era qualcosa sul<strong>la</strong><br />

quale ci si poteva salvare o dal<strong>la</strong> quale si poteva essere respinti.<br />

Nel tempo delle domande e risposte che concludeva ogni giornata, furono<br />

espresse molte reazioni intelligenti riguardo all’apertura del<strong>la</strong> scena - i<br />

partecipanti erano gente di teatro - ma mai univoche. Le reazioni di fronte a<br />

questa espansione dello spazio erano come le reazioni di fronte agli altri procedimenti<br />

scenici dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> - reazioni che ricordano le risposte del paziente<br />

al test di Rorschach degli psicologi. Ognuno reagisce a quello che vede<br />

raccontando qualcosa su se stesso.<br />

Tuttavia c’è una differenza. È vero che le immagini sceniche cominciano in<br />

modo da evocare le macchie d’inchiostro dello psicologo: casualmente. Ma più<br />

tardi, nel teatro, avviene una scelta. Il dramaturg e il regista selezionano o<br />

scartano, in modo che il tutto finisce in un risultato radicato in scelte consapevoli.<br />

L’arte è equilibrio tra crescita e potatura. Se ci si appoggia solo sulle cesoie,<br />

il risultato diventa troppo evidente; se si <strong>la</strong>scia tutto all’energia del<strong>la</strong> crescita,<br />

diventa nebuloso. La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong> guadagnò in energia e in chiarezza nel<strong>la</strong><br />

settimana a Wroc<strong>la</strong>w. Ma lo spettacolo era ancora ben lungi dall’essere pronto.<br />

Uno degli aspetti che rimaneva nell’incertezza era il finale. Gli allievi del<strong>la</strong><br />

Masterc<strong>la</strong>ss avevano molte idee a proposito, ma nessuna andava bene.<br />

Così lo spettacolo fu smontato e accantonato per alcuni mesi, come accade<br />

spesso all’<strong>Odin</strong> con gli spettacoli in gestazione. Quando fu spacchettato di nuovo,


<strong>la</strong> direzione dello spettacolo era chiara. La risposta al problema fondamentale -<br />

come reagire all’impietosa frontiera del<strong>la</strong> biologia - non venne né dal pastore<br />

Jones e dal suicidio collettivo in Guyana, né da Oswald Spengler, anche se lo<br />

spettacolo finito <strong>la</strong>scia intravedere entrambe le soluzioni.<br />

La lingua - non il linguaggio scenico con le sue sfaccettature di luci, suoni e<br />

movimenti, ma <strong>la</strong> lingua che esce dal<strong>la</strong> bocca sotto forma di parole - ha sempre<br />

costituito un problema per l’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong>, i cui attori par<strong>la</strong>no lingue diverse e il<br />

cui pubblico sparso nel mondo spesso comprende una lingua che nessuno degli<br />

attori par<strong>la</strong>. Il fatto che per tanti anni sia riuscito a comunicare con spettatori di<br />

diversi continenti <strong>la</strong> dice lunga sulle partico<strong>la</strong>ri capacità di questo teatro.<br />

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Gli attori dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> utilizzano in continuazione <strong>la</strong> lingua nonostante<br />

i suoi limiti. Durante le prove aperte in Polonia, ho appreso qualcosa sul ruolo<br />

del<strong>la</strong> lingua nello spettacolo teatrale. Parte del testo detto dagli attori nel<strong>la</strong> Vita<br />

<strong>cronica</strong> sono frammenti di poemi di Ursu<strong>la</strong> Andkjær Olsen, il cui poetico danese<br />

era incomprensibile a ciascuno dei 37 partecipanti al<strong>la</strong> Masterc<strong>la</strong>ss di Wroc<strong>la</strong>w.<br />

Eppure abbiamo capito dalle domande e dalle risposte che il tono ironico dei versi<br />

era stato percepito da una buona parte di loro.<br />

L’unica spiegazione possibile è che il testo par<strong>la</strong> all’attore in modo tale che<br />

questi è capace di tradurre il discorso dei versi in una lingua corporale e sonora<br />

captata da spettatori attenti. È come assistere a un’opera senza <strong>la</strong> proiezione del<br />

testo su uno schermo. Anche qui non si comprende quello che i cantanti dicono,<br />

eppure usano le parole per intuire il significato che debbono cantare e agire.<br />

L’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> è un teatro senza una lingua unica, però è profondamente<br />

collegato con quel<strong>la</strong> che viene par<strong>la</strong>ta nello spettacolo, e che gli attori, con<br />

l’aiuto del regista, sono in grado di evidenziare o contrastare.<br />

Ci sono, però, alcune frasi che tutti gli spettatori comprenderanno: le parole<br />

consegnate per iscritto nelle loro mani prima di entrare a vedere lo spettacolo.<br />

Nel<strong>la</strong> loro lingua materna leggeranno: "L’azione si svolge in diversi paesi d’Europa<br />

nel 2031 dopo <strong>la</strong> terza guerra civile". In altre parole, è tardi nel<strong>la</strong> nostra giornata<br />

e nel<strong>la</strong> nostra <strong>vita</strong>. Se uno non l’ha scoperto pensando all’età dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> e<br />

dei suoi attori, adesso questa consapevolezza gli viene somministrata con il<br />

cucchiaio. Qual è il declino in attesa?<br />

Ogni spettatore dovrà cercare <strong>la</strong> risposta con i suoi occhi e le sue orecchie<br />

nel<strong>la</strong> rappresentazione che inizierà tra poco. Posso solo testimoniare questo: <strong>la</strong><br />

risposta non è data in anticipo.<br />

La risposta che ha germogliato nel vivaio costituito dai quattro anni del<strong>la</strong><br />

Vita <strong>cronica</strong>, e che prese forma nel momento in cui lo spettacolo scovò il finale,<br />

ha le sue radici nello stesso luogo del<strong>la</strong> domanda da cui tutto ebbe inizio: nel<strong>la</strong><br />

biologia. La <strong>vita</strong> continua, si dice. Ma questo non dice tutto. Va avanti in un modo<br />

molto partico<strong>la</strong>re che divenne chiaro solo durante il cammino. Il teatro scompare,<br />

ma il teatro dura. Il teatro è cronico, imprevedibile e invincibile come <strong>la</strong> <strong>vita</strong>.<br />

Se i partecipanti al<strong>la</strong> Masterc<strong>la</strong>sss di Barba a Wroc<strong>la</strong>w, che videro il <strong>la</strong>voro<br />

fatto solo a metà, assisteranno allo spettacolo concluso, rimarranno tanto<br />

sorpresi quanto lo rimasi io scoprendo <strong>la</strong> direzione in cui è cresciuto. Il canto<br />

dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong>, come ho detto, sarà alle sue ultime note, ma è ancora forte e<br />

luminoso.<br />

(Trad. a cura di Nando Taviani)


Le Indie nere dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong><br />

Scritti degli attori presentati da Nando Taviani


16<br />

Nando Taviani<br />

Le Indie nere dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong><br />

Le "Indie nere" appartengono all’esotico verticale, che non è in Oriente ma nel<br />

sottosuolo. Il titolo viene da un romanzo di Jules Verne (Les Indes noires, 1877),<br />

ambientato in Scozia, in una miniera di carbone esaurita ma segretamente<br />

abitata. Più del mistero, è il disorientamento a caratterizzare il mondo del<br />

sottosuolo. Non c’è paesaggio, non c’è panorama. Ciascuno vede soltanto quel<br />

che lui stesso illumina col suo lume.<br />

"Indie nere" sono anche le miniere del nostro teatro di Holstebro: etiche<br />

artigianali, esperienze, immaginazioni, motivazioni e necessità personali, quasi<br />

mai visibili, ma capaci di mettere in moto e nutrire il <strong>la</strong>voro visibile. Negli scritti<br />

che seguono, da questo sottosuolo emergono appunti, frammenti di diari - ed echi<br />

di passi perduti.<br />

Il <strong>la</strong>voro per La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong> è iniziato nel febbraio del 2008 e si è concluso<br />

nell’autunno del 2011. In un arco di quasi quattro anni, Eugenio Barba e gli attori<br />

hanno ritagliato alcune piccole oasi di tempo liberato da ogni altro impegno in cui<br />

dedicarsi esclusivamente ad un’opera nuova. Ne è risultato un percorso fatto di<br />

accelerazioni e sospensioni. La fine di ogni periodo di <strong>la</strong>voro non era <strong>la</strong><br />

conclusione d’una fase. Era piuttosto <strong>la</strong> data prestabilita in cui il processo andava<br />

interrotto per altri impegni da tempo fissati. Dopo ogni interruzione, l’opera che<br />

si stava formando doveva entrare in letargo e aspettare <strong>la</strong> ripresa del <strong>la</strong>voro.<br />

Barba e gli attori decisero che questo inconveniente poteva invece<br />

convenire. Contraddiceva i loro usi.<br />

Il tempo in cui l’intero ensemble dell’<strong>Odin</strong> si è dedicato all’invenzione del<strong>la</strong><br />

Vita <strong>cronica</strong> corrisponde, tutto sommato, a circa otto mesi di <strong>la</strong>voro: febbraio<br />

2008, maggio 2009, febbraio 2010, ottobre-novembre 2010, febbraio-marzo 2011,<br />

settembre 2011. Che questi otto mesi si siano spezzettati nell’arco di quattro anni<br />

ha creato un ostacolo di nuovo tipo.<br />

Il vecchio consiglio "fai dell’ostacolo il tuo amico" questa volta è servito a


materializzare uno dei taciti valori dell’<strong>Odin</strong>: <strong>la</strong> testardaggine. Le condizioni date<br />

non erano affatto favorevoli al<strong>la</strong> creazione di un’opera nuova. Tutti i membri<br />

dell’ensemble artistico erano già pieni di impegni pregressi, sia iniziative<br />

personali che progetti di gruppo. Erano costretti a usare l’astuzia del mestiere per<br />

far fronte a uno stile di <strong>vita</strong> sempre più governato dalle scadenze del calendario.<br />

Mentre l’opera nuova restava in letargo, ognuno dei partecipanti<br />

all’impresa continuava per suo conto a pensarci. Erano come sogni paralleli, in<br />

contraddizione l’uno con l’altro, mai convergenti.<br />

A orientare le prospettive per l’e<strong>la</strong>borazione del nuovo spettacolo c’erano<br />

all’inizio soltanto due titoli. Prima XL (Extra Large), dall’apparenza talmente<br />

dozzinale da far ridere o pensare. Poi La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong>, semplicemente enigmatico.<br />

C’erano, inoltre, una serie di temi affiorati nelle precedenti tappe del <strong>la</strong>voro.<br />

Ancora viva, ma sempre più lontana, c’era <strong>la</strong> sorpresa del primo giorno di <strong>la</strong>voro,<br />

<strong>la</strong> fantasiosa infrazione delle regole, quando Eugenio Barba, con un dribbling<br />

beffardamente autobiografico, aveva spinto l’ensemble in una sorta di carnevale<br />

arcaico: <strong>la</strong> celebrazione del suo funerale. Capace di far male, pur essendo gioiosa<br />

e tumultuosa, <strong>la</strong> commemorazione sfruttava il vento e l’energia del<strong>la</strong> b<strong>la</strong>sfemia<br />

casalinga.<br />

Fra una tappa e l’altra, mentre l’opera restava in letargo, Barba immaginava<br />

scene e montaggi, e nell’immaginazione li distruggeva. Immaginare e<br />

distruggere sono azioni complementari per un regista a cui l’esperienza ha<br />

insegnato che un modo per riuscire è quello di sbagliare volontariamente strada,<br />

e che <strong>la</strong> soluzione giusta è quel<strong>la</strong> imprevista, che sorge da sé, con <strong>la</strong> forza<br />

convincente del<strong>la</strong> serendipità. La quale serendipità è <strong>la</strong> Luna delle miniere, come<br />

dicono alcuni versi dell’Omero argentino morto nel 1986. Borges dice d’aver<strong>la</strong> a<br />

lungo cercata, <strong>la</strong> Luna, in certe mitologiche miniere, finché "ahí estaba, a <strong>la</strong><br />

vuelta de una esquina" - ed era "<strong>la</strong> luna celestial de cada día".<br />

Ma anche <strong>la</strong> Luna del<strong>la</strong> serendipità e delle miniere si trova in difficoltà, quando<br />

ci si aspetta che sorga in un tempo spezzettato. Per il regista-drammaturgo<br />

dell’<strong>Odin</strong> pensare piani di messinscena è simile più all’atto del disboscare che a<br />

quello del costruire. Equivale al<strong>la</strong> fatica e all’apparente spreco degli attori che<br />

seminano e piantano in solitudine, provando e riprovando.<br />

Nei periodi in cui l’opera nuova stava in letargo, gli attori precisavano<br />

ciascuno per proprio conto i "materiali" da proporre (costumi, maschere, oggetti,<br />

musiche, testi da recitare o da cantare, silhouette di personaggi, ecc.). Approfittavano,<br />

ognuno a suo modo, dei pochi tempi liberi durante le tournée; usavano<br />

gli interstizi fra l’una e l’altra delle loro attività ordinarie (i seminari e le varie<br />

attività pedagogiche all’estero e nel<strong>la</strong> loro cittadina, le prove per tenere in<br />

17


Foto: Rina Skeel<br />

La vedova di un combattente basco<br />

(Kai Bredholt): "I figli devono<br />

assistere al<strong>la</strong> morte del padre."<br />

Nikita, <strong>la</strong> rifugiata cecena (Julia<br />

Varley): "L’acqua è oro in tempo di<br />

guerra."


La Madonna Nera (Iben Nagel<br />

Rasmussen): "Dal<strong>la</strong> non verità al<strong>la</strong><br />

verità, dal<strong>la</strong> morte all’immortalità."<br />

La violinista di strada italiana (Elena<br />

Floris) e il ragazzo colombiano che<br />

cerca suo padre (Sofia Monsalve):<br />

"Una porta non ti dice dove vai."<br />

Foto: Rina Skeel


20<br />

forma il repertorio, il <strong>la</strong>voro per creare spettacoli individuali, <strong>la</strong> preparazione e<br />

realizzazione di festival; le telefonate e le mail per organizzare incontri, baratti,<br />

ospitalità e tournée, i turni per <strong>la</strong> pulizia del teatro). Sapevano che il <strong>la</strong>voro per<br />

il nuovo spettacolo, compiuto da soli in quegli interstizi, era a fondo perduto. Di<br />

esso forse un decimo o nul<strong>la</strong> sarebbe risultato utilizzabile. Ma sapevano anche<br />

che inutilizzabile non vuol dire inutile. Comunque, non erano in grado di<br />

orientarsi. Oltre il cerchio del loro <strong>la</strong>voro individuale non potevano vedere che<br />

buio.<br />

Nessuno, né gli attori né il loro regista-drammaturgo, aveva in mano un<br />

"piano di produzione" che delineasse <strong>la</strong> trama, i testi e <strong>la</strong> sceneggiatura dello<br />

spettacolo a venire. Negli ultimi vent’anni <strong>la</strong>vorare in questo modo è diventato<br />

normale nell’enc<strong>la</strong>ve dell’<strong>Odin</strong>. È un modo di procedere in cui ciascun attore è<br />

responsabile del proprio personale sentiero, lo raffina con estrema cura, come un<br />

dettaglio del quale importa solo che sia vivo, prima di sapere quale sarà il<br />

paesaggio di cui dovrà entrare a far parte. L’estrema precisione dei dettagli si<br />

congiunge con un’altrettanto estremistica sospensione del giudizio rispetto al<br />

contesto in cui i dettagli acquisiranno il proprio senso.<br />

Benché sia strano da capire, e spesso anche da accettare, questo modo di<br />

<strong>la</strong>vorare non è però assurdo. Ciascun dettaglio è un’azione fisica precisamente<br />

disegnata. Non è un segno senza radici, vuoto, che <strong>la</strong>sciato solo è privo di senso.<br />

È il frutto d’un’immaginazione-in-azione, radicato nell’organismo fisico-mentale<br />

dell’attore. Più che un segno è una cellu<strong>la</strong>, viva di per sé, ancorché sia ancora<br />

senza un organo e un destino che ne individui l’appartenenza e l’identità.<br />

Un’azione-cellu<strong>la</strong> può essere trapiantata in diversi non programmati contesti. E<br />

di questo è responsabile il regista-drammaturgo, che <strong>la</strong>vora soprattutto come un<br />

commutatore di senso.<br />

È un modo di <strong>la</strong>vorare basato su un paradosso: per essere libero, Barba deve<br />

<strong>la</strong>sciar mano libera agli attori. E viceversa gli attori conquistano una nuova libertà<br />

di scelta <strong>la</strong>sciando mano libera a Barba e agevo<strong>la</strong>ndo l’indipendenza dei suoi<br />

interventi.<br />

Benché nell’<strong>Odin</strong> questo paradosso funzioni, benché sia divenuto un modo<br />

di procedere (quasi) normale, resta il fatto che esso è profondamente anormale<br />

se lo si confronta con <strong>la</strong> maggior parte del<strong>la</strong> procedure sceniche e con <strong>la</strong> mentalità<br />

che ne deriva.<br />

All’<strong>Odin</strong> non esiste, per esempio, né il preliminare <strong>la</strong>voro sul testo né<br />

quel "<strong>la</strong>voro sul personaggio" inteso come parte d’un organismo drammatico dai<br />

contorni pre-definiti e ben delineati. È lo spettacolo, a processo concluso, che<br />

definisce i personaggi e le loro re<strong>la</strong>zioni. Non c’è un testo, un soggetto, una<br />

sceneggiatura sia pur sommaria. Né si parte da una "scaletta" che spieghi a chi


vi <strong>la</strong>vora quali siano, scena dopo scena, le re<strong>la</strong>zioni e l’intreccio fra le diverse<br />

dramatis personae. Non esiste niente che permetta agli attori d’antivedere<br />

come l’intreccio dovrà svilupparsi e concludersi. Nessuno conosce in anticipo<br />

né <strong>la</strong> favo<strong>la</strong> né <strong>la</strong> sua morale. Quindi l’opera da comporre non è una meta su<br />

cui sia possibile orientarsi. La meta esiste solo come postu<strong>la</strong>to, come punto<br />

d’interrogazione, desiderio, soggetto da scoprire. A priori non aiuta né è<br />

un’ispirazione e un riferimento nel corso del processo. Sarà sempre, in ultima<br />

analisi, una scoperta, che essendo tale potrà essere definita solo a posteriori.<br />

Scritta, magari, come una sinossi da offrire agli spettatori.<br />

Le cose, insomma, vanno al<strong>la</strong> rovescia: non dal progetto al<strong>la</strong> sua realizzazione,<br />

ma dal<strong>la</strong> scoperta al<strong>la</strong> sua comprensione; non dal soggetto al modo di<br />

interpretarlo, ma dall’emergenza inattesa al modo di giustificar<strong>la</strong>.<br />

Con qualche aneddotico inconveniente, come, per esempio, quando le<br />

esigenze dell’informazione e le sollecitazioni degli organizzatori impongono di<br />

scrivere un breve riepilogo dello spettacolo come presentazione. Quando questo<br />

viene fatto un poco prima che il <strong>la</strong>voro sia terminato, il riepilogo promozionale<br />

risulta sempre imprudente. Rischia d’essere magniloquente e volutamente<br />

oscuro. Per questo, se le tracce anticipate per <strong>la</strong> promozione sono trattate come<br />

documenti o testimonianze d’autore, gli spettacoli dell’<strong>Odin</strong> si <strong>la</strong>sciano sempre<br />

immaginare più ermetici o enigmatici di quanto concretamente siano.<br />

Far camminare le cose a rovescio è una strategia cosciente, sperimentata,<br />

cresciuta da una storia precisa, difficile da imitare. Caratterizza il comportamento<br />

dell’<strong>Odin</strong> anche aldilà del<strong>la</strong> sua pratica artistica.<br />

L’andare a rovescio rispetto all’ambiente circostante - non all’indietro ma<br />

a rovescio - definisce l’identità di questo teatro minuscolo. L’<strong>Odin</strong> salvaguarda<br />

così <strong>la</strong> sua tacita secessione, che lo libera dall’ansia di adeguarsi ai mutamenti<br />

climatici del territorio che lo circonda, il sistema generale del teatro con le sue<br />

novità, i successi che segnano il mutare dello spirito dei tempi.<br />

Gli scritti qui presentati sono stati composti nell’estate del 2011, quando lo<br />

spettacolo non ha ancora assunto <strong>la</strong> sua forma definitiva. "Forma definitiva", nel<br />

nostro caso, vuol dire l’opposto di "forma prevista". In questo momento, tutti<br />

sappiamo che La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong>, benché consista già di scene, re<strong>la</strong>zioni e azioni ben<br />

definite e fissate, potrà in pochi giorni di prove, mutare radicalmente aspetto, e<br />

sigil<strong>la</strong>re il proprio viaggio in maniera diversa dalle innumerevoli ipotesi di volta in<br />

volta formu<strong>la</strong>te dal suo regista-drammaturgo, o auspicate dall’uno o dall’altro di<br />

coloro che hanno partecipato al lungo processo.<br />

Il percorso che conduce al<strong>la</strong> consapevolezza che lo spettacolo è già vivo e ha<br />

una forma, nonostante non si sappia ancora quale destino <strong>la</strong> animi, genera in chi<br />

21


22<br />

vi partecipa diverse qualità di fatica, eccitazione, impazienza, disorientamento e<br />

angoscia. Ma anche qualcosa di molto simile a un vero e proprio sconforto professionale.<br />

Ciò spiega come mai gli scritti che seguono non si adeguino a un unico<br />

format, e come mai non tutti i protagonisti dell’impresa abbiano scelto di scrivere.<br />

Scrivere è bene. Ma non scrivere non è mai un peccato d’omissione.<br />

Protagonista è potenzialmente ogni attore. Per rendersene conto, basterà<br />

che uno spettatore riveda più volte lo spettacolo pedinando con lo sguardo e<br />

l’attenzione ogni volta una figura diversa. La drammaturgia qui è fatta apposta<br />

per permettere a ogni attore d’essere facoltativamente considerato come<br />

centro dell’azione complessiva, e per liberare ogni singolo spettatore dal<strong>la</strong><br />

comoda ma usuale situazione di spettatore teleguidato (letteralmente: guidato<br />

di lontano).<br />

Questo tipo di drammaturgia, fatta per liberare sia gli attori che gli<br />

spettatori dalle tradizionali gerarchie drammaturgiche (primo attore, personaggi<br />

secondari ecc.) ritorna in tutti gli spettacoli dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong>, in maniera partico<strong>la</strong>rmente<br />

cosciente e raffinata da Min fars hus in poi.<br />

Min fars hus è del 1972. Fu rappresentato per l’ultima volta nel gennaio del ’74.<br />

Due dei "protagonisti" di Min fars hus sono presenti nel<strong>la</strong> Vita <strong>cronica</strong>. Un terzo,<br />

era presente fino a poco fa, quando <strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia e <strong>la</strong> morte l’hanno costretto per<br />

<strong>la</strong> prima volta ad assentarsi da uno spettacolo del teatro ch’egli aveva contribuito<br />

a fondare. Gli attori, Eugenio Barba, alcuni degli spettatori che da più tempo<br />

aderiscono al nostro teatro, continuano a vederlo baluginare qua e là nello<br />

spettacolo. Nel<strong>la</strong> Vita <strong>cronica</strong> c’è una quarta persona strettamente legata a Min<br />

fars hus, benché non ne facesse parte: l’aveva visto, e poi aveva chiesto di<br />

entrare nell’<strong>Odin</strong>. E inopinatamente vi entrò.<br />

Siamo risaliti agli anni di Min fars hus. Ne è passato di tempo: <strong>la</strong> sede<br />

dell’<strong>Odin</strong> si è ingrandita, <strong>la</strong> mole delle attività è aumentata, <strong>la</strong> fama si è diffusa.<br />

Ma il gruppo che insegue i propri spettacoli per vie tortuose, benché sia in parte<br />

mutato, è rimasto sempre limitato a un piccolissimo pugno di attrici e attori,<br />

capitanati da un regista-drammaturgo che fa teatro cercando di depistare <strong>la</strong><br />

competenza accumu<strong>la</strong>tasi con gli anni.<br />

Lo spettacolo ha un titolo che applica al sostantivo "<strong>vita</strong>" un aggettivo<br />

qualificativo che in genere si usa per i ma<strong>la</strong>nni. Rischia perciò di creare l’associazione<br />

di idee con le figure dell’Ebreo Errante, con un High<strong>la</strong>nder delle<br />

cinematografiche saghe, o con l’Amfortas del Parsifal wagneriano. Rischia,<br />

soprattutto, di far gra<strong>vita</strong>re il pensiero attorno all’idea di Vecchiaia.<br />

L’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> è in <strong>vita</strong> dal 1964, molte volte si è insistito sul record di<br />

longevità che detiene nel contesto del teatro contemporaneo. Eugenio Barba ama


ipetere che tale record equivale a "una mostruosità, un affronto al<strong>la</strong> natura del<br />

teatro". Immagino che così, esagerando un poco, riesca a control<strong>la</strong>re gli effetti di<br />

quello strano cocktail che in genere dà al<strong>la</strong> testa per <strong>la</strong> sua mistura di fierezza per<br />

il passato, presenza sicura di sé, più il dovuto turbamento nei confronti del<br />

futuro.<br />

Fra La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong> e Vecchiaia vi è un legame più metafisico che fisico: il<br />

rapporto fra fedeltà al proprio passato e fedeltà al futuro; fra testardaggine e<br />

libertà; tra crepuscolo e speranza.<br />

A Barba e all’<strong>Odin</strong> càpita sovente qualcosa di buffo che fa venire in mente<br />

quel che capitò a Don Chisciotte. Mentre continuava a viaggiare e a battagliare,<br />

un bel giorno, nel mezzo d’una convalescenza, gli toccò di doversi confrontare<br />

con il libro che già raccontava le sue avventure, le ordinava e le rendeva strane<br />

ed esemp<strong>la</strong>ri. Un libro in tutto simile alle opere dedicate ai caballeros andantes<br />

famosi e gloriosamente sepolti. Sicché lui, Don Chisciotte, dovette anche<br />

preoccuparsi dell’edizione del libro, del tasso di verità che conteneva, del<strong>la</strong> sua<br />

auspicabile diffusione. Tutte cose assennate. Però, lui - che era fatto d’una<br />

carne che poteva essere amata e ferita - si vedeva trasformato in carne<br />

letteraria. Scopriva così che i beneamati libri possono anche essere tombe o<br />

vive prigioni.<br />

Gli obblighi verso <strong>la</strong> memoria sono vinco<strong>la</strong>nti. Che fare, allora, del<strong>la</strong> libertà?<br />

Ricordo il primo giorno di <strong>la</strong>voro per lo spettacolo che doveva chiamarsi XL<br />

e che poi s’è guadagnato il titolo di Vita <strong>cronica</strong>. Lo ricordo come un imprinting o<br />

forse un’alba irripetibile. Era il mattino del 5 febbraio 2008. Nei calendari<br />

tradizionali quel giorno era segnato come Martedì Grasso: uno di quegli ultimi<br />

giorni di carnevale dei quali solo vecchissimi libri conservano <strong>la</strong> memoria<br />

essenziale. Giorni irriverenti fino al<strong>la</strong> ferocia. Pieni di riso fino alle <strong>la</strong>crime. In cui<br />

cadeva ogni rispetto per le cose sacrosante, per le persone venerate fino al<strong>la</strong><br />

derisione.<br />

La picco<strong>la</strong> stanza blu, quel martedì del febbraio 2008, si riempiva di<br />

accessori e fantasmi teatrali. In quell’ingombro mascherato cadevano tutto il<br />

tempo le maschere e le cortine. Da dietro una di quelle cortine comparivano –<br />

realtà o immaginazione? – due sorelle gemelle. Snudavano le armi e duel<strong>la</strong>vano:<br />

Verità una, l’altra Speranza. Non erano allegorie, erano sorelle. E non era<br />

possibile indovinare se quel duello fosse un assassinio o una "lotta fiorita", come<br />

in certe esotiche contrade viene chiamato l’amore.<br />

Dimenticavo: nel romanzo di Jules Verne, gli abitanti del<strong>la</strong> miniera<br />

abbandonata non stanno nel sottosuolo per nascondersi. Credono che <strong>la</strong> miniera<br />

non sia davvero esaurita e si intestardiscono a cercare i nuovi filoni di carbon<br />

fossile, che riscalderanno, riforniranno e inquineranno il futuro.<br />

23


24<br />

Sofía Monsalve<br />

Quel che mio padre m’ha <strong>la</strong>sciato<br />

Tutto è cominciato il 5 febbraio del 2008. Eugenio Barba aveva riunito i suoi<br />

col<strong>la</strong>boratori per iniziare un nuovo spettacolo dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong>. Ci siamo riuniti<br />

nel<strong>la</strong> picco<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> blu del teatro alle 7 di mattina nel buio dell’inverno danese.<br />

Eugenio sembrava il leader di un gruppo c<strong>la</strong>ndestino in una città sperduta del<strong>la</strong><br />

Danimarca, uno che stava organizzando un nuovo complotto, un patto di sangue,<br />

una nuova avventura.<br />

Era l’alba. Lui prese a par<strong>la</strong>rci delle superstizioni: quegli scongiuri, parole,<br />

frasi o atti, che ci guidano nel momento di affrontare il destino: il grido<br />

"Jeronimo" che i soldati paracadutisti americani ur<strong>la</strong>vano prima di <strong>la</strong>nciarsi nel<br />

vuoto. Con questa spinta superstiziosa doveva iniziare lo spettacolo che, per<br />

Eugenio, doveva essere una bestemmia rispetto alle nostre certezze.<br />

Poco dopo, ci ha presentato i percorsi sui quali si sarebbe basato lo<br />

spettacolo. Fece il mio nome e mi dettò quel<strong>la</strong> frase che da quel momento non<br />

mi avrebbe più <strong>la</strong>sciato, accompagnandomi come un presagio, un mantra, un<br />

grido di battaglia e di supplica, il mio "Jeronimo!": "Sono venuta perché mi hanno<br />

detto che qui c’è mio padre". La frase proveniva dal romanzo Pedro Páramo dello<br />

scrittore messicano Juan Rulfo, dove si narra <strong>la</strong> storia di un giovane che va nel<br />

paesino d’origine di sua madre per cercare suo padre, un certo Pedro Páramo. Il<br />

paesino è deserto e lì non trova altro che i fantasmi di una <strong>vita</strong> passata.<br />

Questa divenne <strong>la</strong> mia storia: un giovane che arriva in una terra straniera per<br />

cercare suo padre. La prima domanda: chi è mio padre? Quali sono i miei fantasmi?<br />

Provengo da una famiglia di "teatranti". Mio papà è regista, mia madre attrice.<br />

E io sono entrata in scena quando ero ancora dentro di lei. All’età di 11 anni mi resi<br />

conto di essere un’attrice, perché un’amica del<strong>la</strong> scuo<strong>la</strong> mi chiese perché avevo le<br />

ginocchia fasciate. Le risposi che un’attrice deve curare le proprie ginocchia. In quel<br />

periodo partecipavo a quasi tutte le attività del gruppo di mio padre: spettacoli,<br />

allenamento, <strong>la</strong>boratori e tournée. Ma arrivò il momento in cui mi resi conto di tutta<br />

<strong>la</strong> strada che dovevo ancora fare per essere una vera attrice.<br />

Conobbi l’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> attraverso un libro che era in casa di mio padre: L’arte<br />

segreta dell’attore. Sin da picco<strong>la</strong> passavo delle ore a osservare affascinata le<br />

fotografie di attori e attrici in strane posizioni, i dettagli dei loro piedi, delle loro<br />

mani, dei loro occhi. Sentivo spesso par<strong>la</strong>re dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> e del suo regista<br />

all’interno del gruppo di mio padre, dove erano considerati dei "maestri", dei padri


teatrali. Così, quando ebbi 17 anni, arrivò il momento di cercare il padre di mio<br />

padre. Ma cercare le mie origini teatrali significava abbandonare <strong>la</strong> casa dell’infanzia,<br />

andare in Danimarca, emigrare, <strong>la</strong>sciare il mio gruppo e rinnegare mio padre.<br />

E rieccomi quel<strong>la</strong> prima mattina, il 5 di febbraio del 2008, dall’altro <strong>la</strong>to<br />

dell’oceano, seduta accanto agli attori dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> e di fronte a un regista<br />

che ci in<strong>vita</strong>va al complotto. Tremando per l’emozione firmai il mio patto di<br />

sangue. Ero disposta ad abbandonare ogni certezza, <strong>la</strong> mia lingua, <strong>la</strong> mia famiglia<br />

e le abilità che credevo d’avere.<br />

Væksthus è il termine danese con il quale si indica <strong>la</strong> serra o il vivaio, un<br />

momento all’interno delle prove del<strong>la</strong> Vita Cronica dove facevamo crescere le<br />

gemme dei materiali scenici: in questo spazio di <strong>la</strong>voro mattutino, <strong>la</strong>voravamo<br />

tutti nel<strong>la</strong> stessa sa<strong>la</strong>, ogni attore sviluppava però singo<strong>la</strong>rmente i propri materiali<br />

scenici. In questo tempo di <strong>la</strong>voro che precedeva le prove, si creavano le musiche,<br />

nuove proposte sceniche e si provavano i materiali individuali che successivamente<br />

sarebbero stati introdotti all’interno dello spettacolo.<br />

Dal mio quaderno di <strong>la</strong>voro: "Væksthus: oggi il giorno comincia con il <strong>la</strong>voro<br />

nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> nera. Partecipo semplicemente suonando <strong>la</strong> picco<strong>la</strong> melodia che mi ha<br />

insegnato Jan [Ferslev] con l’ukulele. Una volta dopo l’altra, ininterrottamente.<br />

Sono triste di fronte al<strong>la</strong> ovvia impossibilità di riuscire a fare qualcosa per me<br />

stessa. Non ho nul<strong>la</strong>, solo le mie mani vuote. Più ci addentriamo nel<strong>la</strong> profondità<br />

di un mestiere, più ci rendiamo conto di quanto poco abbiamo, quanto le nostre<br />

mani siano vuote." È cominciato così il mio viaggio nel<strong>la</strong> Vita Cronica, con un<br />

corpo spoglio, senza armi né strumenti per affrontare il viaggio.<br />

"In un vil<strong>la</strong>ggio deserto" fu il tema che Eugenio mi diede per <strong>la</strong> mia prima<br />

improvvisazione. Scrissi nel mio quaderno di <strong>la</strong>voro le seguenti associazioni: "Un<br />

bambino cammina per le strade proibite, con curiosità e timore davanti a ciò che<br />

non conosce. Le finestre conge<strong>la</strong>te dal freddo nascondono fantasmi in case<br />

abbandonate. So<strong>la</strong>mente un gatto solitario cammina per le strade. Il bambino non<br />

sa nul<strong>la</strong> di questo vil<strong>la</strong>ggio, segue le orme invisibili delle scarpe di suo padre."<br />

Questa improvvisazione fu il mio primo tesoro; una sequenza di azioni e<br />

immagini su cui <strong>la</strong>voravo indipendentemente nei momenti individuali, <strong>la</strong>sciando<strong>la</strong><br />

crescere e cambiare fino a che Eugenio <strong>la</strong> introdusse in una delle scene dello<br />

spettacolo aggiungendoci un dialogo e mettendo<strong>la</strong> in re<strong>la</strong>zione con gli altri attori.<br />

La scena mutò assumendo talmente tante sfumature che dopo un po’ mi era<br />

difficile distinguere quel che restava dell’improvvisazione originale. Dopo alcuni<br />

mesi di <strong>la</strong>voro Eugenio decise che <strong>la</strong> scena sarebbe stata un dialogo con il<br />

personaggio di Iben Nagel Rasmussen. Così dopo alcune settimane in cui<br />

assemb<strong>la</strong>vamo le azioni con il testo e nello spazio, <strong>la</strong> scena si trasformò in una<br />

lotta nell’oscurità: <strong>la</strong> lotta dell’episodio biblico tra Giacobbe e l’Angelo. Per me,<br />

25


26<br />

Il ragazzo colombiano che cerca suo padre (Sofía Monsalve): "No, non sono cieco, però non<br />

posso vedere lontano." Foto: Jan Rüsz<br />

seguendo <strong>la</strong> logica del<strong>la</strong> mia improvvisazione iniziale, il personaggio di Iben<br />

divenne il gatto solitario che mi seguiva in quel vil<strong>la</strong>ggio deserto, sussurrandomi<br />

falsi e veri indizi sul<strong>la</strong> sorte di mio padre. Io, nell’intento di comprendere le<br />

parole del gatto e di afferrarlo nell’oscurità, ripetevo ossessivamente <strong>la</strong> mia<br />

frase: "sono venuta perché mi hanno detto che qui c’è mio padre".<br />

Durante i primi mesi di prove il mio <strong>la</strong>voro era condizionato dagli altri attori,<br />

ero come una marionetta nelle loro mani. Mi spostavano di qua e di là, mi<br />

alzavano da terra, mi facevano sedere, mi mettevano in posture insopportabili,<br />

mi portavano da un luogo all’altro, da una posizione all’altra. Insieme a Lolito (un<br />

pupazzo che fa parte dello spettacolo) ci scambiavamo i ruoli del pupazzo e del<br />

bambino. "Lasciati guidare!" mi dicevano gli attori ed io poco a poco imparai a<br />

muovere una parte del corpo al<strong>la</strong> volta, a seguire impulso per impulso, a non<br />

essere meccanica. Imparavo, poco a poco a suonare l’ukulele, a cantare, a usare<br />

<strong>la</strong> mia voce come una parte del corpo, a cadere e a rialzarmi.<br />

Nel frattempo, lo spettacolo andava avanti: con l’arrivo del giovane nel<strong>la</strong><br />

comunità straniera, gli abitanti di Wonder<strong>la</strong>nd lo ricevevano con compassione e<br />

poco a poco lo introducevano in questa nuova terra, insegnandogli <strong>la</strong> loro lingua,<br />

i loro valori e le note musicali che componevano l’inno del<strong>la</strong> nuova patria. Il<br />

giovane chiedeva di suo padre a ogni persona che passava, e loro gli mostravano<br />

soltanto una porta chiusa dietro <strong>la</strong> quale avrebbe trovato le tracce che lo<br />

avrebbero condotto da lui. Varie donne, come angeli custodi, gli asciugavano il<br />

sudore dal<strong>la</strong> fronte, cantavano con voce soave vecchie ninna-nanne.


Dal mio quaderno di <strong>la</strong>voro: "Oggi Eugenio, giusto prima del<strong>la</strong> mia entrata in<br />

scena, è venuto da me con una benda dorata per coprirmi gli occhi. Mi ha bendato<br />

in maniera tale che non potevo veder nul<strong>la</strong>, neanche un’ombra. Mi ha detto: ‘Ora<br />

entra in scena e fai tutto quello che hai fatto fino ad ora.’"<br />

Si è aperto un nuovo spettacolo davanti ai miei occhi bendati. Per mesi non<br />

ho saputo quel che succedeva sul<strong>la</strong> scena, mi facevo guidare dall’udito e dal<br />

tatto, contando i passi per non cadere. A tentoni cercavo di essere in tempo con<br />

gli altri attori, di orientarmi nelle scene che venivano e<strong>la</strong>borate e cambiate tutti<br />

i giorni, nel continuo sforzo di ricordare <strong>la</strong> posizione di ogni attore e di ogni<br />

oggetto nello spazio per non sbagliare. Paralle<strong>la</strong>mente alle mie difficoltà<br />

pratiche, nello spettacolo nascevano e si sviluppavano scene insolite e a volte<br />

atroci: gli abitanti di Wonder<strong>la</strong>nd tentavano il suicidio per convincersi di essere<br />

ancora vivi; altri sperimentavano i limiti del<strong>la</strong> <strong>vita</strong> con droghe e musica rock. Gli<br />

stranieri che aspiravano a entrare in quel luogo delle meraviglie - dove <strong>la</strong> gente<br />

mangia senza avere fame e beve senza avere sete - venivano respinti una volta<br />

dopo l’altra. Soltanto pagando il prezzo di sapere ciò che tutti sanno, e di<br />

camminare come tutti camminano, sarebbero potuti entrare. In tutto ciò io<br />

(l’attrice, non il personaggio) cominciavo a conoscere ogni millimetro del<br />

pavimento, finché <strong>la</strong> vista non fu più necessaria.<br />

Quando Eugenio aveva concluso il suo discorso, quel<strong>la</strong> mattina del 5<br />

febbraio del 2008, il sole era già uscito. Con <strong>la</strong> luce erano arrivate le prime scene,<br />

e con le scene esplose il caos. E il caos ci ha accompagnato per questi quattro<br />

anni, un caos fluttuante che assume e perde forma; che si amalgama e poi si<br />

suddivide. Ancora oggi mi sorprende vedere i miei appunti dei primi mesi e<br />

constatare che certi frammenti e dettagli non sono cambiati di una virgo<strong>la</strong>;<br />

mentre altri li abbiamo persi per strada. A volte ho <strong>la</strong> sensazione che lo spettacolo<br />

parli anche del processo stesso di crearlo. Così come in ogni embrione si<br />

ripercorre <strong>la</strong> storia genetica del<strong>la</strong> specie.<br />

Nello spettacolo, il giovane passava tutte le prove cui veniva sottoposto dagli<br />

abitanti del vil<strong>la</strong>ggio, finché lui giungeva al<strong>la</strong> sua morte rinascendo come nuovo<br />

membro di quel<strong>la</strong> comunità di fantasmi. Si udiva uno sparo, si apriva <strong>la</strong> porta, e solo<br />

allora gli toglievano le bende dagli occhi, ma dietro <strong>la</strong> porta non era nascosto nessun<br />

segreto, nessuna traccia e nessun padre, solo un nuovo cammino da percorrere.<br />

Mentre scrivo queste righe, ancora non abbiamo finito lo spettacolo, molte cose<br />

possono ancora cambiare. Ma una cosa ho capito in questi anni di <strong>la</strong>voro: che forse il<br />

destino lo trovi solo quando ti allontani da tuo padre. Nello stesso modo, come<br />

attrice, ciò che importa è saper cominciare con le mani vuote e continuare a cercare<br />

oltre una porta aperta.<br />

(Trad. a cura di Nando Taviani)<br />

27


Kai Bredholt<br />

Donna Vera<br />

"I figli devono assistere al<strong>la</strong> morte del padre. Ho asciugato il sudore di tuo padre<br />

tutta <strong>la</strong> notte. È morto alle 4. Vi ho messo a letto, te e tuo fratello. Ti ho<br />

sussurrato: ‘Quanto disordine oggi’."<br />

Nello spettacolo faccio <strong>la</strong> parte di una donna, <strong>la</strong> vedova di un combattente<br />

basco. Ma <strong>la</strong> figura era originalmente ispirata a Donna Vera, <strong>la</strong> mamma di Eugenio<br />

Barba. L’idea di creare una figura femminile parte da una catena di pensieri messa<br />

in moto da Eugenio stesso. Dopo una delle prime prove dello spettacolo nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong><br />

blu, lui mi ha proposto di utilizzare come ispirazione per il mio <strong>la</strong>voro una persona<br />

che io conoscessi direttamente. Uscendo dal<strong>la</strong> sa<strong>la</strong>, ha aggiunto quasi casualmente<br />

che poteva anche essere una donna. Mesi dopo, durante una tournée in<br />

Messico, quel<strong>la</strong> sua frase (una donna…) è riapparsa nei miei pensieri. Pensavo che<br />

lo spettacolo avrebbe potuto par<strong>la</strong>re di Eugenio, e che quindi quel<strong>la</strong> donna doveva<br />

essere sua madre, Donna Vera. Per questo ho chiesto ad Eugenio di fargli<br />

un’intervista su di lei e sul tempo in cui lui era bambino. Ho anche preso in<br />

prestito da lui delle fotografie: foto di quando Vera era una giovane ragazza, di<br />

quando era una giovane vedova con due figli piccoli e di quando era una donna<br />

matura affiancata da due figli grandi con i vestiti militari.<br />

Questo fu il punto di partenza per creare <strong>la</strong> sua figura.<br />

In quelle foto vedevo una donna che indossava abiti eleganti, ma non<br />

vistosi. All’inizio ho provato con un vestito, però mi sono accorto che ricadevo<br />

facilmente nel cliché di una donna. Cercavo un costume in cui il femminile fosse<br />

appena accennato. La mia figura doveva essere sia una donna che un uomo, come<br />

in un quadro cubista dove le linee sono soltanto abbozzate, ed è <strong>la</strong> persona che<br />

guarda a dover riconoscere <strong>la</strong> figura. Una figura che è facilmente identificabile<br />

come un uomo, ma è una donna.<br />

Ho provato con dei pantaloni neri che nascondono quasi del tutto degli<br />

stivaletti con i tacchi alti, una camicia nera con <strong>la</strong> cinta in <strong>vita</strong>, una col<strong>la</strong>na di perle<br />

e uno scialle nero, chiuso con un cammeo che indossava mia nonna e che ho ricevuto<br />

in regalo da mia madre. Piccoli gioielli simbolici portati da una donna di c<strong>la</strong>sse.<br />

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30<br />

Ad Eugenio questo costume piaceva, e anche se più avanti abbiamo provato<br />

ad aggiungere altri dettagli, come un reggiseno, una veletta o un velo vedovile,<br />

siamo sempre tornati allo stesso punto di partenza: <strong>la</strong> semplicità.<br />

Gli stivaletti con i tacchi alti hanno marcato <strong>la</strong> camminata e <strong>la</strong> postura di<br />

Donna Vera. All’inizio mi hanno aiutato a trovare <strong>la</strong> sua maniera di muoversi,<br />

esitante ma comunque decisa. Potevo <strong>la</strong>vorare con il suono dei tacchi sul pavimento<br />

di legno, accentuandolo oppure assorbendolo quando non si doveva sentire.<br />

Dopo un po’ di tempo, quando bi<strong>la</strong>nciarmi sui tacchi alti era ormai diventata<br />

un’abitudine, <strong>la</strong> figura non era più così stagliata come prima, e sono caduto nel<br />

mio vizio di guardare per terra quando cammino. Per questo, durante il training,<br />

ho cominciato a mettere una picco<strong>la</strong> campana di bronzo sul<strong>la</strong> testa, cercando di<br />

non far<strong>la</strong> cadere e camminando a lungo in questo modo. Il trucco ha funzionato,<br />

e Vera ha recuperato il suo portamento. Adesso mi basta pensare a quel<strong>la</strong><br />

campana per riuscire a ritrovarlo.<br />

La voce cantata è diventata una componente importante del<strong>la</strong> figura di<br />

Donna Vera. Ancora una volta ho cercato l’ambivalenza, una voce che non fosse<br />

né di uomo né di donna, un falsetto alto, fragile. Poteva essere quasi<br />

impercettibile, ma passando ad un registro normale, diventava fortissimo e il suo<br />

carattere cambiava come in un’esplosione. Pensavo che si adattassse bene ad una<br />

donna che portava il suo lutto con dignità, ma dentro di sé aveva una tempesta di<br />

emozioni. Un amore che era morto troppo presto.<br />

Un gruppo rock is<strong>la</strong>ndese, i Sigur Ros, che suona un tipo di musica che loro<br />

chiamano slowmotion rock, è stato <strong>la</strong> mia ispirazione. Costruiscono <strong>la</strong> loro musica<br />

sul<strong>la</strong> base di accordi semplici e ritmi insistenti. All’inizio è una musica che accarezza,<br />

poi all’improvviso distrugge l’idillio con un caos di ritmi martel<strong>la</strong>nti,<br />

disarmonie, chitarre ulu<strong>la</strong>nti e note lunghissime cantate in falsetto. Mi sono<br />

ispirato a questa musica anche per una sequenza di azioni e scene che ho montato<br />

quando ho presentato Vera ad Eugenio per <strong>la</strong> prima volta.<br />

Ho raccolto alcuni frammenti di testo dall’intervista con Eugenio e con<br />

Pierangelo Pompa, che è assistente al<strong>la</strong> regia, li ho montati per comporre un testo<br />

lungo in cui era Vera stessa a raccontare <strong>la</strong> sua <strong>vita</strong>. Come nell’intervista di Eugenio,<br />

tutto il testo era in italiano. Questo mi ha aiutato a trovare <strong>la</strong> voce di Vera. Mi<br />

riusciva facile par<strong>la</strong>re e raccontare in italiano. Era come un canto morbido.<br />

Quando, più tardi, il testo è stato tradotto in danese, ho incontrato una<br />

montagna quasi invalicabile. Suonava falso e artificiale, e non riuscivo a ritrovare<br />

quel<strong>la</strong> melodia che mi permetteva di par<strong>la</strong>re senza interpretare. Più avanti nel<br />

<strong>la</strong>voro mi sono dovuto caricare altri due macigni, quando Eugenio ha proposto che<br />

al danese alternassi continuamente <strong>la</strong> lingua basca. Ora, nello spettacolo, sono<br />

una vedova basca.


La vedova di un combattente basco (Kai Bredholt): "Danzo so<strong>la</strong> questa notte, il mio amato<br />

è morto." Foto: Tommy Bay<br />

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32<br />

Sto ancora sca<strong>la</strong>ndo <strong>la</strong> montagna, ma ogni tanto mi imbatto in qualcosa che<br />

funziona per me e per Eugenio. È come se i testi debbano essere strappati al<strong>la</strong> loro<br />

logica, scomposti in frammenti privi di senso, fino a che nul<strong>la</strong> di comprensibile<br />

rimanga, e poi ricomposti paro<strong>la</strong> per paro<strong>la</strong> per costruire una logica nuova.<br />

Forse, al<strong>la</strong> fine, il testo suonerà esattamente come <strong>la</strong> prima volta, quando<br />

funzionava bene, proprio perché era insicuro e aveva pause illogiche. Forse si<br />

torna al punto di partenza, ma il viaggio era necessario e senza scorciatoie.<br />

I testi che avevo scelto hanno dato <strong>vita</strong> a tre scene, in cui Vera racconta <strong>la</strong><br />

sua <strong>vita</strong>. Una di queste si svolge nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> da pranzo del<strong>la</strong> casa di Vera ed Eugenio.<br />

Lei racconta dell’incontro con suo marito, e del<strong>la</strong> sera di pochi anni dopo in cui<br />

morì. Chiesi ad Iben [Nagel Rasmussen] di aiutarmi suonando alcuni semplici<br />

accordi sul<strong>la</strong> sua nuova fisarmonica, su cui improvvisavo con <strong>la</strong> voce, mentre<br />

stendevo <strong>la</strong> tovaglia, apparecchiavo <strong>la</strong> tavo<strong>la</strong> e preparavo il letto. Piccoli <strong>la</strong>vori<br />

domestici che si addicevano a Vera. Il grosso pupazzo di Hans Christian Andersen<br />

dello spettacolo precedente, Il sogno di Andersen, stava seduto sul pavimento,<br />

vestito come Eugenio in una foto di quando era bambino. Mia madre aveva fatto<br />

a maglia un pullover senza maniche e cucito un paio di pantaloni al<strong>la</strong> zuava. Vera<br />

raccontava <strong>la</strong> storia al pupazzo, come se fosse suo figlio, ma nel momento in cui<br />

par<strong>la</strong>va del<strong>la</strong> notte in cui suo marito era morto, entrava Sofia [Monsalve] vestita<br />

esattamente come il pupazzo e ne prendeva il posto seduta sul pavimento. Vera<br />

adagiava il pupazzo sul<strong>la</strong> tavo<strong>la</strong>, che si trasformava nel letto di morte del padre.<br />

Eugenio mi aveva descritto minuziosamente quel<strong>la</strong> notte e di come Vera lo<br />

avesse mandato a comprare del ghiaccio per il padre agonizzante, dicendogli che<br />

il negozio sarebbe stato sicuramente chiuso, ma che doveva bussare fino a quando<br />

scendessero ad aprire. Mi sembrava un’immagine fantastica, e mi sarebbe<br />

piaciuto usar<strong>la</strong>. Per tanto tempo non ho capito a che cosa servisse quel ghiaccio.<br />

Più tardi ho compreso che serviva per far abbassare <strong>la</strong> febbre del padre.<br />

Nel momento in cui nel<strong>la</strong> scena era Sofia e non più il pupazzo a rappresentare<br />

Eugenio bambino, potevo mandar<strong>la</strong> a prendere un blocco di ghiaccio e<br />

far<strong>la</strong> correre per lo spazio, come aveva corso Eugenio quel<strong>la</strong> notte per i vicoli del<br />

suo paese. Mentre Vera scatenava il suo caos, spezzando il suo canto in falsetto<br />

con l’altra sua voce, molto più potente e profonda.<br />

In questa scena eseguivo tante piccole azioni concrete: apparecchiare <strong>la</strong><br />

tavo<strong>la</strong>, piegare un fazzoletto, <strong>la</strong>vare il cadavere, coprirlo con un lenzuolo. Queste<br />

semplici azioni mi piacevano, ma anch’esse sono col tempo diventate una routine,<br />

che doveva essere rotta con l’aiuto del regista. Non ero più neanche capace di<br />

appoggiare un piatto sul tavolo in maniera credibile. Qui non bastava <strong>la</strong> picco<strong>la</strong><br />

campana di bronzo, perché il problema era un altro: sincronizzare le azioni con il<br />

testo in basco e in danese. Però ho inventato dei piccoli "errori" che potessero


aiutarmi: un’azione eseguita un po’ in ritardo o appena in anticipo, un minuscolo<br />

controimpulso, quasi soltanto un pensiero: voglio andare a destra però vado a<br />

sinistra. Questi piccoli errori sono diventati accenti musicali consapevoli, finché<br />

ogni azione ha trovato <strong>la</strong> propria identità. È un processo lento che esige tempo.<br />

Non ci sono scorciatoie. Così Vera ha trovato <strong>la</strong> sua figura e ha potuto intraprendere<br />

il suo viaggio nello spettacolo La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong>.<br />

Corri a comprare un pezzo di ghiaccio<br />

Donna Vera: "Vengo da una famiglia aristocratica. Ero molto giovane quando mio<br />

marito Emanuele è morto e sono rimasta vedova. Abitavamo a Gallipoli, una<br />

cittadina di pescatori. Avevamo due figli, Ernesto ed Eugenio.<br />

La morte non mi ha mai spaventato, ma per molti anni ho dormito con una<br />

pisto<strong>la</strong> sotto il cuscino, perché avevo paura che venissero a giustiziare mio<br />

marito. Aveva combattuto dal<strong>la</strong> parte sbagliata durante <strong>la</strong> guerra. L’ho conservata<br />

come ricordo. Non mi sono mai sentita a casa in Puglia, non era il mio mondo.<br />

Adesso che sono vecchia, chi mi sta più vicino è una famiglia povera di<br />

peruviani, che vive a casa mia e si prende cura di me."<br />

Scegliendo Donna Vera avevo sperato che lo spettacolo trattasse di Eugenio;<br />

che potessimo raccontare <strong>la</strong> storia di un ragazzo di Gallipoli. Non per trovare<br />

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34<br />

risposte sul<strong>la</strong> biografia di quel ragazzo, ma per sfidare <strong>la</strong> nostra abitudine a<br />

raccontare sempre storie molto aperte ed ambivalenti. Per dare un’identità alle<br />

tante persone che nei nostri spettacoli subiscono delle offese oppure muoiono, o<br />

che cantano e raccontano.<br />

Ma lo spettacolo non ha trattato di Eugenio e del<strong>la</strong> sua <strong>vita</strong>. È un tema forse<br />

troppo vicino. "Non è interessante", direbbe Eugenio. Forse perché lui corre<br />

ancora nelle strade di Gallipoli col suo pezzo di ghiaccio col terrore di non arrivare<br />

in tempo e vedere <strong>la</strong> morte negli occhi.<br />

Eppure lo spettacolo tratta anche di Eugenio.<br />

Una sera, a Città del Messico, gli chiesi se poteva par<strong>la</strong>rmi di sua madre. Il<br />

giorno dopo, e quello dopo ancora, ci siamo seduti uno di fronte all’altro e per<br />

cinque ore di seguito ha par<strong>la</strong>to di sua madre e di se stesso.<br />

Del pezzo di ghiaccio nel<strong>la</strong> notte in cui suo padre morì. Dell’anguil<strong>la</strong> nel pozzo<br />

di casa che bisognava stare attenti a non pescare, perché l’acqua avrebbe rischiato<br />

di avvelenarsi e l’intera famiglia Barba di morire. Ha raccontato degli zii ossessionati<br />

dall’idea del suicidio e di come tre di loro, dopo vani tentativi, lo commisero<br />

davvero. Di se stesso, l’unico del<strong>la</strong> famiglia che andava in chiesa ogni giorno per<br />

pentirsi dei suoi peccati anche quando non c’era niente di cui pentirsi.<br />

Ha raccontato di Vera che, in quanto donna, non poté seguire il feretro del<br />

marito al cimitero e che da vedova non poté più mostrarsi per strada dopo<br />

l’imbrunire senza essere accompagnata da uno degli uomini del<strong>la</strong> famiglia. Vera,<br />

una donna forte dall’umorismo bizzarro, che si piegava al suo destino senza<br />

perdere mai <strong>la</strong> sua dignità, che non si risposò e da so<strong>la</strong> educò i suoi due figli a<br />

frequentare questo mondo.<br />

Ci sono anche tutte queste storie nel<strong>la</strong> Vita <strong>cronica</strong>. Nascoste sotto molti<br />

strati, ma ci sono: angoscia, felicità, dolore, colpa, morte, odio, umorismo,<br />

sorriso, suicidio, canti, musica e solitudine.<br />

Donna Vera: "Ricordi <strong>la</strong> notte in cui è morto tuo padre? Tuo padre ed io<br />

eravamo stati in<strong>vita</strong>ti a casa di amici. ‘Ritorneremo alle nove’, vi abbiamo detto.<br />

Erano le dieci e non eravamo ancora tornati. Tu e tuo fratello avete sentito lo<br />

scalpitio di un cavallo, lo stridore di una carrozza, voci alterate. Uomini sconosciuti<br />

hanno adagiato tuo padre sul letto. Sono venuta verso te ed Ernesto e ho detto:<br />

‘Non abbiate paura’. A te ho detto: ‘Corri a comprare un pezzo di ghiaccio, poi<br />

vai dal dottore e digli che tuo padre sta male. Dopo corri dal prete e pregalo di<br />

venire con l’estrema unzione. Fa’ presto.’"<br />

Eugenio aveva dieci anni <strong>la</strong> notte in cui morì suo padre. Oggi ne ha 74 e il<br />

Danzo pezzo so<strong>la</strong> di ghiaccio questa notte, non si il è mio ancora amato sciolto. è morto. La vedova basca (Kai Bredholt). Foto:<br />

Tommy Bay<br />

(Trad. a cura di Nando Taviani)


Foto: Jan Rüsz<br />

Foto: Jan Rüsz<br />

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Il cantante delle isole Faroe (Jan Ferslev) e Nikita, <strong>la</strong> rifugiata cecena (Julia Varley): "Sono<br />

arrivata al confine del paese delle meraviglie. Qui <strong>la</strong> gente mangia senza avere fame e beve senza<br />

avere sete." Foto: Jan Rüsz


Julia Varley<br />

La nascita di Nikita: protesta e spreco<br />

La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong> è per me uno spettacolo il cui processo è segnato dal<strong>la</strong> morte. Ora<br />

che è quasi finito, comincio a intravederci una protesta contro l’ine<strong>vita</strong>bilità del<strong>la</strong><br />

morte e un’asserzione del<strong>la</strong> necessità di continuare, nonostante tutto.<br />

All’inizio non abbiamo avuto l’obbligo di preparare qualcosa. Al contrario<br />

del processo di creazione del Sogno di Andersen - per il quale ogni attore ha<br />

dovuto realizzare uno spettacolo di un’ora e mettere in scena un racconto di<br />

Hans Christian Andersen con i compagni - per quello che inizialmente chiamavamo<br />

XL (Extra Large), ci è stato chiesto solo di arrivare al<strong>la</strong> prima prova<br />

disposti a verificare se ancora eravamo in grado di fare uno spettacolo insieme.<br />

Ognuno di noi è regista, maestro, direttore di progetti e di gruppi. Con il tempo,<br />

i nostri difetti fermentano, <strong>la</strong> nostra pazienza diminuisce, e sorprenderci e<br />

stimo<strong>la</strong>rci a vicenda diventano una sfida sempre più ardua. La col<strong>la</strong>borazione non<br />

è gratuita.<br />

Il primo giorno ci è stato detto di mettere in scena un funerale. Non<br />

potevamo sfuggire al<strong>la</strong> consuetudine degli ultimi anni del regista che <strong>la</strong>vora con<br />

materiali scenici proposti dagli attori con già un minimo di struttura. Ognuno, dal<br />

più giovane al più anziano di noi, eccetto <strong>la</strong> giovanissima Sofía Monsalve che si era<br />

appena unita al gruppo, doveva immaginarsi e organizzare una cerimonia<br />

funeraria con l’intenzione di profanare quello che abbiamo di più sacro, andare<br />

contro l’autorità e scatenare una protesta personale. L’unico oggetto presente sin<br />

dall’inizio era una lunga cassa coperta fino a terra da una stoffa. A suo tempo si<br />

rivelò essere una bara trasparente, come fosse di cristallo, che conteneva acqua<br />

e anguille. Un giorno Sofia ha dovuto immergersi in quell’acqua.<br />

La picco<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> blu dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> dove provavamo si è presto riempita di<br />

ogni tipo di oggetti e strumenti musicali che depositavamo in una sorta di<br />

magazzino che avevamo allestito sul fondo. Ricordo che l’inizio delle prime fi<strong>la</strong>te<br />

era una seque<strong>la</strong> di entrate e uscite per portare dentro gli oggetti e ricoprire <strong>la</strong><br />

bara di stoffe colorate, senza fretta, come se avessimo tutto il tempo del mondo.<br />

Gli spettatori arriveranno gradualmente nel corso di questa preparazione, ci<br />

spiegava Eugenio Barba. Piazzare con precisione le stoffe, una sopra all’altra, è<br />

stato a lungo per me un’ancora, una successione di azioni concrete a cui<br />

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appoggiarmi, per ce<strong>la</strong>re <strong>la</strong> morte il più possibile a me stessa e agli altri. Non<br />

volevo pensarci e reagivo al fatto che mi era chiesto di pensarci.<br />

Quando dico che il processo del<strong>la</strong> Vita Cronica è segnato dal<strong>la</strong> morte mi<br />

riferisco alle persone care che ho e abbiamo perso negli anni in cui con<br />

intermittenza abbiamo provato questo nuovo spettacolo. Prima è morta María<br />

Cánepa, una cara amica attrice cilena; poi Silvia Mascarone, <strong>la</strong> moglie di C<strong>la</strong>udio<br />

Coloberti, il compagno con cui facevo teatro a Mi<strong>la</strong>no nel<strong>la</strong> mia gioventù e che ora<br />

<strong>la</strong>vora per gli archivi dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong>; poi Marco Potena, l’uomo con cui mia<br />

madre ha convissuto tre decadi, quasi tanti anni quanti ne ho trascorsi io in<br />

Danimarca; poi Tony D’Urso, il fotografo che ha seguito molte delle nostre<br />

tournée più avventurose e le cui fotografie sono diventate delle icone del teatro;<br />

poi ci <strong>la</strong>sciò Torgeir Wethal, uno dei fondatori dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong>, <strong>la</strong> prima persona<br />

del gruppo con cui ho avuto contatto. Torgeir ha partecipato alle prove fino a tre<br />

settimane prima del<strong>la</strong> sua fine.<br />

Ci sono state anche sparizioni meno dolorose, ma egualmente significative:<br />

Frans Winther, il musicista che è all’<strong>Odin</strong> dal 1987, ha <strong>la</strong>sciato lo spettacolo, e ad<br />

un certo punto il regista ha ‘ucciso’ il personaggio che avevo creato, in modo da<br />

farne nascere un altro. Tutti questi riti di passaggio, che appartengono al<strong>la</strong><br />

dinamica del<strong>la</strong> <strong>vita</strong> che continua imperterrita il suo corso, sono scogli duri da<br />

superare. A volte quello che nelle prove è tagliato, o dimenticato fra gli scarti, mi<br />

appare come uno spreco, altre volte riesco a capire che tutto impregna il risultato<br />

finale, anche se è impercettibile in superficie.<br />

Il funerale di María Cánepa è stato partico<strong>la</strong>re. Non c’ero, ma me l’hanno<br />

raccontato. Hanno gettato le sue ceneri nell’Oceano Pacifico e il mare, che quel<br />

giorno onorava il suo nome con una calma luminosa, le ha subito ributtate con una<br />

ondata improvvisa. "Il suo ultimo atto p<strong>la</strong>teale di attrice" ha commentato il suo<br />

secondo marito Juan Cuevas. María aveva già preso congedo dalle persone vicine<br />

con una registrazione di poesie con cui ringraziava per l’affetto che l’aveva<br />

circondata. Raccontava del<strong>la</strong> sua <strong>vita</strong> in teatro con l’ingenuità disarmante che <strong>la</strong><br />

caratterizzava: l’affetto ricevuto si ricambia solo con affetto; dedicarsi al <strong>la</strong>voro,<br />

obbedire al regista e interpretare i personaggi. Dopo sessant’anni come attrice,<br />

se glielo chiedessero, rifarebbe tutto uguale.<br />

Silvia Mascarone è stata il primo cadavere che ho visto in <strong>vita</strong> mia. Ero<br />

partita per Torino per stare vicino a C<strong>la</strong>udio, mentre a Holstebro, per marcare il<br />

legame con <strong>la</strong> nostra città, l’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> realizzava uno spettacolo-<strong>la</strong>birinto in<br />

tutto il teatro per inaugurare il progetto locale chiamato Interferenza. C’era un<br />

odore partico<strong>la</strong>re nel<strong>la</strong> stanza, dolciastro. C<strong>la</strong>udio, suo marito, mi disse: "Guarda<br />

com’è bel<strong>la</strong>". Era vero: bel<strong>la</strong>, bianca e immobile. Era lì, ma assente. Era lei?<br />

Durante il funerale, in un attimo folgorante, il figlio Camillo ha sollevato <strong>la</strong>


fotografia del<strong>la</strong> madre sorridente e l’ha mostrata in modo provocante a tutti i<br />

presenti, come per dire: "Guardate<strong>la</strong>, quanto è piena di <strong>vita</strong>!" Dagli altopar<strong>la</strong>nti<br />

Lucio Battisti cantava a squarciago<strong>la</strong> "Innamorato, sempre di più". Ho preso<br />

C<strong>la</strong>udio fra le braccia ed ho bal<strong>la</strong>to con lui. Continuo ad abbracciarlo quando e<br />

quanto posso.<br />

Per Marco Potena ho pianto <strong>la</strong> prima volta un giorno che guidavo verso il<br />

teatro. Mi sono dovuta fermare. È così ingiusto, gridavo silenziosamente dentro di<br />

me, è così ingiusto che lui sia solo in ospedale nel reparto rianimazione e che mia<br />

madre non possa essergli accanto, tenergli <strong>la</strong> mano e spartire ogni secondo<br />

disponibile. Per lui e per lei: è così ingiusto. Ma il nostro mondo è retto da leggi<br />

e regole; gli individui e le re<strong>la</strong>zioni contano poco, non c’è più tempo, economia e<br />

spazio per tenerezza e silenzio condiviso. Fare teatro mi aiuta a protestare contro<br />

tutto ciò. Riesco a fare poco, lo so, ma l’azione resta necessaria.<br />

Una sera, dopo una prova in sa<strong>la</strong> bianca, ci siamo riuniti per bere del vino<br />

rosso, sanguigno. A Tony D’Urso piaceva e abbiamo bevuto pensando a lui,<br />

ricordando aneddoti dal Pa<strong>la</strong>zzo del<strong>la</strong> Moneda in Cile, dai viaggi in pulmino con le<br />

suore che facevano autostop in Sardegna, dalle riprese di film a Carpignano<br />

Salentino e a Holstebro, dal<strong>la</strong> sua voglia di chiacchierare fin da primo mattino<br />

nel<strong>la</strong> casa di Sir Alto, e soprattutto dal<strong>la</strong> prima volta a Belgrado quando si nascose<br />

per fotografare Min fars hus dalle spaccature del soffitto. L’avevo incontrato poco<br />

prima a Bologna, al Teatro Ridotto, e mi aveva raccontato di come stranamente<br />

<strong>la</strong> sua ma<strong>la</strong>ttia gli aveva aperto nuove possibilità di <strong>la</strong>voro: eternamente povero<br />

e ottimista. Tage Larsen andò a Mi<strong>la</strong>no per rappresentarci tutti al suo funerale.<br />

Ero in un bar di Scil<strong>la</strong> in Ca<strong>la</strong>bria a prendere un caffè e cornetto per <strong>la</strong> prima<br />

co<strong>la</strong>zione quando Eugenio ha ricevuto <strong>la</strong> telefonata di Roberta Carreri che<br />

annunciava <strong>la</strong> morte di Torgeir. È spirato qualche minuto fa, mi ha detto. Non<br />

dimenticherò mai quel bar, il giornale aperto sul tavolo accanto al<strong>la</strong> tazzina di<br />

caffè, Eugenio in piedi vicino al banco per pagare, il silenzio improvviso che mi<br />

sommergeva, le mani che sostenevano il viso, lo sguardo perso nel nul<strong>la</strong>. Roberta<br />

e Iben Nagel Rasmussen, Alice Carreri Pardeilhan e suo marito Erik, erano con lui:<br />

"meno male", ho pensato in un angolo del<strong>la</strong> mia mente. Poi è subentrato un altro<br />

pensiero inconfessato: benché per mesi mi fossi rifiutata di ammettere che <strong>la</strong> fine<br />

potesse essere imminente, è stato un bene che l’ultimo periodo sia passato così<br />

velocemente. Torgeir ha potuto mantenere <strong>la</strong> sua dignità, il suo timing e il suo<br />

sorriso fino all’ultimo. I partecipanti del<strong>la</strong> sessione dell’Università del Teatro<br />

Eurasiano mi aspettavano. Ancora confusa e sotto shock, ho salito le scale che<br />

portavano al castello di Scil<strong>la</strong>. La contastorie indiana Parvathy Baul che stava<br />

insegnando mi ha visto e ha capito. Mi ha chiesto di unirmi al canto e al<strong>la</strong> danza<br />

insieme ai partecipanti. Ho dovuto concentrarmi sui passi e le note. Poi è toccato<br />

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40<br />

a me dirigere il <strong>la</strong>voro. Uscendo, tutti i pensieri erano rivolti a Roberta e al<br />

gruppo. Come avremmo potuto riprendere le prove dello spettacolo e, per<br />

ricordare le scene già fissate, guardare il video in cui c’era anche Torgeir? Tutto<br />

cambia in un secondo: avere e non avere, ci ripete sempre Eugenio. È giusto<br />

commemorare chi ci ha <strong>la</strong>sciato, ma è necessario celebrare <strong>la</strong> <strong>vita</strong>. Dobbiamo<br />

continuare.<br />

L’obbligo del <strong>la</strong>voro ci ha sempre aiutato nei momenti più difficili: ritornare<br />

a fare training quando Eugenio ha abbandonato le prove di Ceneri di Brecht;<br />

produrre lo spettacolo Theatrum Mundi per l’ISTA del Portogallo già in programma<br />

quando è morta Sanjukta Panigrahi; fare le prove quando le coppie del gruppo<br />

divorziavano e i figli esigevano scelte chiare. Anche questa volta, finire lo<br />

spettacolo è stato un obbligo sentito da ognuno di noi, che ci ha aiutato a non<br />

<strong>la</strong>sciarci abbattere dall’inaccettabile. La presenza di Torgeir si prolunga nel<strong>la</strong> Vita<br />

<strong>cronica</strong>, anche se non tutti gli spettatori sapranno veder<strong>la</strong>.<br />

Ho sempre avuto difficoltà a tollerare <strong>la</strong> tendenza a dirigere morbosamente<br />

l’attenzione verso se stessi. Il primo tema proposto dal regista aveva per me<br />

questo sapore. Ho reagito malissimo. Volevo scappare dal<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> di <strong>la</strong>voro. Cercavo<br />

di sentire e farmi notare il meno possibile. Allo stesso tempo non potevo rinunciare<br />

a essere parte dello spettacolo e quindi del gruppo. In fondo l’<strong>Odin</strong> è <strong>la</strong> mia <strong>vita</strong>.<br />

Come potrei continuare ad esistere fuori e da so<strong>la</strong>? Mi sentivo in trappo<strong>la</strong>.<br />

Per <strong>la</strong> mia "cerimonia funeraria" predisposi una scena di pulizia - come fa<br />

Eugenio per le ricorrenze importanti del nostro teatro - inframezzata da aneddoti<br />

tratti da tournée e spettacoli passati. Feci lucidare l’argenteria che portai da<br />

casa, descrivere due episodi a ogni attore e mangiare con <strong>la</strong> forchetta una<br />

minestra d’acqua, secondo un racconto che Marco Potena aveva fatto una volta a<br />

Eugenio. Solo Sofía poteva mangiare con il cucchiaio. Entrando nel nostro gruppo,<br />

<strong>la</strong> giovane aveva <strong>la</strong> <strong>vita</strong> più semplice di quel<strong>la</strong> che avevamo vissuto noi tanti anni<br />

prima, eppure tanto più difficile perché era so<strong>la</strong> in mezzo ai dinosauri. Feci<br />

giocare alle belle statuine e nascondere l’argenteria in tutta <strong>la</strong> sa<strong>la</strong>. Mi ispirava<br />

<strong>la</strong> mostra che avevo visto a New York dei quadri dipinti da Pablo Picasso dopo i<br />

suoi ottant’anni, pieni di irriverenza e spensieratezza.<br />

Al<strong>la</strong> fine del<strong>la</strong> seconda settimana di prove il mio tormento arrivò al limite.<br />

Venerdì notte non riuscivo a dormire. Dovevo assolutamente trovare una via<br />

d’uscita. Non potevo continuare a rifugiarmi in un angolo del<strong>la</strong> sa<strong>la</strong>, chiusa nel<strong>la</strong><br />

mia pesante tristezza causatami dal tema datoci da Eugenio nel suo tentativo di<br />

rompere tabù e automatismi. La sua provocazione per scuotere il gruppo mi<br />

paralizzava. Rifiutavo il ricatto sottinteso nel<strong>la</strong> frase "se non riusciamo a <strong>la</strong>vorare<br />

assieme non ha senso lo sforzo immane per mantenere il gruppo". Ero imbarazzata<br />

dalle improvvisazioni, imitazioni di persone e situazioni, che sembravano


divertire gli altri. Ero stanca di sentirmi dire che non bisogna par<strong>la</strong>re in sa<strong>la</strong><br />

mentre al tempo stesso ogni decisione del regista era spiegata e giustificata con<br />

lunghi discorsi che insistevano su una scelta che cambiava il giorno successivo.<br />

Quel venerdì riuscii ad addormentarmi solo all’alba quando decisi, non so<br />

perché, che mi sarei presentata al<strong>la</strong> prossima prova come un uomo con i baffi. Era<br />

il massimo del<strong>la</strong> protesta che riuscivo a concepire e al tempo stesso una proposta<br />

concreta. All’improvviso mi sentii leggera.<br />

Il mattino del sabato, giorno libero, <strong>la</strong>sciai <strong>la</strong> mia casa in campagna e andai<br />

in città, a Holstebro. Ero emozionata, come il topo che bal<strong>la</strong> quando non c’è il<br />

gatto. Entrai in un negozio di vestiti usati in cui non ero mai stata prima. Mi<br />

avvicinai all’angolo che esponeva completi da uomo e ne provai uno. Era <strong>la</strong> misura<br />

perfetta. Questo deve essere un segno, pensai, visto che i pantaloni maschili non<br />

mi vanno mai bene. Anche <strong>la</strong> camicia bianca che accompagnava il vestito era del<strong>la</strong><br />

misura giusta. In un altro negozio dell’usato comprai un cappello nero a falde<br />

<strong>la</strong>rghe. Avevo tutto ciò che mi serviva per una trasformazione perfetta.<br />

Soprattutto non volevo più essere triste e scura. Desideravo smettere di essere un<br />

peso per il regista e gli altri attori.<br />

A casa mi armai di col<strong>la</strong> e nastro adesivo per confezionare un paio di baffi<br />

e una parrucca che spuntasse dal cappello come se avessi i capelli corti. Avevo<br />

tenuto un ciuffo dei miei capelli da molti anni e lo usai. La consistenza e anche il<br />

colore erano cambiati, ma il mio entusiasmo non si soffermava su questi dettagli.<br />

Sono i momenti del processo che amo di più: creo oggetti e costumi che so che<br />

non potranno mai essere usati perché troppo primitivi, ma che mi danno idee.<br />

Quando entrai in sa<strong>la</strong>, i baffi tremavano un poco: cercavo di restare seria e<br />

di non ridere. La compostezza era importante per non far cadere i baffi, tenuti a<br />

ma<strong>la</strong>pena dal nastro adesivo. Soprattutto dovevo e<strong>vita</strong>re di sudare. Ricordo il<br />

sorriso dissimu<strong>la</strong>to dei miei compagni, degli osservatori e degli assistenti al<strong>la</strong><br />

regia raccolti in sa<strong>la</strong> blu mentre aspettavamo Eugenio. Quando lui entrò, esc<strong>la</strong>mò:<br />

"Come assomigli a tuo padre!" E continuò le prove come se niente fosse cambiato.<br />

Per me invece era cambiato tutto.<br />

Avevo deciso che il mio uomo avrebbe camminato sempre con le braccia<br />

parallele e un passo leggermente balzel<strong>la</strong>nte come suo fratello, il personaggio del<br />

<strong>la</strong>voratore norvegese di Geddy Aniksdal, attrice del Gren<strong>la</strong>nd Friteater. Calmo o<br />

veloce, avanzava sempre con le braccia all’unisono. Non ero più Julia, triste,<br />

scura e pesante, ma un personaggio che si poteva permettere ogni tipo di<br />

commento. Ero libera di comportarmi male e protestare attraverso un comportamento<br />

esagerato, accentuato, non naturalista, di cui curavo con premura <strong>la</strong><br />

composizione teatrale.<br />

La mia proposta rischiava di non piacere, ma non poteva essere immedia-<br />

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42<br />

Febbraio 2008: Un’attrice in cerca del<br />

personaggio (Iben Nagel Rasmussen) e lo<br />

Zio d’America (Julia Varley). Foto: <strong>Odin</strong><br />

<strong>Teatret</strong><br />

tamente soppressa, perché era<br />

un’espressione di impegno, <strong>la</strong> spia di<br />

una direzione, un segnale da interpretare.<br />

Senz’altro andava nel senso<br />

opposto a quello che mi era stato<br />

suggerito: creare una cerimonia funeraria<br />

con piccole azioni trattenute e<br />

non teatrali. Anche <strong>la</strong> mia voce aveva<br />

trovato un compito nuovo: essere più<br />

bassa di tonalità e maschile.<br />

Il giorno dopo Iben venne con un<br />

elegante vestito femminile. Ci facemmo una fotografia tenendoci a braccetto<br />

come una coppia. Durante le prove cominciavamo a improvvisare sul<strong>la</strong> base dei<br />

personaggi che facevano capolino. A volte avevo imbarazzo per <strong>la</strong> scelta del testo.<br />

Le parole e il genere dovevano essere dette da Julia o dall’uomo con i baffi?<br />

L’uomo cominciava a piacermi. Un giorno, durante una tournée a Istanbul, gli ho<br />

comprato un elegante paio di scarpe bianche e nere fatte a mano. I due vecchietti<br />

proprietari del polveroso negozio mi guardavano con curiosità mentre provavo<br />

compiaciuta quelle scarpe da uomo. Al collo gli ho messo un fou<strong>la</strong>rd rega<strong>la</strong>tomi<br />

tanti anni prima da un amico. Jan Ferslev mi aveva prestato un vero paio di baffi<br />

da teatro con <strong>la</strong> col<strong>la</strong> adatta. L’uomo elegante si arricchiva di dettagli. Decisi che<br />

era benestante e lo chiamai lo Zio d’America per distinguerlo dal povero<br />

<strong>la</strong>voratore norvegese che era stato una delle sue prime ispirazioni.<br />

Nando Taviani, l’amico consigliere letterario che accompagna l’<strong>Odin</strong> da<br />

quarant’anni, parlò del<strong>la</strong> zoppaggine. Trasparivano nel suo discorso le lunghe<br />

conversazioni fra lui ed Eugenio al<strong>la</strong> ricerca del cammino da seguire. Dopo aver<br />

introdotto <strong>la</strong> storia di Giacobbe del Vecchio Testamento, Eugenio ci chiese di<br />

preparare una scena dal titolo "<strong>la</strong> lotta con l’angelo". A differenza di Eugenio che<br />

ha vissuto <strong>la</strong> sua infanzia nel sud Italia permeato da riti cattolici, da bambina ho<br />

avuto poco contatto con il mondo religioso. I temi che si rifanno al<strong>la</strong> Bibbia non<br />

risvegliano in me curiosità o echi. Volevo invece par<strong>la</strong>re di María Cánepa, l’attrice<br />

cilena appena scomparsa. Volevo darle voce e tener<strong>la</strong> in <strong>vita</strong> attraverso il teatro.<br />

Nel<strong>la</strong> mia scena del<strong>la</strong> lotta con l’angelo María diventò un angelo custode che mi<br />

proteggeva e incitava.


Passò molto tempo prima di avere l’occasione di mostrare <strong>la</strong> scena che<br />

avevo preparato. Pensavo addirittura che il regista se ne fosse scordato, come a<br />

volte avviene quando sia lui che gli attori sono portati velocemente in altre<br />

direzioni e decidiamo a proposito di non ricordare. Avevo aperto un grande<br />

scatolone di cartone sistemato in alto su uno scaffale del mio camerino. Ne erano<br />

emersi gli oggetti di Fil di voce, un mio progetto di spettacolo abortito alcuni anni<br />

fa: gomitoli di filo e corde d’oro, ferri per <strong>la</strong>vorare a maglia, stoffe di vari colori,<br />

una finestra araba di legno intarsiato. Li utilizzai insieme a delle conchiglie e a<br />

una boccetta d’argento piena d’acqua sa<strong>la</strong>ta, a pagine di giornali con fotografie<br />

del matrimonio e del funerale marino di María Cánepa, mentre raccontavo episodi<br />

del<strong>la</strong> sua <strong>vita</strong> e citavo poesie d’amore da due libri di Pablo Neruda, anch’essi un<br />

regalo. Avevo con me anche un tailleur grigio-per<strong>la</strong> da donna.<br />

Dopo <strong>la</strong> morte di María, Juan, il suo secondo marito vent’anni più giovane<br />

di lei, era venuto a trovarmi in Uruguay e mi aveva rega<strong>la</strong>to questo tailleur. María<br />

l’aveva usato tre volte: per ricevere un prestigioso premio dal governo cileno, per<br />

leggere poesie in un recital al terzo Transit Festival a Holstebro, e per sposarsi con<br />

lui. Voleva che lo tenessi io. Ringraziandolo, chiesi a Juan di scrivermi degli<br />

episodi sul<strong>la</strong> loro <strong>vita</strong> assieme confessandogli il mio desiderio di fare un giorno uno<br />

spettacolo su María.<br />

La gonna e <strong>la</strong> giacca erano troppo piccole per me. Non sarei mai riuscita a<br />

mettermele. Quando le presi per preparare <strong>la</strong> scena del<strong>la</strong> lotta con l’angelo,<br />

decisi di evidenziare che erano due pezzi di un vestito appeso a una gruccia, tirato<br />

fuori da un armadio per ricordare. Infi<strong>la</strong>i nel<strong>la</strong> giacca un lungo nastro rosso che<br />

poteva sroto<strong>la</strong>rsi, e fissai alcune posizioni ispirate dal racconto autobiografico<br />

registrato da María. Al<strong>la</strong> fine tagliavo il nastro, mi versavo sui piedi le gocce<br />

d’acqua del<strong>la</strong> boccetta d’argento e improvvisavo sul<strong>la</strong> musica del<strong>la</strong> cassetta di<br />

María. Terminavo sdraiandomi per terra o - nel<strong>la</strong> mia testa - sul fondo del mare.<br />

Pensavo anche al suicidio di una poetessa argentina, Alfonsina Storni, e al testo di<br />

una famosa canzone che ricorda questa vicenda. Lavoravo nel mio camerino, in<br />

uno spazio molto ristretto.<br />

Presentai <strong>la</strong> scena una sera, dopo l’orario di <strong>la</strong>voro. Solo Eugenio e gli<br />

assistenti al<strong>la</strong> regia erano lì. Mi chiedo come mai sento ancora emozione e paura,<br />

dopo anni e anni di esperienza, quando devo mostrare qualcosa di nuovo. Ero<br />

paonazza, affannata e <strong>la</strong> mia voce tremava. Ero nei miei vestiti privati perché era<br />

stato deciso all’improvviso che avrei mostrato i miei materiali e non volevo<br />

perdere l’occasione. Probabilmente proprio quel<strong>la</strong> trepidazione incontrol<strong>la</strong>bile<br />

faceva trasparire a chi osservava una motivazione radicata dietro a una proposta<br />

teatralmente ancora debole. Sroto<strong>la</strong>vo un filo da un gomitolo di <strong>la</strong>na e lungo il<br />

percorso mi fermavo per leggere poesie di Pablo Neruda e Gabrie<strong>la</strong> Mistral, per<br />

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44<br />

raccontare alcuni episodi del<strong>la</strong> <strong>vita</strong> di María scritti da suo marito Juan, per<br />

cantare un paio di canzoni in spagnolo. Seguendo <strong>la</strong> voce registrata di María,<br />

eseguivo <strong>la</strong> partitura fissata tenendo in mano il completo grigio-per<strong>la</strong>. Oltre al<strong>la</strong><br />

mia paura, credo che abbia avuto effetto <strong>la</strong> qualità del<strong>la</strong> voce di María.<br />

Al<strong>la</strong> fine del primo periodo di prove, Eugenio ha chiesto a tutti di preparare<br />

per <strong>la</strong> successiva fase di <strong>la</strong>voro <strong>la</strong> storia del proprio personaggio, dandogli anche<br />

un nome. Come per <strong>la</strong> scena del<strong>la</strong> lotta con l’angelo, ognuno di noi ha capito il<br />

compito a modo suo seguendo il cammino fruttifero del malinteso. Inoltre<br />

dovevamo imparare un’ora di musiche e canzoni. A me in partico<strong>la</strong>re Eugenio<br />

disse: "Se vuoi raccontare <strong>la</strong> storia di María, devi creare un personaggio<br />

contastorie molto diverso da lei. Non puoi essere tu, e tu non puoi essere lei."<br />

Decido che <strong>la</strong> storia di María sarà raccontata dallo Zio d’America e raccolgo<br />

un’infinità di canzoni in spagnolo e brasiliano. Comincio a trascriverne i testi e a<br />

ripetere le melodie: un grosso impegno per me, perché <strong>la</strong> mia memoria musicale<br />

è debole. Mentre faccio giardinaggio, stiro, guido o prendo il sole, tengo gli<br />

aurico<strong>la</strong>ri e canto, ripetendo all’infinito <strong>la</strong> lunga sequenza di canzoni, per mesi.<br />

Neanche un secondo di questi canti sarà usato nello spettacolo.<br />

I racconti del<strong>la</strong> scrittrice messicana Angeles Mastretta mi sono spesso stati di<br />

ispirazione. Soprattutto <strong>la</strong> raccolta di Donne dagli occhi grandi mi è ser<strong>vita</strong> per dare<br />

contorni e parole a figure femminili. Avevo da poco letto un suo nuovo libro dal<br />

titolo Mariti. Mi aveva colpito <strong>la</strong> storia di un libanese che, dopo svariate vicissitudini,<br />

riesce a ricongiungersi con il primo amore del<strong>la</strong> sua <strong>vita</strong> emigrata in Messico.<br />

La giovane si era sposata con un uomo ricco, deceduto, però, durante il loro viaggio<br />

di nozze attraversando l’oceano. Il libanese aveva visto per <strong>la</strong> prima volta quel<strong>la</strong><br />

ragazza dalle parvenze di un angelo, seduta sotto un albero di fichi mentre par<strong>la</strong>va<br />

con <strong>la</strong> sorel<strong>la</strong> come era loro consuetudine ogni pomeriggio. Dopo il matrimonio, il<br />

libanese aveva mantenuto <strong>la</strong> famiglia vendendo stoffe di porta in porta, prima con<br />

una valigia e poi spingendo un carretto. Aveva guadagnato abbastanza per<br />

comprarsi un terreno, costruirsi una casa a due piani con un negozio al pian terreno.<br />

Un altro marito nel libro di Angeles Mastretta era un giocatore: quando incontra <strong>la</strong><br />

donna del<strong>la</strong> sua <strong>vita</strong> le butta una carta fra le pieghe del<strong>la</strong> gonna. Al momento di<br />

partire le dice: sei l’unico paese al quale voglio appartenere.<br />

Mi applico al<strong>la</strong> storia di María Cánepa presentata dal mio uomo baffuto. Solo<br />

al<strong>la</strong> fine, quando taglio il nastro rosso che esce dal completo grigio-per<strong>la</strong>, mi<br />

trasformo in donna. Mi libero del vestito da uomo, sciolgo i capelli e accenno al<strong>la</strong><br />

scena in cui bagno i miei piedi nell’acqua sa<strong>la</strong>ta sdraiandomi senza fretta a terra.<br />

Mi diverto a mischiare i testi che ho estrapo<strong>la</strong>to dalle storie dei mariti di Angeles<br />

Mastretta con gli episodi del<strong>la</strong> <strong>vita</strong> di María scritti da Juan Cuevas. Lo Zio<br />

d’America racconta come arriva in Cile (invece che in Messico) dopo aver navigato


53 giorni ed essersi fermato in 18 porti, e racconta di María, una emigrata nata in<br />

Italia e patita di teatro. Lo Zio d’America vende stoffe e par<strong>la</strong> da dietro il suo<br />

bancone. Nelle pause del <strong>la</strong>voro gioca con un mazzo di carte e cammina su e giù<br />

con le sue braccia all’unisono. Adatto due poesie di Pablo Neruda ad alcune<br />

musiche che mi aiutano a par<strong>la</strong>re con <strong>la</strong> voce bassa maschile. María appare come<br />

<strong>la</strong> testa bionda di una marionetta da dietro <strong>la</strong> finestra intarsiata, e poi si<br />

trasforma in un piccolo teschio. Le stoffe e le carte, i testi e il vestito appeso al<strong>la</strong><br />

gruccia: il mio uomo baffuto nato per protestare ha introdotto molti elementi che<br />

decidono il corso dello spettacolo. Invece María - <strong>la</strong> mia motivazione iniziale -<br />

uscirà dal<strong>la</strong> Vita <strong>cronica</strong> per entrare in un altro spettacolo dal titolo Ave Maria.<br />

Ci <strong>la</strong>mentiamo sempre che non abbiamo tempo: il regista per leggere, gli<br />

attori per creare materiali, i musicisti per provare le musiche. Prendendo a cuore<br />

le critiche che gli abbiamo fatto in passato per i suoi comportamenti bruschi e<br />

impazienti, Eugenio ha promesso che durante il processo per questo spettacolo si<br />

controllerà e mostrerà il <strong>la</strong>to affabile del suo temperamento. Creiamo, così, un<br />

tempo di circa due ore ogni mattino chiamato væksthus (il vivaio) in cui <strong>la</strong>voriamo<br />

liberamente in sa<strong>la</strong> nera. Eugenio guarda, annota, legge, sussurra commenti<br />

individuali agli attori. In questo tempo, dopo un breve riscaldamento, mi metto<br />

le scarpe da uomo turche e comincio <strong>la</strong> giornata attraversando in diagonale tutta<br />

<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> con <strong>la</strong> camminata leggermente balzel<strong>la</strong>nte e le braccia parallele. Il mio<br />

personaggio sa come camminare, quindi esiste! Poi <strong>la</strong>scio che <strong>la</strong> musica suonata<br />

dagli altri mi trascini per improvvisare passi di danza, saltelli, modi di sedermi a<br />

terra e rialzarmi, gesti, posizioni delle braccia, espressioni del viso e piccole<br />

sequenze di azioni per vendere e mostrare stoffe, giocare con una ruota di<br />

bicicletta, contare soldi, palpare le tasche piene, strofinarmi le mani, inchinarmi<br />

per un invito e bal<strong>la</strong>re con chi non c’è più.<br />

Lo Zio d’America è generalmente allegro, a volte spia cosa avviene alle sue<br />

spalle, guarda dalle fessure fra le dita e si dispera, ma riprende presto coraggio:<br />

c’è sempre tanto da fare. Improvviso con le carte da gioco: le faccio vo<strong>la</strong>re, mi<br />

strofino, mi pulisco le mani, le mischio, le semino, le raccolgo in vari modi, <strong>la</strong>vo<br />

per terra, costruisco un <strong>la</strong>birinto, le offro, mi copro gli occhi, le attacco al<strong>la</strong><br />

lingua, le tengo come una sigaretta o un ventaglio, le piego, le uso per suonare<br />

ritmi diversi, mi faccio accarezzare e baciare, salgo sopra il mazzo come sul<br />

piedistallo di un monumento, piango e le carte cadono dagli occhi come <strong>la</strong>crime…<br />

Appendo una carta con un nastro nero come le fotografie che ho visto al collo<br />

delle Madri dei desaparecidos a P<strong>la</strong>za de Mayo a Buenos Aires. Fisso una sequenza<br />

con <strong>la</strong> carta-fotografia. Lavoro con le forbici del venditore di stoffa, esploro i vari<br />

modi in cui possono tagliare, le tengo come fossero occhiali, una bocca con i<br />

denti, una forcina per i capelli, un bambino che cammina, un fiore che cade… Le<br />

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forbici all’inizio non sono accettate dal regista, poi quando un osservatore spiega<br />

che nel suo paese indicano l’arrivo del<strong>la</strong> guerra sono inserite nel montaggio. Ma<br />

dopo qualche mese sono di nuovo eliminate.<br />

Ogni giorno ripeto <strong>la</strong> sequenza del mare, a piedi nudi e occhi chiusi, con<br />

movimenti morbidi e rotondi molto diversi da quelli dell’uomo con i baffi. Ripeto<br />

anche il dialogo con il tailleur di María che tengo tra le mie braccia. Nel frattempo<br />

avevo coperto il vestito con una p<strong>la</strong>stica trasparente per amplificare l’immagine<br />

dell’abito messo in naftalina nell’armadio e non usato più. Dopo <strong>la</strong> morte di Silvia,<br />

C<strong>la</strong>udio Coloberti mi diceva che sentiva un forte desiderio di entrare nell’armadio<br />

dei vestiti di sua moglie per sentirne l’odore. Durante il væksthus mi inchinavo<br />

davanti al vestito, lo abbracciavo e ci bal<strong>la</strong>vo assieme, mi ci sdraiavo sopra<br />

prendendolo per le spalle per roto<strong>la</strong>re sul pavimento, mi ci mettevo in piedi<br />

sopra, e poi il vestito mi prendeva a schiaffi e mi rincorreva, lo tenevo sulle<br />

ginocchia come una "Pietà" per poi ripiegarlo a metà come un indumento da<br />

mettere via. Ricordavo <strong>la</strong> rabbia sentita da chi ha perso un amore. Mi era<br />

chiarissima l’immagine di qualcuno che piange <strong>la</strong> mancanza di una persona cara,<br />

ma vedevo che non risvegliavo associazioni nel regista. Ripetevo <strong>la</strong> sequenza<br />

aspettando il momento in cui quello che era chiaro per me lo diventasse anche<br />

per chi guardava.<br />

Ancora una volta il burka! Non è possibile! È una persecuzione! A ogni<br />

spettacolo Eugenio vuole nascondermi il viso e coprirmi dal<strong>la</strong> testa ai piedi di<br />

nero. Capisco <strong>la</strong> disperazione del regista che cerca modi per cambiare i propri<br />

attori, ma perché <strong>la</strong> soluzione per me è sempre il burka? Non ne posso più! Però<br />

capisco che su un punto Eugenio non transigerà nonostante tutte le mie proteste:<br />

dovrò ritornare a essere donna. Sta emergendo il tema del<strong>la</strong> guerra, dei soldati,<br />

e immagino che ci sarà bisogno del<strong>la</strong> forza emotiva del<strong>la</strong> voce femminile. Gli<br />

assistenti al<strong>la</strong> regia e gli amici che assistono alle prove dicono che non sono<br />

credibile come uomo, specie quando mi abbasso e mi alzo da terra. Il mio essere<br />

femminile continua a rive<strong>la</strong>rsi, nonostante i miei sforzi. Ma un burka… no! Piango,<br />

mi dispero e ancora una volta trovo <strong>la</strong> via d’uscita nel<strong>la</strong> pratica del<strong>la</strong> protesta: il<br />

giorno dopo una discussione con Eugenio, porto al teatro tutti i vestiti femminili<br />

con i colori più sgargianti che possiedo. Non partecipo al væksthus e mi ritiro in<br />

sa<strong>la</strong> rossa con un grande specchio. Metto tutti i vestiti e gli scialli uno sopra<br />

l’altro. Il tocco finale sono le scarpe di gomma arancione che uso per fare giardinaggio.<br />

Sono ancora sporche di terra. Le tengo così.<br />

Faccio chiamare Eugenio e gli presento questo nuovo personaggio<br />

variopinto. Mi muovo velocemente in tutta <strong>la</strong> sa<strong>la</strong> con gli stessi passi, gli stessi<br />

movimenti delle braccia e del<strong>la</strong> testa del mio Zio d’America. Eugenio è contento.<br />

"Funziona - mi dice - Nikita mi piace". Ha battezzato subito questo personaggio.


48<br />

L’unico Nikita che conosco è Krusciov, il primo segretario sovietico che morì nel<br />

1971. La confusione di generi continua. Probabilmente Eugenio, vedendo correre<br />

questa donna con tanti vestiti addosso, era solo sollevato dal<strong>la</strong> prospettiva del<br />

non dover litigare con me, sapendo quanto mi era faticoso abbandonare l’identità<br />

di uomo e con quanta determinazione rifiutavo il burka.<br />

Decidiamo assieme che per l’ultima settimana di prove di questo periodo<br />

non informiamo gli altri che sono ridiventata una donna. Così si crea molta<br />

confusione con i testi: Eugenio <strong>la</strong>vora con l’idea che sono <strong>la</strong> moglie di un uomo<br />

morto in guerra e mi corregge di conseguenza. Nelle prove, invece, sono ancora<br />

vestita come lo Zio d’America che racconta <strong>la</strong> sua storia e il suo amore per <strong>la</strong><br />

giovane che ha visto per <strong>la</strong> prima volta mentre par<strong>la</strong>va con <strong>la</strong> sorel<strong>la</strong> sotto un<br />

albero di fichi.<br />

Quando dopo alcuni mesi di tournée e altre attività riprendiamo le prove,<br />

Eugenio ci comunica che lo spettacolo non si chiama più Extra Large ma La <strong>vita</strong><br />

<strong>cronica</strong>. La storia del<strong>la</strong> vedova di guerra che Kai Bredholt ha sviluppato comincia<br />

a determinare lo svolgimento dell’azione. Anche <strong>la</strong> mia storia di emigrante si<br />

snoda diversamente: ora sono <strong>la</strong> vedova di un uomo mandato in guerra, non si sa<br />

se come soldato o guerrigliero, e che non torna; forse è stato ucciso o è sparito.<br />

Ed è morto anche il mio Zio d’America. Tolgo il suo vestito e lo appendo al<strong>la</strong><br />

gruccia al posto del completo grigio-per<strong>la</strong> di María, nel sacco di p<strong>la</strong>stica<br />

trasparente. Attacco al vestito anche le scarpe bianche e nere turche alle quali<br />

non riesco a rinunciare, nonostante facciano pesare tutto molto di più. In cima gli<br />

metto un gancio da macel<strong>la</strong>io come quelli che servono per tenere gli strumenti<br />

musicali nel magazzino sul fondo del<strong>la</strong> sa<strong>la</strong>. Vestita da donna, come una rifugiata<br />

di un paese del Caucaso o dell’Asia minore, tengo in mano il vestito da uomo.<br />

Eseguo <strong>la</strong> mia sequenza esattamente uguale a quando tenevo il tailleur grigioper<strong>la</strong><br />

di María. Noto che ora il regista mi osserva con un’espressione che mi rive<strong>la</strong><br />

che vede qualcosa d’altro attraverso le mie azioni: un buon segno. Il vestito grigio<br />

dello Zio d’America continua a vivere nello spettacolo e mi accompagna nel<br />

raccontare il mio matrimonio e <strong>la</strong> prima notte da sposa. Al<strong>la</strong> fine stramazza a<br />

terra dopo uno sparo e un soldato lo trascina fuori dal<strong>la</strong> scena.<br />

Ogni mattina attraverso l’intero spazio scenico con <strong>la</strong> camminata a<br />

braccia parallele e stendo le stoffe sul<strong>la</strong> cassa-bara al centro. Sento che il mio<br />

personaggio, anche se trasformato in donna, esiste. Ora sono <strong>la</strong> rifugiata,<br />

quel<strong>la</strong> che guarda con meraviglia e invidia il paese in cui si mangia senza avere<br />

Nikita, <strong>la</strong> rifugiata cecena (Julia Varley): "L’ultima volta che ti ho visto indossavi un<br />

uniforme. Mi hai detto: sei l’unico paese a cui voglio appartenere e che voglio difendere."<br />

Foto: Rina Skeel


50<br />

fame e si beve senza avere sete. Sono quel<strong>la</strong> che, a metà spettacolo, è<br />

accettata in questo paese di Bengodi con una cerimonia d’azzoppamento che<br />

mi dà il permesso di salire sul<strong>la</strong> "zattera" del benessere. Non posso essere lì già<br />

dall’inizio dello spettacolo. Così, un giorno, improvvisamente, è Roberta che<br />

deve coprire <strong>la</strong> cassa con stoffe che io le passo da fuori. Poi, durante le prove<br />

aperte al Grotowski Institute a Wroc<strong>la</strong>w in Polonia, Eugenio spiega che non<br />

appartengo allo spazio degli altri e mi chiede dove potrei fare <strong>la</strong> prima scena<br />

in cui mi presento. Mi dispero ancora all’idea che non mi rimanga neanche <strong>la</strong><br />

prima camminata, di essere relegata tutto il tempo allo stretto corridoio<br />

davanti agli spettatori e poter salire sul<strong>la</strong> scena solo quando è già piena di altre<br />

persone. Riesco a salvare <strong>la</strong> mia identità e <strong>la</strong> mia necessità di spazio<br />

suggerendo che sia Tage a buttarmi fuori. Questo rende più chiaro il ruolo di<br />

Tage, oltre che il mio.<br />

Ora però, da rifugiata, per non essere patetica, devo mostrare anche di<br />

possedere cattiveria. Ricevo il compito di maltrattare Sofía, l’unica che ha meno<br />

potere di me. Aumenta il fastidio che causo agli spettatori colpendo le loro gambe<br />

mentre passo di corsa nello stretto corridoio fra loro e <strong>la</strong> scena. Un giorno scoppio<br />

a piangere. Gli osservatori/spettatori guardavano nel<strong>la</strong> direzione contraria a<br />

quel<strong>la</strong> da cui mi avvicinavo di gran corsa. In una frazione di secondo mi sono resa<br />

conto che avrei inciampato rischiando di fare male a qualcuno. Ho gridato e subito<br />

dopo <strong>la</strong> tensione ha provocato in me <strong>la</strong>crime. "Non mi piace vederti piangere", mi<br />

dice Ana Woolf, una delle assistenti al<strong>la</strong> regia, al<strong>la</strong> fine delle prove. Cosa è<br />

successo? Quando ancora lo spettacolo non è fissato e incorporato, ogni passo,<br />

ogni azione, ogni reazione, comporta totale attenzione. La fi<strong>la</strong>ta è una situazione<br />

di rischio continuo, in cui sono tesa al massimo per interagire, assorbire e<br />

ricordare. Gli imprevisti che si devono risolvere senza il tempo per pensare<br />

esplodono come un pallone gonfiato allo spasimo, colpiscono come un pugno a<br />

sorpresa, perché <strong>la</strong> sensibilità è acutizzata al massimo. Ma piangere è anche una<br />

protesta, un modo per far capire al regista che il problema dello spazio invaso<br />

dalle gambe degli spettatori è serio.<br />

Da un giorno all’altro lo spazio cambia totalmente. Gli spettatori che erano<br />

disposti a U su tre bordi del<strong>la</strong> "zattera" sono invece disposti su due <strong>la</strong>ti, gli uni di<br />

fronte agli altri. Davanti al<strong>la</strong> "zattera", che è stata fino ad ora lo spazio scenico<br />

degli attori, si crea un grosso vuoto che deve essere riempito. Durante <strong>la</strong> prova<br />

Eugenio corre da un attore all’altro per cambiare le re<strong>la</strong>zioni spaziali che abbiamo<br />

imparato nei mesi passati. Noi cerchiamo di seguire le indicazioni capendo poco<br />

di quello che succede, adattando al<strong>la</strong> meglio il timing con gli altri. Quando<br />

riprendiamo le prove dopo una settimana di pausa, mi diverto a vedere lo<br />

sconcerto del regista di fronte al<strong>la</strong> totale confusione dei suoi attori. Sembriamo


degli zombi che hanno perso <strong>la</strong> cognizione del<strong>la</strong> realtà in cui si trovano. Il nuovo<br />

spazio ha cancel<strong>la</strong>to ogni riferimento e non ricordiamo le sequenze più semplici.<br />

Mesi di <strong>la</strong>voro sembrano dileguati. Testi, musica, canti, azioni sono avvolti nello<br />

scompiglio; nessuno riesce ad essere preciso, deciso, incisivo. Ci rivolgiamo in<br />

continuazione ad Ana Woolf, l’assistente che ogni giorno annota anche i minimi<br />

cambiamenti durante le prove: "Cosa succede ora? Dove devo andare? Qual è <strong>la</strong><br />

prossima scena? Cosa devo fare? Cosa dico?" Mi chiedo se riusciremo ad andare<br />

avanti. Il giorno dopo riprendiamo dettaglio dopo dettaglio per ricostruire il<br />

territorio in cui dobbiamo sentirci a casa.<br />

Lo spazio vuoto davanti al<strong>la</strong> "zattera" abitata dagli altri attori diventa mio.<br />

Per riempirlo comincio a disegnare per terra con le carte. I disegni sono spostati<br />

dal pavimento al muro nero dietro di me. Penso al<strong>la</strong> Kaba e le mie carte formano<br />

un riquadro di fotografie, ma anche <strong>la</strong> sagoma di una porta dal<strong>la</strong> quale usciranno<br />

Sofía e Elena Floris con il suo violino. Così anche <strong>la</strong> chiave che usa Roberta<br />

acquista un’ulteriore funzione. Ma io non entro dal<strong>la</strong> porta. Pierangelo Pompa, un<br />

altro assistente al<strong>la</strong> regia, ha suggerito che io entri strisciando per terra, con <strong>la</strong><br />

pento<strong>la</strong> che dovrà indicare come invado il magazzino sul fondo del<strong>la</strong> "zattera" e <strong>la</strong><br />

trasformo nel<strong>la</strong> mia casa. Lavorando sul<strong>la</strong> "mia" casa, un giorno appare anche una<br />

televisione.<br />

Per ogni nuovo spettacolo ci poniamo il problema del<strong>la</strong> lingua. Dopo l’esperienza<br />

del Sogno di Andersen e del<strong>la</strong> difficile traduzione dei testi danesi nel<strong>la</strong><br />

lingua dei diversi posti dove lo spettacolo veniva rappresentato, Eugenio vorrebbe<br />

uno spettacolo senza questo problema. Pensa a un testo che non debba essere<br />

capito, che potrebbe anche essere in una lingua inventata. Immagina uno<br />

spettacolo in cui <strong>la</strong> drammaturgia non è necessariamente retta dal testo. Allo<br />

stesso tempo, Tage, preparando una dimostrazione di <strong>la</strong>voro, dichiara che quello<br />

che a lui interessa ora è <strong>la</strong>vorare con le parole e il loro significato, con <strong>la</strong> storia e<br />

<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione fra voce e azioni. Tage ricorda con estrema antipatia il processo per<br />

imparare i testi in copto e greco antico che abbiamo usato nel Vangelo di<br />

Oxyrhincus: anche lui rischia di <strong>la</strong>sciare lo spettacolo.<br />

Ricordo lo spettacolo Ta<strong>la</strong>bot e l’importanza di accompagnare <strong>la</strong> turbolenta<br />

corrente di un montaggio emotivo con un personaggio che racconta e tesse un filo<br />

rosso narrativo per lo spettatore. Anche se Eugenio insiste che tutti dobbiamo<br />

imparare i nostri testi in una lingua inventata, qualcosa mi dice che al<strong>la</strong> fine del<br />

processo rimarranno delle parole comprensibili. Dopo le vacanze, a Tage è chiesto<br />

di par<strong>la</strong>re in danese e usare le poesie di Ursu<strong>la</strong> Andkjær Olsen, <strong>la</strong> poetessa che ha<br />

seguito le nostre prove dandoci il permesso di usare liberamente i suoi versi. Io<br />

decido che <strong>la</strong> mia lingua non può essere inventata. Per raccontare dell’uomo che<br />

vende stoffe e che è emigrato dal paese dove i suoi genitori, i suoi nonni e anche<br />

51


52<br />

i suoi bisnonni hanno conosciuto solo guerra, esilio e deportazione, le mie parole<br />

devono avere una logica che non può essere solo sonora. Può darsi che non tutti<br />

<strong>la</strong> capiscano, ma qualcuno sì. Non può essere arabo, che ho par<strong>la</strong>to nel Sogno di<br />

Andersen. Scelgo di par<strong>la</strong>re ceceno.<br />

Non è facile trovare un ceceno nello Jut<strong>la</strong>nd. Attraverso un’amica riesco a<br />

reperirne uno che vive a Copenaghen. Dapprima si rifiuta di tradurre. Mi dice che<br />

una donna cecena non accetterebbe mai un uomo che dichiara che <strong>la</strong> tratterebbe<br />

meglio di un cammello, non solo perché i cammelli non esistono in Cecenia, ma<br />

anche perché le donne del suo paese sono emancipate e rispettate. Anche<br />

l’albero di fichi deve essere cambiato per un albero di noci. In varie lettere gli<br />

descrivo il nostro teatro, il processo delle prove, e lo invito a visitarci. Al<strong>la</strong> fine<br />

arriva e scopriamo sorpresi che l’elegante e cortese signore è l’ambasciatore di<br />

un governo in esilio. Dopo aver visto una prova in cui parlo in parte un ceceno<br />

inventato e in parte inglese, passiamo varie ore assieme per vagliare <strong>la</strong><br />

traduzione paro<strong>la</strong> per paro<strong>la</strong>, per cambiare le espressioni che non lo convincono,<br />

correggere il mio accento e registrare <strong>la</strong> dizione giusta. I successivi tre mesi li<br />

dedico a imparare le cinque pagine del mio testo: è difficilissimo. Varie volte<br />

penso che non riuscirò nell’intento. Ma una riga per volta, settimana dopo<br />

settimana, ripetendo i testi varie volte al giorno, imparo tutte le mie frasi in<br />

ceceno.<br />

Al<strong>la</strong> ripresa delle prove, devo affrontare il problema dei dialoghi che<br />

cambiano con <strong>la</strong> creazione di nuove scene, <strong>la</strong> difficoltà di sincronizzare il ceceno<br />

con <strong>la</strong> dinamica delle mie azioni e al<strong>la</strong> fine il vero scoglio: accettare che venga<br />

tagliato frase per frase, paro<strong>la</strong> per paro<strong>la</strong>, tutto quello che ho imparato per dare<br />

di nuovo posto al<strong>la</strong> lingua del posto in cui presenteremo lo spettacolo. Perché<br />

sprecare così tanto tempo? Ha senso o è sterile dissipazione? Probabilmente senza<br />

questo <strong>la</strong>voro, in apparenza inutile, non avrei scoperto <strong>la</strong> testa dondo<strong>la</strong>nte e il<br />

sorriso caldo che illumina il mio viso quando riconosco il suono materno del<strong>la</strong><br />

lingua cecena, e nemmeno <strong>la</strong> melodia dell’accento straniero e lo sguardo<br />

apprensivo rivolto agli spettatori quando parlo nel<strong>la</strong> loro lingua. Non avrei<br />

nemmeno sentito <strong>la</strong> soddisfazione di gridare sa kornie (mia cara) con <strong>la</strong> sonorità<br />

di un’imprecazione. Sarei più povera di una miriade di dettagli che al<strong>la</strong> fine del<br />

processo rive<strong>la</strong>no <strong>la</strong> <strong>vita</strong> e il mistero del personaggio.<br />

Ma lo spessore di Nikita è dato soprattutto dal ritmo. Eugenio aveva<br />

incoraggiato all’inizio <strong>la</strong> mia aria un po’ burlona, poi aveva cominciato a rifiutare<br />

lo stile chapliniano e spassoso del mio personaggio. Ha bisogno di pathos. I passi,<br />

i movimenti delle braccia, le posizioni <strong>la</strong>terali del busto facevano pensare a<br />

un’allegrona e non risvegliavano empatia. Ogni giorno durante le prove Eugenio<br />

mi chiedeva di ridurre i segni esterni del mio comportamento, fino a quando non


ho capito che dovevo invece cambiarne il ritmo. Così mi sono impegnata a<br />

rallentare leggermente, e<strong>vita</strong>ndo di sottolineare <strong>la</strong> fine dell’azione per eseguire<br />

le transizioni in modo lieve, e aggiungo in continuazione minuscole variazioni e<br />

brevissime pause per diversificare le fasi di un gesto. Questo è il cammino per<br />

raggiungere un pathos grottesco, senza piangere sulle proprie disgrazie, armata<br />

di un sorriso che è volontà di lottare e vulnerabilità. Non devo perdere l’essenza<br />

del personaggio che ho creato, anche se molti suoi tratti - le forme esterne -<br />

stanno sparendo.<br />

Mentre scrivo questo articolo, mi rimane ancora un compito: far vo<strong>la</strong>re una<br />

carta davanti a me e rincorrer<strong>la</strong>. La fotografia dei propri morti, dei famigliari<br />

delle Madri di P<strong>la</strong>za de Mayo o delle tombe negli infiniti cimiteri di guerra, deve<br />

<strong>la</strong>sciare <strong>la</strong> sua cornice, il suo nastro nero e <strong>la</strong> sua <strong>la</strong>pide e affrancarsi dal peso del<br />

lutto con <strong>la</strong> leggerezza di una farfal<strong>la</strong> che vibra nel<strong>la</strong> nostra memoria, con <strong>la</strong><br />

volontà del<strong>la</strong> <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong>.<br />

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1 2<br />

1. L’avvocato danese (Tage Larsen). Foto: Jan Rüsz<br />

2. Il musicista rock delle isole Faroe (Jan Ferslev). Foto: Tommy Bay<br />

3.L’avvocato danese (Tage Larsen): "Ogni cittadino ha diritto a morire, a <strong>la</strong>vare i piatti, a<br />

comprare nei supermercati." Il musicista rock delle isole Faroe (Jan Ferslev): "Quelli che sanno,<br />

non hanno bisogno di sacrificarsi." Foto: Tommy Bay<br />

4. La violinista di strada italiana (Elena Floris). Foto: Jan Rüsz<br />

5. Due mercenari (Donald Kitt, Fausto Pro). Foto: Tommy Bay<br />

6. L’avvocato danese (Tage Larsen). Foto: Jan Rüsz<br />

3


4<br />

5<br />

6


56<br />

Roberta Carreri<br />

La nostra <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong><br />

Abbiamo appena cenato, siamo ancora seduti a tavo<strong>la</strong> e io accenno a Torgeir il mio<br />

sogno di avere una tomba di famiglia dell'<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong>, qui a Holstebro dove<br />

abbiamo <strong>la</strong>vorato ed abitato da una <strong>vita</strong>. È il 2003 e stiamo <strong>la</strong>vorando al Sogno di<br />

Andersen. Per <strong>la</strong> creazione dei miei materiali ho comprato un'urna, <strong>la</strong> mia urna,<br />

e ho creato una scena con delle ceneri. Seduto dall'altra parte del<strong>la</strong> tavo<strong>la</strong>,<br />

Torgeir mi ascolta e sorride, in silenzio. La morte è semplicemente <strong>la</strong> mancanza<br />

di <strong>vita</strong> e per lui esiste solo <strong>la</strong> <strong>vita</strong>.<br />

L'inizio di un nuovo spettacolo è stato più volte paragonato all'inizio di una<br />

nuova <strong>vita</strong>. Il concepimento dei nostri spettacoli è sempre avvenuto al<strong>la</strong> so<strong>la</strong><br />

presenza degli attori e del regista, in un'atmosfera piena di trepidazione e<br />

intimità. Per Il sogno di Andersen Eugenio ha inseminato <strong>la</strong> nostra fantasia, nei<br />

luoghi più diversi: nel suo ufficio a Holstebro, in una camera d'albergo a Mosca,<br />

sul<strong>la</strong> terrazza di un ristorante a Cagliari. Le sue "improvvisazioni verbali" hanno il<br />

dono di essere tanto precise e tanto vaste da riuscire a stimo<strong>la</strong>re l'immaginazione<br />

e risvegliare l'interesse in ogni attore. Siamo persone tanto diverse, con alle<br />

spalle una lunga esperienza e sulle spalle una certa stanchezza. Continuiamo<br />

perché non possiamo farne a meno. Vocazione? A volte un colpo di coda violento,<br />

come quello di un pesce preso all’amo che cerca di liberarsi, smuove le acque.<br />

Sbotti di ira. Contro il proprio destino?<br />

9 aprile 2011: Il sogno di Andersen finisce di sorpresa a Bogotá con una<br />

dichiarazione di Eugenio, che irrompe nello spettacolo all'ultimo minuto<br />

dell'ultima scena e si rivolge direttamente agli spettatori: "Avete assistito<br />

all'ultima rappresentazione in assoluto di questo spettacolo." Per <strong>la</strong> prima volta<br />

nel<strong>la</strong> storia dell'<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong>, uno spettacolo viene chiuso a scena aperta. Un<br />

colpo d'accetta. Un grande albero viene abbattuto, per dare luce al giovane<br />

albero che due settimane prima aveva mostrato di aver attecchito.<br />

2008<br />

Eugenio riserva il mese di febbraio per iniziare il <strong>la</strong>voro sul nuovo spettacolo il cui<br />

titolo provvisorio è XL (Extra Large). Eugenio sceglie di iniziare il <strong>la</strong>voro nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong>


La casalinga rumena (Roberta Carreri): "Mi hanno data l’ascia, ma mi hanno nascosto<br />

l’albero." Foto: Jan Rüsz<br />

più picco<strong>la</strong> del teatro. In compenso siamo tanti. Entrando nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> blu, da<br />

sinistra, lungo le quattro pareti, sono seduti: Roberta, Jan, Iben, Tage, Julia,<br />

Frans, Kai, Eugenio, Torgeir, Sofia, il consigliere letterario Nando Taviani, l'attoretecnico<br />

Donald Kitt, il tecnico Fausto Pro, i tre assistenti al<strong>la</strong> regia - Raul Iaiza,<br />

Pierangelo Pompa e Ana Woolf, Tina Nielsen - che è stata attrice dell'<strong>Odin</strong> ed è ora<br />

pastore protestante, Anna Stigsgaard - assistente al<strong>la</strong> regia per Il sogno di<br />

Andersen, e il giovane regista inglese Max Webster.<br />

È <strong>la</strong> prima volta che Eugenio ci descrive il tema del nuovo spettacolo al<strong>la</strong><br />

presenza di altre persone. Ogni momento del<strong>la</strong> creazione di questo spettacolo<br />

avverrà sotto gli occhi di testimoni. Per aiutare Eugenio? Per aiutare noi attori?<br />

5 febbraio 2008. La sa<strong>la</strong> blu è l'unica con le finestre. Fuori svettano i sottili<br />

rami neri delle betulle, spruzzati di neve. Mi aspetto un nuovo inizio e invece<br />

quando Eugenio apre bocca ci obbliga a confrontarci ancora una volta con un<br />

funerale. Questa volta non è quello di una canzone, non è quello di un'idea: è il<br />

suo.<br />

57


58<br />

Eugenio dice: "Un giorno arrivate al teatro e vi annunciano che sono morto.<br />

In una lettera vi prego di organizzare il mio funerale con ciò che sapete che amo.<br />

Avete <strong>la</strong> possibilità di dialogare con me, di dirmi quello che non mi avete mai<br />

detto. Per tanti anni avete lottato per non farvi schiacciare dall'Angelo. Dovete<br />

creare una scena in cui mostrate <strong>la</strong> lotta di Giacobbe con l'Angelo. Raccontate<br />

una storia piena di orrore e humor su di me a cui dovrete rivolgervi dicendo ‘lui’,<br />

mai ‘tu’. Ognuno di voi deve preparare <strong>la</strong> sua cerimonia. Decidete voi come. In<br />

pochi minuti. Dovrete dirigere i colleghi. Sofía ha, invece, un'altra storia. È<br />

venuta per cercare suo padre. Questa vicenda è l'asse attorno intorno al quale si<br />

aggroviglieranno le nostre storie. La nostra stel<strong>la</strong> po<strong>la</strong>re è il tema dell'integrazione."<br />

Come sempre il tema di uno spettacolo di Eugenio è attuale,<br />

bruciante.<br />

Come e<strong>vita</strong>re di ripetersi, dopo tanti anni di <strong>la</strong>voro con le stesse persone?<br />

Come e<strong>vita</strong>re di ritornare ai propri cliché? Ogni volta che abbiamo cominciato il<br />

<strong>la</strong>voro su un nuovo spettacolo abbiamo cercato strategie per rispondere a queste<br />

domande. Ora invece di cercare di sfuggire dal passato, riesumiamo frammenti di<br />

spettacoli estinti - scene, costumi, oggetti, canzoni. Come un teatro biologico,<br />

ricicliamo il nostro passato, lo maciniamo per estrarne un nuovo spettacolo. Tutto<br />

quello che scegliamo viene accatastato nel "magazzino", al centro del<strong>la</strong> parete in<br />

fondo al<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> blu.<br />

Partiamo da ciò che abbiamo, proponendolo come un dono, un viaggio nel<strong>la</strong><br />

terra del ricordo.<br />

Nello stesso tempo ci sentiamo dire: "Ora quando improvvisate, ripetete i<br />

vostri stilemi. Dobbiamo arrivare a liberarci da essi. I dettagli sono essenziali e su<br />

questi <strong>la</strong>voriamo. Non dovete preparare materiali, ma predisponete delle<br />

strategie per sfuggire ai vostri cliché". Lolito (l'angelo dello spettacolo Il Paese di<br />

Nod) e <strong>la</strong> scena delle monete di Min fars hus sono tra i primi ad apparire. Lolito<br />

troneggia nel "magazzino" dove si accatastano oggetti, maschere, marionette e<br />

strumenti musicali. Una grande quantità di monete riempie lo spazio. Sono<br />

offerte come oboli o retribuzione per le proprie azioni, ma anche per quelle<br />

compiute dagli altri attori. Lasciate cadere in tazze di metallo, emettono suoni e<br />

ritmi.<br />

"Lo spettacolo è un grande fiume tenuto in <strong>vita</strong> dai suoi affluenti: <strong>la</strong> danza<br />

e <strong>la</strong> musica. Ma anche il modo di far vivere e risuonare le monete è un affluente.<br />

Questo spettacolo deve essere una maratona di danza e nessuno può stare seduto<br />

senza far niente", dice Eugenio.<br />

12 febbraio 2008. Nel centro dello spazio ci accoglie un grande oggetto<br />

rettango<strong>la</strong>re coperto da un telo. Eugenio dice: "Qui sotto ci sono due idee: una<br />

mia e una di Luca Ruzza." Il telo viene tolto e appare una bara trasparente, come


quel<strong>la</strong> di Biancaneve. È piena d'acqua, dentro nuota un'anguil<strong>la</strong>. Eugenio chiede a<br />

Sofía di entrare nel<strong>la</strong> bara. Il suo corpo si ca<strong>la</strong> dolcemente. I capelli fluttuano<br />

mentre l'anguil<strong>la</strong> scivo<strong>la</strong> lungo le sue gambe. Sembra nel suo elemento. Quando<br />

Eugenio chiede a Sofía di uscire dall'acqua, lei ne riemerge tremante dal freddo<br />

e dallo schifo.<br />

Lo spazio che Eugenio vuole utilizzare è di 5m x 3m. Piccolo piccolo. Ogni<br />

nostra minima azione è assordante. Siamo abituati ai grandi spazi, e il vecchio<br />

cavallo da circo che è in noi, porta me e gli altri compagni ad esagerare. Solo<br />

Torgeir agisce a misura dello spazio. Control<strong>la</strong>to, sempre riflessivo, totalmente<br />

presente. Non un dettaglio dell'insieme gli sfugge. Al contrario di molti di noi,<br />

che impegnati a trovare le risposte alle richieste di Eugenio spesso chiudiamo<br />

le orecchie e <strong>la</strong> mente a ciò che fanno gli altri, Torgeir sembra sempre<br />

ascoltare.<br />

Tutti i giorni ripetiamo le proposte di ogni attore nell'ordine di presentazione,<br />

più quel<strong>la</strong> di Nando. Ogni giorno Eugenio suggerisce qualcosa di nuovo,<br />

modificandole.<br />

Durante <strong>la</strong> sua scena, Tage ci chiede di dire le frasi che abbiamo sentito<br />

ripetere da Eugenio fino al<strong>la</strong> nausea nel corso degli anni. A me viene in mente:<br />

"Questo spettacolo deve stare in una valigia".<br />

Dopo tre settimane di c<strong>la</strong>usura, <strong>la</strong> fi<strong>la</strong>ta dello spettacolo dura 80 minuti. Nel<br />

"magazzino" sono accatastati frammenti di vecchi spettacoli e nuove idee. Li<br />

riponiamo nel<strong>la</strong> "bara di cristallo". Interrompiamo le prove per andare in tournée<br />

con il nostro repertorio. Quando riprenderemo il <strong>la</strong>voro su XL, ancora non si sa.<br />

Probabilmente fra un anno. Nel frattempo ognuno di noi dovrà creare il proprio<br />

personaggio e almeno mezz'ora di "tessuto musicale". Io non ho idee, ho solo<br />

bisogno di sfuggire da me stessa.<br />

Uscire dal bozzolo del<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> blu non significa uscire dallo stato di creatività nel<br />

quale ci troviamo immersi. Lo spettacolo continua a crescere dentro di me,<br />

provocandomi voglie improvvise. Ad aprile siamo in tournée a Istanbul. Torgeir<br />

ed io ci muoviamo al<strong>la</strong> scoperta di questa città straordinaria, sospesa fra due<br />

culture. I nostri passi ci portano in una strada piena di negozi di musica e vengo<br />

attratta da un negozio che vende bindir, grandi tamburelli con <strong>la</strong> cornice di<br />

legno stagionato e <strong>la</strong> pelle di capra. Alcuni di essi sono bellissimi. Entro e<br />

comincio a provarne il suono. Alcuni meno belli hanno un suono stupendo, altri<br />

più belli un suono più piatto. Torgeir mi aspetta senza fretta, leggendo un<br />

giornale seduto a un bar di fronte, bevendosi una birra. Due ore dopo esco<br />

raggiante dal negozio con uno splendido bindir fra le braccia. Senza neanche<br />

domandarmi il perché.<br />

59


60<br />

A giugno Torgeir ed io siamo ad Atene, un po' per <strong>la</strong>voro, un po' in vacanza.<br />

Camminando per P<strong>la</strong>ka, Torgeir si ferma improvvisamente davanti a un negozietto<br />

di souvenirs dove è appeso un piccolo strumento. Ce ne sono altri, ma è quello su<br />

cui lo sguardo si era posato per primo che finiamo per comprare. È quello più<br />

semplice, ma con il suono più ampio e chiaro. Torgeir dice: dovresti usarlo nel<br />

nuovo spettacolo. La bag<strong>la</strong>ma, così si chiama, è così piccina che può stare nel mio<br />

bagaglio a mano. Da quel momento mi accompagna per il mondo.<br />

Durante una tournée in Perù nell'autunno del 2008, compro delle maschere<br />

popo<strong>la</strong>ri fatte di sottile rete metallica: due di donna, due di uomo. Quel<strong>la</strong> da<br />

donna, con gli occhi verdi e le gote rosa è <strong>la</strong> più diversa da me e per questo <strong>la</strong> mia<br />

preferita. Nel mercato di Ayacucho compro due grembiuli, come quelli che usano<br />

le indie che si aggirano nello stesso mercato: uno a strisce rosse e bianche e uno<br />

a strisce bianche e verdi. Hanno delle grandi tasche in cui c'è posto per molte<br />

idee.<br />

A dicembre Torgeir ed io andiamo in tournée a Kua<strong>la</strong> Lumpur. Torgeir è più<br />

lento del solito. L'ultimo giorno, seduti uno accanto all'altro, ci facciamo fare un<br />

massaggio cinese ai piedi. Al<strong>la</strong> fine del<strong>la</strong> sessione il massaggiatore, con un viso<br />

molto serio dice a Torgeir in un inglese stentato: "Your body is very tired". La sua<br />

affermazione non ci sorprende, ma il tono del<strong>la</strong> sua voce riesce ad inquietarci.<br />

Torgeir da quel momento inizia a smettere di fumare, togliendosi una sigaretta al<br />

giorno. A Pasqua avrà cessato completamente e mi dirà: "Che strano, il fumo non<br />

mi manca neppure".<br />

2009<br />

Gennaio. Inverno di neve e cielo azzurro. Scelgo di ritirarmi a creare i miei<br />

materiali individuali nel<strong>la</strong> torre di Sanjukta, che ha una corol<strong>la</strong> di finestre. Luce<br />

e solitudine. Sono salita con una valigia rossa piena di oggetti e strumenti, CD e<br />

libri di poesie. Comincio timidamente a riempire il silenzio suonando il bindir. Ne<br />

esploro le possibilità, lo afferro in modi diversi e il tamburo ad un certo punto si<br />

trasforma in un vassoio.<br />

Per suonare <strong>la</strong> bag<strong>la</strong>ma mi metto dei guanti bianchi a cui ho tagliato le dita.<br />

La bag<strong>la</strong>ma è un segreto che condivido solo con Torgeir. Nessuno deve sapere che<br />

sto imparando a suonar<strong>la</strong>. Ma dopo due settimane ho bisogno di aiuto e Jan mi dà<br />

consigli preziosi.<br />

A casa trovo in un cassetto delle vecchie chiavi. Me le appendo al collo, con<br />

un nastro.<br />

Nel mio camerino recupero uno specchio da toletta che mi è stato rega<strong>la</strong>to<br />

anni fa, lo uso per mettermi <strong>la</strong> maschera peruviana ed indossare una parrucca


iondo p<strong>la</strong>tino, con il taglio da paggetto che ho comprato anni fa a Hong Kong. Mi<br />

guardo nello specchio e non mi riconosco: sono io e non sono io. È fantastico<br />

essere libera dal<strong>la</strong> schiavitù del<strong>la</strong> propria apparenza. Penso a Uma Thurman in<br />

Pulp Fiction. Strano, perché in quel film i suoi capelli erano neri. Quentin<br />

Tarantino. Associazioni. Ascoltarsi e <strong>la</strong>sciarsi guidare dalle associazioni, per<br />

banali che siano. Nel<strong>la</strong> rie<strong>la</strong>borazione delle associazioni risiede il <strong>la</strong>voro. Pulp<br />

Fiction mi conduce in un diner americano. Cameriere, storie banali e tragiche. La<br />

tragedia del<strong>la</strong> quotidianità o <strong>la</strong> quotidianità del<strong>la</strong> tragedia? Quante donne con<br />

destini tragici ci servono il caffè sorridendo? Indosso un vestitino degli anni<br />

cinquanta, verde a pois bianchi e sopra ci metto il grembiule peruviano bianco a<br />

strisce rosse. Le scarpe, di vernice rossa con un fiocco bianco e il tacco a strisce<br />

Il ragazzo colombiano che cerca suo padre (Sofía Monsalve): "Sono venuto perché mi hanno<br />

detto che qui c’è mio padre." La casalinga rumena (Roberta Carreri): "Erano giorni che<br />

t’aspettava. Ieri ha fatto le valigie e se ne è andato." Foto: Jan Rüsz<br />

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62<br />

bianche e nere, le trovo su una rivista e le ordino per internet. Il risultato è un<br />

costume decisamente ottimista.<br />

Nel<strong>la</strong> torre di Sanjukta vado a caccia di pensieri, idee. Lo faccio<br />

interrogando gli oggetti che mi sono portata con me. Una nuova sfida: creare<br />

melodie con <strong>la</strong> mia bag<strong>la</strong>ma - melodie per testi scritti in danese. Scelgo delle<br />

poesie di Janina Katz e le metto in musica. Eugenio detesta sentirmi par<strong>la</strong>re in<br />

danese. Perché lo faccio? Perché è ciò che ho bisogno di fare in questo momento,<br />

per non riconoscermi. E se andassi nel<strong>la</strong> direzione opposta? Ricordo delle canzoni<br />

del<strong>la</strong> mia giovinezza. Canto Lucio Battisti e Milly, accompagnandomi con il bindir.<br />

So che queste canzoni sono troppo conosciute e consunte, ma sono quel che mi<br />

è venuto in mente qui e ora, ed io sono qui ed ora. Devo <strong>la</strong>sciare che i pensieri<br />

sboccino. Il mio compito è scoprire nuove possibilità e nel migliore dei casi,<br />

arrivare a sorprendere il regista. Poi ci penserà Eugenio a scegliere ciò che sarà<br />

funzionale allo spettacolo.<br />

Torgeir <strong>la</strong>vora in un'altra parte del teatro. A casa non parliamo mai del<br />

nostro <strong>la</strong>voro individuale. Ci piace l'idea di sorprenderci a vicenda.<br />

4 maggio 2009. Riprendiamo il <strong>la</strong>voro su XL. Ci viene comunicato che il titolo<br />

del nuovo spettacolo sarà La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong>. Un altro degli ossimori di Eugenio,<br />

penso quando lo sento per <strong>la</strong> prima volta. Non evoca in me alcuna risonanza.<br />

Forse è semplicemente ispirato al<strong>la</strong> sorte di sua madre nonuagenaria,<br />

inchiodata ad un letto, senza memoria, senza neanche il piacere di riconoscere<br />

suo figlio.<br />

Abbiamo avuto più di un anno per creare i nostri personaggi: i personaggi di<br />

uno spettacolo di cui non conosciamo <strong>la</strong> storia, il contesto, il testo. Aiutati dalle<br />

registrazioni video di Pierangelo, ripetiamo l'ultima scena e poi tutto il<br />

montaggio. Il secondo giorno, nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> blu, ci accoglie <strong>la</strong> nuova scenografia: un<br />

pavimento di assi di pino interca<strong>la</strong>te da fessure luminose. Con una bottiglia di<br />

vodka po<strong>la</strong>cca, Eugenio <strong>la</strong> battezza "Zattera del<strong>la</strong> Medusa" e dice che in questo<br />

spettacolo non vuole proiettori. Vuole solo candele, bastoni luminosi, torce<br />

ecologiche. Non dobbiamo pensare troppo tecnologicamente. Niente disegni luci<br />

di Jesper Kongshaug. L'illuminazione deve essere fantasiosa e povera. Eugenio ci<br />

comunica che <strong>la</strong> danza, come <strong>la</strong> musica, è uno dei temi centrali dello spettacolo,<br />

che si ripresenterà costantemente, come una forma di basso continuo. Un altro<br />

elemento centrale sarà <strong>la</strong> zoppia. Dobbiamo esercitarci ad essere zoppi. Questa<br />

picco<strong>la</strong> limitazione ci aiuterà a vincere i nostri cliché, e ci darà nuove possibilità<br />

ritmiche, dice Eugenio.<br />

Ogni giorno ci alterniamo a mostrare il risultato del<strong>la</strong> ricerca sui nostri<br />

personaggi, i nostri materiali, i tappeti sonori. Quando arriva il mio turno,


presento due personaggi: Sugar e Lo<strong>la</strong>. Ambedue portano una maschera peruviana<br />

di rete metallica e una parrucca: una è bionda e l'altra è bruna. Sugar suona <strong>la</strong><br />

bag<strong>la</strong>ma, Lo<strong>la</strong> il bindir. Per mesi, in camere di albergo e a casa, mi sono esercitata<br />

per imparare a suonare i pezzi che propongo con <strong>la</strong> bag<strong>la</strong>ma, senza guardare le<br />

corde. Eugenio sceglie Sugar e mi chiede di scriverne <strong>la</strong> biografia. Facile. Vero<br />

nome di Sugar: Norma Jones, americana, nata nello Utah, figlia di un'italiana e<br />

un danese. Età 60 anni. Dai 7 ai 13 anni subisce molestie sessuali da parte del<br />

patrigno. A 16 anni rimane incinta di un compagno di c<strong>la</strong>sse. Lascia <strong>la</strong> scuo<strong>la</strong>.<br />

Scappa dal<strong>la</strong> nonna in Louisiana dove nasce il figlio. Diventa cameriera in un<br />

diner. Si sposa, ha una figlia. Quando <strong>la</strong> figlia ha 7 anni scopre che il marito <strong>la</strong><br />

insidia (in un primo momento penso di farle uccidere il marito, ma poi mi ricordo<br />

che negli USA esiste <strong>la</strong> pena di morte per questo genere di crimini). Nel<br />

frattempo, durante un inseguimento, <strong>la</strong> polizia le uccide il figlio quindicenne che<br />

fuggiva su una motocicletta rubata. La passione di Sugar è cantare. Eugenio<br />

ascolta e poi mi suggerisce che Sugar sia amma<strong>la</strong>ta di cancro al<strong>la</strong> go<strong>la</strong> e che<br />

questo alteri <strong>la</strong> sua voce.<br />

Quando Torgeir mostra il suo personaggio scopro che anche lui è "americano"<br />

e porta scarpe rosse. Che sia il risultato dei film che guardiamo? O forse del<br />

desiderio di allontanarci il più possibile dal<strong>la</strong> nostra immagine di noi stessi, da ciò<br />

in cui ci identifichiamo? Il personaggio di Torgeir è una spia est-europea negli USA.<br />

Indossa un completo blu e scarpe da tennis, T-shirt e cappello da baseball rossi. I<br />

materiali che Torgeir presenta sono poco dinamici nello spazio, ma con una<br />

grande dinamica interiore. Il personaggio tenta in tutti i modi di suicidarsi. Ci<br />

prova ripetutamente ma ogni volta, all'ultimo istante, <strong>la</strong> <strong>vita</strong> è più forte del suo<br />

bisogno di morire. È questa <strong>la</strong> <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong>? Torgeir è un attore raffinato. Recitare<br />

è sempre stata <strong>la</strong> sua più grande passione. Alcuni di noi si sono chiesti nel corso<br />

degli anni che cosa avrebbero potuto fare invece di <strong>la</strong>vorare all'<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong>. Non<br />

ho mai sentito Torgeir porsi questa domanda. Niente colpi di coda, Torgeir ha<br />

sempre abbracciato il proprio destino. Re del presente, con occhi e cuore sempre<br />

aperti sul mondo, con passi leggeri ha <strong>la</strong>sciato tracce profonde nel cuore degli<br />

spettatori.<br />

Il <strong>la</strong>voro inizia ogni mattina alle otto in sa<strong>la</strong> nera, con due ore di "vivaio".<br />

Qui abbiamo <strong>la</strong> possibilità di far crescere i personaggi che abbiamo creato. Ogni<br />

mattina, nel "vivaio", visito lo spazio dei diversi oggetti:<br />

IL VASSOIO/bindir con cui mi aggiro come cameriera e con il quale mi<br />

accompagno mentre canto. Con esso sviluppo le diverse camminate di Sugar.<br />

LE CHIAVI. Chiedo al<strong>la</strong> sorel<strong>la</strong> di Torgeir, che in questo momento vive in<br />

Yemen, di spedirmi delle vecchie chiavi. Me ne arrivano di grandi e rozze, forti e<br />

pesanti. Il tema delle chiavi si al<strong>la</strong>ccia al tema del<strong>la</strong> porta di Kaosmos. Penso che<br />

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64<br />

il personaggio di Torgeir in quello spettacolo era l'uomo che non vuole morire,<br />

mentre in questo è l'uomo che vuole morire.<br />

I FAZZOLETTI. Dal mio grembiule sporge un fazzoletto, lo uso per strofinare,<br />

per scacciare, per asciugare <strong>la</strong>crime, per dire addio... I fazzoletti si moltiplicano<br />

e li uso per legarmi i polsi e le caviglie, per imbavagliarmi, per bendarmi gli<br />

occhi.... Comincio a pulire vetri, finestre.<br />

LO SPECCHIO. Lo specchio che ho usato per aggiustarmi <strong>la</strong> maschera e <strong>la</strong><br />

parrucca lo uso ora per illuminare o attrarre i compagni.<br />

Per dare corpo al<strong>la</strong> maratona di danza, nel "vivaio" ci alterniamo nelle<br />

braccia di Ana Woolf per imparare passi di tango e milonga.<br />

Il mio personaggio comincia ad uscire dal<strong>la</strong> sua "bol<strong>la</strong>" ed ad interagire con<br />

gli altri personaggi. Uso le chiavi per aprire i petti ed estrarne i cuori, da buona<br />

rubacuori. Uso lo specchio per metterli di fronte al<strong>la</strong> propria immagine e ai propri<br />

difetti.<br />

Come cameriera Eugenio mi suggerisce di introdurre del cibo da offrire ai<br />

compagni. Cibo che abbia un suono, per inserirsi in quel tessuto sonoro che si sta<br />

creando, oltre che con il suono delle monete e i passi di danza, anche con gli<br />

oggetti degli altri compagni: le carte da gioco di Julia, <strong>la</strong> spada di Iben, il secchio<br />

e <strong>la</strong> ramazza di Kai e Sofía, il libro di Tage, i colpi del<strong>la</strong> cintura di Jan, <strong>la</strong> chitarra<br />

spezzata di Torgeir.<br />

Sugar cammina impettita e determinata, con passetti veloci. Le sue<br />

improvvisazioni hanno il carattere dei sogni dove si ripropone un passato di<br />

violenze e soprusi. Ma nel<strong>la</strong> sua realtà c'è posto solo per i <strong>la</strong>voro e il canto.<br />

13 maggio 2009. Lo spazio dello spettacolo si è trasformato drasticamente: i ganci<br />

da macel<strong>la</strong>io sono apparsi nel "magazzino". Sono obiettivamente inoffensivi,<br />

immobili, appesi in alto, al<strong>la</strong>cciati ad una corda di stoppa, ma definitivamente<br />

inquietanti nel<strong>la</strong> loro letteralità. Oggetti, strumenti, e marionette vi vengono<br />

appesi. Improvvisamente <strong>la</strong> nostra zattera si fa minacciosa.<br />

Al termine di questo periodo di prove ho <strong>la</strong> netta sensazione che il mio<br />

personaggio non sia necessario in questo spettacolo. L'ho creato per sfuggire ai<br />

miei stilemi e aiutare Eugenio a rompere i suoi, ma <strong>la</strong> verità è che Eugenio non<br />

sembra interessato a rompere i suoi cliché, anzi li riafferma e rinforza. Per questo<br />

il mio personaggio che è così "diverso" non funziona, nel senso che non ha una<br />

funzione nel<strong>la</strong> sua drammaturgia. Ma nel suo discorso di chiusura, Eugenio mi<br />

sorprende quando tira le conclusioni di questa seconda tappa del<strong>la</strong> Vita <strong>cronica</strong><br />

dicendo: "Ora abbiamo lo spazio, i personaggi. La storia è chiara: come si integra<br />

una persona? Abbiamo il personaggio di Julia che si <strong>la</strong>scia integrare e quello di<br />

Sofía che non si <strong>la</strong>scia integrare. Siamo liberi, eppure ci sembra che non ci sia una


via d'uscita perché non riusciamo a trovare <strong>la</strong> chiave per aprire <strong>la</strong> porta. Le<br />

monete che tintinnano sono parte del<strong>la</strong> sinfonia sonora che accompagna lo<br />

spettacolo. Il cibo è l'altro elemento: in questa società mangiamo quando non<br />

abbiamo fame e beviamo quando non abbiamo sete." Eccomi ser<strong>vita</strong>: le chiavi e<br />

il cibo di Sugar sono funzionali.<br />

Eugenio ci <strong>la</strong>scia con una serie di compiti individuali da risolvere prima del<br />

prossimo incontro a ottobre.<br />

La terza tappa inizia il 5 ottobre 2009. Ci siamo spostati in sa<strong>la</strong> bianca per dare<br />

spazio al<strong>la</strong> costruzione del<strong>la</strong> struttura per gli spettatori. Elena Floris, con il suo<br />

talento e <strong>la</strong> sua esperienza di violinista, è entrata a far parte dell'ensemble del<strong>la</strong><br />

Vita <strong>cronica</strong> prendendo il posto di Frans [Winther] che ne è uscito.<br />

Eugenio riassume i temi dello spettacolo, e chiede a Julia di cambiare il<br />

costume: il suo personaggio non deve essere un uomo ma una donna. Ci troviamo<br />

in un momento di apertura e quasi nessuno si difende.<br />

La mattina continuiamo con il "vivaio", e poi con le prove che sono sempre<br />

delle fi<strong>la</strong>te interrotte dalle correzioni di Eugenio. A volte ci sono momenti di<br />

tensione perché tutti vogliamo fare del nostro meglio ed usare ogni istante per<br />

<strong>la</strong>vorare sul<strong>la</strong> musica o i testi. Ma nel processo creativo bisogna accorgersi dei<br />

momenti in cui Eugenio sta trovando soluzioni - prendendo rischi. E lì bisogna<br />

stare attenti, anche se <strong>la</strong> scena non ci coinvolge in prima persona. Eugenio ha<br />

bisogno di aiuto sotto forma di concentrazione collettiva. Torgeir è specialista in<br />

questo. Durante le fi<strong>la</strong>te e il <strong>la</strong>voro sulle singole scene, non pensa mai al proprio<br />

<strong>la</strong>voro, ma rimane concentrato su quello che Eugenio fa con i compagni.<br />

Eugenio mi chiede di sviluppare il tema del<strong>la</strong> porta/chiave e mi chiede di<br />

scrivere dei testi su questo tema.<br />

A metà ottobre Eugenio comincia a <strong>la</strong>vorare sul<strong>la</strong> tribuna degli spettatori<br />

rendendo<strong>la</strong> parte integrante del<strong>la</strong> scenografia. È arrivato ancora una volta il<br />

momento in cui i "ragazzi" si appassionano a trovare soluzioni tecniche e noi "ragazze"<br />

ci annoiamo a morte. Decidiamo che il prossimo appuntamento sarà a febbraio 2010.<br />

Due settimane dopo il termine del<strong>la</strong> terza tappa del<strong>la</strong> Vita <strong>cronica</strong>, Torgeir<br />

ed io scopriamo che <strong>la</strong> causa del<strong>la</strong> sua mancanza di energie è dovuta<br />

probabilmente a un cancro. Ascoltiamo <strong>la</strong> paro<strong>la</strong> "metastasi" formu<strong>la</strong>ta per <strong>la</strong><br />

prima volta dal primario del reparto di pneumologia dell'ospedale di Holstebro il<br />

29 ottobre 2009. È <strong>la</strong> mattina del 73esimo compleanno di Eugenio. A mezzogiorno<br />

sediamo con tutti gli altri membri dell'<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> attorno al<strong>la</strong> tavo<strong>la</strong> imbandita<br />

ascoltando discorsi, risate e canzoni. Eugenio risplende a capotavo<strong>la</strong>. Kai canta<br />

una canzone di Leonard Cohen: May everyone live, may everyone die, hello my<br />

love my love goodbye. Inghiotto le <strong>la</strong>crime mentre Torgeir ed io ci stringiamo di<br />

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66<br />

nascosto <strong>la</strong> mano, sotto il tavolo. Chi siamo noi umani, che possiamo concepire<br />

l'idea di Dio e allo stesso tempo essere disumani con i nostri simili, che possiamo<br />

sorridere nel dolore e piangere dal<strong>la</strong> gioia?<br />

La mattina del 10 novembre andiamo in municipio per fissare <strong>la</strong> data del<br />

nostro matrimonio, dopo "un fidanzamento durato tanto a lungo da chiamarsi<br />

ormai d'argento". Poi all'ospedale per ricevere il risultato del<strong>la</strong> biopsia al fegato<br />

fatta una settimana prima: cancro a piccole cellule al polmone con metastasi al<br />

fegato e ad una vertebra. Ora che abbiamo <strong>la</strong> diagnosi bisogna trovare <strong>la</strong> cura. A<br />

fine pomeriggio Torgeir mi fa convocare tutti i compagni nel<strong>la</strong> biblioteca dell'<strong>Odin</strong><br />

<strong>Teatret</strong> per un bicchiere di spumante. E lì Torgeir innalza il calice e annuncia <strong>la</strong><br />

sua ma<strong>la</strong>ttia e l'imminente inizio delle cure.<br />

2010<br />

Eugenio decide di non usare, come era previsto, il mese di febbraio 2010 per le<br />

prove del<strong>la</strong> Vita <strong>cronica</strong>, ma per rie<strong>la</strong>borare tutti gli spettacoli di ensemble<br />

dell'<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong>, cancel<strong>la</strong>ndo <strong>la</strong> presenza di Torgeir. Eugenio vuole che Torgeir si<br />

concentri completamente sulle cure e non partecipi alle tournée con i vecchi<br />

spettacoli. Torgeir stesso, con <strong>la</strong> sua usuale leggerezza e gentilezza, ci aiuta in<br />

questo straziante processo.<br />

Posticipiamo il prossimo periodo di <strong>la</strong>voro sul<strong>la</strong> Vita <strong>cronica</strong> a maggio.<br />

Dal 10 al 26 maggio <strong>la</strong>voriamo in sa<strong>la</strong> bianca. Torgeir si sveglia tardi e non<br />

viene a teatro per il <strong>la</strong>voro nel "vivaio" e <strong>la</strong> prima fi<strong>la</strong>ta del mattino. Nel<strong>la</strong> pausa<br />

di mezzogiono lo vado a prendere a casa. Per <strong>la</strong> prima volta nel<strong>la</strong> sua storia, <strong>la</strong><br />

gente dell'<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> ha deciso di pranzare insieme per stare vicino a Torgeir.<br />

Ci alterniamo a coppie in cucina per preparare il cibo. Torgeir prende parte alle<br />

fi<strong>la</strong>te del pomeriggio. Eugenio crea nuove scene e fa continuamente<br />

cambiamenti radicali. Decide che Sugar deve par<strong>la</strong>re rumeno. I miei testi<br />

vengono tradotti. Eugenio mi chiede di cantare una canzone mentre poso i fiori<br />

sul<strong>la</strong> bara. E Sugar intona: I wanna die easy when I die. Eugenio mi dice che non<br />

riesce a trovare posto per il tema del<strong>la</strong> chiave, dunque abbandono i materiali che<br />

avevo preparato con le chiavi yemenite. Per creare una continuità, durante le<br />

fi<strong>la</strong>te del<strong>la</strong> mattina Eugenio mi chiede di eseguire le azioni di Torgeir. Questo<br />

significa che ogni fi<strong>la</strong>ta per me è diversa. Senza <strong>la</strong> presenza solerte di Ana Woolf<br />

che mi suggerisce costantemente cosa devo fare, non riuscirei mai a ricordare<br />

tutti i cambiamenti proposti da Eugenio. Eugenio assegna anche ad altri<br />

compagni alcuni dei compiti di Torgeir.<br />

L'ultima fi<strong>la</strong>ta, quel<strong>la</strong> che verrà filmata, avviene di pomeriggio e Torgeir vi<br />

partecipa. Nel<strong>la</strong> confusione Kai dice per errore il testo di Torgeir come di solito fa


nelle fi<strong>la</strong>te del<strong>la</strong> mattina, prima che lo possa dire Torgeir stesso, impugnando <strong>la</strong><br />

pisto<strong>la</strong>.<br />

Dopo <strong>la</strong> fi<strong>la</strong>ta busso al<strong>la</strong> porta del camerino di Torgeir. Lo trovo seduto al<strong>la</strong><br />

scrivania: "Come ti senti?"<br />

"Mi ha fatto bene, ma ero lento."<br />

"Il tuo personaggio è lento."<br />

"Sí, ma io ero lento."<br />

Poi mi porge <strong>la</strong> pisto<strong>la</strong> dicendo "Dal<strong>la</strong> a chi dovrà usar<strong>la</strong> dopo di me".<br />

Un mese più tardi, il 27 giugno, Torgeir cessa dolcemente di respirare, dopo<br />

nenche due giorni di degenza. Le tre donne più amate del<strong>la</strong> sua <strong>vita</strong> adulta, gli<br />

erano accanto.<br />

La quinta tappa del<strong>la</strong> Vita <strong>cronica</strong> si svolge nell'autunno 2010.<br />

A settembre, preparo una scena in coppia con Jan. Era uno dei compiti che<br />

Eugenio ci aveva dato. Scelgo di far cantare a Sugar Stand by Your Man. Partiamo<br />

da una serie di abbracci che si sviluppano in lotta in cui Jan suona e io uso i miei<br />

strofinacci e fazzoletti.<br />

Quando riprendiamo il <strong>la</strong>voro il 29 settembre, troviamo <strong>la</strong> scenografia montata<br />

in sa<strong>la</strong> rossa. Siamo finiti ancora una volta nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> più grande del nostro teatro.<br />

Invece del cibo croccante Eugenio mi chiede di usare un pane. Invece di<br />

offrirlo ai compagni lo devo mangiare io. Ai primi due tentativi di suicidio che<br />

eredito direttamente dal personaggio di Torgeir, Eugenio mi chiede di farne<br />

seguire un terzo. Propongo di mangiare un bicchiere di vetro. Ma tutto questo non<br />

è possibile farlo con <strong>la</strong> maschera. Per questo Eugenio decide di sacrificare <strong>la</strong><br />

maschera da cui era partito il mio personaggio. Non voglio tornare a me stessa!<br />

Decido allora di mettemi le lenti a contatto verdi e di truccarmi pesantemente.<br />

Ed ecco, ancora una volta si ripete il miracolo: mi guardo nello specchio e non mi<br />

riconosco. Sono pronta a rinunciare al<strong>la</strong> maschera.<br />

Un'altra canzone appare mentre uso le ali azzurre: What a Wonderful<br />

World. La canto con gli occhi bendati prima del secondo tentativo di suicidio.<br />

Così Sugar ha ereditato non solo il vizio assurdo del personaggio di Torgeir, ma<br />

anche il suo imp<strong>la</strong>cabile ottimismo.<br />

Continuo a trovare momenti e modi di mangiare il pane. Al<strong>la</strong> fine mi viene<br />

da vomitare. Ecco! Sugar è bulimica, per questo mangia tutto il tempo e vomita.<br />

Perfettamente coerente con <strong>la</strong> sua storia.<br />

Al<strong>la</strong> fine di questa tappa dovremo presentare le prove come work in<br />

progress al Grotowski Institute a Wroc<strong>la</strong>w. Per questo dal 20 ottobre interrompiamo<br />

il "vivaio" e ci concentriamo sul<strong>la</strong> rie<strong>la</strong>borazione di una scena dopo l'altra.<br />

Eugenio continua a fare esperimenti con l'organizzazione dello spazio, mettendo<br />

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gli attori sulle scale, fra gli spettatori. Il problema è che non dobbiamo prendere<br />

il posto degli spettatori.<br />

A Wroc<strong>la</strong>w, Eugenio <strong>la</strong>vora sullo spettacolo al<strong>la</strong> presenza di 40 corsisti. Un<br />

giorno cambia completamente lo spazio e lo apre in tutta <strong>la</strong> lunghezza del<strong>la</strong> sa<strong>la</strong>.<br />

Ci ritroviamo a muoverci nel ben conosciuto fiume fra due sponde di spettatori.<br />

La quinta tappa si chiude così: aprendo lo spazio, ancora una volta.<br />

2011<br />

I mesi di febbraio e di marzo sono <strong>la</strong> cornice del<strong>la</strong> sesta tappa del<strong>la</strong> Vita <strong>cronica</strong>.<br />

È qui che Eugenio chiama (ancora una volta) Jesper Kongshaug a correggere il<br />

disegno luci dello spettacolo. Lo spettacolo ne ha bisogno per librarsi su un altro<br />

piano. Jesper è geniale e semplice allo stesso tempo. Giusto quello che ci si confà.<br />

La fine dello spettacolo cambia diverse volte. Ora si avvicina a una luce di<br />

speranza, grazie al<strong>la</strong> presenza semplice e fresca di Sofía ed Elena.<br />

La pazienza di Eugenio a volte mi pare sovrumana. Aspetta per anni dei<br />

risultati che non ha nessuna garanzia di avere. Lo fa perché non può farne a meno.<br />

Sul<strong>la</strong> sua intelligenza non ci sono dubbi, ma c'è anche un'altra forma di intelligenza<br />

che lo guida.<br />

Eugenio incatena Jan al<strong>la</strong> sua chitarra elettrica. Il suo personaggio è un<br />

musicista rock, per questo non può suonare gli strumenti "folk" che Jan ha<br />

proposto durante <strong>la</strong> crescita dello spettacolo. In una scena Eugenio chiede a Jan<br />

di cadere sul<strong>la</strong> schiena, con <strong>la</strong> chitarra elettrica addosso. Non una, non due, non<br />

tre volte, ma ripetutamente. Rabbrividisco. Jan ha più di sessantanni e nessun<br />

training in tecnica di clown o da cascatore. Jan è un musicista. Per proteggere lo<br />

strumento si prende uno strappo musco<strong>la</strong>re che lo accompagna durante tutto il<br />

periodo di prove, limitando notevolmente le sue possibilità. Eppure continua.<br />

Come me, come gli altri. Perché non ne possiamo fare a meno. Altri se ne sono<br />

andati, ma noi rimaniamo. Abbracciando il nostro destino.<br />

3 luglio 2011. Un anno fa celebravamo il funerale di Torgeir. La nascita del<strong>la</strong> Vita<br />

<strong>cronica</strong> corre paralle<strong>la</strong> al<strong>la</strong> sua ma<strong>la</strong>ttia e al<strong>la</strong> sua morte. In questo spettacolo <strong>la</strong><br />

sua assenza è per me molto presente. Il mio personaggio ha ereditato una parte<br />

essenziale del suo personaggio.<br />

L'autodistruttività di alcuni dei personaggi di Torgeir era frutto di<br />

un'esuberanza di <strong>vita</strong>.<br />

Sembrerebbe grottesco e crudele pensare che un attore in fin di <strong>vita</strong> crei un<br />

personaggio con <strong>la</strong> mania del suicidio. Come un incrocio fortunato fra Buddha e il<br />

principe Myskin, Torgeir si ostinava in un ottimismo sereno che lo ha riempito di


luce fino all'ultimo istante. Io che ho condiviso con lui gli ultimi 28 anni del<strong>la</strong> sua<br />

<strong>vita</strong>, non gli ho mai sentito dire una so<strong>la</strong> paro<strong>la</strong> a proposito del<strong>la</strong> propria morte.<br />

Torgeir ha iniziato con Eugenio l'<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> nel 1964 e nel maggio del 2011<br />

ha inaugurato <strong>la</strong> tomba di famiglia dell'<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong>. C'è posto per dodici, ma se<br />

serve, ci si stringe un po' e si fa posto agli altri, come alle feste di compleanno.<br />

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La Madonna Nera (Iben Nagel Rasmussen). Foto: Jan Rüsz


Iben Nagel Rasmussen<br />

Il senso nel<strong>la</strong> follia<br />

La sa<strong>la</strong> blu<br />

Febbraio 2008<br />

All'inizio non c'era niente<br />

nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> blu<br />

solo <strong>la</strong> triste luce grigia<br />

delle finestre.<br />

Vennero gli attori, stanchi<br />

da anni di viaggi e imprese,<br />

e il regista<br />

a sorpresa vestito da monaco giapponese,<br />

o forse cinese,<br />

color verde appassito<br />

seguito dagli assistenti e dal consigliere letterario.<br />

Poi venne <strong>la</strong> favo<strong>la</strong> nascosta<br />

con <strong>la</strong> sua sconcertante follia<br />

e tutto si mise in moto.<br />

Dai depositi e dalle soffitte<br />

gli attori riesumarono oggetti dimenticati<br />

e costumi che sentivano d'umido.<br />

Apparivano nel<strong>la</strong> mente figure e immagini<br />

di spettacoli scomparsi.<br />

Con forme spigolose<br />

vecchie scene si intrecciarono a nuove.<br />

Dopo vent'anni è tornato in <strong>vita</strong><br />

l'angelo Lolito<br />

dalle ali turchesi<br />

e l'espressione sempliciotta<br />

simile a quel<strong>la</strong> di un attore.<br />

Risuscitò <strong>la</strong> testa di Otto, l'orso po<strong>la</strong>re,<br />

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72<br />

cinta da un mantello di velluto azzurro,<br />

un vecchio trucco<br />

che un clown aveva insegnato agli attori.<br />

Un grande acquario pieno d'acqua<br />

con un'anguil<strong>la</strong> viva<br />

era stato portato dall'Italia<br />

e gli attori lo coprirono<br />

di stoffe colorate e fiori freschi,<br />

e lo arricchirono d'un cande<strong>la</strong>bro a sette braccia<br />

e d'una cioto<strong>la</strong> colma di monete.<br />

"Che venga <strong>la</strong> pioggia", esc<strong>la</strong>mò il regista<br />

"in abbondanza"<br />

e le monete vo<strong>la</strong>rono per <strong>la</strong> stanza<br />

e caddero sul pavimento di legno<br />

crepitando, scrosciando<br />

mentre gli attori danzavano a coppie,<br />

titubanti, con una loro tristezza.<br />

"Verso dove danziamo?" si domandavano<br />

pensando allo spettacolo in arrivo<br />

e alle loro vite logore.<br />

"Guarda cosa ha fatto di me l'amore"<br />

si cantavano a vicenda<br />

e l'attore più vecchio<br />

rappresentò una vecchissima scena<br />

in cui, pallido come se riflettesse <strong>la</strong> luna,<br />

nasceva in un mondo sconosciuto.<br />

E <strong>la</strong> più giovane - al suo primo spettacolo -<br />

ne diventò presto il filo rosso.<br />

Sembrava così innocente con i suoi 17 anni.<br />

"Accechiamo<strong>la</strong>", disse il regista<br />

e le strinse una benda sugli occhi.<br />

Non ci volle molto, e una seque<strong>la</strong> di scene<br />

rozze e bis<strong>la</strong>cche - come pedine su una scacchiera -


furono studiate dal regista,<br />

discusse con il consigliere letterario e gli assistenti,<br />

tutti a caccia di un senso in quel<strong>la</strong> follia.<br />

Terminarono così le prove nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> blu del teatro<br />

accompagnate dallo stril<strong>la</strong>re delle trombe<br />

e da trilli degli strumenti a corda.<br />

La sa<strong>la</strong> del<strong>la</strong> solitudine<br />

Maggio 2009<br />

Passò più di un anno prima che riprendessimo il <strong>la</strong>voro iniziato nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> blu del<br />

teatro. Nel frattempo ogni attore - negli intervalli tra le tournée e le altre attività<br />

a Holstebro - doveva preparare uno schizzo drammatico con figure, scene, canti,<br />

costumi e oggetti scenici.<br />

La vaga silhouette del<strong>la</strong> figura che avevo abbozzato durante le prime prove<br />

indossava una gonna nera e un vestito setoso color rosa. Un cappello con fiori rosa<br />

le copriva <strong>la</strong> testa.<br />

Lolito, La Madonna Nera (Iben Nagel Rasmussen). Foto: Jan Rüsz<br />

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74<br />

La figura appariva così fragile che il minimo contatto o suono l'avrebbe fatta<br />

cadere a pezzi. Chi era questa figura, esangue da tutti i punti di vista?<br />

Nel luglio 2008, durante una tournée a Malta con Il libro di Ester, comprai<br />

l'imitazione di una spada da samurai. Un buon oggetto di scena, pensai, mentre <strong>la</strong><br />

mettevo in valigia sperando che al<strong>la</strong> frontiera danese non mi sospettassero di<br />

voler decapitare <strong>la</strong> regina.<br />

La spada si adattava bene al<strong>la</strong> mano, come se fosse fatta apposta per<br />

composizioni fisiche, posizioni drammatiche o azioni sorprendenti. Esitai a lungo<br />

prima di <strong>la</strong>nciar<strong>la</strong> sopra <strong>la</strong> mia testa e riuscii a riafferrar<strong>la</strong> per il manico. Altre<br />

volte <strong>la</strong> spada cadeva al suolo con <strong>la</strong> punta in giù, infliggendo numerose cicatrici<br />

al pavimento del<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> dove <strong>la</strong>voravo tutta so<strong>la</strong>.<br />

La donna esangue aveva un'arma. Ma che fare con <strong>la</strong> sua esile voce?<br />

Una scheggia che sibi<strong>la</strong> - potremmo chiamar così il pezzo di legno legato a<br />

uno spago che produce un ronzio quando si fa girare in aria velocemente. Diventai<br />

una tempesta, una brezza, una tromba d'aria, un vento vorticoso, e mentre il<br />

frammento di legno vo<strong>la</strong>va intorno a me come un uccello nel<strong>la</strong> burrasca, mi<br />

ricordai di una cop<strong>la</strong>, un canto indio che avevo ascoltato sulle Ande dell'Argentina.<br />

Si accordava perfettamente all'oggetto, come l'eco di un richiamo umano<br />

tra le montagne.<br />

Negli spettacoli precedenti avevamo usato dei salmi scandinavi che<br />

funzionavano per il modo disadorno di cantare dell'<strong>Odin</strong>. Questa volta scelsi<br />

qualcosa d'altro: Camminiamo all'ombra di Adam Oehlenschläger. L'avevo<br />

cantata a scuo<strong>la</strong> ed era una delle canzoni drammatiche e me<strong>la</strong>nconiche per cui<br />

avevo un debole. Accompagnavo il mio canto con un ron-roco, uno strumento a<br />

corde sudamericano. Usai anche una picco<strong>la</strong> fisarmonica che mi era stata<br />

rega<strong>la</strong>ta per il mio compleanno. Gli accordi dello strumento e il modo di fondere<br />

canto e testo era nuovo e stimo<strong>la</strong>nte: delicato e cristallino, dissonante e<br />

stridulo, forte.<br />

Le voci del<strong>la</strong> figura non erano esangui.<br />

Quando ci siamo incontrati di nuovo, per prima cosa abbiamo mostrato i<br />

nostri "materiali" a Eugenio e agli altri. Avevo avuto un'idea per <strong>la</strong> scenografia<br />

dello spettacolo: ogni figura/attore doveva collocarsi in una teca di vetro, come<br />

i manichini in un museo o i santi di una chiesa cattolica. Purtroppo, mi fu detto<br />

che l'idea era già stata sfruttata da un altro gruppo di teatro, ma era troppo buona<br />

per <strong>la</strong>sciarme<strong>la</strong> scappare.<br />

All'ultimo momento Kai Bredholt mi aiutò a costruire una "teca" senza vetri:<br />

un podio con degli archi in fil di ferro e una picco<strong>la</strong> croce in cima. Sul<strong>la</strong> parte<br />

posteriore avevo attaccato delle ali bianche. Quando ci salivo sopra, era come se<br />

avessi le ali. Non avevo cambiato il costume, solo il cappello al quale avevo


sostituito un fou<strong>la</strong>rd nero. La picco<strong>la</strong> Sofía Monsalve non aveva ancora compiuto<br />

18 anni, e oltre ad essere <strong>la</strong> più giovane attrice del teatro, era anche mia allieva.<br />

Era seduta per terra e mi porgeva gli oggetti e gli strumenti musicali nell'ordine<br />

stabilito.<br />

"Chi è <strong>la</strong> tua figura?" ha chiesto Eugenio dopo <strong>la</strong> presentazione.<br />

"Una santa o forse una Madonna", ho risposto.<br />

"Una Madonna?" ripeté Eugenio, come se l'idea stuzzicasse <strong>la</strong> sua curiosità.<br />

"Hmm - una Madonna".<br />

La sa<strong>la</strong> nera<br />

Febbraio 2010<br />

Lo chiamiamo væksthus, vivaio: due ore, ogni mattina, a nostra disposizione nel<strong>la</strong><br />

sa<strong>la</strong> nera per lo sviluppo individuale delle nostre figure sceniche. Come si muovono?<br />

Che vestiti indossano? Che oggetti utilizzano? Gli attori popo<strong>la</strong>no il pavimento di<br />

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canti, musica e azioni fisiche. Lavoriamo tutti insieme, ma ci mettiamo in re<strong>la</strong>zione<br />

raramente, e grazie al<strong>la</strong> musica che viene provata nel<strong>la</strong> stesso spazio.<br />

È il tempo più fertile e interessante nel<strong>la</strong> gestazione dello spettacolo. Tutto<br />

è possibile. Noi attori stiamo al centro, e improvvisiamo con oggetti e partiture<br />

fisiche senza preoccuparci in quale contesto o scena i materiali saranno inseriti,<br />

se saranno usati e che significati assumeranno.<br />

La spada, <strong>la</strong> scheggia che sibi<strong>la</strong>, il costume, il ron-roco - tutti sono messi<br />

al<strong>la</strong> prova, usati, sviluppati e migliorati. Eugenio ha imposto una so<strong>la</strong> rego<strong>la</strong> nel<br />

væksthus: dobbiamo c<strong>la</strong>udicare. Tutte le figure debbono trascinare un piede,<br />

come se qualcuno le avesse azzoppate.<br />

Un giorno Eugenio mi mostra <strong>la</strong> figurina di un Bambino Gesù che è appesa<br />

nel suo ufficio: indossa una tunica bruna e, come aureo<strong>la</strong>, tre manine spuntano<br />

da dietro <strong>la</strong> sua testa. "Provale per <strong>la</strong> tua Madonna" suggerisce. Nel Vangelo di<br />

Oxyrhincus, in Kaosmos e in Mythos abbiamo adoperato mani di legno, opera di<br />

uno scultore balinese. Adesso le richiamo in <strong>vita</strong>. Prendo un mio scialle<br />

spagnolo e lo avvolgo intorno a un cappello mongolo nel quale ho fissato le tre<br />

manine.<br />

Ricopro in parte il vestito rosa con un lungo gilet nero, e offro al<strong>la</strong> Madonna<br />

un fazzolettino di merletto che può tenere tra due dita, farlo vo<strong>la</strong>re come un<br />

uccello, con cui può tergere <strong>la</strong> <strong>la</strong>ma del<strong>la</strong> spada o asciugare le <strong>la</strong>crime sulle sue<br />

gote meste.<br />

In un angolo del<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> si è radunata una picco<strong>la</strong> orchestra che prova e<br />

riprova musiche e canzoni. Anche se non ne seguo automaticamente il suo ritmo,<br />

mi sento trascinata da un'onda di energia che attraversa e fa danzare le mie<br />

azioni: staccate o soavi, stop, pause e contro-impulsi che sembrano attrarre o<br />

respingere <strong>la</strong> mia esile figura nello spazio ridotto - ma che mi sembra infinito -<br />

del<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> nera.<br />

Il pupazzo Lolito (per il quale mi sono prodigata per farlo sopravvivere al<br />

trasferimento dal<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> blu) è diventato il compagno del<strong>la</strong> Madonna. Proviene da<br />

uno spettacolo precedente - La terra di Nod - in cui era un impertinente e<br />

sfacciato angelo custode. È abbastanza grande di statura e pesante, appunto per<br />

questo genera un certo effetto drammatico quando seguo le indicazioni che<br />

Eugenio mi ha bisbigliato all'orecchio. Diventa Cristo, un cadavere, un ferito che<br />

trascino, che sollevo sopra <strong>la</strong> testa, lo abbraccio come una "Pietà" o me lo getto<br />

in spal<strong>la</strong> come un sacco.<br />

Anche per Eugenio, che ha seguito lo sviluppo dalle prime prove insieme al<br />

piccolo gruppo di assistenti, ci deve essere spazio - un'area di libertà e<br />

ispirazione. Ad ogni modo gli vengono molte idee. Un giorno mi dice: "Forse <strong>la</strong> tua<br />

Madonna dovrebbe essere nera. E par<strong>la</strong>re <strong>la</strong>tino". Poi aggiunge:" Forse Lolito


potrebbe trasformarsi in soldato. Gli procuro subito un'uniforme."<br />

Last but not least: si è aggiunta al<strong>la</strong> Vita <strong>cronica</strong> Elena Floris, una violinista<br />

italiana che col<strong>la</strong>bora con me nel Libro di Ester.<br />

La sa<strong>la</strong> bianca<br />

Dopo le due ore del væksthus, <strong>la</strong> mattina, continuiamo a e<strong>la</strong>borare <strong>la</strong> struttura<br />

dello spettacolo nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> bianca. Dal momento in cui vi entriamo, è Eugenio che<br />

ha tutti i fili in mano. È <strong>la</strong> fase in cui noi attori dobbiamo mobilitare una pazienza<br />

quasi sovrumana. Veniamo spostati senza cessa a sinistra e a destra in un fiotto<br />

continuo di informazioni contradditorie, con difficoltà a comprendere in quale<br />

direzione andare. Niente di strano, dato che anche il regista non è in grado di<br />

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raccapezzarsi riguardo al<strong>la</strong> direzione del processo e che per di più considera una<br />

virtù il fatto di buttar via <strong>la</strong> busso<strong>la</strong>.<br />

I nostri due tecnici Fausto Pro e Donald Kitt hanno <strong>la</strong>vorato senza sosta sul<strong>la</strong><br />

scenografia. Hanno approntato un rozzo pavimento di assi fra l'una e l'altra delle<br />

quali c'è un intervallo d'un paio di centimetri. Le assi ricoprono solo una metà<br />

dello spazio scenico e destano l'associazione di una zattera. Tutte le fonti di luce<br />

dello spettacolo dovranno essere invisibili.<br />

Il "magazzino" è il ripostiglio che avevamo allestito già nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> blu: il muro<br />

di fondo dove strumenti musicali, oggetti scenici e attori vengono appesi o<br />

sistemati quando non sono in azione. Dei ganci imponenti fanno pensare a una<br />

macelleria o a una sa<strong>la</strong> di tortura. Anche il piccolo podio-teca con i suoi fili di<br />

metallo è sopravvissuto al trapianto nel<strong>la</strong> nuova sa<strong>la</strong>, insieme all'acquariotavolino<br />

piazzato al centro del pavimento-zattera.<br />

Inizia qui <strong>la</strong> dura e allo stesso tempo duttile fase in cui una scena è montata<br />

dopo l'altra, in cui sono fissate le partiture fisiche e i canti, ora eseguiti a più voci<br />

e senza stonature, in cui nervosismo, irritazioni, frustrazioni e ambizioni lottano<br />

come per far naufragare l'intero progetto.<br />

"Forse non dovresti essere so<strong>la</strong>mente <strong>la</strong> Madonna - mi dice Eugenio al<strong>la</strong> fine<br />

delle prove in sa<strong>la</strong> bianca - ma anche Kali, <strong>la</strong> divinità induista che distrugge e<br />

insieme crea, annientando i demoni del<strong>la</strong> falsità. Forse dovresti par<strong>la</strong>re sanscrito.<br />

Cerca di imparare un paio di mantra."<br />

La sa<strong>la</strong> rossa<br />

Ottobre/novembre 2010 - Febbraio/marzo 2011<br />

Un'era è finita. Torgeir è morto di tumore in un'alba del giugno 2010. Ci siamo<br />

stretti l'uno all'altro, come globuli rossi in un corpo ferito.<br />

La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong> sarà il primo spettacolo di gruppo dell'<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> senza Torgeir.<br />

Lui, che durante le prime prove nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong> blu aveva presentato una scena di<br />

Kaspariana, uno spettacolo di 43 anni fa, con dei suoni sommessi e una singo<strong>la</strong>re,<br />

fragile trasparenza.<br />

C<strong>la</strong>aang…- e un compagno di <strong>vita</strong> è scomparso.<br />

Gli attori non cantano più "Guarda cosa ha fatto di me l'amore". Il testo del<br />

poeta sufi turco Junus Emre è stato tagliato da tempo. Altre cose hanno tenuto<br />

più a lungo. Ma anche loro ora sono andate via: testi, canti, frammenti di una<br />

scena e scene intere, <strong>la</strong> scheggia che sibi<strong>la</strong>, le ali bianche, il podio con <strong>la</strong> teca dai<br />

fili metallici e <strong>la</strong> croce in cima, l'anguil<strong>la</strong> nell'acquario.


La va<strong>la</strong>nga di proposte degli attori e del regista sono state bollite fino a essere<br />

ridotte a qualcosa che ricorda un dado da brodo. Le scene rimaste sono appuntite<br />

e le figure sono cresciute ruvide, variegate e con una molteplicità di voci.<br />

La mia esangue figura femminile ha mostrato di contenere sia una Madonna<br />

nera che una terrificante divinità induista, le cui caratteristiche riconosco solo<br />

vagamente, e nel profondo di me.<br />

La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong> ha vagato attraverso tutte le sale di <strong>la</strong>voro del nostro teatro.<br />

I muri sono stati i testimoni silenziosi delle nostre battaglie - quando una scena<br />

diventava un groviglio inestricabile - delle nostre crisi e dei disperati attacchi di<br />

rabbia di Eugenio quando i suoi attori, una volta dopo l'altra, non comprendevano<br />

le più semplici indicazioni. Ci hanno visto barcol<strong>la</strong>re in costumi inzuppati di<br />

sudore, con lividi sul corpo e nell'anima, in un buio a volte assurdo.<br />

Però, mi domando, siamo riusciti malgrado tutto a individuare quel<strong>la</strong><br />

fessura, quel barbaglio di tenerezza e calore riconciliatore che può ribaltare <strong>la</strong><br />

pietra che sta sul<strong>la</strong> tomba?<br />

La risposta si ce<strong>la</strong> in una sa<strong>la</strong> che non conosciamo. Non è blu, nera, bianca<br />

o rossa, ma opalescente, e cambia colore e significato da sera a sera nell'incontro<br />

con gli spettatori.<br />

(Trad. a cura di Nando Taviani)<br />

Foto: Jan Rüsz<br />

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La <strong>vita</strong> <strong>cronica</strong><br />

Spazio scenico


Foto: Jan Rüsz<br />

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Foto: Jan Rüsz


ODIN TEATRET - NORDISKTEATERLABORATORIUM<br />

Fondato ad Oslo, in Norvegia nel 1964, l’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> si è trasferito a Holstebro,<br />

in Danimarca, nel 1966, diventando Nordisk Teater<strong>la</strong>boratorium. Oggi i suoi 25<br />

membri provengono da più di dieci paesi e tre continenti.<br />

Le attività del Laboratorio comprendono: spettacoli presentati nel<strong>la</strong> propria sede<br />

ed in tournée; "baratti" con diversi ambienti a Holstebro ed altrove; organizzazione<br />

di incontri di gruppi di teatro; ospitalità verso compagnie e gruppi<br />

teatrali; corsi in Danimarca e all’estero; l’annuale <strong>Odin</strong> Week Festival; pubblicazione<br />

di riviste e libri; produzione di film e video didattici; ricerca nel campo<br />

dell’Antropologia Teatrale durante le sessioni dell’ISTA, International School of<br />

Theatre Anthropology; l’Università del Teatro Eurasiano; produzione di spettacoli<br />

con l’ensemble multiculturale Theatrum Mundi; col<strong>la</strong>borazione con il CTLS,<br />

Centre for Theatre Laboratory Studies dell’università di Aarhus con <strong>la</strong> quale<br />

organizza l’annuale Midsummer Dream School; Festuge (Settimana di Festa) di<br />

Holstebro; il festival triennale Transit dedicato alle donne nel teatro; spettacoli<br />

per bambini, mostre, concerti, tavole rotonde, iniziative culturali e progetti<br />

speciali per <strong>la</strong> comunità di Holstebro e dell’area circostante.<br />

I 47 anni dell’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> come <strong>la</strong>boratorio hanno favorito <strong>la</strong> crescita di un<br />

ambiente professionale e di studi, caratterizzato da attività interdisciplinari e<br />

col<strong>la</strong>borazioni internazionali. Un campo di ricerca è l’ISTA - International School of<br />

Theatre Anthropology – che fin dal 1979 è divenuto un vil<strong>la</strong>ggio teatrale in cui attori<br />

e danzatori di culture differenti incontrano studiosi per indagare, confrontare i<br />

fondamenti tecnici del<strong>la</strong> loro presenza scenica. Un altro campo d’azione è<br />

costituito dall’ensemble del Theatrum Mundi che, fin dal 1981, ha presentato<br />

spettacoli con un nucleo permanente di artisti di tradizioni e stili diversi.<br />

L’<strong>Odin</strong> <strong>Teatret</strong> ha creato 74 spettacoli rappresentati in 63 paesi in vari contesti<br />

sociali. Nel corso di queste esperienze, si è sviluppata una specifica cultura<br />

dell’<strong>Odin</strong>, basata sul<strong>la</strong> diversità e sul<strong>la</strong> pratica del "baratto". Gli attori dell’<strong>Odin</strong><br />

si presentano con il loro <strong>la</strong>voro artistico al<strong>la</strong> comunità che li ospita e, in cambio,<br />

questa risponde con canti, musiche e danze appartenenti al<strong>la</strong> propria tradizione.<br />

Il baratto è uno scambio di manifestazioni culturali ed offre non solo una<br />

comprensione delle forme espressive dell’altro, ma mette anche in moto<br />

un’interazione sociale che sfida pregiudizi, difficoltà linguistiche e divergenze di<br />

pensiero, giudizio e comportamento.


ODIN TEATRET<br />

NORDISK TEATERLABORATORIUM<br />

SÆRKÆRPARKEN 144 · POSTBOKS 1283<br />

DK-7500 HOLSTEBRO · DANIMARCA<br />

TEL. +45 97 42 47 77 · FAX +45 97 41 04 82<br />

E-MAIL odin@odinteatret.dk · www.odinteatret.dk<br />

HOLSTEBRO · SETTEMBRE 2011

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