la vita cronica - Odin Teatret
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degli zombi che hanno perso <strong>la</strong> cognizione del<strong>la</strong> realtà in cui si trovano. Il nuovo<br />
spazio ha cancel<strong>la</strong>to ogni riferimento e non ricordiamo le sequenze più semplici.<br />
Mesi di <strong>la</strong>voro sembrano dileguati. Testi, musica, canti, azioni sono avvolti nello<br />
scompiglio; nessuno riesce ad essere preciso, deciso, incisivo. Ci rivolgiamo in<br />
continuazione ad Ana Woolf, l’assistente che ogni giorno annota anche i minimi<br />
cambiamenti durante le prove: "Cosa succede ora? Dove devo andare? Qual è <strong>la</strong><br />
prossima scena? Cosa devo fare? Cosa dico?" Mi chiedo se riusciremo ad andare<br />
avanti. Il giorno dopo riprendiamo dettaglio dopo dettaglio per ricostruire il<br />
territorio in cui dobbiamo sentirci a casa.<br />
Lo spazio vuoto davanti al<strong>la</strong> "zattera" abitata dagli altri attori diventa mio.<br />
Per riempirlo comincio a disegnare per terra con le carte. I disegni sono spostati<br />
dal pavimento al muro nero dietro di me. Penso al<strong>la</strong> Kaba e le mie carte formano<br />
un riquadro di fotografie, ma anche <strong>la</strong> sagoma di una porta dal<strong>la</strong> quale usciranno<br />
Sofía e Elena Floris con il suo violino. Così anche <strong>la</strong> chiave che usa Roberta<br />
acquista un’ulteriore funzione. Ma io non entro dal<strong>la</strong> porta. Pierangelo Pompa, un<br />
altro assistente al<strong>la</strong> regia, ha suggerito che io entri strisciando per terra, con <strong>la</strong><br />
pento<strong>la</strong> che dovrà indicare come invado il magazzino sul fondo del<strong>la</strong> "zattera" e <strong>la</strong><br />
trasformo nel<strong>la</strong> mia casa. Lavorando sul<strong>la</strong> "mia" casa, un giorno appare anche una<br />
televisione.<br />
Per ogni nuovo spettacolo ci poniamo il problema del<strong>la</strong> lingua. Dopo l’esperienza<br />
del Sogno di Andersen e del<strong>la</strong> difficile traduzione dei testi danesi nel<strong>la</strong><br />
lingua dei diversi posti dove lo spettacolo veniva rappresentato, Eugenio vorrebbe<br />
uno spettacolo senza questo problema. Pensa a un testo che non debba essere<br />
capito, che potrebbe anche essere in una lingua inventata. Immagina uno<br />
spettacolo in cui <strong>la</strong> drammaturgia non è necessariamente retta dal testo. Allo<br />
stesso tempo, Tage, preparando una dimostrazione di <strong>la</strong>voro, dichiara che quello<br />
che a lui interessa ora è <strong>la</strong>vorare con le parole e il loro significato, con <strong>la</strong> storia e<br />
<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione fra voce e azioni. Tage ricorda con estrema antipatia il processo per<br />
imparare i testi in copto e greco antico che abbiamo usato nel Vangelo di<br />
Oxyrhincus: anche lui rischia di <strong>la</strong>sciare lo spettacolo.<br />
Ricordo lo spettacolo Ta<strong>la</strong>bot e l’importanza di accompagnare <strong>la</strong> turbolenta<br />
corrente di un montaggio emotivo con un personaggio che racconta e tesse un filo<br />
rosso narrativo per lo spettatore. Anche se Eugenio insiste che tutti dobbiamo<br />
imparare i nostri testi in una lingua inventata, qualcosa mi dice che al<strong>la</strong> fine del<br />
processo rimarranno delle parole comprensibili. Dopo le vacanze, a Tage è chiesto<br />
di par<strong>la</strong>re in danese e usare le poesie di Ursu<strong>la</strong> Andkjær Olsen, <strong>la</strong> poetessa che ha<br />
seguito le nostre prove dandoci il permesso di usare liberamente i suoi versi. Io<br />
decido che <strong>la</strong> mia lingua non può essere inventata. Per raccontare dell’uomo che<br />
vende stoffe e che è emigrato dal paese dove i suoi genitori, i suoi nonni e anche<br />
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