intervista - La Repubblica
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<strong>Repubblica</strong> Nazionale 43 24/09/2006<br />
DOMENICA 24 SETTEMBRE 2006<br />
Un’ideologia costruita sulla religione<br />
un’illusione sovrapposta a un’altra<br />
come una vernice spalmata sul vuoto<br />
la tesi nel suo contrario. Sembra di comprendere che nell’universo<br />
islamico nulla sia più doloroso del sospetto che qualcosa abbia<br />
snaturato l’alleanza con Dio. Una conclusione tanto insopportabile<br />
non può evidentemente che essere negata, ma rimane presente<br />
a livello subliminale. Ed è forse la spiegazione del dolore apocalittico<br />
dell’islamista.<br />
Negli ultimi cinque anni abbiamo assistito, al di là del collasso<br />
morale, a una vera e propria agonia: quella della morte dell’Islam<br />
imperiale. L’islamismo è l’ultima ondata, l’ultima convulsione. Fino<br />
al 2003 si poteva trovare qualche conforto nella stessa virulenza<br />
della deformazione islamista, troppo follemente dionisiaca e insostenibilmente<br />
tossica per poter durare nel tempo. Nel XX secolo —<br />
se si eccettua l’Africa — i soli esempi paragonabili di demenza sanguinaria<br />
sono quelli della Germania nazista e della Cambogia stalinista,<br />
durati rispettivamente dodici anni e tre anni e mezzo. Hitler,<br />
Pol Pot, Osama: uomini che hanno chiesto solo di essere gli ultimi<br />
a morire. Ma esistono alcune forti ragioni per pensare che il<br />
confronto con gli islamisti rischia di protrarsi più a lungo. Al punto<br />
in cui siamo, non è difficile individuare gli errori psicologici commessi<br />
nella guerra irachena. <strong>La</strong> causa della svolta fatale, della fatale<br />
perdita di legittimità, non è stata l’insistenza, sbagliata oltre che<br />
cinica, sulle armi di distruzione di massa di Saddam: le agenzie di<br />
intelligence di tutti gli Stati del mondo, Iraq compreso, hanno creduto<br />
nella loro esistenza. È stato invece fatale il comportamento del<br />
presidente americano, intossicato dal potere in maniera fin troppo<br />
palpabile: il suo passo, la sua voce, il suo linguaggio. Tutto è culminato<br />
nell’avvilente apparizione sulla portaerei Abraham Lincoln<br />
(«Missione compiuta!»), ove ogni tratto, ogni virgola del suo<br />
linguaggio corporeo tradiva una tracotante fiducia nell’inarrestabile<br />
ascesa del suo potere.<br />
Dovremmo aggiungere tra parentesi che ne è stato vittima anche<br />
Tony Blair, ma con una differenza. In quella che Donald Rumsfeld<br />
ha definito con insolenza la «vecchia» Europa, è profondamente<br />
radicata l’idea che la classe politica abbia sempre bisogno<br />
di controlli e contrappesi (checks and balances), nonché dei frangiflutti<br />
psichici necessari a limitare gli effetti della corruzione che<br />
sempre minaccia chi ha raggiunto i vertici del potere personale. E<br />
non per una questione di igiene mentale: è chiaro a tutti che una<br />
mente bacata induce a decisioni sbagliate. Questo, Blair lo sapeva.<br />
E sapeva anche di avere un solo atout, neanche tanto forte: il bisogno<br />
degli americani di sentir approvare la guerra con accento inglese.<br />
Eppure è stato irrimediabilmente trascinato nelle turbolenze<br />
di George W. Bush, che visibilmente hanno travolto anche Rumsfeld.<br />
Il quale ultimo, nelle sue apparizioni televisive di quel periodo,<br />
sembrava venir fuori da una nube di cocaina. «Cose che capitano»,<br />
aveva detto in risposta alle domande sul saccheggio dei tesori<br />
archeologici della Mesopotamia: il commento di un uomo non<br />
solo corrotto, ma anche vistosamente involgarito dal potere. In<br />
quel periodo, oltre al linguaggio corporeo c’era il linguaggio del potere<br />
— dalle espressioni di Bush del tipo «voglia di calci in culo» ai<br />
suoi incitamenti alquanto avventati, come ormai pensano in molti,<br />
alla sollevazione armata.<br />
Davanti a questo genere di spettacoli l’avversione non era certo<br />
solo di tipo estetico. Si sono viste le conseguenze. Ora sappiamo che<br />
intorno al presidente si era condensata un’atmosfera di trionfalismo<br />
prebellico, un’unanimità roboante, un clima in cui qualunque<br />
argomento contrario, qualunque seppur sommesso invito alla circospezione<br />
passava per un piagnisteo, un segno di debolezza o di<br />
slealtà. Se Barbara Tuchman fosse stata in vita, le sarebbe venuta voglia<br />
di aggiungere un lungo capitolo alla sua March of Folly(<strong>La</strong> marcia<br />
della follia). Ma neppure lei poteva immaginare un presidente<br />
che avrebbe «pregato Dio di dargli la forza per fare la sua volontà».<br />
Un’orgia di potere con tanto di benedizione divina non lascia spazio<br />
alle precauzioni e ai dubbi. L’invasione dell’Iraq era presentata<br />
allora come una guerra preventiva in grado di «autofinanziarsi», finalizzata<br />
a imporre il disarmo e un cambiamento di regime. Dopo<br />
tre anni e mezzo appare invece come una guerra di proselitismo, oltre<br />
che un’impresa avventuristica. Degli obiettivi proclamati, l’unico<br />
a restare in piedi è quello di promuovere la democrazia.<br />
Ma il progetto iracheno era predestinato al fallimento, in ragione<br />
di due realtà storiche intrinseche. In primo luogo, oggi il Medio<br />
Oriente è chiaramente incapace di portare avanti un sistema democratico,<br />
per la semplice ragione che la sua popolazione vota in<br />
senso contrario. Come mai nella situation room nessuno ha pronunciato<br />
queste parole, nessuno ha ricordato ciò che gli studiosi<br />
spiegano da anni? <strong>La</strong> «politica elettorale» dei fondamentalisti, scriveva<br />
Lewis, «si riassume classicamente nello slogan “Un uomo (che<br />
sia uomo!), un voto, una sola volta”». Mentre per Harris la democrazia<br />
si riduce a «poco più di una passerella verso la teocrazia». Una<br />
teocrazia islamista. Oggi, chiuse le urne e contati i voti, conosciamo<br />
i risultati nella regione. In Libano Hezbollah avanza; in Egitto vincono<br />
i Fratelli musulmani, ispirati a Sayyd Qutb; in Palestina vince<br />
Hamas, in Iran è stato eletto Mahmud Ahmadinejad, demagogo,<br />
sobillatore e rozzo antisemita. Alle elezioni irachene Bush e Blair<br />
speravano pateticamente in Allawi, che è rimasto al 9 per cento.<br />
In secondo luogo, l’Iraq non è un Paese vero. È stato raffazzonato<br />
da Winston Churchill nei primi anni 20, mettendo insieme le tre<br />
diverse province ottomane di Sunni, Shia e Kurd — una configurazione<br />
che a quanto pare si sta ridisegnando. Tra le voci inascoltate<br />
dal governo Usa va inclusa anche quella dello stesso Saddam Hussein.<br />
Il quale — fermo restando il suo apparato di terrore feroce come<br />
pochi nella storia, con le sue armi chimiche e cannoniere volanti,<br />
i massacri, la provata propensione ai ripulisti, alle deportazioni<br />
e alla distruzione di interi ecosistemi — ha modestamente<br />
ammesso che l’Iraq era un Paese difficile da tenere insieme. Come<br />
ha detto un militare sunnita, «gli iracheni odiano l’Iraq»: un nome<br />
che per loro ha significato solo sofferenza. Non hanno alcun istinto<br />
nazionalista, ma piuttosto un istinto di atomizzazione.<br />
In terzo luogo, per un animo islamico solo il saccheggio di Medina<br />
o della Mecca avrebbe potuto essere più doloroso dell’invasione<br />
e profanazione della capitale irachena, sede del Califfato. Da noi<br />
non c’è stata alcuna discussione sul significato religioso di Bagdad,<br />
ma vari segnali sono giunti dalla linea del fronte jihadista. Pronunciamenti<br />
vibranti di afflato storico hanno espresso la gioia di scontrarsi<br />
con gli infedeli nella Terra dei due fiumi. E naturalmente anche<br />
altrove — come a Madrid, a Bali (un’altra volta), o a Londra. Può<br />
darsi che l’avventura della coalizione abbia fornito al nemico un casus<br />
belli destinato a bruciare per un’intera generazione.<br />
In tutto l’Occidente, sono in molti ad anelare a un fallimento americano<br />
in Iraq, in odio a George W. Bush. Ma forse non si rendono<br />
conto che ciò equivale ad auspicare una vittoria islamista, che<br />
avrebbe conseguenze drammatiche sulla vita dei loro figli. Potrebbe<br />
accadere. Proviamo a guardare a questa guerra non con gli occhi<br />
di Bin <strong>La</strong>den, ma attraverso l’insegnamento della storia. Da questa<br />
prospettiva, l’11 settembre appare come una provocazione. L’“immersione<br />
lampo”, la “gita di piacere” in Iraq si è dimostrata una simulazione,<br />
e una trappola. Oggi sappiamo, grazie a vari bestseller<br />
da 500 pagine quali Cobra IIe Fiasco, che l’invasione irachena è stata<br />
davvero incredibilmente avventata (non c’era un piano, nemmeno<br />
l’ombra di un piano per l’occupazione). Ma in ogni caso non<br />
dobbiamo ingannarci sui motivi, non tutti disonorevoli. Siamo di<br />
fronte a una tragedia di tipo familiare. Questa guerra rappresenta<br />
un megacontratto non solo per Halliburton, ma anche per la megaimpresa<br />
di pavimentazione stradale che ha nome Buone Intenzioni.<br />
Dobbiamo sperare che di queste ultime si salvi almeno qualcosa,<br />
per metterci in condizioni di riconsolidare le nostre posizioni<br />
sul piano etico. In Iraq ci siamo sviati in una long war— la lunga guerra,<br />
nome di malaugurio. All’inutile spargimento di sangue, alla perdita<br />
di vite umane, di tesori e di prestigio morale dobbiamo aggiungere<br />
la perdita di tempo. Anche il tempo è sangue.<br />
S<br />
***<br />
i è presentata un’idea su una direzione migliore da prendere.<br />
E curiosamente, a propugnarla è Liz Cheney, la figlia<br />
di quell’anima nera che sta dietro il disastro iracheno. Ma<br />
prima di arrivare a questo devo tornare brevemente ad<br />
Ayed, alla sua cintura e ad alcune pacate riflessioni sull’arte<br />
della fiction.<br />
Alla cintura del finale di The Unknown Knownsono arrivato tardi.<br />
Ma di fatto era già lì, e in posizione preminente, fin dall’inizio.<br />
Gli scrittori sanno cosa intendo dire. Il subconscio aveva fatto un<br />
cortese suggerimento, e la mente cosciente ha impiegato un po’ di<br />
tempo a captarlo. <strong>La</strong> cintura di Ayed, ordinata per posta a Greeley,<br />
Colorado, è chiamata RodeoMaMa e consta di una weight strap,<br />
una pesante cinghia, e del pomello di una sella. Ayed fa parte di<br />
quel genere di uomini per i quali un marito deve far sesso ogni notte<br />
con le sue mogli. E il RodeoMaMa, che usa invariabilmente, è<br />
una delle ragioni dei loro continui ammutinamenti.<br />
Dopo una ricognizione nella sezione dei Noti Noti, Ayed attrezza<br />
il suo RodeoMaMa. Tornato a casa, convoca le sue mogli per<br />
l’ultima volta. E arriva così alla sua rivoluzione concettuale, al suo<br />
Ignoto Ignoto: è il primo a usare la propria casa come set per le sue<br />
operazioni di martirio.<br />
***<br />
Potrei scrivere un altro lungo articolo sui motivi per cui ho accantonato<br />
The Unknown Known. Il momento confermativo è arrivato<br />
qualche settimana fa: il sospetto, recentemente rafforzato,<br />
dell’esistenza sul nostro pianeta di una genìa di esseri umani che si<br />
faranno musulmani per perseguire il suicidio-omicidio di massa.<br />
Per molto tempo avevo pensato che l’islamismo stesse tentando di<br />
avvelenare il mondo. Ora c’era un segnale ad indicare che questo<br />
veleno poteva attecchire, mutando come l’influenza aviaria. Ho già<br />
detto che l’Islam è un sistema totale, e come tutti i sistemi di questo<br />
tipo è difficilmente disposto alla satira. Ma con l’islamismo —<br />
la perversità, il terrore e la noia totali — anche l’ironia, compresa<br />
quella militante (cioè la satira) non può che intristire e morire.<br />
***<br />
In The Twentieth Century(Il ventesimo secolo) lo storico J. M. Roberts<br />
prende una posizione per nulla sentimentale sulla Rivoluzione<br />
cinese. «Ci sono più di duemila anni di notevoli continuità<br />
storiche dietro a questo sconvolgimento, che con i suoi costi e le<br />
sue efferatezze ha rappresentato uno sforzo eroico, di dimensioni<br />
comparabili solo a sovvertimenti giganteschi quali la diffusione<br />
dell’Islam, o l’assalto dell’Europa al mondo agli albori dei tempi<br />
moderni».<br />
Secondo Jung Chang e Jon Halliday (Mao. <strong>La</strong> storia sconosciuta)<br />
quelle efferatezze sono costate qualcosa come settanta milioni<br />
di morti. I quali però vanno visti anche in rapporto al «peso del<br />
passato», che in nessun luogo è stato gravoso come in Cina. Gli assalti<br />
deliberati all’autorità familiare non erano solo stratagemmi<br />
di un regime sospettoso per incoraggiare informatori e delatori;<br />
erano attacchi alla più conservativa di tutte le istituzioni cinesi. Allo<br />
stesso modo, la promozione della donna e la propaganda per<br />
scoraggiare i matrimoni delle adolescenti hanno assunto dimensioni<br />
che andavano ben oltre il “progressismo” femminista, o le<br />
esigenze di controllo demografico. Si è trattato di un assalto contro<br />
il passato, di dimensioni che nessuna rivoluzione aveva mai<br />
raggiunto — anche perché nel passato cinese il ruolo delle donne<br />
era molto inferiore rispetto all’America pre-rivoluzionaria, alla<br />
Francia e persino alla Russia.<br />
***<br />
Nell’Islam non esiste alcun tipo di slancio riformatore. E non c’è<br />
più tempo ormai per portare avanti con lentezza una tranquilla riflessione<br />
illuminista. Il necessario sovvertimento è una rivoluzione:<br />
la liberazione delle donne. Ma non sarà l’opera di un decennio,<br />
e neppure di una generazione. L’Islam è di mille anni più giovane<br />
della Cina. Ma non dobbiamo dimenticare che la rivoluzione ha<br />
impiegato mezzo secolo per attraversare i villaggi cinesi.<br />
Nel 2002 il Pil complessivo di tutti i Paesi arabi era inferiore a quello<br />
della Spagna. In base a tutti gli indici della produzione industriale<br />
e manifatturiera, della creazione di posti di lavoro, della tecnologia,<br />
dell’alfabetizzazione, dell’aspettativa di vita, dello sviluppo<br />
umano e della vitalità intellettuale, gli Stati islamici erano arretrati<br />
non solo rispetto all’Occidente, ma anche all’Estremo Oriente. (Per<br />
citare un esempio tra tanti: nel mondo arabo, il maggior numero di<br />
intestatari di linee telefoniche si rileva negli Emirati Arabi Uniti, che<br />
a loro volta figurano al 33° posto tra la Réunion e Macao). In più c’è<br />
la tirannia, la corruzione, la mancanza di diritti civili, l’assenza di<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43<br />
una società civile. Ci si chiede come si sentano gli islamisti davanti<br />
al confronto tra due Paesi quali l’India il Pakistan: il primo una superpotenza<br />
democratica in via di espansione, il secondo un Paese<br />
non molto diverso da un failed state, uno Stato fallimentare. «What<br />
went wrong?», che cosa è andato storto?, si chiede Bernard Lewis<br />
dall’inizio alla fine del suo libro. <strong>La</strong> risposta, a grandi linee, si può<br />
trovare nell’irrazionalismo istituzionalizzato e in particolare nell’oscura<br />
logica che nega al mondo islamico il talento e l’energia di<br />
metà della sua popolazione. Senza alcun dubbio oggi la propensione<br />
dei maschi musulmani a porsi interrogativi razionali è debolissima.<br />
Ma non perdiamo di vista le immagini dell’Afghanistan: le<br />
fiumane di ragazze che corrono verso la scuola.<br />
Non si può ignorare il nesso tra una situazione manifestamente<br />
fallimentare e l’oppressione delle donne. A volte viene da pensare<br />
che il nodo attuale della questione, col suo tumulto di insicurezze<br />
e nostalgie, sia qualcosa di molto simile a un’impuntatura preventiva,<br />
per esorcizzare l’evacuazione dell’ultimo santuario del potere.<br />
Ma se invece, accogliendo l’idea lanciata da Liz Cheney, spendessimo<br />
una parte dei prossimi trecento miliardi di dollari per promuovere<br />
una presa di coscienza del mondo islamico? L’effetto sarebbe<br />
intrinsecamente esplosivo, dato che il dominio del maschio<br />
è basato sul Corano, la parola inconfutabile dettata da Dio al Profeta:<br />
«Gli uomini hanno sulle donne autorità per la preferenza che<br />
il Dio ha concesso al maschio sulla femmina, e a causa di ciò ch’essi<br />
hanno speso per loro delle sostanze proprie. Le femmine che si<br />
rispettano sono sottomesse, gelosamente custodiscono l’onore in<br />
assenza del marito in cambio della protezione che il Dio ha concesso<br />
loro. Temete l’infedeltà di alcune di esse? Ammonitele, relegatele<br />
sui loro giacigli in disparte, picchiatele; ma se tornano a miti<br />
sentimenti d’obbedienza, allora basta, va bene così. Il Dio altissimo<br />
è grande, in verità» (4: 34) (ed. Mondadori, trad. di F. Peirone).<br />
Possiamo immaginare una marcia organizzata dagli uomini in<br />
difesa del diritto di picchiare le proprie mogli? E se anche arrivassero<br />
a tanto, conquisterebbero i cuori e le menti? A sostenere le<br />
martiri di una rivoluzione del genere concorrerebbero due realtà<br />
evidenti: l’autorità inderogabile delle Scritture è messa seriamente<br />
in discussione in ogni parte del mondo. Inoltre, per definizione<br />
le donne non sono una minoranza; e sono pure consapevoli che la<br />
loro lotta è una battaglia eroica contro il peso del passato — il peso<br />
immane di quattordici secoli.<br />
Il lettore attento si è forse chiesto cosa sia questa ridicola categoria<br />
dell’Ignoto Noto. È il paradiso, l’infallibilità delle scritture. È<br />
Dio. L’Ignoto Noto è la credenza religiosa.<br />
Tutte le religioni sono violente, al pari di tutte le ideologie. Anche<br />
da quella occidentale, così impeccabilmente blanda, traluce<br />
un bagliore di violenza. Perché ogni sistema di credenze comporta<br />
un certo grado di illusione; e quindi non può mai essere difeso<br />
solo dalla mente. Quando è confutato a sfidato, il credente risponde<br />
a livello ormonale; e lo scontro che ne consegue è una collisione<br />
tra un cervello e un contorcimento di ghiandole. Non dimenticherò<br />
mai la faccia del custode della Cupola della Roccia a<br />
Gerusalemme, quando gli ho proposto, peccando forse di leggerezza,<br />
di lasciarmi entrare nonostante i divieti del calendario. Il<br />
suo viso, prima freddo ma cordiale, è diventato una maschera. <strong>La</strong><br />
maschera di uno che si sarebbe sentito autorizzato ad ammazzare<br />
me, mia moglie e i miei figli. Mi resi conto allora che dire «profondamente<br />
religioso» significa abusare gravemente di quell’avverbio.<br />
Un sentimento non può essere profondo solo perché non ce<br />
ne sono altri. È piuttosto come una vernice spalmata sul vuoto. L’islamismo<br />
millenario è un’ideologia costruita su una religione —<br />
un’illusione sovrapposta a un’altra illusione. Non è solo tendenzialmente<br />
violento, è unicamente, esclusivamente violento.<br />
***<br />
In Aubade, il poeta Philip <strong>La</strong>rkin (1977) veglia contemplando «la<br />
morte che non ha posa, più vicina oggi di un giorno»:<br />
***<br />
Questa speciale forma di paura<br />
non nasconde alcun trucco. Ci provava<br />
la religione, che creò il suo vasto<br />
broccato musicale, divorato<br />
oramai dalle tarme, per negare<br />
che moriremo …<br />
***<br />
Molti anni prima, in Church Going (Andando per chiese,<br />
1954), in una riflessione sulla sua abitudine di visitare le chiese<br />
di campagna e sui sentimenti che destavano in lui (soprattutto<br />
di sconcerto e di noia) è arrivato a formulare una risposta di più<br />
ampio respiro:<br />
***<br />
Mi piace rimanere qui in silenzio<br />
In questa seria casa, un serio suolo<br />
Dall’atmosfera mista ove s’incontrano<br />
Tutte le nostre compulsioni, e sono<br />
Riconosciute in veste di destino.<br />
Molto di ciò non cade mai in disuso<br />
Finché ci sia qualcuno che sorprende<br />
In sé una fame d’essere più serio,<br />
E gravitare verso questo luogo,<br />
Di cui un giorno gli era stato detto<br />
Che sia appropriato alla saggezza. Solo<br />
Che troppi morti giacciono qui intorno.<br />
***<br />
È un bel modo per arrivare a dirlo. In questi versi c’è tutto quello<br />
che decentemente e razionalmente si può dire.<br />
Possiamo ammettere che nel caso della religione, o della fede in<br />
esseri soprannaturali, il passato abbia un suo peso — non di duemila,<br />
ma di cinque milioni di anni o giù di lì. Ciò nonostante è venuto<br />
il momento di manifestare una certa impazienza nel trattare<br />
con chi cattura un innocente pronome personale che se ne stava<br />
tranquillo per i fatti suoi, per esaltarlo con un’iniziale maiuscola.<br />
L’opposizione alla religione si è già attestata sul terreno alto della<br />
riflessione intellettuale e morale. Oggi, chi ha indipendenza<br />
mentale deve potervi accedere anche spiritualmente. Dobbiamo<br />
stare con Joseph Conrad quando dice: «Il mondo dei viventi, così<br />
com’è, contiene già tante meraviglie e misteri, che agiscono sulle<br />
nostre emozioni e intelligenze in maniera tanto inesplicabile da<br />
poter quasi giustificare una concezione incantatoria della vita. <strong>La</strong><br />
coscienza del meraviglioso che ho in me è troppo salda perché io<br />
possa subire il fascino del mero soprannaturale, che comunque lo<br />
si consideri, non è mai altro che un prodotto artefatto, fabbricato<br />
da menti insensibili all’intima delicatezza del nostro rapporto coi<br />
morti e coi viventi, nella loro sterminata moltitudine. E che dissacra<br />
le nostre più tenere memorie, oltraggia la nostra dignità. Quale<br />
che sia la mia nativa modestia, non acconsentirò mai a cercare<br />
aiuto alla mia immaginazione in quelle vane immagini, comuni a<br />
tutte le epoche, che bastano di per sé a colmare di inesprimibile<br />
tristezza chiunque provi amore per l’umanità. (Dalle Note dell’autore<br />
a <strong>La</strong> linea d’ombra, 1920).<br />
(Copyright Martin Amis/Wylie Agency. Traduzione<br />
di Fabio Galimberti, Valeria Garrassini e Elisabetta Horvat)