BoneHealth N°1 pagina singola 04 marzo 21
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MakingLife Srl
Piazza della Repubblica 10 - 20121
Milano
Supplemento a Makinglife PharmaFuture&Health
- numero 1 -
marzo 2021
Il giornale del metabolismo osseo
EDITORIALE
La multidisciplinarietà al servizio
della fragilità ossea
Gregorio Guabello
Siamo soliti pensare all’osteoporosi come a una patologia che colpisce
elettivamente le donne nel periodo menopausale della vita in quanto
è noto che il calo estrogenico che si verifica dopo i 50 anni determina
una rapida perdita di massa ossea con aumentato rischio di frattura.
Questo è vero fino a un certo punto in quanto, sebbene l’osteoporosi
post-menopausale sia la forma più frequente nella pratica clinica,
è altresì importante ricordare che l’età senile è essa stessa causa di
depauperamento osseo e questo rende conto del fatto che anche il sesso
maschile in età avanzata può essere colpito da fragilità dello scheletro.
Continua a pagina 2
Microbiota intestinale
e metabolismo osseo
PRIMO PIANO
Serena Zani
La review “Microbial
osteoporosis: The
interplay between the
gut microbiota and bones
via host metabolism and
immunity” ha esaminato
i dati di alcuni rilevanti
studi che hanno ricercato
la relazione tra microbiota
intestinale e salute
dell’osso e potrebbe aprire
le porte a nuove ricerche in
tale ambito.
GESTIONE DEL PAZIENTE
BONE SPECIALIST PER UN
CORRETTO APPROCCIO
ALL’OSTEOPOROSI
Paolo Pegoraro
L’osteoporosi è una malattia sistemica dello scheletro
caratterizzata da una massa ossea ridotta e da alterazioni
qualitative che si accompagnano a un aumento del rischio di
frattura.
Per un corretto approccio alla malattia, è necessario che in Italia,
come all’estero, ci siano medici con il profilo del Bone Specialist.
Pagina 2 Pagina 4
PERCORSI TERAPEUTICI COMORNIDITÀ MALATTIE RARE ODONTOIATRIA NUTRIZIONE
Impatto del Covid-19
sulla gestione del paziente
Patologie della tiroide
e rischio di fratture
Algodistrofia importanza
di diagnosi precoce
Osteonecrosi dei
mascellari farmaco-relata
Ossa forti e sane
a tavola
La pandemia ha fortemente
impattato sul sistema
sanitario di molti Paesi,
andando a riscrivere le
regole di approccio alle
terapie e le modalità di
interazione medicopaziente.
Un sondaggio
internazionale - che ha
coinvolto reumatologi,
endocrinologi e ortopedici -
mostra come siano cambiate
queste dinamiche.
I disturbi della tiroide hanno
un impatto importante
sul metabolismo osseo:
osteoporosi e fratture da
fragilità sono complicanze
importanti. I ricercatori
concordano sull’impatto
negativo dell’ipertiroidismo
sul metabolismo osseo,
meno su quello di
ipotiroidismo, ipotiroidismo
subclinico o ipertiroidismo
subclinico.
La Sindrome algodistrofica
è una patologia invalidante,
che deve essere diagnosticata
nelle sue fasi precoci con
un’anamnesi completa e
precisa. Ad oggi, la classe di
farmaci con una maggiore
efficacia nel trattamento
di questa patologia è quella
dei bisfosfonati. Tra le varie
molecole il neridronato
sembra essere il candidato
ideale.
È necessario che l'odontoiatra
prenda in carico il paziente,
interagendo con altri
specialisti per individuare la
terapia migliore.
Tiziano Testori
Calcio, proteine, vitamina
D sono essenziali per il
benessere dello scheletro. In
caso di carenze, si consiglia
l’uso di integratori.
Hellas Cena
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pagina 2
PRIMO PIANO
Fragilità ossea
un approccio integrato
Gregorio Guabello
Segue dalla prima
Detto ciò, va ricordato
come moltissime patologie
extra-scheletriche possono
determinare, con meccanismi
complessi e diversificati,
un indebolimento dello
scheletro con osteoporosi
e fragilità ossea. Pensiamo
ad alterazioni endocrine
come l’iperparatiroidismo e
l’ipercortisolismo così come
patologie epatiche e renali che
nel tempo compromettono
la resistenza del tessuto
osseo. Malattie neurologiche
e neuro-muscolari, con
meccanismi diretti e indiretti,
possono determinare
osteoporosi e fragilità ossea.
Le patologie infiammatorie
delle articolazioni si
accompagnano spesso a
riassorbimento osseo. I
pazienti oncologici, sia per
la malattia stessa sia per i
trattamenti eseguiti (radio e
chemioterapia, terapie antiormonali)
presentano spesso
una precaria situazione ossea.
Infine moltissimi farmaci,
in primis i glucocorticoidi,
possono determinare
gravi forme di osteoporosi
iatrogena. Ecco perché la
gestione del paziente con
patologia fragilizzante dello
scheletro necessita nella
medicina moderna di un
approccio multidisciplinare
e di un approccio integrato
attraverso un confronto fra le
varie figure professionali che
gravitano attorno alla patologia
endocrino-metabolica dello
scheletro (endocrinologo,
reumatologo, ortopedico,
fisiatra, internista, oncologo,
dietologo, nefrologo, geriatra,
neurologo, gastro-enterologo,
odontoiatra). Se un paziente
con frattura di femore da
fragilità arriva in prima battuta
al chirurgo ortopedico per
la protesizzazione o per la
osteosintesi, è fondamentale che
lo stesso paziente, nel percorso
di riabilitazione, sia avviato
ad una valutazione osteometabolica
che ne permetta
un attento inquadramento
e una corretta impostazione
terapeutica. Ma ancora di
più dovremmo pensare alla
prevenzione primaria della
frattura, attraverso una
adeguata supplementazione con
vitamina D in età menopausale
e geriatrica e la gestione
di tutte le comorbilità che
possono concorrere alla
fragilità ossea del paziente.
Pazienti candidati a terapia
steroidea cronica devono
iniziare da subito una
copertura farmacologica
anti-riassorbitiva per non
incorrere nelle temibili
fratture vertebrali indotte
dai glucocorticoidi. E’ quindi
chiaro che i vari specialisti che
si occupano di malattie extrascheletriche
che possono
avere una ripercussione
sul rimodellamento osseo,
siano consapevoli di avviare
il paziente al Bone Specialist
nell’ottica di una prevenzione
primaria e secondaria delle
frattura da fragilità, con ovvie
ripercussioni in termini di
risparmio di costi sanitari.
Microbiota intestinale
e metabolismo osseo
Serena Zani
Recentemente è stato scoperto che il
microbiota intestinale, influenzando il
metabolismo dell’ospite, le sue funzioni
immunitarie e la secrezione di ormoni,
impatta sul metabolismo osseo
PER APPROFONDIRE
Un gruppo di ricercatori cinesi ha condotto un’ampia
analisi della letteratura per valutare gli effetti del
microbiota intestinale sul metabolismo osseo, al
fine di trarne nuove idee e target per il trattamento
clinico dell’osteoporosi.
Oltre a calcio e vitamina D, il cui assorbimento è
particolarmente importante per il mantenimento di
ossa sane, sono stati scoperti altri nutrienti utili per
la salute delle ossa.
Ad esempio, i probiotici possono ridurre il pH
intestinale e migliorare l’assorbimento del calcio.
Assunti durante la crescita, fruttoligosaccaridi,
galattosio, fibra di mais solubile (SCF) e altri
probiotici possono aumentare l’assorbimento del
calcio nell’uomo.
Rispetto a topi ovariectomizzati cui non sono stati
somministrati probiotici, nel modello murino
carente di estrogeni ma con alimentazione integrata
con Lactobacillus reuteri è stato osservato un
significativo aumento di massa ossea corticale.
Il microbiota intestinale modula il metabolismo
dell’ospite e lo sviluppo dello stato immunitario.
Grazie a questa relazione potrebbe intervenire anche
nella regolazione della massa ossea.
I probiotici possono inibire l’attività degli
osteoclasti e ridurre l’infiammazione. Inoltre,
possono favorire l’assorbimento del calcio e
aumentare significativamente l’espressione dei
marker osteogenici.
Il microbiota intestinale incide in modo significativo
sul metabolismo osseo attraverso molti ormoni, tra
cui il più noto, anche se non unico, è il GLP-1, che
svolge un ruolo importante nel ricambio osseo.
Le evidenze scientifiche sono molto forti, tuttavia, la
maggior parte dei risultati deve essere ulteriormente
convalidata attraverso studi sull’uomo, dato che
i risultati finora a disposizione sono stati ricavati
principalmente da studi su animali.
Fonte: Lishan Li et al. Microbiologyopen. 2019 Aug; 8(8): e00810.
Supplemento al numero 1 di MakingLife
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Hanno collaborato:
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VITAMINA K2 MK-7 –
L'INGREDIENTE VITALE
PER LA SALUTE DELLE OSSA
pagina 3
La cura del nostro scheletro non dovrebbe
essere limitata alla vecchiaia. Infatti,
è fondamentale mantenere una
massa ossea sana per tutta la vita.
Il calcio è l'elemento costitutivo delle
nostre ossa. Tuttavia, il nostro corpo ha
bisogno di più per incorporare il prezioso
minerale nel nostro scheletro. Insieme, le
vitamine D e K2 lavorano in sinergia per
assicurare che il calcio sia assorbito e portato
nei posti giusti del corpo.
La vitamina D3 è un aiuto essenziale perché
il calcio sia assorbito dalla nostra
dieta. La D3 supporta anche la produzione
di diverse proteine coinvolte nel
metabolismo del calcio. La produzione
di osteocalcina da parte degli osteoblasti
è influenzata dai livelli di vitamina
D. Tuttavia, questa proteina cruciale richiede
la vitamina K per la sua attivazione.
LA VITAMINA K2 MK-7 È IL NUTRIENTE VITALE CHE, CON
VITAMINA D, ASSICURA CHE IL CALCIO SIA SICURO ED EFFICACE.
I TRE, INSIEME, SUPPORTANO IN MODO OTTIMALE LA MINE-
RALIZZAZIONE DELLE OSSA.
IL CALCIO SI BASA SULLE VITAMINE D3 E K2 (1)
D
OPTIMAL
Vitamin D
K
OPTIMAL
Vitamin K
LO SAPEVATE?
Al contrario della vitamina K1, la K2
è distribuita a livello extra-epatico.
I menachinoni, o K2, sono la forma
circolante della vitamina K. Tra tutti,
il menachinone-7 (K2 MK-7) ha la migliore
biodisponibilità e la più lunga
emivita.
Dr. Trygve Bergeland, VP Science di
Kappa Bioscience AS: "A causa delle
loro differenze strutturali, le vitamine
K1 e K2 non hanno le stesse attività
biologiche. Con la K2, il ruolo della
vitamina K si estende oltre la coagulazione
del sangue, poiché regola
anche altri importanti processi
metabolici, come la calcicazione e
l'inammazione. La K1 si trova facilmente
in una dieta equilibrata, come
invece non avviene per la vitamina
K2. La carenza potrebbe essere più
comune di quanto pensiamo".
Proteine dipendenti dalla
vitamina K: Aumento
dell'espressione delle forme
inattive di:
• Matrix Gla-protein (ucMGP)
• Osteocalcin (ucOC)
L'efcacia della combinazione è dimostrata
da studi clinici. Quando gli integratori di
calcio, D o K2 da soli in genere limitano
Attivazione
(carbossilazione) di:
• ucMGP a cMGP
• ucOC a cOC
+
-
-
Densità
minerale
ossea
Rischio di
frattura
Calcificazione
vascolare
solo la perdita ossea, la co-supplementazione
di vitamine D + K2 migliora efcacemente
la densità minerale ossea.
EVOLUZIONE DELLA DENSITÀ MINERALE OSSEA NEL TEMPO (2)
BMD Percent Change (%)
15
14
13
12
11
10
9876543210
-1
-2
-3
-4
-5
-6
-7
-8
6 Months 12 Months 18 Months 24 Months
Vitamin K2 alone
Group 1 (n=30)
Vitamin D3 alone
Group 2 (n=32)
Vitamins K2 + D3
Group 3 (n=31)
Controls
Group 4 (n=33)
L'INGREDIENTE DELLA VITAMINA K2 MK-7 DI KAPPA BIOSCIENCE, K2VITAL ® , È UNA SOLUZIONE COLLAUDATA PER GLI OPERATORI
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(1) van Ballegooijen et al., Int J Endocrinol 2017; 7454376
(2) Ushiroyama, T., Ikeda, A., & Ueki, M. (2002). Effect of continuous combined therapy with vitamin K2 and vitamin D3 on bone mineral density and coagulobrinolysis function in postmenopausal women. Maturitas, 41(3), 211-221.
pagina 4
GESTIONE DEL PAZIENTE
Competenze
trasversali a supporto
dell’osteoporosi
L'osteoporosi
rappresenta una
malattia di rilevanza
sociale per diffusione
e costi, la cui gestione
necessità di un team
multidisciplinare
CHE COS’È IL DEFRA?
Paolo Pegoraro
L’osteoporosi è una malattia
sistemica dello scheletro
caratterizzata da una massa ossea
ridotta e da alterazioni qualitative
(macro e microarchitettura) che
si accompagnano ad aumento del
rischio di frattura. L’osteoporosi
rappresenta una malattia di
rilevanza sociale, per diffusione e per
costi: la sua incidenza aumenta con
l’età sino a interessare la maggior
parte della popolazione oltre l’ottava
decade di vita. Si stima che in Italia
ci siano oggi circa 3,5 milioni di
donne e un milione di uomini affetti
da osteoporosi. Poiché nei prossimi
vent’anni la percentuale della
popolazione italiana al di sopra dei
65 anni d’età aumenterà del 25%, ci
dovremo attendere un proporzionale
incremento dell’incidenza
dell’osteoporosi.
Ne parliamo con Gregorio Guabello,
internista ed endocrinologo,
responsabile dell’ambulatorio di
II livello per il metabolismo osseo
dell’IRCCS Ospedale Ortopedico
Galeazzi di Milano e Direttore
scientifico di Bonehealth.it.
E’ un algoritmo che è stato sviluppato in Italia sulla base di
dati relativi al rischio di frattura della popolazione Italiana
e stratifica in modo più accurato alcune delle variabili già
presenti nel FRAX, allo scopo di migliorare la predittività
del rischio di frattura. Il DeFRA fornisce una stima del
rischio sostanzialmente analoga al FRAX sulla base delle
sole variabili continue (età, BMI, BMD), ma più accurata
quando va a valutare altri fattori di rischio clinici in
maniera più dettagliata (per esempio sede e numero delle
pregresse fratture) e completa (per esempio altri farmaci
osteopenizzanti, altre comorbilità, BMD vertebrale e non
solo femorale).
Dottor Guabello, quali sono
le frontiere della terapie
dell’osteoporosi?
Sono frontiere sempre in
movimento. E comunque il
trattamento dell’osteoporosi deve
essere finalizzato alla riduzione del
rischio di frattura. I provvedimenti
non farmacologici (dieta, attività
fisica) o la eliminazione di fattori
di rischio modificabili (fumo, alcol)
dovrebbero essere raccomandati
a tutti. Al contrario l’utilizzo di
farmaci specifici è condizionato dalla
valutazione del rapporto rischio/
beneficio.
Che cosa si può dire delle metodiche
diagnostiche?
Oggi l’indagine densitometrica
consente di misurare in modo
abbastanza accurato e preciso
la massa ossea e in particolare
la sua densità minerale (bone
mineral density o BMD) in g/cm2 di
superficie ossea proiettata.
La valutazione integrata di BMD e
dei più importanti fattori di rischio
clinici parzialmente o totalmente
indipendenti dalla BMD consente
una stima più accurata del rischio
di fratture da fragilità nel medio
termine (5-10 anni successivi),
e l’identificazione di soggetti in
cui un trattamento farmacologico
è più appropriato. Soprattutto
negli ultimi 10 anni sono stati
sviluppati algoritmi, quali il FRAX
e il DeFRA, che calcolano il rischio
“
Gli esperti nel
metabolismo dello
scheletro devono
avere competenze
multidisciplinari
per curare
una patologia
trasversale
“
Il ruolo del medico
di famiglia
Il medico di famiglia
è di grande aiuto
in due fasi: in un
primo momento
d’intercettazione
precoce della patologia,
quando l’età e il sesso
del paziente possono
suggerire di rinviare
al Bone Specialist per
una valutazione e un
primo test di densità
ossea, che può dire
molto sull’attuale
salute delle ossa. Se
non c’è osteoporosi,
il medico di famiglia
può dare consigli su
come prevenirla, oltre
a informazioni su come
mantenere una buona
salute delle ossa.
delle principali fratture da fragilità
(vertebre, femore, omero, polso)
nei successivi 10 anni integrando
le informazioni derivanti dalla
misurazione della BMD con quelle
derivanti dalla presenza dei fattori di
rischio clinici.
Oggi si parla di Bone Specialist. Che
cosa ci può dire in proposito?
Credo fortemente che In Italia ci
sia bisogno di medici che abbiano
il profilo del Bone Specialist, come
avviene all’estero.
Dottor Guabello, quale
specializzazione si richiede al Bone
Specialist?
Questa è una domanda delicata. Vi
do una risposta da endocrinologo,
pagina 5
GESTIONE DEL PAZIENTE
assumendomi la
responsabilità di
sembrare di parte… Lo
specialista più indicato ad
approfondire le tematiche
del metabolismo dell’osso
è proprio l’endocrinologo,
che può e deve seguire il
paziente per tutto il corso
della patologia (cioè per
la vita) monitorando e
valutando le indagini
sierologiche, gli esami
diagnostici strumentali e
poi impostando la terapia
che andrà di volta in volta
rivalutata, confermata o
modificata. Un compito
non semplice, che occorre
svolgere con precisione per
la massima efficacia.
Quali altri profili medici
possono qualificarsi come
Bone Specialist?
Sicuramente il reumatologo,
che ha le competenze
per valutare la corretta
applicazione di terapie
innovative. Un po’ meno
adatti i chirurghi, e mi
riferisco agli ortopedici,
che sono impegnati su
un fronte differente e
con diverse tempistiche
d’intervento. Teniamo
presente che gli esperti nel
metabolismo dello scheletro
devono avere competenze
multidisciplinari per curare
una patologia trasversale.
Tuttavia se un medico – un
fisiatra, un internista, un
geriatra per esempio - si
appassiona alla materia e
vi dedica molto studio, può
certamente diventare una
figura a tutto tondo adatta a
seguire i pazienti con questi
problemi.
E se invece l’osteoporosi
viene rilevata?
E’ questa la seconda fase
d’intervento del medico di
medicina generale, che sarà
un eccellente counselor
nell’accompagnare il
paziente alla scelta del
medico o del centro
specializzato più indicato,
dove riceverà dal Bone
Specialist un piano di
trattamento personalizzato
basato sulle sue esigenze
specifiche. Il medico di
famiglia poi, che di norma
conosce il paziente e le
sue comorbidità, potrà
seguirne la storia clinica
con un’azione di rinforzo
alla compliance (molte volte
il paziente si scoraggia o
si demotiva), trovando le
parole giuste per rinforzarne
l’adesione alla terapia e
per ricordargli di seguire il
proprio programma di visite
con scrupolo.
E per quanto riguarda
la rimborsabilità delle
terapie?
La grande importanza dei
fattori di rischio clinici
indipendenti dalla BMD
ha determinato anche un
loro maggiore peso nella
definizione dei criteri
per la rimborsabilità dei
farmaci per l’osteoporosi
in Italia (nota 79, AIFA). La
revisione della Nota 79 ha
anche evidenziato come gli
“
Lo specialista
più indicato ad
approfondire le
tematiche del
metabolismo
dell'osso è
l'endocrinologo
“
strumenti per la definizione
del rischio di frattura
debbano continuamente
e frequentemente essere
aggiornati con i dati
derivanti dagli studi clinici
che nel tempo possono
identificare nuovi fattori di
rischio clinici, come nel caso
del diabete e degli inibitori
dell’aromatasi, o permettere
una migliore interpretazione
del rischio derivante da
fattori già noti. L’utilizzo
del DeFRA consente di
garantire un razionale
e omogeneo approccio
diagnostico e terapeutico
dell’osteoporosi, adattato
in particolare alla realtà
italiana e ai criteri definiti
dall’AIFA per giudicare
l’opportunità o meno di un
intervento farmacologico.
Consente inoltre una
stratificazione del rischio
di frattura che può essere
utilizzata nella scelta del
trattamento farmacologico
più opportuno, insieme ad
altri criteri quali la safety, il
rapporto costo/efficacia, le
prospettive di aderenza ed il
razionale fisiopatologico.
NEI CONGRESSI
ODONTOIATRICI
SI PARLA SPESSO
DI ONJ MA
NON SEMPRE
IN MANIERA
ADEGUATA
OSTEONESCROSI DEI MASCELLARI
UN PROBLEMA PER GLI ODONTOIATRI
La terapia con
bisfosfonati per malattie
maligne a dosi decine
di volte superiori a
quelle utilizzate per la
terapia dell’osteoporosi,
si associa a un
aumentato rischio (sino
al 10%) di sviluppo
dell'osteonecrosi delle
ossa del cavo orale
(osteonecrosis of the jaw:
ONJ).
Questo effetto collaterale
dei bisfosfonati si verifica
molto più raramente in
pazienti in trattamento
per l’osteoporosi con
un rischio aumentato
in concomitanza a
interventi sul cavo orale
con esposizione del
tessuto osseo.
Dott Guabello,
l’osteonecrosi dei
mascellari è un problema
per l’odontoiatra?
Il problema
indubbiamente c’è.
Tuttavia, in base ai
dati epidemiologici
non pare giustificato il
rifiuto dell’odontoiatra
di sottoporre il
paziente in terapia con
bisfosfonati a trattamenti
odontoiatrici anche
invasivi (estrazioni),
oppure di considerarlo
quale alternativa
all’assunzione dei
bisfosfonati, in assenza
di altre condizioni di
rischio documentate. In
qualche caso il mancato
trattamento potrebbe
essere esso stesso fattore
di rischio per ONJ. Per
soggetti che sono in
trattamento prolungato
con bisfosfonati da oltre
3 anni (con compliance
>80%) si suggerisce
di mantenere una
regolare igiene orale
professionale, con le
modalità consigliate per
la popolazione generale.
Se è necessario un
intervento chirurgico
a livello del cavo orale
(estrazione) molte linee
guida suggeriscono
Paolo Pegoraro
“
La migliore
misura per
gestire l'ONJ è
la prevenzione e
il controllo dei
fattori di rischio
“
la sospensione del
bisfosfonati per un
periodo di tre mesi e la
ripresa del farmaco alla
guarigione della ferita
chirurgica. Recentemente
alcuni autori propongono
la sospensione del
farmaco successivamente
all’estrazione fino alla
guarigione mucosa
del sito estrattivo.
Sospensioni prolungate
andrebbero concordate
tra odontoiatra e
prescrittore del
bisfosfonato. In caso di
intervento odontoiatrico
invasivo (estrazione),
soprattutto se sono
presenti fattori di
rischio (diabete,
immunosopressione,
steroidi, fumo, alcol) si
potrà eventualmente
procrastinare l’inizio
della terapia alla
risoluzione del problema
odontoiatrico o, in
alternativa, gli opportuni
interventi si potranno
eseguire entro i primi
sei mesi dall’inizio della
terapia.
In definitiva, che cosa
consiglia ai dentisti?
È diffusamente accettato
che la miglior misura
per gestire l’ONJ è la sua
prevenzione, che si basa
fondamentalmente sul
controllo dei fattori di
rischio.
Nei pazienti che iniziano
terapia con bisfosfonati
per l’osteoporosi non
è necessaria una visita
odontoiatrica con
eventuale bonifica prima
dell’inizio.
Si dovrà sollecitare a
mantenere la normale
routine di igiene orale,
comune alla popolazione
generale, soprattutto
se l’igiene orale non
è soddisfacente. In
caso di necessità di
interventi odontoiatrici
invasivi è consigliata
un’adeguata profilassi
antibiotica (amoxicillina
eventualmente
combinata a
metronidazolo) da
iniziarsi il giorno prima e
da protrarsi per 6 giorni
dopo l’intervento, fino
alla guarigione della
mucosa gengivale. La
profilassi antibiotica
andrebbe abbinata a
chirurgia estrattiva che
preveda la chiusura
primaria del sito dove
l’estrazione è avvenuta
con la mobilizzazione
di lembi mucoperiostei.
Va richiesta al paziente
un’indispensabile
adesione a uno stretto
programma di igiene.
pagina 6
GESTIONE DEL PAZIENTE
Osteoporosi ai tempi
della pandemia
La letteratura riporta che nel
caso di fratture dell’anca oggi
si assiste a dimissioni rapide,
spesso senza trattamento
antiosteoporotico, senza
riabilitazione postchirurgica
adeguata e senza
ulteriori raccomandazioni
per il follow-up. A causa
di ciò, il trattamento
farmacologico dei pazienti
che hanno subito una frattura
probabilmente è sceso a
livelli quasi impercettibili. Ce
lo spiega Sabrina Corbetta,
responsabile del servizio di
Endocrinologia e Diabetologia
e del laboratorio di
Endocrinologia sperimentale
presso l’IRCCS Istituto
Ortopedico Galeazzi di Milano
e professoressa associata di
Endocrinologia all’Università
degli Studi di Milano.
VALUTAZIONE DEL RISCHIO
OSTEOPOROTICO NEL RICOVERO
ACUTO
«Nella condizione di
emergenza e pandemia
tante Unità di ortopedia del
territorio sono state chiuse o
riconvertite e si è verificata
una concentrazione dei
pazienti nelle strutture che
sono state identificate come
Hub, tra cui il Galeazzi e il
Caterina Lucchini
Il Covid-19 ha messo alla prova la capacità di
sostenere la tempestiva cura delle fratture da fragilità
nell’acuzia e a lungo termine
Pini. Questo ha garantito la
cura chirurgica della frattura
da fragilità ma ha reso più
difficile la valutazione per il
trattamento medico – indica
Corbetta. Ciò significa non
poter neanche pianificare
una corretta gestione
dell’osteoporosi e questo,
si sa, predispone a una
seconda frattura». Come
spiega Fabrizio Pregliasco,
Direttore Sanitario dell’IRCCS
Istituto Ortopedico Galeazzi
di Milano, oltre che
ricercatore confermato in
Igiene Generale ed applicata
all’Università degli Studi di
Milano, «la nostra struttura
ha deciso di comprendere
nel momento del ricovero
acuto anche la valutazione
del rischio osteoporotico,
proprio per evitare di perdere
il paziente che con meno
probabilità attualmente
sarebbe poi tornato dopo le
dimissioni in ambulatorio
per una visita. Questo
percorso include quindi
la visita endocrinologica,
gli esami ematochimici
ed eventualmente la MOC
contestuali al ricovero. Si
tratta di un metodo virtuoso
che abbiamo messo in atto per
supplire alla carenza di visite
ambulatoriali post frattura,
ma che manterremo a
prescindere perché ottimizza
i tempi e migliora il servizio al
paziente».
LE FRATTURE SONO IN AUMENTO
Durante la pandemia le
fratture da fragilità non sono
affatto diminuite, anzi. «La
sedentarietà dei pazienti
anziani – spiega Corbetta -
ha sicuramente peggiorato
lo stato di salute generale,
e in particolare del sistema
muscolo-scheletrico». Si
osservano pazienti con minori
abilità motorie, ridotta massa
muscolare e aumentata massa
grassa. Tutto ciò predispone
il paziente anziano a un
aumento del rischio di
fratture.
IL FOLLOW-UP
Il problema del calo delle
visite in ambulatorio non
riguarda tuttavia solo le
acuzie, ma coinvolge anche
i pazienti in follow-up.
«La pandemia – sottolinea
Corbetta - ha fatto registrare
una riduzione delle visite
ambulatoriali dei pazienti
fragili: abbiamo degli assistiti
che non vediamo da ormai
anche 18 mesi e questo è
estremamente grave perché
sarebbero necessarie almeno
una o due visite nel corso
dell’anno. Nonostante i nostri
ambulatori siano aperti,
i pazienti hanno paura e
spesso saltano le visite di
controllo. Purtroppo si è
creduto che estendendo la
validità del piano terapeutico
per la rimborsabilità dei
farmaci antiosteoporotici di
seconda linea la situazione
potesse essere controllata
a distanza ma non è così. E
non è così in particolare in
questa popolazione fragile».
I pazienti dovrebbero
essere rassicurati secondo
Pregliasco a riprendere le
visite di controllo in Ospedale,
«perché ormai il personale
è vaccinato e la struttura
sanitaria non rappresenta un
luogo di pericolo».
In conclusione, per rispondere
alla minaccia posta ai sistemi
sanitari, agli individui e alle
loro famiglie dalla pandemia
di Covid-19, è importante
dare la priorità alla salute
generale degli anziani e
sostenere la tempestiva cura
delle fratture da fragilità
sia nella fase acuta che a
lungo termine per evitare la
significativa perdita di salute
e di autonomia.
L’emergenza sanitaria
legata al coronavirus
ha provocato grandi
cambiamenti nella gestione
del paziente con fragilità
ossea, dalla gestione
dell’acuzia, al follow-up, fino
all’aderenza ai trattamenti.
TELEMEDICINA SÌ
MA NON PER TUTTI
Gaia Leonardi
Fragilità ossea
Caterina Lucchini
I pazienti che maggiormente ricoverati per
Covid-19 hanno un’età media superiore a
60 anni, mostrano almeno una comorbidità
e presentano un aumento dei livelli di
citochine pro-infiammatorie. Tutti fattori
di rischio per frattura ossea, cui si aggiunge
anche l’immobilizzazione prolungata e il
trattamento con glucocorticoidi a lungo
termine. La fragilità ossea compromette
e Covid-19
ulteriormente lo stato di salute di questi
pazienti, rallentando il completo recupero
fisico e delle attività di vita quotidiane. Nelle
persone di età pari o superiore a 65 anni,
inoltre, l’immobilizzazione determina anche
una rapida perdita di massa muscolare e di
forza muscolare che, insieme alla coesistenza
di altre comorbidità correlate a Covid-19, come
l’infiammazione cronica e la fragilità ossea,
contribuisce ad aumentare la probabilità di
cadute.
Sabrina Corbetta si dice dubbiosa sul valore attuale dei teleconsulti:
«La popolazione a cui ci riferiamo è anziana e dobbiamo essere
realmente sicuri che possa svolgere correttamente le mansioni
di monitoraggio e di reportistica richieste coi teleconsulti». Serve
un’educazione dei pazienti, dei caregiver e del medico affinché
il progetto possa realmente funzionare, così come serve una
reale comunicazione e condivisione con il medico di medicina
generale e una piattaforma pubblica che supporti tutto ciò. «Il
rischio, altrimenti, è quello di procrastinare la visita in presenza
basandosi su delle valutazioni errate registrate a distanza. La
telemedicina può andare bene per il monitoraggio di un particolare
aspetto, ma almeno una volta all’anno la visita di persona resta
necessaria. Si rischia anche, altrimenti, di prolungare una terapia
senza sapere se effettivamente quel farmaco sta funzionando
con efficacia e l’efficacia del trattamento non può essere valutata
solo con gli esami di laboratorio». Anche per Fabrizio Pregliasco
la telemedicina non può sostituire le visite, tuttavia può avere
un valore «per rafforzare e pianificare al meglio i momenti in
presenza».
COVID-19
pagina 7
Ambulatori
Paola Arosio
Nel corso della pandemia si
è verificato un incremento
della telemedicina
nell’ambito delle patologie
ossee. Un sistema che
garantisce dei vantaggi,
a patto di essere erogato
tramite piattaforme idonee
A lungo termine la telemedicina
può essere vantaggiosa per quanto
riguarda sia i risparmi economici e
l’efficienza dei sistemi sanitari, sia la
maggiore soddisfazione dei pazienti.
Quest’ultima, in particolare, è stata
indagata da una ricerca pubblicata nel
2019 su Osteoporosis International e
2.0
svolta da ricercatori dell’Università
di Toronto, in Canada, che hanno
evidenziato rilevanti benefici
soprattutto per gli assistiti che
risiedono in aree remote.
PIÙ ADERENZA ALLA TERAPIA
Sull’importanza della medicina 2.0
concorda anche Marco Manzoni,
endocrinologo e co-fondatore
dell’azienda informatica WelMed, che
ribadisce: «La telemedicina, soprattutto
durante la pandemia, ha semplificato
il processo di gestione delle malattie
croniche, incluse le patologie ossee.
A patto, però, di non limitarsi a una
videocall, ma di disporre di tecnologie
idonee, in grado di consentire il
trasferimento di informazioni
mediche, indagini strumentali, referti
e prescrizioni firmati digitalmente,
rendendo così possibili diagnosi,
terapia, monitoraggio in remoto e,
in caso di necessità, prescrizioni».
Non soluzioni estemporanee, quindi,
ma piattaforme ideate ad hoc, dotate
dei tool necessari per offrire una
comunicazione tecnologicamente
adeguata e strutturalmente dedicata.
L’ambulatorio 2.0 favorisce anche
l’aderenza terapeutica. Alcune
malattie dell’osso, come per esempio
l’osteoporosi o l’osteopenia, in fase
precoce non presentano sintomi, il che
induce talvolta i pazienti a sottovalutare
l’importanza del trattamento, non
rispettando il piano terapeutico o
sospendendo autonomamente la
terapia prescritta. Ciò ha ripercussioni
negative sull’efficacia della terapia
stessa con conseguente progressione
dell’osteoporosi e peggioramento
del rischio fratturativo. Per ovviare
a ciò è fondamentale favorire un
percorso di continuità assistenziale,
garantendo una vera presa in carico
del paziente. Una rivoluzione,
quella della telemedicina, che porta
l’ospedale al domicilio dei cittadini,
facilitando l’accesso di questi ultimi e
concretizzando quello che oggi viene
definito «ospedale diffuso».
RISPETTO DELLA PRIVACY GARANTITO
Ma permangono barriere d’accesso
alla telemedicina? Secondo Manzoni,
«le difficoltà riguardano non
tanto i pazienti, ma soprattutto i
clinici, spesso ritrosi ad adeguarsi
al cambiamento e all’innovazione.
In proposito, serve un’apposita
formazione, alla quale molti ospedali
stanno già provvedendo». Per quanto
riguarda poi i dati sanitari, «solo le
piattaforme ideate nello specifico per
tale attività garantiscono la privacy.
Il sistema deve avere requisiti bydesign
per essere conforme alle
norme del General data protection
regulation (Gdpr), le televisite
devono essere criptate, così come i
dati, compresi quelli dei referti e delle
analisi».
Priorità sanitarie
secondo il CDC
Durante l'emergenza, i pazienti con osteoporosi
Con lo scoppio
dell’emergenza legata alla
pandemia di Covid-19, il
Centro statunitense per il
controllo e la prevenzione
delle malattie (CDC) ha
raccomandato di dare
priorità alle visite urgenti e
di evitare, ove possibile, di
recarsi presso le strutture
sanitarie. Cosa ha significato
questo per i pazienti affetti da
osteoporosi?
La pandemia ha avuto un
effetto considerevole su
diversi fronti:
Nella prima metà
dello scorso anno si è
verificato un afflusso
molto ridotto di pazienti
negli ambulatori e nelle
cliniche dedicate alla cura
dell’osteoporosi;
In molti ospedali i reparti
di ortopedia sono stati
ridotti per agevolare la
realizzazione di reparti
“Covid”.
non sono stati tutelati
Tuttavia, il ritardo delle
visite dei pazienti non Covid
ha provocato dei danni
importanti alla popolazione
e il CDC si è dunque nel
corso dell’anno nuovamente
espresso con delle linee guida
aggiuntive per “dare priorità
ai servizi che, se differiti,
con maggiore probabilità si
tradurrebbero in un danno
importante”. Anche in questo
caso, però, i pazienti con
problemi di osteoporosi
non sono stati tutelati: le
probabilità di danno per
problemi muscoloscheletrici
intercettati con ritardo,
infatti, secondo le
raccomandazioni del CDC,
sono state considerate “lievi”.
La raccomandazione del CDC
per la gestione di tutti questi
pazienti è quindi, secondo le
linee guida, di “organizzare
un percorso di assistenza non
appena possibile”.
Le raccomandazioni
delle società scientifiche
Gaia Leonardi
Considerando le attuali barriere
imposte dal momento storico nel
visitare i pazienti con osteoporosi,
l’importanza di garantire
l’aderenza al trattamento dovrebbe
essere enfatizzata
1
2
3
Durante la pandemia
sono state rilasciate delle
linee guida specifiche sul
trattamento dell’osteoporosi
e sull’assunzione di Vitamina
D dall’American Society for
Bone and Mineral Research
(ASBMR), dalla American
Association of Clinical
Endocrinologists, dalla
Endocrine Society, dalla
European Calcified Tissue
Society e dalla National
Osteoporosis Foundation
Society.
PER I PAZIENTI CHE SUBISCONO FRATTURE DA FRAGILITÀ, IL
TRATTAMENTO FARMACOLOGICO DOVREBBE ESSERE INIZIATO SUBITO DOPO
LA FRATTURA E L’ASSISTENZA MULTIDISCIPLINARE È FONDAMENTALE.
SONO URGENTEMENTE NECESSARI MODELLI DI ASSISTENZA ALTERNATIVI,
CON GRUPPI MULTIDISCIPLINARI DI SUPPORTO CHE POSSANO ARRIVARE
AL PAZIENTE E AL CAREGIVER ANCHE CON LA TELEMEDICINA.
ANCHE IL TRATTAMENTO CON LA VITAMINA D DOVREBBE ESSERE
RACCOMANDATO, ALLO SCOPO DI ESERCITARE BENEFICI NON SOLO
SULL’OSSO MA ANCHE SUL MUSCOLO E SUL SISTEMA IMMUNITARIO.
pagina 8
PROFESSIONE
L’impatto del Covid-19
sugli specialisti
Caterina Lucchini
Un recente sondaggio che ha incluso la voce di reumatologi, endocrinologi e ortopedici ha mostrato come la pandemia
ha cambiato il percorso terapeutico e le modalità di approccio ai pazienti affetti da osteoporosi
Il Covid-19 ha sconvolto il
sistema sanitario di molti
Paesi, andando a riscrivere
le regole di approccio alle
terapie (inclusa quelle
per l’osteoporosi) e le
modalità con cui i pazienti
interagiscono con i loro
medici curanti. Uno studio
ha provato a mettere in luce
questi cambiamenti.
UN SONDAGGIO
INTERNAZIONALE
Lo studio prevedeva
l’invio di un sondaggio ai
membri della International
Osteoporosis Foundation
(IOF) e della National
Osteoporosis Foundation
(NOF) il cui scopo era quello
di verificare le modalità
di trattamento e gestione
dei pazienti affetti da
osteoporosi. Sono stati
coinvolti 209 partecipanti,
per la maggior parte
specialisti provenienti
da 53 Paesi diversi, per il
40% reumatologi, mentre
il resto era composto da
endocrinologi, ortopedici e
in minor parte da altre figure
coinvolte nelle terapie dei
pazienti con osteoporosi.
UN IMPATTO CHE
HA CAMBIATO
PROFONDAMENTE LE
DINAMICHE DI APPROCCIO
AL PAZIENTE
In base ai risultati ottenuti
dal sondaggio, quasi 1/3
degli intervistati ha fatto
ricorso ad un consulto
tramite telefonata e circa
1/5 ha preferito utilizzare
una videochiamata per
portarlo a termine,
affermando di aver avuto
più di 20 appuntamenti di
telemedicina alla settimana.
Da notare come la maggior
parte degli intervistati
ha riportato un ritardo
nell’esecuzione della DXA
e di come circa l’11% sia
stato costretto ad utilizzare
strumenti di valutazione
del rischio di fratture
senza potersi avvalere di
tecniche di misurazione
della densità minerale ossea
(Bone Mineral Density,
BMD). Inoltre, si è visto
come in molti paesi c’è stato
un impatto considerevole
sulle dinamiche di rimborso
delle prestazioni mediche,
dovute principalmente al
cambiamento nel numero e
nella tipologia delle visite
ai pazienti. Tuttavia, non
è ancora chiaro se e come
questo potrà influenzare
l’offerta dei servizi
disposti per i pazienti
con osteoporosi e la loro
sostenibilità per i vari servizi
sanitari nazionali.
“
Un quinto circa
degli specialisti
è stato costretto
a ritardate la
somministrazione
delle cure
“
UN AIUTO DALLA TECNOLOGIA
CHE NON È SEMPRE EFFICACE
È sorprendente notare
come la maggior parte dei
partecipanti abbia affermato
come l’ausilio delle cartelle
cliniche elettroniche abbia
giovato poco alla capacità
di gestione del tempo degli
specialisti rispetto a quanto
visto nel periodo prepandemico.
Alcuni di loro
affermano che i tempi di
gestione si siano addirittura
allungati, indicando tra le
cause di questo cambiamento
alcuni problemi tecnici
legati alla rete internet, la
difficoltà nel compilare la
nuova documentazione e
l’aumentata complessità del
flusso di lavoro.
PROBLEMATICHE IMPORTANTI
NELLA SOMMINISTRAZIONE
DELLE TERAPIE
È emerso anche come, nel
corso della pandemia da
Covid-19, la disponibilità
delle scorte mediche
all’interno delle strutture
fosse compromessa a causa
dei ben noti problemi
logistici, inficiando la
capacità di garantire la
periodicità dei trattamenti
terapeutici per i pazienti
con osteoporosi. Circa un
quinto degli intervistati
dichiara infatti di essere
stato costretto a ritardare
la somministrazione delle
cure ai suoi pazienti,
mentre il 13% ha dovuto
indirizzare il proprio
paziente verso farmaci
orali (facili da assumere
in maniera autonoma)
pur di poter continuare il
trattamento della patologia.
Lo scenario mostrato dallo
studio suggerisce come la
pandemia da Covid-19 abbia
sconvolto le dinamiche
tradizionali non solo della
vita quotidiana di molte
persone ma anche di quella
degli specialisti, alle prese
con problematiche del tutto
nuove che coinvolgono
direttamente i loro pazienti
affetti da osteoporosi.
È probabile che, se la
situazione non verrà gestita
in maniera adeguata, si
assisterà ad un aumento del
tasso di fratture nei prossimi
anni, con un conseguente
aumento delle difficoltà nel
gestire questa tipologia di
pazienti.
Fonte: Fuggle NR, et al. Osteoporos
Int. 2021 Feb 8:1–7.
COME IL COVID-19 HA CAMBIATO
IL PERCORSO TERAPEUTICO
DELL’OSTEOPOROSI
Sondaggio che ha coinvolto 209 reumatologi e
ortopedici di 53 Paesi diversi appartenenti alla
International Osteoporosis Foundation (IOF) e alla
National Osteoporosis Foundation (NOF)
TELEMEDICINA
Il 33% dei partecipanti ha
dichiarato di aver fatto un
consulto telefonico e il 21%
lo ha effettuato mediante
videochiamata
RIMBORSI
Il rimborso della prestazione è
stato possibile nel 48% dei casi.
Il 14% dei gestori dei servizi
non era sicura dello stato del
rimborso o delle politiche a esso
connesse
ESAMI
Solo nel 29% dei casi la BDM è
stata verificata mediante DXA
quando richiesta
DIFFICOLTÀ NEL
PROSEGUIRE LA TERAPIA
• il 43% degli specialisti ha riportato un
ritardo nelle cure durante la pandemia,
per scorte, mancanti e ritardi nella
somministrazione dei farmaci per via
parenterale.
• In circa il 50% dei casi gli specialisti
hanno dovuto prescrivere farmaci
appartenenti alla classe dei bisfosfonati
orali per poter garantire una continuità
terapeutica ai loro pazienti
PROFESSIONE
pagina 9
In periodo di lockdown,
l’aderenza al
trattamento si è dovuta
scontrare con i limiti
di interazione medicopaziente.
Per alcuni
trattamenti di secondo
livello, l’eventuale
sospensione senza un
piano determinato dallo
specialista potrebbe non
solo portare a perdere
i vantaggi acquisiti in
Scelte
terapeutiche
nell’emergenza
Il punto di vista di Sabrina Corbetta e
Lorenzo Custode
Fabrizio Pregliasco
termini di massa ossea e
di riduzione del rischio
di rifrattura, ma espone
anche a un aumento del
rischio di frattura ossea.
In questo particolare
momento storico,
potrebbe avere un senso
optare per alcune terapie
piuttosto che altre? Per
i pazienti, poter contare
su un trattamento a loro
familiare di comprovata
efficacia e facile da
maneggiare potrebbe
essere importante per
limitare gli accessi
agli ambulatori
e massimizzare
l’aderenza? «Per
quanto riguarda la
maneggevolezza
certamente la categoria
migliore è quella dei
bisfosfonati, indica
Sabrina Corbetta,
responsabile del servizio
di Endocrinologia
e Diabetologia e
del laboratorio di
Endocrinologia
sperimentale
presso l’IRCCS
Istituto Ortopedico
Galeazzi di Milano e
professoressa associata
di Endocrinologia
all’Università degli
Studi di Milano. Nei casi
più severi si potrebbe
optare per la terapia
infusionale con acido
zoledronico che deve
essere effettuata ogni
12 mesi ma, se ritardata
fino a 18 mesi, non porta
alla perdita di quanto
acquisito». La terapia
infusionale, però, può
essere proposta solo dai
centri in cui è presente un
servizio ad hoc. «Ci tengo
a precisare, conclude
Corbetta, che dover
scegliere per una terapia
rispetto ad un’altra
“
Dover scegliere
per una terapia
rispetto ad
un’altra sulla
base di criteri
non puramente
medici è
comunque una
sconfitta per il
progresso della
scienza
“
sulla base di criteri non
puramente medici è
comunque una sconfitta
per il progresso della
scienza
perché il paziente non
ha potuto ottenere il
trattamento che sarebbe
più indicato per lui».
VITAMINA D E COVID-19
Recenti studi
epidemiologici
osservazionali
avrebbero ipotizzato
una associazione tra
basse concentrazioni
di vitamina D e tassi
più elevati di infezione
da Covid-19. Questa
associazione, tuttavia, è
probabilmente correlata
all’etnia, all’età e
alla salute generale
piuttosto che a una
relazione causale. «Le
prime indicazioni che
suggerivano l’elemento
di opportunità della
supplementazione di
vitamina D per migliorare
la risposta immunitaria
e prevenire il Covid-19
- aggiunge Fabrizio
Pregliasco, Direttore
Sanitario dell’IRCCS
Istituto Ortopedico
Galeazzi di Milano,
oltre che ricercatore
confermato in Igiene
Generale ed applicata
all’Università degli Studi
di Milano - ad oggi non
sono state confermate.
Molti la utilizzano ma il
messaggio da lanciare
è legato all’importanza
della supplementazione
per le forme specifiche
di fragilità ossea». La
vitamina D è molto
sicura se assunta a
dosaggi ragionevoli ed è
importante per la salute
muscolo-scheletrica.
È probabile che i livelli
diminuiscano man mano
che gli individui riducono
l’attività esterna (e
quindi l’esposizione
al sole) durante la
pandemia.
CURE DENTALI NELLA PANDEMIA
stati
Durante l’emergenza sanitaria gli studi odontoiatrici devono rispettare in modo
rigoroso i protocolli di sicurezza prima, durante e dopo l’accesso del paziente
Sull’agenda di Federica, 37 anni, si legge:
«Appuntamento dal dentista». Il luogo è il Centro
Civitali di Milano, la data mercoledì 10 febbraio
2021. In piena era Covid. Un’emergenza che ha
travolto anche l’odontoiatria, che si è dovuta
adeguare, modificare, attrezzare per fare fronte ai
contagi. Non a caso, il giorno precedente la visita,
la donna riceve dalla segreteria dello studio una
telefonata durante la quale viene effettuato il triage
in remoto, una procedura mirata ad accertare lo
stato di salute del paziente rispetto all’infezione
da Sars-Cov-2, in modo da evitare un eventuale
ingresso non appropriato nella struttura. Federica,
ritenuta idonea, può presentarsi all’appuntamento.
Per lei, come per qualsiasi altro utente, inizia
la procedura di sicurezza. «Innanzitutto viene
verificato che la mascherina indossata sia
priva di valvola, quindi idonea a proteggere il
paziente e gli altri, e sia in buone condizioni. Tale
dispositivo dovrà essere mantenuto per tutto il
tempo trascorso in studio, fatta eccezione per
il periodo riservato alla terapia», spiega Danilo
Di Stefano, odontoiatra e direttore sanitario del
Centro, oltre che docente a contratto di Chirurgia
orale all’Università Vita Salute San Raffaele di
Milano. «Poi si prosegue con il rilevamento della
temperatura attraverso un termoscanner, con
la disinfezione delle mani tramite lavaggio con
acqua e sapone o tramite soluzione idroalcolica,
con l’impiego di appositi copriscarpe». Si procede,
Paola Arosio
inoltre, a effettuare un’attenta anamnesi e a fare
firmare l’autocertificazione per il Covid, oltre a
valutare eventuali esami di cui il paziente deve
essere in possesso, ove ricorrano le esigenze di
legge, per accedere alle cure.
“
Una valida strategia per
contenere l'incremento dei costi
può essere quella di eseguire più
terapie in un’unica seduta
“
DISPOSITIVI MONOUSO E VENTILAZIONE
Un rigoroso protocollo che non riguarda solo i
pazienti, ma anche tutti gli operatori dello studio.
«Odontoiatri, igienisti, assistenti alla poltrona
utilizzano schermi facciali, mascherine, camici
idrorepellenti a manica lunga, guanti, copricapi»,
continua Di Stefano. «Grande attenzione viene
riservata all’impiego di dispositivi monouso;
alle modalità di vestizione e svestizione; alla
ventilazione degli ambienti, che vengono aerati
con frequenza per disperdere l’aerosol prodotto
dai vari strumenti». Norme fondamentali, tanto
più che, all’inizio della pandemia, i dentisti sono
considerati ad alto rischio di contrarre il
Covid in ambito occupazionale, a causa della
potenziale esposizione diretta e indiretta a
infettanti. Nonostante ciò, a oggi le più recenti
evidenze scientifiche confermano che lo studio
odontoiatrico costituisce un luogo sicuro e
protetto, sia per l’odontoiatra e il suo team, sia
per i pazienti.
LIEVITANO I COSTI
«Mantenere un elevato livello di sicurezza
comporta, tuttavia, un incremento delle
tempistiche e anche dei costi. Questi ultimi,
che si aggirano sui 10-15 euro in più a paziente,
impattano soprattutto sulle prestazioni con
prezzi limitati, come per esempio l’igiene
dentale, erodendone la marginalità», evidenzia
l’odontoiatra.
Una valida strategia per contenere l’esborso
aggiuntivo può essere quella di eseguire più
terapie in un’unica seduta.
Certo, in questo periodo di emergenza sanitaria
non tutti i pazienti sono diligenti nell’effettuare
con regolarità i controlli e i trattamenti
programmati. «Alcuni, soprattutto quelli in età più
avanzata, sono molto ansiosi e vengono in studio
solo in caso di estrema necessità», conferma
l’esperto. «Ciò comporta dei ritardi nelle attività
di prevenzione, di igiene e manutenzione degli
impianti, di diagnosi di patologie anche gravi della
bocca, come le lesioni precancerose e i tumori,
con particolare riferimento al carcinoma del cavo
orale, che interessa frequentemente la lingua,
il pavimento orale, le labbra e comunque tutti
gli epiteli di rivestimento». Un comportamento
stigmatizzato, già lo scorso ottobre, dall’European
Federation of Periodontology, che aveva lanciato
un monito: rinunciare alle cure dentali per
prevenire possibili infezioni da Covid può, in
realtà, esporre al grave rischio di sviluppare
malattie correlate a una scarsa salute del cavo
orale, come diabete, patologie cardiovascolari,
demenze.
pagina 10
Scenario della
patologia
osteometabolica
Gloria Visconti
Le malattie osteometaboliche sono oggetto
di intenso studio per le implicazioni
trasversali e la necessità di un approccio
multidisciplinare coordinato
COMORBIDITÀ
GESTIONE
DELL’OSTEOPOROSI
SECONDARIA A
COMORBIDITÀ
Monica Torriani
L’approccio integrato alla malattia è indispensabile per intercettare i
pazienti, arrivare a una diagnosi tempestiva, istituire precocemente la
terapia e migliorare l’aderenza al trattamento
La patologia più nota e diffusa nell’ambito delle malattie
osteometaboliche è l’osteoporosi, che interessa in Italia
una donna su tre oltre i 50 anni (il 75% delle quali in postmenopausa)
e un uomo su otto oltre i 60 anni. Si tratta di
un disordine scheletrico causato da uno squilibrio fra il
riassorbimento e la deposizione di osso, a favore del primo,
che ne compromette la resistenza: si stima che i casi di
fratture da fragilità siano poco meno di nove milioni l’anno
nel mondo, un terzo dei quali si verifica in Europa (465.000 in
Italia).
La rilevanza sociale della malattia è legata anche alla spesa
ospedaliera associata, pari a circa quattro milioni di euro
l’anno, con proiezioni in aumento a causa dell’invecchiamento
della popolazione.
PATOLOGIE POTENZIALMENTE OSTEOPENIZZANTI
Le patologie e condizioni potenzialmente osteopenizzanti
sono numerose e spaziano dalle mutazioni genetiche
(come nel caso dell’osteogenesi imperfetta), ai disturbi
proliferativi delle cellule del sangue (per esempio il mieloma),
alle alterazioni ormonali (malattie della tiroide o delle
paratiroidi). Nella sua forma iatrogena, l’osteoporosi è
correlata all’assunzione di farmaci quali corticosteroidi,
immunosoppressori (ciclosporina), diuretici, anticoagulanti e
anticonvulsivanti.
Anche condizioni di inattività fisica prolungata, ipovitaminosi
D, disturbi da malassorbimento intestinale (per esempio
provocati da malattie infiammatorie croniche) e abitudini
quali il fumo e l’abuso di alcol possono determinare un
impoverimento della densità ossea.
Una percentuale significativa
di casi di patologia
fragilizzante dell’osso è
secondaria a comorbidità.
Questo aspetto legittima la
necessità di un approccio
integrato nella gestione della
patologia osteometabolica.
Ne parliamo con Gherardo
Mazziotti, professore
associato di Endocrinologia
Humanitas University e capo
sezione del Centro di ricerca,
diagnosi e cura delle malattie
osteo-metaboliche dell’IRCCS
Humanitas.
Professor Mazziotti, qual è
lo scenario epidemiologico
dell’osteoporosi?
Per quanto riguarda
l’osteoporosi, possiamo
evidenziare due fattori
principali. Il primo è che
colpisce, almeno nel nostro
Paese, il 23% delle donne
oltre i 40 anni e il 14%
degli uomini con più di
60 anni; il secondo è che
circa la metà dei soggetti
ad alto rischio accede alle
cure. Si tratta quindi di una
malattia a elevato impatto
socio-epidemiologico
non accompagnata da
un’adeguata attenzione e
consapevolezza. Si tratta di un
problema culturale oltre che
di opportunità o di accesso
alla diagnostica e alle cure.
Qual è mediamente
l’aderenza al trattamento per
questa patologia?
Uno dei talloni d’Achille della
terapia anti-osteoporotica è
che non esistono parametri
immediati di efficacia che
consentano un monitoraggio
real time dell’andamento
della malattia.
Gli effetti dei farmaci sono
visibili solo a distanza di
un anno/un anno e mezzo,
quando il paziente viene
sottoposto a un esame
Moc-Dexa di controllo
per la valutazione del
miglioramento oggettivo dei
valori densitometrici. Questo
penalizza la motivazione
psicologica del paziente a
seguire correttamente la
terapia.
Pur essendo l’osteoporosi
una malattia silente, spesso
il dolore è presente per altre
ragioni: il paziente, che lo
vede correlato alla malattia,
si aspetta che migliori con i
farmaci e tende a trascurare la
terapia quando questo non si
“
Uno dei talloni
d’Achille della
terapia antiosteoporotica
è
che non esistono
parametri
immediati di
efficacia che
consentano un
monitoraggio
real time
dell’andamento
della malattia
“
STIMA DELLE FRATTURE DA FRAGILITÀ NEL 2030 IN EUROPA (fonte Archives of Asteoporosis 2020;15: 59)
NUMERO (000) 2017 2030
700
600
500
∆ 19%
∆ 22%
∆ 26%
400
300
∆ 24%
∆ 29%
200
100
∆ 23%
0
FRANCIA
GERMANIA ITALIA SPAGNA UK SVEZIA
pagina 11
COMORBIDITÀ
verifica.
Possiamo dire che il 40% dei
pazienti (che in certi casi può
raggiungere il 50-60%) non è
aderente al trattamento.
Quali sono i principali fattori
di rischio?
L’osteoporosi ha
un’incidenza maggiore dopo i
50 anni, ma parte da lontano.
Il patrimonio scheletrico
che abbiamo a 50-60 anni è
frutto di eventi che occorrono
nelle prime decadi di vita.
L’osso subisce fisiologici
processi di rimodellamento e
acquisizione di massa durante
le prime due-tre decadi:
se in questa epoca c’è una
predisposizione genetica alla
fragilità o intercorrono fattori
secondari specifici, gli effetti
diventano visibili a distanza
di anni.
In generale, il 50% dei casi
dipende da cause genetiche.
L’altro 50% è correlato allo
stile di vita (sedentarietà,
abuso di alcol, fumo di
sigaretta, diete ricche in sale
e povere di calcio, scarsa
esposizione alla radiazione
solare), ad alterazioni della
composizione corporea (sia
la magrezza che l’obesità
predispongono a una fragilità
scheletrica) o alla presenza di
comorbidità. L’osteoporosi
può anche essere causata
dall’assunzione di
farmaci potenzialmente
osteopenizzanti, come i
corticosteroidi, gli inibitori
di pompa protonica,
gli antidepressivi, gli
immunosoppressori e le
terapie di deprivazione
ormonale.
Quali sono le caratteristiche
dell’osteoporosi secondaria?
In primo luogo, mentre per
l’osteoporosi primitiva la
fragilità scheletrica è un
evento tardivo nella storia
naturale della malattia,
in quella secondaria a
trattamenti farmacologici
le fratture possono
verificarsi anche in soggetti
giovani. Inoltre, mentre
nell’osteoporosi postmenopausale
l’evento giunge
dopo una lunga storia di
riscontri di bassi valori di
massa ossea e di fragilità
scheletrica, nella malattia
secondaria a utilizzo di
farmaci le fratture possono
avvenire anche nelle prime
fasi della terapia. Infine,
mentre nell’osteoporosi
post-menopausale la Moc-
Dexa consente di identificare i
soggetti a rischio fratturativo,
nelle forme secondarie l’osso
diventa fragile ancora prima
di perdere massa: predomina
la compromissione della
“qualità dell’osso”. Il danno
scheletrico, in questi casi, è
rapido e la Dexa non lo rileva:
nelle osteoporosi secondarie
esiste un’oggettiva difficoltà
del clinico a identificare i
soggetti a maggior rischio
e pertanto può diventare
importante il più delle volte
intercettare i pazienti e
istituire precocemente un
trattamento.
Ha un senso pensare a uno
screening nella popolazione,
potrebbe essere cost
effective?
Sicuramente sarebbe cost
effective nella donna in postmenopausa
con associati
fattori di rischio, come la
familiarità o pregressi eventi
fratturativi, che assume
farmaci potenzialmente
osteopenizzanti, fuma o fa
abuso di alcol. Non sarebbe
così nella popolazione
generale e neppure in tutte le
donne in post-menopausa.
Per quanto riguarda il
maschio, potremmo ritenere
a rischio maggiore i soggetti
che presentano due o più
fattori di rischio. Sarebbe
importante almeno sottoporli
a esame densitometrico e a
una valutazione specialistica
per inquadrare l’eventuale
rischio fratturativo.
Le molecole oggi disponibili
per il trattamento
farmacologico della
patologia osteometabolica
soddisfano il bisogno
terapeutico dei pazienti?
I farmaci disponibili sono
numerosi ed efficaci in
termini di riduzione del
rischio fratturativo. La
maggior parte di essi agisce
con un meccanismo antiriassorbitivo
di inibizione
dell’attività osteoclastica,
mentre ad oggi abbiamo
un solo attivatore degli
osteoblasti (teriparatide),
per il quale peraltro sono
disponibili anche due
bioequivalenti a ridotto
costo per il sistema
sanitario. Inoltre, la ricerca
farmacologica in ambito
osteometabolico fa passi da
gigante e a breve avremo a
disposizione anche in Italia
un nuovo farmaco ad azione
cosiddetta “anabolica”, il
romosozumab, già approvato
dall’Ema.
A non essere soddisfacente è,
piuttosto, l’accesso alle cure:
il 50% dei soggetti a rischio,
che rientrerebbe nei criteri
di rimborsabilità previsti
dalla nota Aifa 79, non accede
alla terapia. La nostra sfida
è quella di ridurre il gap
terapeutico attraverso una
maggiore sensibilizzazione a
vari livelli della popolazione
generale e delle istituzioni.
ENDOCRINOLOGICHE
Acromegalia, deficit GH, iperprolattinemia,
ipercortisolismo, ipo/ipertiroidismo,
iperparatiroidismo, diabete, ipogonadismo,
iperaldosteronismo, osteoporosi gravidica
NUTRIZIONALI
Anoressia, bulimia, obesità, eccesso vitamina A,
chirurgia bariatrica, inadeguato apporto calcio,
inadeguato apporto vit D, malassorbimento,
malnutrizione, nutrizione parenterale prolungata
CONNETTIVOPATIE
Sindrome di marfan, sindrome di ehlers danlos
AUTOIMMUNI
Artrite reumatoide, spondilite anchilosante, lupus
eritematoso sistemico, colangite biliare primitiva
RENALI
Ipercalciuria, insufficienza renale cronica
EMATOLOGICHE
Discrasie plasmacellulari, mastocitosi,
beta-talassemie, emocromatosi
GASTROENTEROLOGICHE
Malattia celiaca, malattie infettive, croniche
intestinali, epatopatie croniche
FARMACI
OSTEOPOROSI
SECONDARIA
LE CAUSE
Glucocorticoidi, ormoni tiroidei, induttori di
ipogonadismo, diuretici, anticonvulsivanti,
antiretrovirali, eparina,
inibitori di pompa protonica
Ipertensione
e metabolismo osseo
Caterina Lucchini
Nei pazienti con osteoporosi,
l’ipertensione potrebbe giocare un
ruolo importante nell’alterazione del
metabolismo osseo nel suo complesso
In un recente studio sono stati arruolati 518 pazienti
con età media pari a 75 anni, affetti o esclusivamente
da osteoporosi primaria, o con osteoporosi e
ipertensione.
I livelli di 25-idrossi-vitamina D (25-OHD) sono
risultati più bassi nei maschi con ipertensione
rispetto a quelli che presentavano solo osteoporosi.
Da notare che, sebbene sia stata ipotizzata
un’alterazione della sintesi e della secrezione del
PTH a causa di questa condizione, non è stato
possibile verificare i livelli di PTH durante lo
svolgimento dello studio. Inoltre, nonostante non
siano state riscontrate anomalie significative nelle
correlazioni tra B-ALP e ipertensione nei due gruppi,
c’è da dire che i livelli di osteocalcina (OC) nelle
donne in post-menopausa affette sia da osteoporosi
che da ipertensione erano considerevolmente
più bassi se rapportati a quelli delle donne con
osteoporosi.
IL RAPPORTO TRA IPERTENSIONE E METABOLISMO OSSEO
Sebbene la relazione tra i livelli ematici di OC e
ipertensione sia ancora oggetto di diversi studi e
dibattiti, nello studio di Hu et al. appare chiaro
che l’ipertensione sia strettamente correlata
“
Appare chiaro che l’ipertensione
sia strettamente correlata
all’alterazione dei livelli dei
marcatori del metabolismo osseo
“
all’alterazione dei livelli dei marcatori del
metabolismo osseo.
Nonostante sia stato quindi constatato un ruolo
dell’ipertensione nella perdita di tessuto osseo, non
è altrettanto chiaro invece come essa influisca sul
riassorbimento osseo.
Fonte: Hu Z et al. Research Square; 2020.
pagina 12
COMORBIDITÀ
PATOLOGIE DELLA TIROIDE
E RISCHIO DI FRATTURE
DA OSTEOPOROSI
I disturbi della
tiroide hanno
un impatto
importante sul
metabolismo osseo
e sul rischio di
fratture
di Lorenzo Giusti
Influenza delle patologie
della tiroide sul
rischio di fratture da
osteoporosi
I disturbi della tiroide
hanno un impatto
importante sul
metabolismo osseo e sul
rischio di fratture
Gli ormoni tiroidei sono
fattori importanti che
regolano il metabolismo
e la differenziazione
cellulare in tutto il
corpo umano. Sebbene
vi sia un consenso
sull’impatto negativo
dell’ipertiroidismo sul
metabolismo osseo,
quando ci si riferisce
a ipotiroidismo,
ipotiroidismo subclinico
o ipertiroidismo
subclinico, non c’è
accordo generale.
IPOTIROIDISMO
L’ipotiroidismo è
rappresentato dal deficit
di ormone tiroideo ed
è una patologia diffusa
in tutto il mondo, con
una prevalenza fino al
7% nella popolazione
generale. Le cause
dell’ipotiroidismo
possono essere
suddivise in primarie,
centrali e periferiche.
L’ipotiroidismo
primario è rappresentato
dalla carenza di ormone
tiroideo e comprende
tiroidite autoimmune
cronica, carenza di
iodio o trattamento
con radioiodio.
L’ipotiroidismo centrale
è rappresentato da
deficit di ormone
tireostimolante
(TSH) o da deficit di
ormone di rilascio della
tireotropina (TRH) e
include tumori ipofisari,
disfunzione ipofisaria o
disfunzione ipotalamica.
L’ipotiroidismo
periferico è
rappresentato dalla
resistenza periferica
agli ormoni tiroidei
e comprende una
ridotta sensibilità agli
ormoni tiroidei e la
sindrome da consumo.
La maggior parte degli
studi dimostra che
l’ipotiroidismo riduce
la BMD e che valori di
TSH sia al di sopra che
al di sotto dei valori di
riferimento riducono
la BMD. Per quanto
riguarda l’incidenza
del rischio di frattura
nei pazienti con
ipotiroidismo, due studi
condotti su 92.341 e
16.249 pazienti hanno
mostrato una maggiore
incidenza di fratture
in questi pazienti. Di
conseguenza, secondo
quanto riportato in
una revisione sul
tema, sembra che
l’ipotiroidismo debba
essere considerato un
fattore di rischio per le
fratture osteoporotiche.
Gli studi hanno
dimostrato che il
trattamento eccessivo
dell’ipotiroidismo
con levotiroxina
è il principale
fattore negativo sul
metabolismo osseo e
sul rischio di frattura.
I ricercatori non
hanno trovato dati
relativi alla possibilità
che un trattamento
dell’ipotiroidismo
correttamente bilanciato
possa invertire gli effetti
negativi sull’osso.
MALATTIA AUTOIMMUNE
DELLA TIROIDE
La malattia di
Hashimoto può
influenzare
l’osteoprotegerina/
attivatore del recettore
del sistema ligando
del fattore nucleare
kappa-B (OPG/
RANKL) e, a parte
l’ipotiroidismo, portare
potenzialmente a
ulteriore perdita
ossea. La presenza di
anticorpi contro la
perossidasi tiroidea
(TPOAb) può essere un
marker di aumento del
rischio di fratture nelle
donne eutiroidee in
postmenopausa.
IPOTIROIDISMO
SUBCLINICO
Sebbene studi
precedenti abbiano
dimostrato che
l’ipotiroidismo
subclinico abbia una
ridotta influenza
sulla perdita BMD e
sull’aumento del rischio
di frattura, i dati più
recenti contraddicono
questi risultati: dal
2014, tutti gli studi,
sia prospettici che
retrospettivi, non
hanno mostrato
alcuna influenza
dell’ipotiroidismo
subclinico né sulla BMD
né sul rischio di frattura.
I dati recenti non
indicano alcun impatto
dell’ipotiroidismo
subclinico
sull’osteoporosi o sulle
fratture da fragilità.
Gli stessi risultati
sono stati ottenuti nel
caso di trattamento di
ipotiroidismo subclinico
con levotiroxina. I dati
prospettici più recenti
contraddicono studi
precedenti e concludono
che il trattamento
dell’ipotiroidismo
subclinico con
levotiroxina non
influisce sulla salute
delle ossa.
IPERTIROIDISMO
SUBCLINICO
È considerato dalla
maggior parte degli
studi associato a una
BMD inferiore e a un
aumentato rischio di
frattura. Solo pochi
studi hanno dimostrato
che l’ipertiroidismo
subclinico non è
predittivo di fratture
accidentali dell’anca.
Pazienti affetti
da ipertiroidismo
subclinico possono
presentare rischio
più elevato di fratture
rispetto ai pazienti
eutiroidei. Nel caso di
terapia con radioionio
un solo studio riporta
effetti benefici sulla
QUALITÀ
DELL’OSSO
E CHIRURGIA
ORTOPEDICA
Una corretta
valutazione
osteometabolica
del paziente
candidato a
chirurgia protesica
passa per diversi
fattori, tra cui la
valutazione delle
comorbidità
BMD, ma sono necessari
ulteriori indagini in tal
senso.
Fonte:
Apostu D et al, Diagnostics
2020, 10(3), 149.
DISTURBI DELLA TIROIDE,
OSTEOPOROSI E RISCHIO DI FRATTURE
L’osteoporosi e le fratture da fragilità sono
complicanze importanti dei disturbi della
tiroide, associate a un aumento della
mortalità. I disturbi della tiroide hanno
un impatto importante sul metabolismo
osseo: ipertiroidismo e ipertiroidismo
subclinico sono associati a una
diminuzione della BMD e a un aumento
del rischio di fratture. Il trattamento
dell’ipotiroidismo con levotiroxina ha
un’influenza sulla salute delle ossa
simile all’ipertiroidismo. L’ipotiroidismo
subclinico, d’altra parte, non è associato
a osteoporosi o fratture da fragilità e il
trattamento dell’ipertiroidismo subclinico
con iodio radioattivo potrebbe migliorare
la salute delle ossa.
Monica Torriani
L’osteoporosi è correlata a un aumento del rischio
di eventi avversi associati alla chirurgia ortopedica.
Ne consegue che la valutazione osteometabolica
dei pazienti candidati all’impianto di protesi
acquisisca una certa importanza. Ne parliamo con
Federico Valli, chirurgo ortopedico responsabile
della Medicina rigenerativa dell’Unità Casco all’Irccs
Galeazzi di Milano.
Dottor Valli, la qualità dell’osso dovrebbe essere
uno dei parametri decisionali in preparazione a un
intervento per l’impianto di protesi ortopedica:
perché solo una percentuale limitata di chirurghi ne
COMORBIDITÀ
pagina 13
tiene effettivamente conto?
La ricerca scientifica ci dice che questo è un
parametro importante ai fini del decision making
per il chirurgo. Viene considerato meno di quanto
dovrebbe a causa di retaggi culturali, abitudini
scorrette. Difficilmente un paziente, prima di un
intervento di impianto di protesi, si sottopone a un
controllo specialistico o a una Moc. Allo stesso modo
è raro che, se non è già in cura per l’osteoporosi,
venga sottoposto a una cura anti-osteoporotica. Si
tende piuttosto a concentrarsi sul gesto chirurgico e
sulla componente riabilitativa.
Quali sono i rischi a cui è esposto il paziente con
osteoporosi?
I rischi sono fondamentalmente due. Il primo è
intra-operatorio e legato al gesto chirurgico: è
il rischio di frattura in fase di posizionamento
della protesi. Se l’osso è fragile questo rischio è
aumentato. Il secondo è associato al decorso postoperatorio
ed è rappresentato dalla minor tenuta
della protesi all’osso. Se l’osso del ricevente ha
una qualità bassa, la mobilizzazione dell’impianto,
dovuta alla scarsa tenuta della protesi, è più
probabile.
Quotidianamente si eseguono migliaia di interventi
per impianto di protesi in tutta Italia e l’incidenza
di fratture intra-operatorie o mobilizzazioni dovute
a osteoporosi è relativamente bassa. Ma è chiaro
che, per la loro valenza, anche numeri limitati
devono essere considerati.
Pensiamo all’astronauta che, tornato sulla Terra
dopo un lungo periodo trascorso in assenza di
gravità, sviluppa un processo di sofferenza ossea
importante. O ai soggetti nei quali l’immobilità
prolungata dovuta a una frattura o al dolore
artrosico determina un’osteoporosi secondaria.
L’appoggio, il carico rappresentano stimoli al
nutrimento dell’osso. Al movimento si aggiungono
le terapie farmacologiche, anche di prevenzione,
che hanno un ruolo principe. Il terzo elemento è
rappresentato dalle terapie strumentali, come la
magnetoterapia, che possono, coordinate con il
movimento e la profilassi farmacologica, stimolare
l’osso.
Quali farmaci vengono usati?
Si impiegano la vitamina D e il calcio per la terapia
supplementativa. L’approccio farmacologico vero
e proprio, invece, si basa sull’utilizzo di composti
che riducono la perdita di osso e ne stimolano la
deposizione.
Nella valutazione del rischio fratturativo entrano
in gioco anche altri fattori?
Sì, dobbiamo considerare anche altri tipi di
dismetabolismo, come le osteoporosi secondarie
a comorbidità, assunzione di farmaci o ad altre
condizioni. Un’ulteriore patologia di cui tenere
conto è l’osteonecrosi, causata da una carenza
di vascolarizzazione dell’osso che si verifica
prevalentemente a livello del femore e del
ginocchio, due siti comuni per impianti di protesi,
e che deve essere gestita molto scrupolosamente.
La prevenzione del rischio fratturativo e di
mobilizzazione dell’impianto è, in questo caso,
analoga a quella dell’osteoporosi.
Quali sono i trattamenti peri operatori che
possono ottimizzare la salute dell’osso?
Il primo è quello, che definirei universale, della
mobilità. Il tono muscolare è fondamentale,
nella tenuta sia articolare che dell’osso stesso.
Osteoporosi
e psoriasi
La psoriasi è una malattia
infiammatoria cutanea caratterizzata
da placche squamose eritematose
croniche e ricorrenti.
Tra i fattori di rischio per fragilità
ossea identificati nella psoriasi
La psoriasi colpisce
dallo 0,1 al 2,9%
della popolazione
mondiale.
si sottolinea la correlazione con
durata, attività ed estensione
della malattia cutanea e inoltre la
presenza di artrite psoriasica e/o di
spondilite anchilosante, in cui oltre
al ruolo succitato delle citochine
proinfiammatorie si può associare
la ridotta mobilità articolare con
conseguente ridotta attività fisica e
perdita di contenuto minerale osseo.
Nella psoriasi entrambi i sessi hanno
Letizia Leali
In pazienti affetti
da psoriasi,
è indicata una
valutazione della
densità ossea
una più alta prevalenza di osteoporosi
e fratture rispetto alla popolazione di
riferimento per età e sesso, e in alcuni
report in particolare l’osteoporosi è
risultata più frequente negli uomini.
FARMACI PER PSORIASI E METABOLISMO
OSSEO
Il meccanismo di azione di alcuni
farmaci utilizzati per la psoriasi può
significativamente modificare il
metabolismo osseo. Noto è il ruolo dei
corticosteroidi che per via sistemica
sono sempre meno utilizzati se non in
forme particolari di psoriasi. I rapporti
tra OP, fratture e prodotti steroidei
topici è oggetto tuttora di dibattito e
non esiste una posizione conclusiva.
Gli inibitori della calcineurina
(ciclosporina, tacrolimus) esplicano
una interferenza sul metabolismo
osseo come documentato da studi
in vitro e sull’animale, aumentando
osteoformazione e riassorbimento
(ciclosporina) e riassorbimento
in particolare (tacrolimus). Esiste
un’ampia letteratura sulla osteoporosi
e sulle fratture nei pazienti sottoposti
a trapianti in trattamento con inibitori
della calcineurina, ma ovviamente tali
risultati non sono automaticamente
trasferibili ai pazienti psoriasici.
Con il trattamento della psoriasi con
derivati dell’acido fumarico sono stati
descritti alcuni casi di osteomalacia
con iperfosfaturia dovuta a
disfunzione del tubulo prossimale
renale (s. di Fanconi), soprattutto in
donne lungamente trattate, con OP
densitometrica e fratture patologiche
per lo più atipiche. L’ipovitaminosi
D è un altro fattore di rischio per
osteoporosi e nei pazienti psoriasici
ed è un dato consolidato, come
documentato anche da una recente
Le citochine
maggiormente
interessate nella
psoriasi e bersaglio
anche di specifici
farmaci biotecnologici
sono TNF-α ed IL-
17; il trattamento
con questi farmaci
potrebbe avere effetti
positivi anche sul
rimodellamento osseo
nei pazienti psoriasici.
metanalisi. I livelli di vitamina D
correlano inversamente con la gravità
della malattia cutanea.
La letteratura, dunque, valuta
in maniera più che indicata la
misurazione della massa ossea e del
rischio di frattura nei pazienti affetti
da psoriasi, sebbene manchino ancora
in tal senso linee guida condivise.
PRINCIPALI COMORBIDITÀ DELLA PSORIASI
L’artrite psoriasica si manifesta dal 7
al 42% della popolazione psoriasica
nelle differenti casistiche, potendosi
presentare anche in pazienti in
cui la psoriasi non sia evidente ma
presente in un parente di primo
grado. La psoriasi è frequentemente
associata a comorbidità quali malattie
cardiovascolari, ipertensione arteriosa,
obesità, diabete mellito e quindi da un
aumento della mortalità.
Più recentemente sono state
considerate tra le possibili comorbidità
anche l’osteoporosi e le fratture da
fragilità che possono essere riferite:
1. A un effetto diretto di alcune
citochine proinfiammatorie nella
induzione di un riassorbimento
osseo accelerato.
2. All’effetto di farmaci utilizzati
nel trattamento della patologia di
base.
3. Alla scarsa mobilità.
Muñoz-Torres M. et al. Osteoporosis and
Psoriasis. Actas Dermosifiliogr. 2019 Oct
pagina 14
MALATTIE RARE
GESTIONE DIAGNOSTICA
E TERAPEUTICA
DELL'ALGODISTROFIA
La rapidità e la
correttezza della
diagnosi per i pazienti
con algodistrofia
potrebbero
determinare il successo
o l’insuccesso del
percorso terapeutico
intrapreso
Nella pratica clinica attuale,
la Sindrome Algodistrofica
(SA), identificata a livello
internazionale come Complex
Regional Pain Syndrome type
1 (CRPS-1) è definita come
un disturbo caratterizzato
da una sintomatologia
dolorosa, da alterazioni
sensitive e vasomotorie,
edema e deficit funzionale.
La sindrome ha un esordio
con manifestazioni acute
in cui un ruolo importante
sembra essere rappresentato
dal danno al tessuto osseo.
Questi eventi diventano
sempre più frequenti, fino a
cronicizzarsi e rendere spesso
questa sindrome una malattia
invalidante a causa di disturbi
del microcircolo e di flogosi.
VARIABILI ASSOCIATE A UN
RITARDO DIAGNOSTICO
I risultati pubblicati da uno studio di
Varenna e colleghi su 180 pazienti con SA
hanno messo in luce i fattori associati a un
ritardo diagnostico.
Localizzazione del dolore nel piede
piuttosto che nella mano
Referti medici generici
Precedenti trattamenti di fisioterapia
non legati alla diagnosi di SA
Fonte: Varenna M. JCR 2020.
Caterina Lucchini
FATTORI SCATENANTI
Recentemente è
divenuto chiaro come
la predisposizione alla
manifestazione della
sindrome sia collegata ad
un evento traumatico che
sembra essere indipendente
dalla gravità. Esso, infatti,
può essere rappresentato
da una dislocazione, una
frattura, o addirittura da
un intervento chirurgico. È
inoltre importante far notare
come la sindrome possa
avere sia delle manifestazioni
"calde" (fase iniziale), in
cui è presente flogosi, e
"fredde" (fase tardiva),
nelle quali si assiste prima
all’insorgenza di distrofia e
successivamente ad atrofia
e danno sia anatomico che
funzionale.
L’anamnesi risulta essere
quindi fondamentale per
comprendere la causa
scatenante e portare ad
una diagnosi corretta. Ad
oggi, i criteri IASP sono
i più affidabili ed efficaci
nella pratica clinica,
nonché i più utilizzati.
Sebbene questi criteri
permettano di effettuare
un’attenta anamnesi
ed evitino al paziente di
sottoporsi a un’indagine
mediante Risonanza
Magnetica Nucleare (RMN),
è sempre più evidente
come la tempistica della
diagnosi della patologia sia
“
fondamentale per il successo
della terapia scelta.
È sempre più
evidente come la
tempistica della
diagnosi della
patologia sia
fondamentale per
il successo della
terapia scelta
“
L'IMPORTANZA DI UNA
DIAGNOSI PRECOCE
La diagnosi precoce della SA
è essenziale per indirizzare
correttamente il percorso
terapeutico del paziente.
Esiste infatti una finestra
diagnostica, corrispondente
al tempo che intercorre
tra l’evento traumatico
e il presentarsi della SA,
durante la quale un giusto
approccio alla sindrome
permette di prevenire il suo
cronicizzarsi, migliorando
così la qualità della vita del
paziente.
NERIDRONATO, UNICA TERAPIA
APPROVATA
La scelta della giusta terapia
da far intraprendere ai
pazienti affetti da SA è da
sempre un tema piuttosto
problematico. Diverse sono
le ragioni alla base di queste
difficoltà, tra cui la non
completa conoscenza delle
dinamiche patogenetiche
della sindrome o la variegata
estrazione specialistica del
personale medico. Anche
le manifestazioni cliniche,
altamente variabili durante
il decorso della sindrome,
insieme alla presenza di
studi molto eterogenei
tra loro, contribuiscono a
creare confusione e non
permettono di avere un
protocollo univoco.
Ad oggi, la classe di farmaci
con una maggiore efficacia
nel trattamento della SA
è quella dei bisfosfonati.
bisfosfonati, la cui azione
in questo contesto è
indipendente dalla loro
nota attività di inibitori del
riassorbimento osseo.
Si ipotizza che il reale
beneficio da parte di queste
molecole derivi dalla
loro capacità di inibire le
citochine proflogistiche,
interrompendo così il
processo infiammatorio.
Tra le varie molecole che
costituiscono la classe dei
bisfosfonati, il neridronato,
somministrato ad alte dosi
e in tempi brevi, sembra
essere un candidato ideale al
trattamento della SA.
La SA è dunque una
patologia invalidante che va
diagnosticata nelle sue fasi
precoci con un’anamnesi
completa e precisa.
Fonte: Varenna M, Randelli P.
GIOT 2020;46:299-306.
POSOLOGIA DEL
NERIDRONATO
100 mg/die
per via
endovenosa per
4 volte
nell’arco di
10 giorni
Criteri diagnostici
IASP
I criteri IASP del 2012, un
aggiornamento dei “criteri di
Budapest”, raccolgono i parametri più
utili per diagnosticare la Sindrome
Algodistrofica. Essi permettono di
effettuare un’indagine efficace della
patologia considerando sia il dolore
provato dal paziente che il punto di
vista strettamente legato alle sue
capacità motorie.
Il dolore sproporzionato del paziente
in risposta ad un evento scatenante
minimo è il primo elemento che deve
far pensare ad un possibile caso di
SA. Successivamente, il paziente deve
manifestare almeno un sintomo tra i
seguenti:
iperestesia e/o allodinia
asimmetria di temperatura
e/o alterazione e/o asimmetria
del colorito cutaneo
edema e/o anomalie e/o
asimmetria della sudorazione
alterazioni motorie/trofiche.
Inoltre, almeno un segno deve
essere obiettivabile in due delle
categorie sopracitate. Ovviamente,
non deve essere possibile spiegare la
sintomatologia del paziente in altro
modo rispetto alla SA.
Un’alternativa alla somministrazione endovenosa
Un’alternativa alla somministrazione endovenosa
In un recente studio clinico è stato analizzato il profilo di
sicurezza ed efficacia del neridronato quando somministrato
per via intramuscolare, al fine di capire se fosse possibile optare
per questa via di somministrazione (facilmente da iniettare
anche presso l’abitazione del paziente). I risultati provenienti
dalla prima fase (che prevede l’iniezione di 25mg di farmaco
per 16 giorni) sono promettenti. È stata infatti riscontrata una
perfetta sovrapponibilità dell’efficacia, valutata in base alla
misurazione del dolore e di tutti i consueti parametri clinici e
funzionali. Stessa cosa vale anche per la sua sicurezza, valutata
in basi ai dati di tolleranza della reazione di fase acuta.
pagina 16
Praticare una
“moderna odontoiatria”
L’odontoiatra attraverso domande specifiche effettua uno screening iniziale del
paziente e in presenza di campanelli d’allarme lo indirizza a uno specialista per
una valutazione più approfondita
Simone Montonati
Tiziano Testori è medico chirurgo al
Centro odontoiatrico universitario
dell’IRCCS Istituto ortopedico Galeazzi
presso il quale è anche responsabile
del Reparto di implantologia e
riabilitazione orale della Clinica
odontoiatrica. Inoltre, è professore
a contratto in “Tecniche chirurgiche
implantari” presso l’Università degli
studi di Milano e Adjunct clinical
associate professor, Department of
periodontics and oral medicine della
University of Michigan. È stato allievo
di Robert Marx – presso l’Università
di Miami – il primo a descrivere
la RONJ nel 2003. «Da allora – ci
spiega in questa intervista – le nostre
conoscenze sono cambiate moltissimo
e ora esiste un percorso diagnostico
con criteri ben definiti».
Quali sono i meccanismi che
conducono all’osteonecrosi?
Il meccanismo che porta
all’osteonecrosi deriva dall’azione dei
farmaci antiriassorbitivi che riducono
il turn-over osseo o impediscono –
come i farmaci anti-angiogenetici – la
formazione dei nuovi vasi, fattore
alla base di tutti i meccanismi di
guarigione. Bisogna inoltre ricordare
che tutti questi farmaci agiscono anche
sui normali meccanismi fisiologici di
guarigione rendendoli meno efficienti.
Tuttavia, lo scatenamento
dell’osteonecrosi è multifattoriale,
avviene soprattutto a livello
dell’osso mascellare che ha un turnover
più elevato rispetto al resto
dello scheletro. Inoltre, affligge
maggiormente la mandibola che ha una
vascolarizzazione terminale.
La presenza della microflora orale
e della peculiare interfaccia dento/
impianto con i tessuti molli sono
fattori predisponenti alle infezioni
ossee. Questa è la ragione per cui è
imperativo curare bene i nostri pazienti
da un punto di vista parodontale e
inserirli in un programma di richiami
professionali, soprattutto se hanno
eseguito impianti endoossei.
Qual è l’incidenza epidemiologica?
A questa domanda bisogna rispondere
in modo filosofico, ricordando
ai colleghi che sottovalutano
questo problema perché la reale
incidenza dell’osteonecrosi per la
cura dell’osteoporosi è bassa: dai
lavori scientifici pubblicati, emerge
un’incidenza che va dallo 0,02%
all’1%. Per questo motivo i colleghi
possono erroneamente pensare
che non sia un problema reale e
tendono a sottovalutarlo. Tuttavia,
vorrei ricordare che l’1% può essere
considerato un’incidenza bassa per
noi, ma per il paziente che sviluppa
osteonecrosi la sua incidenza è del
100% e la sua qualità di vita può
all’improvviso crollare drasticamente.
Inoltre, la reale incidenza
dell’osteonecrosi in determinate
sottopopolazioni a rischio presenta
una grande variabilità e in letteratura
mancano ancora dati prospettici
definitivi. Ad esempio, il “Progetto
bifosfonati” della Clinica di chirurgia
maxillofacciale e odontostomatologia
del Policlinico di Milano, diretta dal
Prof. Aldo Bruno Giannì, ha trovato
un’incidenza del 3,69% di pazienti
affetti da osteoporosi e del 25,32%
in pazienti oncologici contro il 12%
che si riscontra nella letteratura
internazionale.
Qual è il suo parere sulla terapia?
Il mio parere spassionato è
che, al momento di delineare la
L’insidiosa gestione dell’osteonecrosi
dei mascellari farmaco-relata
I criteri diagnostici,
clinici e radiologici sono
alquanto complessi e a
volte non specifici, motivo
per cui possono verificarsi
mancate diagnosi
per certezze errate o
conoscenze non aggiornate
terapia o il trattamento chirurgico
dell’osteonecrosi delle ossa mascellari,
ci si deve avvalere di chi ha esperienza
sul campo e possiede un elevato livello
di competenze in quest’ambito. Anche
perché non esiste al momento un
consenso unanime su come trattare i
pazienti.
Noi, però, abbiamo il dovere di curarli
al meglio praticando una “moderna
odontoiatria” con indirizzo medico,
cioè conoscendo lo stato di salute
del paziente e interagendo con
gli specialisti che di volta in volta
possono esserci di aiuto (in campo
otorinolaringoiatrico, maxillofacciale,
del metabolismo osseo ecc.). I casi che
gli odontoiatri incontrano nel proprio
studio, se il paziente è curato a dovere,
sono veramente pochi. Tuttavia, i casi a
cui assistiamo in ospedale hanno tutti
un minimo comune denominatore:
il paziente viene trattato senza
un’accurata anamnesi o viene operato
senza una scrupolosa preparazione del
cavo orale.
Che ruolo può avere l'impiego
della clorexidina nel contesto di
prevenzione?
La clorexidina è indispensabile,
insieme agli antibiotici, per il
trattamento dell’osteonecrosi. È un
fattore fondamentale per il controllo
Simone Montonati
L’osteonecrosi delle
ossa mascellari relata
all’uso di farmaci
(medication-related
ostenonecrosis of the
jaws, MRONJ) è una
rara e grave condizione
debilitante – le cui
dinamiche non sono
ancora completamente
conosciute –
associata all’utilizzo
di alcune molecole
farmacologiche
(bisfofonati, anticorpi
monoclonali, inibitori
delle tirosin-kinasi
e inibitori mTOR) in
presenza di alcuni
fattori di rischio
specifici.
DIAGNOSI ARTICOLATA
L’esposizione di
osso rappresenta al
momento il più sicuro
indicatore di questa
patologia sebbene
alcuni studi abbiano
dimostrato che questo
della contaminazione dovuta al
microbiota orale.
Cosa intende per collaborazione con
gli specialisti?
Su questo specifico argomento
abbiamo dato il nostro contributo
attraverso lavori scientifici scritti
a quattro mani con specialisti del
metabolismo osseo, come il Dott.
Gregorio Guabello.
Abbiamo ideato un percorso razionale
per la valutazione osteometabolica del
paziente che deve essere sottoposto
a terapie odontoiatriche. In queste
pubblicazioni abbiamo illustrato in
dettaglio il percorso che deve essere
seguito dall’odontoiatra, il limite a
cui può giungere, quando è opportuno
che si arresti e indirizzi il paziente
allo specialista per una diagnosi più
approfondita e per la definizione della
terapia. Ritengo questi lavori scientifici
fondamentali per curare in modo
professionale ed etico un paziente:
l’odontoiatra attraverso domande
specifiche effettua uno screening
iniziale del paziente e quando ravvede
la presenza di comorbilità o di
terapie prolungate nel tempo o con
farmaci di cui non conosce appieno
la farmacodinamica, è opportuno che
invii il paziente a uno specialista per
una valutazione più approfondita.
fenomeno è presente
solo nel 54% dei
pazienti (secondo altre
ricerche si fermerebbe
addirittura al 30%).
Altri segni clinici
indicativi sono la
persistenza di fistole
oltre le otto settimane
(possono anche essere
extra-orali, cioè a
livello cutaneo), la
mancata riparazione
ossea dopo estrazione,
la mobilità dentale
in rapida insorgenza,
pagina 17
parestesie e disestesie
al labbro.
Il paziente può ad
esempio presentarsi
con ascessi e secrezioni
sieropurulente
che sembrano
di derivazione
odontogena ma
possono essere casi
di osteonecrosi non
trattata. Il dolore
è un sintomo di
più complessa
interpretazione,
innanzitutto perché
sembra che sia spesso
assente agli esordi
della malattia. Inoltre,
il dolore può sembrare
causato da patologie
di derivazione dentale
o muscolare oppure
scambiato per dolori
di tipo sinusitico
o trigeminale.
Talvolta può essere
di tipo gravativo,
più frequentemente
localizzato a livello
mandibolare.
In ogni caso, il sintomo
dolore in presenza
di osso esposto è
considerato elemento
discriminante nella
classificazione
e stadiazione
proposta dall’AAOMS
(Associazione
americana di chirurgia
maxillo-facciale).
CONFERMA
STRUMENTALE
L’accertamento
radiologico è
considerato
fondamentale per la
conferma diagnostica.
In caso di sospetta
osteonecrosi, una
CBCT o una TC spirale
sono gli esami più
appropriati per
valutarne l’estensione.
Anche se le linee
guida affermano
che possono essere
sufficienti gli esami
di primo livello, come
l’ortopantomografia,
bisogna ricordare che
prima che si evidenzi
una zona di osteolisi su
una ortopantomografia
“
Esiste ancora
radicata la falsa
convinzione che
l’osteoradionecrosi
sia causata solo da
invasive procedure
di chirurgia orale
“
deve verificarsi una
significativa perdita
minerale (superiore al
30%-55%).
«Molti colleghi –
racconta Tiziano
Testori, tra i massimi
esperti della patologia
– considerano ancora
la presenza di osso
esposto la condizione
indispensabile
per diagnosticare
una osteonecrosi e
giudicano la presenza
di dolore un sintomo
essenziale per fare
diagnosi. Esiste
ancora radicata la
falsa convinzione che
l’osteoradionecrosi
sia causata solo da
invasive procedure di
chirurgia orale tipo
estrazioni dentali
o posizionamento
di impianti.
L’osteonecrosi, invece,
si può verificare
spontaneamente,
può essere dovuta
al traumatismo di
protesi mobili eseguite
in modo incongruo.
Conoscere queste
informazioni è molto
importante per
evitare di fallire una
diagnosi o effettuarla
tardivamente».
Diagnosi precoce
trattamento predicibile
PREVENZIONE PRIMARIA
Mantenere la salute del cavo orale attraverso l’eliminazione
di tutti i foci infettivi. Prevenire la malattia parodontale e le
patologie di tipo endodontico attraverso un programma di
mantenimento parodontale/implantare, se il paziente ha
impianti, mucositi e perimplantiti,
PREVENZIONE SECONDARIA
Seguire un work up diagnostico in cui i capisaldi sono
l’anamnesi, l’esame obiettivo, e l’imaging radiologico.
Individuare un professionista esperto che possieda
competenze più specifiche, ove compaiano patologie rare o
complesse.
Informativa per il paziente
Nella pratica clinica, i pazienti in terapia con farmaci antiriassorbitivi
per l’osteoporosi spesso riferiscono il rifiuto da
parte dell’odontoiatra di sottoporli a interventi di chirurgia
orale come estrazioni dentali e posizionamento di impianti,
per il timore di incorrere in complicanze come fallimento
implantare e osteonecrosi della mandibola.
È dunque utile che il medico prescrittore di farmaci
anti-riassorbitivi fornisca al paziente un’informativa da
consegnare all’odontoiatra, allo scopo di fornire quelle che
sono le attuali raccomandazioni in termini di prevenzione
delle suddette complicanze.
SCARICA L’INFORMATIVA
www.bonehealth.it/informativa-per-il-paziente
ACCORGIMENTI
PER PREVENIRE
L’OSTEONECROSI
1
2
3
4
non credere che l’osteonecrosi
sia solo dovuta all’utilizzo dei
bifosfonati
non ritenere che l’osteonecrosi sia
esclusivamente dovuta a procedure
invasive nel cavo orale
curare in modo professionale ed
etico il paziente attraverso una
“moderna odontoiatria” con indirizzo
medico
fare azione di counseling non
solo nei confronti dei pazienti ma
anche di medici di base e oncologi
richiedendo loro di avvalersi di un
parere odontoiatrico che valuti
la salute del cavo orale prima di
prescrivere certi tipi di farmaci
L’IMPORTANZA
DI UN’ADEGUATA ANAMNESI
Per il controllo della osteonecrosi è
fondamentale verificare non solo i
fattori di rischio specifici ma anche
tutti gli elementi medici generali che
possono facilitare l’insorgere della
patologia
Simone Montonati
Il controllo degli elementi di rischio della patologia
parte da lontano, e non riguarda solo l’impiego di
alcuni farmaci. L’odontoiatra deve farsi carico di
svolgere un’accurata anamnesi per intercettare
tutti i fattori di rischio presenti: generali, locali,
farmacologici. Sapere ad esempio che un paziente
è affetto da artrite reumatoide, insufficienza
renale cronica, diabete o patologie oncologiche è
determinante per stilare una diagnosi accurata.
FATTORI DI RISCHIO
Vi sono poi i fattori di rischio specifici, primo
tra tutti la presenza di alcune terapie, come i
trattamenti con farmaci anti-riassorbitivi o ad
attività anti angiogenetica oppure con steroidi per
lungo tempo.
È comunque fondamentale tener sempre
presente che l’osteonecrosi non è causata solo
dall’assunzione di bifosfonati. Oltre ai farmaci con
attività anti angiogenetica, anche alcuni carcinomi
trattati con anticorpi monoclonali (carcinoma renale
trattato con inibitori delle tirosina kinasi, carcinoma
del colon, polmonare o mammario) rappresentano
un elemento di rischio.
Nel caso dei bifosfonati, inoltre, devono essere
valutati in dettaglio anche il tipo di bifosfonati, la
via di assunzione e la durata del trattamento.
Pazienti affetti da patologia osteometabolica, al
contrario, hanno un rischio minore di sviluppare
la MRONJ. Un altro elemento che influisce
significativamente sull’insorgenza dell’osteonecrosi
è rappresentato dagli stili di vita: il fumo è un
fattore di rischio non solo in implantologia e nel
trattamento della malattia parodontale, ma anche
per l’insorgenza di osteonecrosi.
pagina 18
OSSA
FORTI
E
SANE
A
Calcio
NUTRIZIONE
«Una carenza cronica di calcio alimentare
nella fase della crescita di bambini e
adolescenti può determinare una ridotta
densità minerale dell’osso, che non consente
di raggiungere il picco di massa ossea»,
spiega Hellas Cena, prorettore alla Terza
missione e responsabile del laboratorio di
Dietetica e nutrizione clinica dell’Università di
Pavia, oltre che responsabile del servizio di
Nutrizione clinica e dietetica degli Istituti clinici
scientifici Maugeri. «Successivamente, con il
trascorrere degli anni, avviene nell’organismo
una graduale fisiologica riduzione della
densità ossea, che può essere influenzata
da vari fattori, come stile di vita, assetto
ormonale, stato generale di salute, microbiota
intestinale, assunzione di farmaci».
Secondo la Società italiana di nutrizione
umana (Sinu), la quantità media di calcio
necessaria varia da 700-800 a 1.200
milligrammi al giorno, a seconda dell’età. Il
fabbisogno è più alto nei giovani, nelle donne
in gravidanza o durante l’allattamento e
dopo la menopausa. Un bicchiere di latte
apporta circa 250 milligrammi di calcio, una
porzione di formaggio stagionato circa 350
milligrammi, un bicchiere di acqua minerale
ricca di calcio circa 70. «Un’alimentazione
varia ed equilibrata dovrebbe essere
sufficiente a fornire un adeguato apporto di
questo nutriente», sostiene la professoressa.
«Tuttavia, in presenza di particolari
carenze, determinate per esempio da
malassorbimento intestinale o disturbi
alimentari, è possibile consigliare ai pazienti
l’assunzione di integratori, in forma di calcio
carbonato, citrato, lattato, gluconato».
Vitamina D
Si tratta di una vitamina liposolubile che agisce
sull’intestino determinando un aumento
dell’assorbimento di calcio e che favorisce
il suo successivo deposito nelle ossa. «Per
raggiungere la dose giornaliera raccomandata
(almeno 600 unità internazionali, pari a 15
microgrammi), basterebbe esporsi al sole
ogni giorno per circa 20-30 minuti, con viso,
braccia e gambe scoperti», chiarisce Cena.
«Una prescrizione semplice in teoria, ma più
difficile in pratica, soprattutto durante i mesi
invernali e per le persone che trascorrono poco
tempo all’aria aperta». Alla scarsa esposizione
solare si possono poi aggiungere altre cause di
carenza. Per esempio, uno scarso assorbimento
determinato da alcune patologie, come
celiachia, alvo alterno, morbo di Crohn, fibrosi
cistica, disbiosi intestinale, assunzione di alcuni
farmaci, come cortisone, antiepilettici, antiretrovirali,
anti-micotici, colestiramina. O ancora,
una difficoltà nel convertire il precursore nella
forma attiva di vitamina D, a causa di disturbi
renali o epatici, oppure di alcune rare malattie
genetiche. Inoltre, alcune recenti ricerche
hanno mostrato che i livelli di questa vitamina
sono più bassi nelle persone con sovrappeso e
obesità, il che potrebbe spiegare, vista l’elevata
prevalenza di questi ultimi disturbi, la diffusa
carenza (meno di 20 nanogrammi per millilitro
di sangue) di vitamina D nella popolazione
mondiale. Nelle persone con lieve insufficienza
si può ricorrere agli integratori, che possono
contenere al massimo 50 microgrammi (pari a
2mila unità internazionali) di vitamina D, mentre
nel caso di deficit più consistenti è, invece,
necessario prescrivere il medicinale, che può
essere assunto per via orale o somministrato
per via intramuscolare.
TAVOLA
ALIMENTI RICCHI DI CALCIO
Un menù ricco di calcio,
proteine, vitamina D è
essenziale per il benessere
dell’apparato scheletrico.
In caso di particolari
carenze, si possono
consigliare ai pazienti gli
integratori
LATTE E YOGURT
(ANCHE SCREMATI)
FORMAGGI, SIA
FRESCHI CHE
STAGIONATI
ALCUNI PESCI, SOPRATTUTTO
ALICI, SARDINE, POLPI,
CALAMARI, GAMBERI
Paola Arosio
FRUTTA SECCA
(MANDORLE, ARACHIDI,
PISTACCHI, NOCI, NOCCIOLE)
LEGUMI, IN
PARTICOLARE CECI,
LENTICCHIE, FAGIOLI
ACQUA
MINERALE
NUTRIZIONE
pagina 19
COME L'ORGANISMO PUÒ ASSUMERE VITAMINA D
20
%
I CIBI
PIÙ RICCHI
SONO:
OLIO DI FEGATO DI
MERLUZZO
SALMONE
SGOMBRO
80
%
PESCE SPADA
TONNO
SARDINE
TUORLO D'UOVO
Proteine
Meno sale e alcol
Contenute soprattutto in carne, pesce,
legumi, sono le componenti fondamentali
della massa muscolare, senza la quale le
ossa si indeboliscono, come dimostrato
anche da uno studio pubblicato nel 2005
su The Journal of Clinical Endocrinology
and Metabolism, condotto da un gruppo
di ricercatori statunitensi, che ha messo in
luce il meccanismo attraverso il quale gli
aminoacidi promuovono l’assorbimento di
calcio a livello dell’intestino.
«Oltre a consigliare ai pazienti gli alimenti benefici per le ossa, sarebbe
bene anche suggerire loro di stare il più possibile alla larga da alcuni
“nemici” dello scheletro, come il sale e i cibi che ne sono ricchi (dadi da
brodo, alimenti in scatola e in salamoia) e il caffè, perché aumentano la
escrezione di calcio urinario», sottolinea Cena. Anche l’uso eccessivo di
alcolici potrebbe contribuire a danneggiare l’apparato scheletrico. L’alcol,
infatti, inibisce gli osteoblasti, stimola gli osteoclasti, riduce l’assorbimento
di calcio nell’intestino e diminuisce gli ormoni come il testosterone e gli
estrogeni, che favoriscono la produzione di tessuto osseo. Infine, è utile
ricordare ai pazienti di non abusare di bevande vegetali, come il latte
di mandorla, di riso, di soia, che, se non arricchite di calcio, non sono
sostitutive del latte tradizionale e non apportano alcun vantaggio all’osso.
Altri nutrienti
I NEMICI
1
sale
Anche magnesio, potassio, vitamine C, K, E,
del gruppo B sono utili al benessere delle
ossa. Per questo nel menù non devono mai
mancare la verdura e la frutta (tre porzioni al
giorno della prima e due della seconda), che
sono ricche di questi nutrienti. «I più recenti
studi scientifici hanno, inoltre, evidenziato
che alcune fibre, i cosiddetti prebiotici, che
giungono indigerite nell’ultimo tratto del colon,
sono in grado di attivare la flora batterica,
facilitando l’assorbimento dei micronutrienti,
incluso il calcio», aggiunge la docente.
DELLO
SCHELETRO
2
3
4
caffè
alcolici
bevande vegetali
pagina 20
NUTRIZIONE
Vitamina K
e salute delle ossa
Effetti della carenza di vitamina K, della supplementazione di
vitamina K e dell’assunzione di anticoagulanti orali antagonisti
Letizia Leali
della vitamina K su diversi parametri ossei
Sebbene sia nota per la sua importanza nella cascata
della coagulazione, la vitamina K ha anche altre
funzioni. Poiché prende parte alla carbossilazione
di molte proteine correlate alle ossa, regola la
trascrizione genetica dei marker osteoblastici e regola
il riassorbimento osseo, la vitamina K è essenziale
alla salute delle ossa. La carenza di vitamina K non è
rara, poiché l’organismo non è in grado di produrne
in quantità sufficienti e deve essere assunta con la
dieta. Inoltre anche l’assunzione di anticoagulanti
orali dell’antagonista della vitamina K induce
carenza di vitamina K. La maggior parte degli studi
rileva che basse concentrazioni sieriche di K1, alti
livelli di osteocalcina carbossilata (ucOC) e un basso
apporto dietetico di K1 e K2 sono associati a un rischio
maggiore di fratture e a una densità di massa ossea
(BMD) inferiore. Gli studi relativi alla relazione tra la
supplementazione di vitamina K e il rischio di frattura
rilevano che assumendo integratori si potrebbe
ridurre il rischio di fratture, ma sono necessari
studi appositamente progettati che prevedano come
endpoint primario la frattura. Anche la riduzione del
rischio di frattura con l’uso di anticoagulanti orali
non antagonisti della vitamina K (NOAC) al posto
del warfarin è interessante, ma ancora una volta le
prove disponibili offrono risultati difformi. Le prove
scarse e limitate, inclusi studi di bassa qualità che
hanno raggiunto conclusioni discordanti, rendono
impossibile trarre solide conclusioni su questo
argomento, in particolare per quanto riguarda l’uso
di integratori di vitamina K.
EFFETTO DELLA SUPPLEMENTAZIONE DI VITAMINA K SU
SOGGETTI SANI O CON OSTEOPOROSI
Gli effetti della supplementazione di vitamina
K sulla BMD sono riassunti nella meta-analisi
eseguita da Fang et al., che comprendeva sia soggetti
sani che pazienti affetti da osteoporosi primaria/
secondaria. In totale, sono stati inclusi 17 studi,
dieci dei quali includevano integratori di vitamina
K2 (otto con MK-4 alla dose di 15–45 mg/die e
due con MK-7 alla dose di 0,2-3,6 mg/die) e sette
studi con supplementazione di vitamina K1 (0,2-
10 mg/die). Nell’analisi generale, inclusi tutti gli
studi selezionati, gli autori hanno scoperto che
l’integrazione di vitamina K non ha influenzato
significativamente la BMD (misurata in base alla
differenza media ponderata) al collo del femore,
ma ha aumentato significativamente la BMD della
colonna lombare dell’1,27% (IC 95%: 0,47– 2,06)
dopo 6–36 mesi di trattamento. Tuttavia, quando
le analisi dei sottogruppi sono state eseguite in base
al tipo di vitamina K somministrata, gli effetti non
erano significativi per K1 e rimanevano comunque
significativi per K2 (aumento medio dell’1,8% della
BMD della colonna lombare, CI 95%: 0,87–2,75). Gli
autori sono cauti su questi risultati; molti degli studi
inclusi erano di bassa qualità ed è stata riscontrata
una significativa eterogeneità tra questi studi.
VITAMINA K E BMD
Un’altra meta-analisi ha esplorato specificamente
il ruolo degli integratori di vitamina K2 sia nella
BMD che nella frattura. Attraverso 19 studi (11 dei
quali non sono stati inclusi nella meta-analisi
sopra menzionata) con 6759 partecipanti, gli autori
hanno scoperto che i supplementi di K2 hanno
migliorato significativamente la BMD vertebrale a
medio e lungo termine e la BMD dell’avambraccio
a lungo termine in donne in postmenopausa con
osteoporosi.
EFFETTO IN POSTMENOPAUSA
Uno studio condotto su 115 donne in postmenopausa
ha dimostrato che tutti e tre i gruppi che avevano
assunto rispettivamente integratori contenenti
calcio e vitamina D; calcio, vitamina D e vitamina
K1; calcio, vitamina D e vitamina K2 per un anno
avevano mostrato un aumento significativo della
BMD totale rispetto ai controlli, con ulteriori
vantaggi per la BMD lombare nei gruppi che hanno
assunto K1 o K2. In generale, la maggior parte degli
studi riporta una correlazione positiva, almeno in
alcuni sottogruppi, tra l’assunzione di integratori di
vitamina K e aumento della BMD. Inoltre, sebbene
alcuni studi non abbiano dimostrato cambiamenti
significativi nella BMD, sono riusciti a ottenere
risultati significativi in altri parametri ossei.
“
La vitamina K svolge
un ruolo importante
nella salute delle ossa
“
Negli studi osservazionali, una bassa assunzione di
vitamina K, bassi valori sierici di vitamina K e alti
livelli di osteocalcina non carbossilata circolatoria
(ucOC) sono associati al rischio di frattura (in
particolare frattura dell’anca). Tuttavia, gli studi
clinici non ottengono risultati conclusivi e, pertanto,
sussistono ancora controversie sull’uso degli
integratori di vitamina K1 e K2.
Fonte: Rodríguez-Olleros Rodríguez C et al. J Osteopor, 2019.
Utilità dell’integrazione
con vitamina D
Uno studio dimostra
che l’integrazione con
vitamina D3 per due
anni in adulti sani
non selezionati per
insufficienza di vitamina
D non ha migliorato la
densità minerale ossea
o la struttura del tessuto
osseo
Lorenzo Giusti
Un gruppo di ricercatori
della Division of
Endocrinology, Diabetes and
Hypertension, Department
of Medicine, Brigham and
Women’s Hospital Boston
(Massachusetts) ha condotto
uno studio per verificare se la
supplementazione di vitamina
D possa essere effettivamente
utile per migliorare la densità
minerale ossea (BMD) e/o la
struttura del tessuto osseo.
Infatti, sebbene l’integrazione
di vitamina D sia utilizzata
per promuovere la salute
delle ossa nella popolazione
generale, i dati ricavati da studi
randomizzati controllati non
sono stati coerenti.
La supplementazione con
vitamina D3 rispetto al placebo
non ha avuto alcun effetto sulle
variazioni a due anni di aBMD a
livello della colonna vertebrale
(0,33% vs. 0,17%; p=0,55),
collo del femore (-0,27% vs.
-0,68%; p=0,16), totale anca
(-0,76% vs. -0,95%; p=0,23),
o tutto il corpo (-0,22% vs.
-0,15%; p=0,60), o su misure
della struttura ossea.
Gli effetti non variavano per
sesso, etnia, indice di massa
corporea o livelli di 25(OH)
D. L’integrazione giornaliera
con vitamina D3 effettuata
per due anni in adulti sani non
selezionati per insufficienza di
vitamina D non ha migliorato,
rispetto al placebo, la BMD o
la struttura del tessuto osseo.
Con supplementazione di
vitamina D3, i partecipanti
con livelli di FVD al basale al
di sotto della mediana (<14,2
pmol/L) hanno mostrato un
lieve aumento della aBMD della
colonna vertebrale (0,75% vs.
0%; p=0,043) e attenuazione
della perdita di aBMD totale
dell’anca (-0,42% vs -0,98%;
p=0,044). Quindi merita di
essere ulteriormente studiato
se la valutazione dei livelli di
FVD al basale possano aiutare
a identificare i soggetti che
hanno maggiori probabilità di
beneficiare dell’integrazione
con vitamina D3.
Fonte: Meryl S et al. J Bone Miner Res.
2020 May;35(5):883-893.
STUDIO VITAL
VITamin D e
OmegA-3 TriaL
Randomizzato
in doppio cieco,
controllato con
placebo
771 partecipanti
Uomini di età ≥50
anni e donne di età
≥55 che non stavano
assumendo farmaci
per il trattamento di
patologie ossee
NUTRIZIONE
pagina 21
Fratture protette
dal β-carotene
Il β-carotene, essendo un antiossidante, può avere un
effetto benefico contro lo stress ossidativo correlato
Letizia Leali
all’osteoporosi
Un gruppo di ricercatori
cinesi ha condotto
una metanalisi per
studiare l’associazione
tra l’assunzione di
β-carotene e il rischio
di fratture utilizzando
nove studi peerreviewed
composti
da 190.545 uomini e
donne, scoprendo che
l‘assunzione alimentare
di β-carotene (1,76-
14,30 mg/giorno)
era associata a
una riduzione del
12% del rischio di
fratture. Inoltre, una
maggiore assunzione
di β-carotene è stata
associata a un minor
rischio di fratture
dell’anca. I risultati
della metanalisi
suggeriscono che un
maggiore apporto
alimentare di
β-carotene può avere un
ruolo favorevole nella
protezione del rischio di
frattura.
La solidità dei risultati è
rafforzata dal riscontro
di un’associazione
inversa tra l’assunzione
di β-carotene e il rischio
di frattura sia in studi
prospettici di coorte che
caso-controllo.
L’effetto protettivo
del β-carotene è più
marcato nelle donne
Per quanto riguarda
il sesso, i ricercatori
hanno rilevato che, al
crescere delle quantità
di β-carotene assunto,
le femmine sviluppano
un minor rischio di
frattura rispetto ai
maschi. Questo può
essere un risultato
plausibile, date le
differenze ormonali
tra i sessi, anche se
altri studi condotti su
popolazioni diverse e
con differenti abitudini
alimentari avevano
portato a conclusioni
differenti
β-carotene e rischio di
fatture
La metanalisi ha
generato un pooled-
RR usando un nuovo
approccio bayesiano per
valutare l’associazione
tra l’assunzione
di β-carotene e il
rischio di frattura
utilizzando nove studi
osservazionali peerreviewed.
Sia negli
studi caso-controllo
sia in quelli di coorte
è stata costantemente
osservata l’associazione
inversa tra β-carotene
e il rischio di fratture.
I risultati osservati
supportano il ruolo
del β-carotene come
potenziale fattore
protettivo per le
fratture. Un elevato
apporto di frutta e
verdura ricche di
antiossidanti può essere
benefico per la salute
delle ossa e può ridurre
il rischio di fratture.
I ricercatori
raccomandano
di condurre studi
randomizzati controllati
per confermare la
potenziale relazione
protettiva osservata
tra l’assunzione di
β-carotene e le fratture.
Fonte: Charkos, T.G. et al.
BMC Musculoskelet Disord
21, 711 (2020).
β-CAROTENE, UN MECCANISMO ANCORA POCO CHIARO
Un apporto sufficiente di vitamina A,
compreso il β-carotene, è essenziale per le
normali attività fisiologiche, influenzando
l’asse dell’ormone della crescita. Il
β-carotene, antiossidante, contribuisce alla
difesa del corpo contro lo stress ossidativo,
coinvolto anche nell’osteoporosi.
Il β-carotene migliora
l’osteoclastogenesi e riduce l’apoptosi
degli osteoblasti stabilizzando la via
di segnalazione della β-catenina,
che porta a una diminuzione del
riassorbimento osseo.
I carotenoidi possono interferire con la
segnalazione del recettore del fattore di
crescita regolando IGF-1 / IGFBP3, che è
associato alla funzione cognitiva. La funzione
cognitiva compromessa è un noto fattore di
rischio per cadute e fratture dell’anca.
In uno studio americano
vengono riportati i possibili
effetti del consumo di latticini
sullo stato di salute generale in
popolazioni adulta e pediatrica
Lorenzo Giusti
LATTE E SALUTE
Un gruppo di ricercatori di Boston
ha condotto un’ampia analisi della
letteratura, pubblicata su The England
Journal of Medicine, per indagare i
benefici e i possibili rischi correlati
all’assunzione di latte. In particolare,
gli autori hanno analizzato l’impatto
su crescita e sviluppo, salute delle ossa
e rischi di fratture, obesità, malattie
cardiovascolari, diabete, allergie e vari
tipi di cancro.
Consumo di latte
ed effetti sulla salute
CONSUMO DI LATTICINI: PRO E CONTRO
I ricercatori affermano che, negli
adulti, le evidenze scientifiche non
supportano, nel complesso, l’ipotesi che
un elevato consumo di prodotti lattierocaseari
riduca il rischio di fratture,
motivazione principale che ha indotto a
promuovere il consumo di tali alimenti
negli Stati Uniti. Inoltre, il consumo di
prodotti lattiero-caseari non è stato
chiaramente correlato al controllo del
peso e al rischio sviluppare diabete
o malattie cardiovascolari. L’elevato
consumo di latticini è associato a
un leggero aumento del rischio di
cancro alla prostata e di carcinoma
dell’endometrio, ma riduce il rischio di
cancro del colon-retto. È importante
notare che l’effetto del consumo di
latticini sulla salute è da mettere in
relazione all’effetto del consumo di
altri alimenti e bevande: per molti versi,
consumare latticini è meno dannoso che
consumare carne rosso o suoi derivati
o bevande zuccherate, ma il confronto
è sfavorevole se effettuato con fonti
di proteine vegetali, come le noci.
Inoltre consumare latticini con ridotto
contenuto di grassi non sembra offrire
vantaggi rispetto al consumo di prodotti
lattiero-caseari interi.
Nella prima infanzia, in mancanza
di latte materno, il latte vaccino può
fornire un prezioso sostituto. Il latte
promuove la velocità di crescita e
permette di raggiungere una maggior
altezza, il che comporta sia rischi sia
benefici. L’elevato potere nutritivo del
latte può essere particolarmente utile
per le popolazioni di regioni in cui la
qualità generale della dieta è scarsa e
l’apporto calorico è deficitario.
Tuttavia, in caso di alimentazione
adeguata, l’eccessivo consumo di latte
può aumentare il rischio di fratture
in età avanzata e resta preoccupante
l’associazione tra una maggiore altezza
e il rischio di cancro.
Fonte: Walter C et al. NEJM 13 feb
2020;382:644-54.
LATTE, CALCIO E VITAMINA D
CONSIGLI PRATICI
LATTE
1. 0-2 porzioni di latte o
latticini al giorno
2. Preferire il latte a
basso contenuto di
grassi al latte intero
3. Evitare il consumo
di latticini zuccherati
nei Paesi sviluppati
CALCIO
Fonti alimentari alternative
includono cavoli, broccoli,
tofu, noci, fagioli e succo
d’arancia fortificato.
VITAMINA D
Un livello adeguato può
essere raggiunto attraverso
l’assunzione di integratori,
che hanno un costo molto
inferiore rispetto al latte
fortificato.
L’unico farmaco con
indicazione algodistrofia 1,2 3
Efficace nella remissione
persistente della malattia
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1. Linee Guida CRPS Algodistrofia, Regione Toscana aggiornamento 2019. PDF disponibile all'indirizzo http://www.regione.toscana.it/pubblicazioni; 2. RCP Nerixia;
3. Varenna M et al. Rheumatology 2013;52:534-542. - Abiogen Pharma S.p.A. - Materiale promozionale depositato presso AIFA in data 28/10/2020 - MP 136.20