1 LEZIONE 4 L'età della Controriforma e il Seicento ... - Rilievo Urbano
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<strong>LEZIONE</strong> 4<br />
L’età <strong>della</strong> <strong>Controriforma</strong> e <strong>il</strong> <strong>Seicento</strong>.<br />
LA RIFORMA ARTISTICA NELL’ITALIA DI FINE CINQUECENTO.<br />
Gli ultimi decenni del Cinquecento segnano la crisi definitiva dei valori <strong>della</strong> cultura<br />
e dell’arte rinascimentale, le cui prime avvisaglie erano già visib<strong>il</strong>i nelle opere di uno<br />
dei maestri di cui si è argomentato la volta scorsa, ovvero quelle di Sebastiano Vini.<br />
Il clima spirituale determinato dalla riforma luterana aveva infatti generato tensioni<br />
religiose e morali, che la Chiesa di Roma tentò di arginare e controllare promuovendo<br />
un programma di rinnovamento. Il Conc<strong>il</strong>io di Trento, svoltosi a più riprese tra <strong>il</strong> 1545 e<br />
<strong>il</strong> 1563 per affermare e contrastare gli errori di fede dei protestanti e insieme<br />
promuovere una riforma <strong>della</strong> disciplina ecclesiastica, elaborò direttive precise anche<br />
per gli artisti. In primo luogo vennero additati e censurati tutti gli eccessi e i virtuosismi<br />
del periodo manierista, cercando di indirizzare le arti verso un fine educativo in senso<br />
cattolico e verso la riedificazione, <strong>il</strong> restauro e l’abbellimento degli edifici ecclesiastici.<br />
La <strong>Controriforma</strong> dimostrò così di avere lucida consapevolezza del potere delle<br />
immagini, strumenti di propaganda e di convincimento.<br />
Nel mese di dicembre del 1563, infatti, durante la XXV sessione del conc<strong>il</strong>io<br />
tridentino, venne dibattuto <strong>il</strong> problema delle immagini sacre, per respingere l’accusa di<br />
idolatria che i protestanti rivolgevano ai cattolici. Il decreto conc<strong>il</strong>iare ribadì la<br />
legittimità del culto tributato alle immagini sacre, ma sancì anche <strong>il</strong> loro carattere<br />
strumentale, affermando che le opere d’arte dovevano soprattutto servire all’educazione<br />
e al coinvolgimento emotivo e spirituale del fedele. All’autorità ecclesiastica spettava,<br />
di conseguenza, la guida e <strong>il</strong> controllo <strong>della</strong> produzione artistica relativamente al<br />
problema dei contenuti e <strong>della</strong> forma: le opere d’arte non potevano apparire contaminate<br />
da falsi dogmi, cioè da teorie protestanti o ereticali, ma dovevano essere sottoposte a un<br />
processo di chiarezza e semplificazione che rendesse i contenuti immediatamente<br />
riconoscib<strong>il</strong>i e comprensib<strong>il</strong>i.<br />
Due scritti, i Dialoghi degli errori de’ pittori (1564) dell’ecclesiastico fabrianese<br />
Giovanni Andrea G<strong>il</strong>io e <strong>il</strong> Discorso intorno alle immagini sacre e profane (1582) del<br />
cardinale bolognese Gabriele Paleotti espongono i principi elaborati sulle immagini<br />
1
sacre durante <strong>il</strong> conc<strong>il</strong>io tridentino. Queste opere richiamavano gli artisti all’ortodossia<br />
religiosa, alla conformità alle fonti – le Sacre Scritture – e alla convenienza e decoro.<br />
Venivano invece bandite l’ispirazione al mondo classico e la rappresentazione del corpo<br />
umano nudo, cioè due degli elementi su cui si fondava la cultura figurativa del<br />
Rinascimento.<br />
Dal 1560 circa fino alla fine del secolo, pertanto, Roma fu <strong>il</strong> centro di elaborazione<br />
dei nuovi modelli figurativi <strong>della</strong> <strong>Controriforma</strong>. Nella città papale si definì un nuovo<br />
modello di edificio sacro, agib<strong>il</strong>e e funzionale: la chiesa, liberata dalla stratificazione di<br />
cappelle, altari e monumenti privati, doveva condurre l’attenzione dei fedeli fino<br />
all’altare maggiore, dove si celebra l’eucaristia. L’ordine dei gesuiti, fondato nel 1540<br />
da Ignazio di Loyola, contribuì in maniera determinante alla definizione di una pittura<br />
controriformata. Il santo spagnolo ribadì negli Esercizi spirituali <strong>il</strong> valore didattico ed<br />
edificante delle immagini sacre, in quanto oggetto di meditazione. La Chiesa dette inizio<br />
a un processo di epurazione dell’immenso patrimonio iconografico <strong>della</strong> tradizione<br />
cristiana, bandendo i soggetti che si prestavano a interpretazioni profane o che potevano<br />
dar adito a pensieri troppo liberi, se non lascivi. Vennero priv<strong>il</strong>egiati i temi adatti alla<br />
meditazione e alla penitenza, come i momenti più drammatici <strong>della</strong> passione di Cristo e<br />
gli episodi più edificanti di virtù cristiane. L’obiettivo era la promozione di un ritorno<br />
agli ideali di semplicità <strong>della</strong> Chiesa primitiva. Contro l’intellettualismo, le bizzarrie e<br />
le licenze <strong>della</strong> maniera, gli artisti ricercarono l’estrema chiarezza e la verosimiglianza,<br />
semplificando i modelli dei grandi maestri. Massimi rappresentanti di questa tendenza<br />
furono alcuni artisti romani di adozione, come Scipione Pulzone, Federico Barocci e<br />
Federico Zuccari, che risolsero la crisi del manierismo recuperando e selezionando gli<br />
schemi del passato, interpretandoli in modo personalissimo (FIG. 1, 2 e 3). Ne vediamo<br />
brevemente qualche esempio, per comprendere meglio quali fossero gli esiti ottenuti dai<br />
singoli artisti nei confronti dei mutamenti religiosi di cui abbiamo sopra accennato.<br />
Scipione Pulzone, allontanatosi dalla natia Gaeta in giovane età, risentì a Roma di<br />
influssi molteplici, elaborando uno st<strong>il</strong>e eclettico, come se fosse “senza tempo” – come<br />
lo ha definito <strong>il</strong> critico Federico Zeri –, che ben corrisponde alla regolata mescolanza<br />
indicata dalle teorie di Andrea G<strong>il</strong>io. In seguito alla collaborazione con Giuseppe<br />
Valeriano, <strong>il</strong> linguaggio dell’artista mosse verso un più astratto razionalismo. Famoso<br />
soprattutto come ritrattista, Pulzone eseguì anche quadri devozionali attenendosi<br />
strettamente al programma ideologico <strong>della</strong> compagnia del Gesù. Nella Sacra Famiglia<br />
con san Giovannino e sant’Anna <strong>della</strong> Galleria Borghese recupera i modelli del<br />
2
classicismo e di Raffaello in particolare, traducendo <strong>il</strong> soggetto in una dimensione<br />
domestica e fam<strong>il</strong>iare, capace di commuovere <strong>il</strong> fedele che la guarda (FIG. 1).<br />
La pittura di Federico Barocci appare libera da ogni schematismo dogmatico e<br />
lontana da qualunque conformismo devozionale ed esprime quell’autentica volontà di<br />
rinnovamento che aveva caratterizzato i tentativi <strong>della</strong> riforma cattolica. Rifacendosi,<br />
oltre che a Raffaello – a Correggio, <strong>il</strong> pittore conquista un tono di domestica confidenza<br />
con i personaggi <strong>della</strong> storia sacra e una peculiare tavolozza, fatta di colori evanescenti<br />
e cangianti. Dopo un esordio romano – la decorazione del casino di Pio IV eseguita tra<br />
<strong>il</strong> 1561 e <strong>il</strong> 1563 – Federico lasciò Roma e rientrò ad Urbino nel 1565, per immergersi<br />
nella realtà <strong>della</strong> provincia che offriva spazio alla sua inquieta creatività pittorica. Di<br />
questo periodo è la Deposizione per la cappella di San Bernardino nel duomo di Perugia<br />
(FIG. 4), caratterizzata da un forte empito drammatico e dall’accensione cromatica che<br />
recupera la grande tradizione coloristica del secolo, soprattutto em<strong>il</strong>iana e veneta. Di<br />
alcuni anni successiva è la grande Madonna del popolo degli Uffizi (FIG. 5).<br />
Tipici esponenti del complesso ambito culturale romano di fine XVI secolo sono<br />
Taddeo e Federico Zuccari, che operarono nel campo <strong>della</strong> nuova pittura devozionale ed<br />
eseguirono cicli decorativi profani. Nella sala Regia in Vaticano o nel ciclo per la<br />
residenza Farnese a Caprarola, i fratelli Zuccari dettero la migliore prova del loro gusto<br />
sontuosamente decorativo e accademico, che diffusero in tutta Europa (FIG. 6). A<br />
Firenze Federico completò, tra <strong>il</strong> 1575 e <strong>il</strong> 1579, la decorazione <strong>della</strong> cupola di Santa<br />
Maria del Fiore che Vasari aveva lasciato incompiuta (FIG. 7).<br />
I PRIMI SEGNALI DI CAMBIAMENTO IN TOSCANA.<br />
Non è però un caso che la pittura degli Zuccari abbia trovato una grande eco nella<br />
Toscana granducale. Lentamente ma inesorab<strong>il</strong>mente, infatti, anche a Firenze e in<br />
Toscana <strong>il</strong> linguaggio manierista, sostenuto e avallato dalla corte di Cosimo I, andava<br />
modificandosi ed evolvendosi alla luce delle nuove esigenze storiche e dei suoi<br />
interpreti. Queste modifiche dovettero comunque convivere – almeno per alcuni decenni<br />
– con <strong>il</strong> permanere di forme espressive dominanti, che erano <strong>il</strong> frutto <strong>della</strong> lezione<br />
impartita ormai da anni dal Vasari e dalla sua scuola, rappresentata in maniera<br />
significativa dalla straordinaria Deposizione del corpo di Cristo di un artista ben ancora<br />
all’universo vasariano e michelangiolesco: Giovan Battista Naldini (FIG. 8) 1 . Sebbene<br />
1 Il Naldini nasce a Firenze nel 1537 circa e vi muore nel 1591.<br />
3
siano evidenti molte variazioni, <strong>il</strong> quadro parrebbe <strong>il</strong> modello preparatorio per un’opera<br />
ancora più grande, come quella dipinta nel 1572 per l’altare di Santa Maria Novella a<br />
Firenze. Il concitato sv<strong>il</strong>upparsi delle forme d’ispirazione salviatesca in quest’opera<br />
sente già <strong>il</strong> profumo <strong>della</strong> nuova ventata di semplicità e naturalezza che ne ha smussato<br />
le esasperazioni e gli eccessi formali in un clima di sentito dolore, di maggiore umanità.<br />
Ne sono complici l’accentuazione drammatica del timbro chiaroscurale e le morbide<br />
gamme cromatiche, delicate e sfumate, che sembrano accennare a un simbolismo dei<br />
colori, contribuendo a creare un tono maggiormente partecipato.<br />
Il panorama dunque stava cambiando e <strong>il</strong> gusto eccentrico, elegante e raffinato degli<br />
artefici dello Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio, attivi fra <strong>il</strong> 1570 e <strong>il</strong> 1572,<br />
lasciava <strong>il</strong> posto a una più aperta visione <strong>della</strong> vita e delle cose, a un sentire via via più<br />
umano e sincero, meno distante dalle emozioni interiori. Inoltre l’adeguamento del<br />
linguaggio artistico agli ideali tridentini di convenienza e verosimiglianza poteva<br />
ricollegarsi e basarsi sugli esempi recenti – e mai dimenticati – di inizio secolo: <strong>il</strong><br />
classicismo devoto di Fra’ Bartolomeo e <strong>il</strong> patetismo affidab<strong>il</strong>e di Andrea del Sarto. In<br />
questo senso, vera e propria “palestra” per gli artisti riformati fiorentini fu <strong>il</strong> ciclo di<br />
affreschi con le Storie di san F<strong>il</strong>ippo Benizzi, eseguiti da Andrea nel chiostrino dei Voti<br />
dell’Annunziata, che indicava come si potesse fare arte sacra in forme semplici, ma<br />
connotate dalla verità degli affetti e dalla nob<strong>il</strong>tà delle ambientazioni (FIG. 9).<br />
La svolta in questa direzione avviene soprattutto grazie alla personalità di Santi di<br />
Tito 2 , principale innovatore toscano del lessico degli ultimi decenni del Cinquecento.<br />
Nativo <strong>della</strong> provincia aretina, dopo un soggiorno romano durato dal 1548 al 1564, si<br />
stab<strong>il</strong>ì a Firenze, divenendo <strong>il</strong> protagonista di una riforma pittorica che ambiva a un<br />
duplice obiettivo: la profonda revisione <strong>della</strong> cultura manieristica e l’adesione agli ideali<br />
e ai programmi del rinnovamento religioso contro riformato. Per ottenere tali obiettivi,<br />
Santi si rivolse agli esempi dei già ricordati maestri di inizio Cinquecento, che<br />
attraverso la correttezza del disegno f<strong>il</strong>travano i dati del reale. Per riportare alla<br />
memoria la sensib<strong>il</strong>e attenzione e la spontaneità semplice e quotidiana del suo<br />
esprimersi, dobbiamo guardare queste quattro tavolette dove si narrano le sette opere di<br />
misericordia, eseguite dal pittore nel 1579 per l’Arciconfraternita omonima di Firenze:<br />
Dare da bere agli assetati, Vestire gli ignudi, Alloggiare i pellegrini e Visitare i<br />
carcerati (FIG. 10-13). Oltre al caratteristico st<strong>il</strong>e “colloquiale”, delicato e vivo nei toni<br />
di una narrazione che acquista un sapore naturale e spontaneo, Santi di Tito introduce<br />
2 Nato a San Sepolcro, in provincia di Arezzo nel 1536 e morto a Firenze nel 1603.<br />
4
un senso <strong>della</strong> religiosità più partecipe e vicina al fedele, frutto del proprio sentito<br />
legame con le confraternite laicali cittadine, al punto che colui che riceve <strong>il</strong> conforto<br />
delle opere di misericordia è Cristo in persona. Questi elementi si affermano pienamente<br />
anche nelle opere mature dell’artista, come la grande pala con la Visione di san<br />
Tommaso <strong>della</strong> chiesa di San Marco a Firenze, dove l’evento miracoloso si realizza in<br />
condizioni di perfetta naturalezza (FIG. 14). Evidente è anche <strong>il</strong> recupero arcaizzante di<br />
strutture prospettiche e modi compositivi neoquattrocenteschi, come nella Cena in<br />
Emmaus di Santa Croce e nell’Entrata di Gesù a Gerusalemme, in cui la veridicità<br />
dell’intento catechistico si esprime con chiarezza e grande politezza delle forme (FIG.<br />
15 e 16).<br />
Assieme a Santi di Tito, altri giovani artisti come Bernardino Poccetti, Jacopo da<br />
Empoli, Agostino Ciampelli e Andrea Commodi partecipano al cambiamento, in un<br />
clima in cui l’avvento controriformistico non rende certo congeniale la personale<br />
autonomia di espressione; benché l’essere chiamati ad importanti imprese pontificie, o<br />
comunque ecclesiastiche, rappresenti un’occasione di grande prestigio. Ciò permetteva<br />
di affacciarsi sulla scena artistica, ma significava pur sempre essere al servizio di una<br />
rigida politica delle immagini. Per questo motivo dobbiamo cercare di capire lo sforzo<br />
che dovevano effettuare i talenti più originali per aggirare le rigide norme di una<br />
rappresentazione iconografica per lo più limitante, e intuire quegli accenni di originalità<br />
che le personalità più indipendenti riescono talvolta a far emergere, assumendo una<br />
valenza fondamentale per la svolta artistica che avverrà a breve.<br />
Fra esse spiccano alcuni artisti, quali Alessandro Allori, Ludovico Cigoli e Jacopo<br />
Ligozzi – quest’ultimo nostro trait d’union con l’importante tela di Pietrabuona in<br />
Valleriana –.<br />
L’arrivo a Firenze del giovane Jacopo Ligozzi fu di certo di grande stimolo<br />
nell’orientare la scelta delle politiche figurative verso una visione più naturalistica, ma<br />
anche i comuni interessi verso Venezia dei contemporanei Cigoli e Passignano aprirono<br />
la strada ad un’importante strategia <strong>della</strong> luce e del colore, che dette i suoi frutti<br />
soprattutto verso la metà del secolo XVII. Del veronese Ligozzi, dovette colpire la vena<br />
poetica, la serenità espressiva, la predisposizione al naturale, che sfocia nella scientifica<br />
minuta attenzione per i dettagli, che l’artista doveva avere già ben saldi. Jacopo nasce a<br />
Verona nel 1547, ma svolge gran parte <strong>della</strong> propria attività a Firenze dove, a parte<br />
brevi viaggi nella città natale, a Mantova e a Roma, rimane fino alla morte – avvenuta<br />
nel 1627). Egli risulta immatricolato a Firenze nel 1578 all’Accademia di San Luca, ma<br />
5
<strong>il</strong> suo arrivo in città risale all’anno precedente ed è legato alla sua straordinaria pratica<br />
di disegnatore di naturalia, di riproduttore di aspetti rari, scientifici e curiosi, che<br />
esegue per <strong>il</strong> granduca Francesco I e per <strong>il</strong> naturalista bolognese Ulisse Aldovrandi<br />
(FIG. 17). Nella serie dei Pesci e in quella dei Volat<strong>il</strong>i e insetti abbinati a piante<br />
emergono una strenua aderenza al vero e una curiosità lucida e appassionata per<br />
l’analisi del mondo visib<strong>il</strong>e, che sembrano anticipare <strong>il</strong> clima scientifico che, con<br />
Gal<strong>il</strong>eo Gal<strong>il</strong>ei, aprì l’Europa al metodo <strong>della</strong> ricerca sperimentale. Proprio a questa<br />
esperienza di miniatore si può ricollegare la ricerca dei particolari, l’attenzione per i<br />
dettagli, che vengono scrupolosamente indagati e riprodotti per gli aspetti curiosi, anche<br />
nei temi d’arte sacra, tanto che spesso possono essere riconoscib<strong>il</strong>i anche ascendenze<br />
con la pittura nordica, che egli ebbe modo di studiare nella sua natia Verona. È <strong>il</strong> caso<br />
del San Girolamo penitente, a lui recentemente attribuito, descritto in un momento di<br />
meditazione, con un libro aperto tra le mani, di fronte ad un semplice crocifisso ligneo<br />
conficcato nella pietra. <strong>il</strong> santo è, come di consueto, seminudo, coperto solo dal<br />
mantello fermato alla vita da un nastro (FIG. 18). Al suo fianco la tipica fiera<br />
ammansita ricorda <strong>il</strong> miracolo del leone addomesticato a cui <strong>il</strong> santo aveva tolto una<br />
spina dalla zampa. Il volto di san Girolamo è teso e segnato da un netto chiaroscuro, gli<br />
occhi sono concentrati sul crocifisso con uno sguardo profondo, mentre <strong>il</strong> corpo è ben<br />
definito nella sua possente muscolatura. L’ambiente è spoglio, un’abitazione diroccata<br />
che si apre verso un paesaggio che si perde in lontananza. Pochi oggetti adornano la<br />
scena: in primo piano due elementi, come memento mori, cioè <strong>il</strong> teschio <strong>della</strong><br />
meditazione, rivolto verso lo spettatore con un’espressione quasi di scherno, e la<br />
clessidra da cui inesorab<strong>il</strong>e scende un f<strong>il</strong>o di sabbia. Alle spalle del santo una piccola<br />
immagine devozionale <strong>della</strong> sacra famiglia, pochi libri appoggiati su una mensola<br />
retrostante culminanti con una mela e una boccetta di vetro colma a metà. La minuta<br />
indagine verso <strong>il</strong> dato reale coinvolge tutta nella scena raffigurata: i cunei di legno che<br />
servono ad incastrare la croce nella pietra, <strong>il</strong> ramoscello flessib<strong>il</strong>e che lega <strong>il</strong> braccio di<br />
quest’ultima alla corteccia che lo contiene e addirittura la riproduzione delle annotazioni<br />
a margine del testo del codice.<br />
Il San Girolamo è un tema con <strong>il</strong> quale <strong>il</strong> pittore si cimenta diverse volte all’interno<br />
<strong>della</strong> sua attività pittorica, modificando sempre la composizione, in una continua ricerca<br />
sperimentale. Ligozzi adegua a sv<strong>il</strong>uppa <strong>il</strong> soggetto ma imposta <strong>il</strong> dipinto sempre in<br />
modo semplice e chiaro, mostrando particolare attenzione verso la costruzione dello<br />
spazio pittorico, regolato da una rigorosa prospettiva e ricercando un attento<br />
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<strong>il</strong>anciamento dei volumi <strong>della</strong> composizione. Interessante e doveroso è <strong>il</strong> confronto<br />
con le altre due tele con <strong>il</strong> medesimo tema: <strong>il</strong> San Girolamo penitente di Casa Vasari ad<br />
Arezzo e <strong>il</strong> San Girolamo sorretto da un angelo del convento di San Giovannino degli<br />
Scolopi a Firenze, datato 1593 (FIG. 19-20). L’episodio del santo, così come<br />
tramandatoci dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, viene ogni volta reinventato.<br />
Nella prima tela poc’anzi discussa si pred<strong>il</strong>ige l’interpretazione del santo come dottore<br />
<strong>della</strong> chiesa e uomo di lettere; per questo viene rappresentato con l’evidente<br />
anacronismo degli occhiali da ut<strong>il</strong>izzare per leggere i testi sacri. Nella tela di Arezzo si<br />
descrive invece <strong>il</strong> momento <strong>della</strong> mortificazione, in cui <strong>il</strong> santo inginocchiato si<br />
percuote <strong>il</strong> petto con una pietra, e rivolge lo sguardo al crocifisso. La situazione è<br />
differente, ma gran parte dell’allestimento scenico e prospettico mostra evidenti affinità:<br />
sim<strong>il</strong>i sono infatti i brani di natura morta che circondano la figura, <strong>il</strong> teschio, la clessidra<br />
e l’immagine devozionale che ricompare in questi dipinti. Si tratta <strong>della</strong> semplice<br />
stampa acquerellata e stropicciata, tipica reliquia di pellegrini e viandanti, che si ritrova<br />
anche nell’altra tela appena ricordata del San Girolamo sorretto da un angelo. In questo<br />
caso la scena è decisamente più complessa e articolata, ma gli elementi dello sfondo<br />
sono ancora sim<strong>il</strong>i ed è ugualmente riconoscib<strong>il</strong>e la mano del Ligozzi: <strong>il</strong> nitido taglio<br />
delle pietre del suolo, la disposizione dei libri sulle mensole in equ<strong>il</strong>ibrio precario, la<br />
medesima boccetta di vetro in una ricercata impostazione prospettica, lo stesso<br />
crocifisso su cui uguale è la ricaduta <strong>della</strong> luce che crea un’ombra sulla schiena del<br />
Cristo.<br />
Anche continuando <strong>il</strong> confronto con dipinti di differente soggetto, restano evidenti i<br />
rimandi al pittore: la stessa pietra con profonde spaccature si ritrova nella Pietà con <strong>il</strong><br />
Tempo e la Morte – in collezione Drury Lowe –, la struttura del corpo del san Girolamo<br />
richiama le figure <strong>della</strong> pala con la Trinità e i santi Agostino, Pietro, Luigi re di Francia<br />
e Antonio abate – eseguita per la chiesa di Sant’Eufemia di Verona – in cui si possono<br />
verificare raffronti nel possente chiaroscuro, nella caratterizzazione <strong>della</strong> fisionomia dei<br />
volti e nell’accuratezza nella descrizione delle barbe fluenti e incanutite (FIG. 21).<br />
Al medesimo artista va inoltre ascritta questa affascinante e nob<strong>il</strong>e figura di San<br />
Paolo, monumentale e solida, con le gambe ben piantate sul basamento in pietra appena<br />
accennato e immersa nella penombra, con due raggi di luce alle sue spalle che sembrano<br />
quasi suggerire la croce di un sant’Andrea, nella quale appare ancora viva la<br />
suggestione <strong>della</strong> pittura veneta, dal caldo impasto cromatico agli splendidi riflessi di<br />
gusto tintorettiano (FIG. 22). È un venetismo forte e vigoroso, che non manca di<br />
7
mostrare ricordi manieristi dell’Italia centrale e che va fatto risalire ad un periodo<br />
successivo. Ma ciò che più colpisce, al di là <strong>della</strong> forte e monumentale presenza <strong>della</strong><br />
figura, appoggiata sul piede sinistro avanzato sulla lastra che ci appare in primo piano, è<br />
la somiglianza che si evince nella stesura secca dei panneggi e nei giochi delle pieghe<br />
che ricadono pesanti. Vi si respira una fisicità tutt’altro che apparente, ma nell’insieme<br />
<strong>il</strong> santo incarna una profonda ricerca psicologica che Ligozzi crea ripercorrendo la storia<br />
<strong>della</strong> ritrattistica del Rinascimento, ispirandosi a quella interiorizzazione d’animo e di<br />
sentimenti, di forza e di carattere che è alla base dell’intensità trasmessa da questo<br />
personaggio.<br />
Per certi versi <strong>il</strong> San Paolo si collega alle opere del pittore appartenenti alla sua<br />
maturità, come nella Madonna col Bambino e san Francesco di Palazzo Pitti, firmato e<br />
datato 1621 (FIG. 23). Il naturalismo delle figure e la severità di certi volti si avvicinano<br />
al primo dipinto menzionato, che risulta essere cronologicamente più prossimo ad una<br />
fase del San Francesco in preghiera davanti al crocifisso (FIG. 24). Punti di contatto e<br />
tangenze che leggiamo anche in quest’altro sorprendente quadro di soggetto sim<strong>il</strong>are,<br />
conservato nella chiesa romana di San Giovanni dei Fiorentini (FIG. 25). La visione<br />
lunare e surreale nella quale è ambientato l’episodio mistico e assolutamente fantastica,<br />
poetica e insieme fiabesca, con un insieme di componenti nordiche che rispecchiano gli<br />
interessi e le ricerche che Jacopo attua nel campo dello studio <strong>della</strong> natura, attento e<br />
preciso, descrittivo e minuto, come nell’analitica indagine del sottobosco in primo<br />
piano, con rovi e fronde, con <strong>il</strong> tronco spezzato e con <strong>il</strong> libro aperto sul teschio.<br />
Affascinante poi appare la soluzione dei raggi luminosi che trapassano le nubi e i rami,<br />
che rimanda <strong>il</strong> pensiero a Elsheimer o al giovane Rubens mentre nello sfondo collinare<br />
colpito dalla luce fredda ricorrono modelli più comuni ai fiamminghi in Italia, come<br />
Paul Br<strong>il</strong>l.<br />
Infine, con semplicità e verosimiglianza figurativa e con uso di strumenti atti al<br />
coinvolgimento emotivo e alla suggestione fantastica dell’osservatore <strong>il</strong> Ligozzi dipinge<br />
ad affresco alcune lunette con Storie di san Francesco del chiostro di Ognissanti e <strong>il</strong><br />
Martirio di san Lorenzo a Santa Croce a Firenze (FIG. 26 e 27). Vedremo più avanti<br />
come <strong>il</strong> suo Cristo Bambino Redentore di Pietrabuona debba essere riconosciuto come<br />
una delle opere più innovative del panorama artistico <strong>della</strong> Svizzera pesciatina.<br />
Alessandro Allori, che dopo la morte di Vasari si dimostrò essere <strong>il</strong> principale<br />
protagonista <strong>della</strong> cultura pittorica fiorentina, appare più di altri come baluardo <strong>della</strong><br />
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tradizione artistica locale, legato alla pittura del Bronzino, suo maestro. Sv<strong>il</strong>uppò,<br />
pertanto, nelle opere a soggetto sacro – quali <strong>il</strong> Cristo e l’adultera di Santo Spirito e<br />
l’Annunciazione per le monache di Montedomini, oggi all’Accademia – un linguaggio<br />
chiaro e al tempo stesso prezioso, che risponde pienamente alle esigenze di immediata<br />
comprensib<strong>il</strong>ità e al misticismo dell’ultimo quarto del secolo (FIG. 28 e 29). Questo<br />
aspetto domestico e devoto divenne stereotipo nelle opere <strong>della</strong> sua produzione tarda,<br />
con <strong>il</strong> ripetersi di tavole gremite di personaggi e ricche di suppellett<strong>il</strong>i.<br />
Con Jacopo Chimenti, conosciuto come l’Empoli, diviene particolarmente chiaro<br />
quanto sia stato fondamentale l’innesto del colorismo veneto nella pittura toscana, in<br />
particolare nella perduta pala dell’Assunta raffigurante gli Apostoli attorno al sepolcro,<br />
eseguita entro <strong>il</strong> primo decennio del nuovo secolo per la chiesa fiorentina di San<br />
Michele Visdomini (FIG. 30). Dai singoli dettagli si evince bene quanto anche lui sia<br />
rimasto colpito dall’impasto pittorico denso, reso cromaticamente vivace da game di<br />
colore vivo. La parte mancante <strong>della</strong> tela doveva corrispondere all’immagine<br />
dell’Assunta del Seminario Arcivescov<strong>il</strong>e di Firenze o, forse ancora di più, a quella<br />
nella chiesa dei Santi Michele e Lorenzo di Montevettolini e <strong>della</strong> pala con la Vergine in<br />
gloria nella chiesa di Santa Margherita a Cortona (FIG. 31 e 32).<br />
Nel 1559 cade la data di nascita di due artisti fondamentali per <strong>il</strong> rinnovo <strong>della</strong><br />
cultura figurativa fiorentina, Domenico Cresti detto <strong>il</strong> Passignano 3 e Ludovico Cardi<br />
detto <strong>il</strong> Cigoli 4 , accomunati anche dal soprannome del rispettivo luogo d’origine. Se per<br />
<strong>il</strong> Cresti, la giovan<strong>il</strong>e lezione manierista – sostenuta dall’apprendistato presso Federico<br />
Zuccari, che era giunto a Firenze nel 1575 per ultimare la decorazione ad affresco <strong>della</strong><br />
cupola di Santa Maria del Fiore lasciata incompiuta l’anno precedente per la morte di<br />
Giorgio Vasari – viene ammorbidita e sfumata dal soggiorno veneziano, la passione per<br />
<strong>il</strong> colore dei veneti è innata per <strong>il</strong> Cardi, che ne apprezza le valenze anche attraverso<br />
Correggio e le opere del Barocci. Passignano gode naturalmente <strong>della</strong> sua manifesta<br />
sicurezza di derivazione zuccaresca, che si esprime in termini di monumentale presenza<br />
dei corpi e di un equ<strong>il</strong>ibrio scenico compositivo, ambientato sempre più con chiaroscuri<br />
avvolgenti. Di sicura mano del Cresti è questo interessate foglio di Studi per Tobia che<br />
rende la vista al padre e per un’Adorazione dei Magi, che sul retro ci mostra anche <strong>il</strong><br />
progetto assai veloce, a carboncino, per una cappella, con la veduta frontale e quella<br />
laterale di prof<strong>il</strong>o (FIG. 33 e 34). Un segno scorrevole, continuo e fluente, estremamente<br />
veloce e nel contempo vibrante, caratterizza questo disegno ricco di molte idee<br />
3 Nato a Passignano, in provincia di Firenze nel 1559 e morto a Firenze nel 1638.<br />
4 Nato a Cigoli, in provincia di Pisa, nel 1559 e morto a Roma nel 1613.<br />
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progettuali. Si tratta per lo più di schizzi a sola penna, riquadrati, per avere già l’idea<br />
<strong>della</strong> sua realizzazione. Per <strong>il</strong> Tobia che rende la vista al padre abbiamo uno studio più<br />
grande al centro, e un altro sulla destra in basso, più contrastato perché realizzato con<br />
l’acquerello, mentre immediatamente sopra quest’ultima scena, quasi a sormontare, la<br />
figura schizzata di Tobia che si protende. Nella parte superiore del foglio altre soluzioni<br />
velocemente schizzate: la prima idea per un’Adorazione dei Magi e altre due più piccole<br />
di non semplice decifrazione, forse per lo stesso Tobia. Il disegno si confronta<br />
fac<strong>il</strong>mente con gli esemplari nella medesima tecnica, alcuni dei quali riferib<strong>il</strong>i<br />
all’impresa su ardesia in Palazzo Vecchio realizzata dal Passignano nel 1597, in seguito<br />
alle due grandi scene dipinte dal Ligozzi, interessante per i disegni preparatori che di<br />
essa conosciamo, entrambi a penna e inchiostro bruno, con la Cerimonia d’investitura –<br />
oggi a Chicago – e quello agli Uffizi che raffigura la Cerimonia di un matrimonio<br />
principesco, insieme agli altri due sempre agli Uffizi che con essi si relazionano,<br />
raffiguranti gli studi per l’Ultimo commiato fra i santi Pietro e Paolo. Corrispondono le<br />
teste a forma ovoidale e la tendenza alla semplificazione delle forme dei corpi,<br />
all’improvvisazione e alla modifica sopra la modifica. Assai convincente è anche <strong>il</strong><br />
confronto con <strong>il</strong> disegno di San Pietro guarisce lo storpio, per la folle vivacità del segno<br />
a penna assai fluente, con in più l’acquarello rispetto al nostro, preparatorio per la pala<br />
già in San Pier Maggiore e oggi a Lucca (FIG. 36). L’energia e la velocità sono aspetti<br />
che accomunano <strong>il</strong> segno del Passignano con la grafica a penna del Cigoli, benché<br />
questo ultimo sia più secco e tagliente rispetto all’insistenza curv<strong>il</strong>inea nervosa del<br />
Cresti. Li accomuna anche l’abitudine a schizzare sul medesimo foglio più scenette e<br />
studi completi di quadri anche di soggetti differenti, come vediamo in vari esempi di<br />
disegni conservati al Louvre, nel foglio con la Madonna del Rosario. All’idea che gli<br />
artisti si formassero ancora sugli studi dal vero, che nel caso del Passignano è per altro<br />
già nota grazie allo Studio di scheletro girato verso sinistra conservata al Louvre,<br />
abbiamo una conferma nel ritrovamento di questo Studio di anatomia masch<strong>il</strong>e che è<br />
stato attribuito al Cresti (FIG. 37). Il segno ondulato e sinuoso appare <strong>il</strong> medesimo che<br />
abbiamo r<strong>il</strong>evato nell’altro foglio, poiché essenziale nel tratto ed interessante per la<br />
definizione ovoidale che l’artista crea nella ricostruzione delle proporzioni del busto.<br />
Ludovico Cardi detto <strong>il</strong> Cigoli, è certo <strong>il</strong> più dotato in termini di creatività e di<br />
originalità, legato com’è mentalmente ai ghiribizzi manieristi, anche rudolfine,<br />
sapientemente aggiornate sul versante lagunare, con l’impasto cromatico tizianesco, sui<br />
recuperi correggeschi e sul dialogante accordo con Barocci. Nelle sue opere si colgono<br />
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le principali caratteristiche di novità e di autonomia che lo fanno uno dei più originali<br />
innovatori <strong>della</strong> pittura fiorentina. Avversario delle ultime fazioni del manierismo<br />
toscano, <strong>il</strong> Cigoli sa aggiornare le fonti del suo st<strong>il</strong>e, sugli artisti che hanno rinnovato la<br />
pittura di fine secolo, da un lato Annibale e Ludovico Carracci e dall’altro Federico<br />
Barocci, per vedere le opere del quale compie viaggi ad Arezzo e a Perugia. Allievo<br />
dell’Allori e del Buontalenti, inizia a lavorare come architetto di apparati scenici e<br />
organizzatore di feste alla corte medicea. Grazie alle sue doti di pittore, oltre che di<br />
scenografo e prospettico, è ammirato e protetto dei Medici. E proprio i saldi rapporti<br />
intessuti con la corte dovettero favorire <strong>il</strong> suo impegno. La fierezza che incarna <strong>il</strong><br />
Ritratto di Giovanni de’ Medici, giovane condottiero impettito davanti alle tende del<br />
proprio accampamento, rispecchia ancora pienamente lo spirito dell’uomo del<br />
Rinascimento (FIG. 38). Cigoli lo dipinge nel 1596, come indica la scritta in basso a<br />
sinistra. Il personaggio effigiato, conosciuto come don Giovanni, figlio di Cosimo I e di<br />
Eleonora degli Albizi, nasce nel 1567 e, come <strong>il</strong> suo famoso antenato del quale porta <strong>il</strong><br />
nome, fa carriera m<strong>il</strong>itare al servizio di F<strong>il</strong>ippo II di Spagna e di Alessandro Farnese<br />
nelle Fiandre, fino ad essere nominato, nel 1595, generale dell’artiglieria imperiale di<br />
Rodolfo II d’Asburgo contro i Turchi. Oltre a essere stato un condottiero, come ci viene<br />
tramandato da questa immagine che lo immortala nella carica di generale da poco<br />
conseguita, don Giovanni è stato un importante ingegnere e architetto. Con una stesura<br />
pittorica densa e corposa, cromaticamente vivace, <strong>il</strong> dipinto rivela quella suggestione<br />
veneta cara ai pittori fiorentini di quegli anni, in questo caso arricchita di riflessi dorati<br />
sui tessuti delle maniche e sulle tende, creati con screziature e colpi rapidi del pennello<br />
fin sull’elsa, sulle bordure e sui finimenti. Nella robusta severità del fiero aspetto e per<br />
certi brani di solido neovenetismo, <strong>il</strong> Cigoli qui si accosta ai modi dell’amico<br />
Passignano, limitando l’originalità al brano con i soldati che appaiono nel fondo fra le<br />
tende e nei ciuffi mossi dei capelli ondulati del generale.<br />
Al Cigoli è stata giustamente ricondotta questa sensuale e, per i tempi, anche<br />
provocatoria immagine di Venere con l’amorino che mostra gli attributi di Marte (FIG.<br />
39). La Venere è nuda, distesa su un tappeto di morbido velluto rivestito dal candido<br />
lenzuolo col bordo ricamato e presenta le sembianze di un ritratto. Il volto, che è<br />
indagato con minuzia di dettagli, richiama la raffinatezza di certe tipologie <strong>della</strong> corte<br />
medicea e, sebbene riguardi probab<strong>il</strong>mente l’immagine di una cortigiana, per la qualità e<br />
l’importanza <strong>della</strong> committenza, potrebbe anche trattarsi di un’opera legata alla corte<br />
medicea. Elegante nell’acconciatura, con i capelli raccolti dietro la nuca e un velo che le<br />
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scende sulle spalle, la donna, forse una bella dama cara al committente per <strong>il</strong> tono<br />
licenzioso con <strong>il</strong> quale si esibisce, è agghindata con orecchini, un bracciale in oro<br />
tempestato di pietre preziose e un semplice velo trasparente che le scivola sulle gambe.<br />
Lo sguardo intenso <strong>della</strong> dama fissa l’osservatore mentre viene distratta dall’amorino<br />
alato che le mostra la corazza dell’amato accanto all’elmo e allo scudo. Le mani, assai<br />
sim<strong>il</strong>i nella fattura a quelle del Ritratto suddetto, si appoggiano l’una elegantemente sul<br />
velluto e l’altra a tenere <strong>il</strong> velo sulle gambe. L’opera risale alla prima maturità del<br />
pittore, per la freschezza esecutiva suggellata dalle raffinatezze di talune scelte<br />
cromatiche, realizzate con un colore pregnante e ricco di increspature, proprio perché<br />
steso velocemente, con grande maestria e non esente da pentimenti. Alle tonalità<br />
br<strong>il</strong>lanti delle lumeggia ture si affiancano più delicati accordi dorati o la finezza in<br />
chiave fiamminga del paesaggio, a un passo dai modi allora ben noti di Paul Br<strong>il</strong>l.<br />
La presenza del Cigoli a Roma, nel 1604, è legata al prestigioso incarico per la<br />
bas<strong>il</strong>ica di San Pietro, dove esegue la lavagna con San Pietro che guarisce uno storpio<br />
(FIG. 40). Negli anni successivi alterna ancora alcuni soggiorni fiorentini fino al<br />
definitivo stab<strong>il</strong>irsi nell’Urbe nel 1609. Risale al successivo soggiorno romano l’Ecce<br />
Homo del 1607 che monsignor Massimi vuole accompagnare a quello che già<br />
possedeva del Caravaggio (FIG. 41). La conquistata fama fa sì che <strong>il</strong> pittore si<br />
trasferisca in città, lavorando per <strong>il</strong> cardinale Scipione Borghese e per papa Paolo V. Tra<br />
le opere di questi ultimi anni si ricordano la celebre tela raffigurante la Castità di<br />
Giuseppe, del 1610, per <strong>il</strong> cardinale Borghese, l’affresco con l’Immacolata Concezione,<br />
apostoli e cori di angeli nella cupola <strong>della</strong> cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, e<br />
gli affreschi con la Favola di Psiche nella loggia del sunnominato cardinale al<br />
Quirinale, tra <strong>il</strong> 1611 e <strong>il</strong> 1613 (FIG. 42).<br />
Alla maturità del Cigoli appartengono questo splendido Studio del volto di un frate<br />
francescano, con <strong>il</strong> capo leggermente reclinato, caratterizzato da una profonda e<br />
sensib<strong>il</strong>e ricerca psicologica, dall’intenso e riflessivo sguardo rivolto all’osservatore,<br />
venato di sott<strong>il</strong>e malinconia che ci colpisce per la sincera espressione dei sentimenti,<br />
l’insolita solidità e <strong>il</strong> vigore del personaggio (FIG. 43). L’inedito dipinto si pone in<br />
relazione con altre due opere verosim<strong>il</strong>mente appartenute alla medesima serie, tutte<br />
dipinte su un foglio di carta dalla sim<strong>il</strong>i dimensioni, raffiguranti degli Studi di teste di<br />
frati, una con l’iscrizione sul recto in antico e l’altra emersa a Parigi, sul mercato<br />
antiquario (FIG. 44-45). In entrambe si legge la medesima ricerca, forse più spigliata nel<br />
primo, con <strong>il</strong> viso inquadrato frontalmente, velocemente abbozzato e vitale<br />
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nell’incarnato, rispetto alla sensib<strong>il</strong>ità introspettiva che anima l’indagine del volto del<br />
secondo frate, più in sintonia con la profonda sensib<strong>il</strong>ità di quello con <strong>il</strong> volto reclinato,<br />
che precorre certi modi espressivi riconducib<strong>il</strong>i alla tipologia ispirata dal Rosselli. Gli<br />
studi di teste si confrontano molto bene anche con <strong>il</strong> viso <strong>della</strong> Maddalena di San<br />
Miniato, particolarmente sensuale e datab<strong>il</strong>e verso <strong>il</strong> 1610 (FIG. 46).<br />
ALCUNI EPOSIDI ISOLATI TRA SIENA, LUCCA E LA PROVINCIA FIORENTINA.<br />
Anche nelle città <strong>della</strong> provincia toscana è in atto un fermento nuovo, che vive in<br />
parallelo al manifestarsi delle soluzioni finora espresse dalla cultura figurativa. Se<br />
durante la seconda metà del Cinquecento <strong>il</strong> panorama artistico senese verrà dominato<br />
dall’elegante formula manierista rivestita dalla delicata sensualità del barocchismo di<br />
artisti come Ventura Salimbeni e Francesco Vanni, in piena coerenza con le loro scelte<br />
lessicali si esprime anche <strong>il</strong> più anziano Alessandro Casolani che è protagonista <strong>della</strong><br />
scena pittorica locale. A lui spetta questa deliziosa Sacra Famiglia con l’angelo custode<br />
che è come una vera e propria adorazione del Bambino, interamente concentrata attorno<br />
ai protagonisti in un dialogo di gesti semplici e sinceri, di affetti e di emozioni<br />
spontanee (FIG. 47). Raffigura l’ideale consegna del Bambino all’angelo custode;<br />
un’immagine rara, di serena e calda intimità, ove gli accordi cromatici, sebbene in<br />
sintonia con le gamme dei contemporanei Salimbeni e Vanni, appaiono più accesi e<br />
vivi, con una caratterizzazione meno simbolica e più concreta, che bene si intende anche<br />
nella vena pittorica carica di colore denso e corposo, estremamente vivace nella<br />
pennellata di ricordo veneto. Basta osservare la sensib<strong>il</strong>e velocità con cui realizza lo<br />
scorcio in alto a destra, con l’annuncio dell’angelo, i tocchi <strong>della</strong> vegetazione qua e là<br />
nel fondale di ruderi, o la grazia delicata <strong>della</strong> screziatura nei toni pastello delle ali<br />
dell’angelo custode. Una sinfonia di accordi delicati e intensi, trasparenti e pieni che<br />
rende questa tela un piccolo capolavoro di sensib<strong>il</strong>ità, un’intima pausa di riflessione e<br />
preghiera.<br />
La competizione tra i grandi artisti fiorentini si sposta, nel frattempo, anche a Lucca,<br />
dove costoro si fronteggiano in varie sedi. Nel percorso del Passignano va ricordato <strong>il</strong><br />
legame che lo ha impegnato in questa città, attraverso le pale d’altare nel duomo di San<br />
Martino, nella prima cappella a destra la Natività del 1594 e nella quarta dallo stesso<br />
lato la Crocifissione del 1598, ma anche <strong>il</strong> San Pietro risana lo storpio che, insieme alla<br />
Consegna delle chiavi a Pietro di Federico Zuccari, del 1593, si trovava nella chiesa<br />
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lucchese di San Pier Maggiore, oltre al San Giacinto risuscita un fanciullo annegato in<br />
San Romano e al Noli me Tangere in San Francesco. Ma anche Ligozzi, sempre per <strong>il</strong><br />
duomo, realizza la Visitazione del 1596 (FIG. 48), sul secondo altare a sinistra, quando<br />
già due anni prima, nel 1594, era venuto a Lucca a decorare con affreschi l’oratorio<br />
<strong>della</strong> confraternita del Nome di Gesù, oggi perduto, con quella solenne Circoncisione<br />
(FIG. 49), esposta ora in sacrestia del duomo che, insieme all’Adorazione del nome di<br />
Gesù e al Battesimo di Gesù, le facevano da laterali nella cappella. I due artisti si<br />
conoscono e si studiano; le loro opere rispecchiano questi legami di libero scambio e di<br />
comune suggestione. E Cigoli dipinge una Adorazione dei Magi, già in Sant’Agostino e<br />
ora al Museo di V<strong>il</strong>la Guinigi di Lucca, replica di quella di San Pier Maggiore a Firenze<br />
(FIG. 50). Tali influenze dovettero essere stimolanti per i rari artisti locali di un certo<br />
valore tra i quali riteniamo meriti attenzione <strong>il</strong> seguente pittore.<br />
In questo Martirio di santa Agnese, <strong>il</strong> pittore lucchese Paolo Guidotti coniuga<br />
l’elegante lezione senese di Salimbeni e Vanni, che si esplica nelle tonalità chiare e<br />
fredde e in certe increspature dei prof<strong>il</strong>i aguzzi e delle vesti, alle novità in senso<br />
naturalistico e monumentale proposte dal Ligozzi, per esempio nella Visitazione in<br />
duomo a Lucca (FIG. 51). Il risultato è una immagine aspra e un poco tagliente, una<br />
visione cruda, in primo piano, ravvicinata ed essenziale nel suo realismo. Tutti gli<br />
elementi simbolici necessari sono concentrati sul patibolo del palcoscenico di una città<br />
che ha la funzione di fondale, tutto chiuso e serrato. Le fisionomie dei volti si<br />
confrontano infatti con quelle dipinte nella pala <strong>della</strong> Vergine che porge <strong>il</strong> Bambino a<br />
sant’Agnese da Montepulciano nella chiesa di San Romano a Lucca, con quella di Santa<br />
Zita che disseta un pellegrino (FIG. 52), nella guardaroba <strong>della</strong> chiesa di San Frediano,<br />
e con alcune espressioni nell’Allegoria <strong>della</strong> Libertà lucchese del 1611, un’opera di<br />
committenza pubblica dipinta al suo ritorno in patria dopo <strong>il</strong> soggiorno romano (FIG.<br />
53). È proprio a Roma che <strong>il</strong> pittore aveva potuto approfondire le ricerche in direzione<br />
naturalistica. Il legame di dipendenza dal Ligozzi non si limita alle opere lucchesi:<br />
numerosi sono i richiami del veronese, ad esempio, nel dipinto del Martirio di san<br />
Lorenzo, datato 1611 e dipinto per Santa Croce a Firenze. Non solo, anche l’elmo del<br />
soldato di spalle ai suoi piedi pare la citazione più appropriata tratta dal maestro<br />
veronese. Si comprende quindi <strong>il</strong> suo sv<strong>il</strong>uppo in direzione naturalistica ma senza<br />
abbandonare i ricordi manieristi, individuab<strong>il</strong>i nel Mosè fa scaturire l’acqua dalla<br />
roccia (FIG. 54), nella tribuna del duomo di Pisa, e nell’Ultima cena <strong>della</strong> pieve di<br />
Santa Maria Assunta a Fabbrica di Peccioli (FIG. 55), dove <strong>il</strong> pittore cerca nuovamente<br />
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la fusione degli elementi ligozziani con le prime istanze lucchesi, sulla ricerca del lume,<br />
sulle ombre e a favore di un naturalismo inquieto, di rude e greve spontaneità, che<br />
certamente doveva colpire giovani artisti come Paolini, che presso di lui forse mosse i<br />
primi passi nell’arte <strong>della</strong> pittura.<br />
Significativo per la cultura figurativa toscana è pure <strong>il</strong> forzato soggiorno lucchese di<br />
Giovan Battista Paggi, fuggito dalla sua città natale Genova a causa dell’omicidio<br />
compiuto per legittima difesa, dopo l’aggressione subita da parte di un nob<strong>il</strong>e in seguito<br />
alla lite nata per <strong>il</strong> mancato pagamento di un dipinto. Da qui la fuga verso sud, prima d<br />
Aulla e poi a Pisa, ospitato dalla principessa di piombino che lo introduce nella corte di<br />
Francesco I. Del lungo soggiorno fiorentino basta segnalare quello straordinario<br />
capolavoro che è la Trasfigurazione in San Marco a Firenze che, oltre a condensare le<br />
più moderne conoscenze figurative, cigolesche, del Barocci e veneziane, crea<br />
un’atmosfera di tale mistica trascendenza da segnare indiscutib<strong>il</strong>mente lo spirito di<br />
molti fiorentini (FIG. 56).<br />
A quegli anni e, comunque, per una probab<strong>il</strong>e committenza fiorentina, va segnalato<br />
questo interessante disegno per una Sacra famiglia con san Giovannino, che si<br />
confronta con altri realizzati nella medesima tecnica, tra cui quello datato 1592 sulla<br />
pietra in basso, raffigurante <strong>il</strong> Ritratto <strong>della</strong> signora Testini con i propri figli (FIG. 57 e<br />
58). L’aspetto particolarmente interessante, oltre a quello artistico e documentario,<br />
riguarda <strong>il</strong> fatto che si tratta di disegni eseguiti dal pittore per conservare <strong>il</strong> ricordo<br />
dell’esecuzione, un vero e proprio archivio, una memoria, dal momento che entrambi<br />
recano la scritta in calce che indica <strong>il</strong> committente dell’opera. Anche st<strong>il</strong>isticamente i<br />
disegni hanno poco <strong>il</strong> sapore dello schizzo preparatorio e dello studio, quanto piuttosto<br />
<strong>della</strong> ripresa e del ricordo di un’opera.<br />
CONTRORIFORMA E NARRAZIONE. IL TENTATIVO DI UN NUOVO LINGUAGGIO.<br />
Il linguaggio artistico rimaneva, però, fortemente condizionato dalle pressioni di una<br />
esigente regola che imponeva una didattica controriformistica con idee e scelte ben<br />
chiare. La prevalente committenza religiosa richiedeva una lettura immediata del testo<br />
pittorico da parte dell’osservatore e una lezione impartita dalle immagini; di<br />
conseguenza anche la narrazione delle tematiche sacre pagava <strong>il</strong> prezzo di quella rigidità<br />
di schemi che non poteva che frenare la fantasia di molti artisti.<br />
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La conferma delle vigenti e ancora diffuse norme che regolavano l’ut<strong>il</strong>izzo delle<br />
immagini ci viene offerta dalla significativa ed esplicita testimonianza riguardante <strong>il</strong><br />
programma iconografico per la decorazione ad affresco del chiostro dell’Annunziata di<br />
Firenze. A questa evidente situazione l’artista poteva sopperire con una narrazione<br />
discorsiva, che tenesse conto delle storie e degli episodi raccontati, permettendo una più<br />
complessa e articolata messa in scena dei programmi iconografici. È così che nascono le<br />
opere più interessanti tra lo scadere del Cinquecento e i primi decenni del secolo<br />
successivo, quelle che mettono alla prova l’artista nella scelta fra la rigorosa narrazione<br />
imposta dai canoni e <strong>il</strong> tentativo, in qualche maniera singolare, di esprimere <strong>il</strong> proprio<br />
sentire. Vanno anche ricordate le molte committenze private che cominciavano a<br />
richiedere soggetti non soltanto sacri, ma anche mitologici, storici e profani,<br />
permettendo all’artista quello sfogo verso creazioni più libere e originali che lasciavano<br />
spazio ad una maggiore autonomia.<br />
In questo contesto merita un discorso a parte lo st<strong>il</strong>e di Francesco Curradi, forse<br />
l’esponente più rappresentativo e prolifico <strong>della</strong> pittura devozionale fiorentina <strong>della</strong><br />
prima metà del <strong>Seicento</strong>, <strong>il</strong> principale rappresentante del linguaggio religioso di questi<br />
decenni, colui che ha saputo interpretare con uno st<strong>il</strong>e sempre efficace e riconoscib<strong>il</strong>e<br />
per l’immediata lettura delle composizioni, la dolcezza degli sguardi e la morbidezza<br />
del chiaroscuro, toccando i sentimenti più intimi del credente. Alla giovan<strong>il</strong>e<br />
formazione presso la bottega del Naldini, <strong>il</strong> Curradi aggiunge una precoce<br />
emancipazione verso le moderne tendenze, già visib<strong>il</strong>e nella Purificazione <strong>della</strong><br />
Vergine del 1589 in San Niccolò Oltrarno a Firenze, tra le sue prime opere certe, ben<br />
prima <strong>della</strong> sua immatricolazione, avvenuta nel 1590 presso l’Accademia del Disegno. I<br />
suoi primi lavori autonomi sono eseguiti per Volterra: la Madonna col Bambino e santi<br />
per la chiesa di San Lino e la Nascita <strong>della</strong> Vergine nella cappella Collaini in cattedrale<br />
riflettono <strong>il</strong> nuovo spirito e la freschezza <strong>della</strong> pittura riformata di Santi di Tito e di<br />
Ligozzi (FIG. 59). In seguito l’artista esegue le opere per Sant’Angelo a Legnaia, la<br />
Crocifissione e la Vergine e santi del 1602, nelle quali si evidenzia l’influenza di Cigoli<br />
e dei suoi seguaci, mentre la pacatezza delle espressioni è ispirata dal Passignano.<br />
Curradi trova la propria dimensione come pittore di opere devozionali, seguendo i<br />
principi dettati dalla <strong>Controriforma</strong>, e per questo viene apprezzato dai gesuiti e dai<br />
vallombrosani, conquistando una vasta clientela grazie a quel suo st<strong>il</strong>e narrativo<br />
delicato, semplice e nob<strong>il</strong>itante, per <strong>il</strong> quale è innegab<strong>il</strong>e che egli condensi e rivisiti tutte<br />
insieme le suggestioni subite da Jacopo da Empoli. Con <strong>il</strong> primo artista le somiglianze<br />
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appaiono maggiormente evidenti, in una vera e propria riproposizione sia di fisionomie<br />
– che vanno dai visi degli angeli a quelli dei cherubini – sia di composizioni, come<br />
nell’esempio del grazioso e giovan<strong>il</strong>e rame che ripropone la pala dell’Empoli con<br />
l’Assunta che appare agli apostoli (FIG. 60). Il raggiungimento <strong>della</strong> maturità artistica<br />
avviene entro i primi vent’anni del <strong>Seicento</strong>, periodo in cui si vanno delineando le<br />
caratteristiche del suo st<strong>il</strong>e pittorico e dove l’artista predispone, attraverso la ripetizione<br />
di schemi e di modelli consolidati, quell’estesa creazione di immagini chiare e<br />
comprensib<strong>il</strong>i che lo rendono fac<strong>il</strong>mente riconoscib<strong>il</strong>e.<br />
La frequentazione <strong>della</strong> personalità più venerata dell’ambiente religioso fiorentino,<br />
colei che diviene santa Maria Maddalena de’ Pazzi, fa sì che Curradi sia riconosciuto<br />
come <strong>il</strong> suo ritrattista ufficiale; sono numerose le effigi che di lei esegue, contribuendo<br />
non poco alla diffusione <strong>della</strong> sua immagine. Nel 1607 al pittore viene anche<br />
commissionato di ritrarre le sue vesti mortali e questo dipinto, insieme all’album degli<br />
ottantasette disegni con episodi <strong>della</strong> sua vita, stab<strong>il</strong>isce un vero programma<br />
iconografico per le successive immagini che rappresentano la santa. Interessante nel<br />
contesto cronologico di questi anni appare inoltre l’Assunzione <strong>della</strong> Vergine e santi,<br />
proveniente da Anghiari, e la deliziosa fanciulla che personifica l’Allegoria <strong>della</strong><br />
Sapienza (FIG. 61 e 62).<br />
Fra <strong>il</strong> 1616 e <strong>il</strong> 1617 l’artista è impegnato con i più noti pittori fiorentini a lui<br />
contemporanei nella decorazione <strong>della</strong> Casa Buonarroti, dove dipinge una tela con la<br />
Fama che innalza Michelangelo sopra agli altri pittori. A partire da questi anni Curradi<br />
realizza sia la Predica di san Francesco Saverio agli indiani per la chiesa fiorentina di<br />
San Giovannino degli Scolopi, sia l’elegante Narciso alla fonte di Palazzo Pitti, e<br />
l’Erminia fra i pastori commissionate dal cardinale Carlo de’ Medici e destinate al<br />
Casino di San Marco. A una fase successiva risalgono le sette lunette su tela con le<br />
Storie di Maria Maddalena per la cappella restaurata <strong>della</strong> v<strong>il</strong>la di Poggio Imperiale e<br />
una bella versione <strong>della</strong> Rebecca al pozzo (FIG. 63). L’episodio <strong>della</strong> deliziosa fanciulla<br />
che disseta Eliezer, inviato da Abramo per trovare una sposa al figlio Isacco, è<br />
inquadrato in primo piano. Il tema sembra dunque celare, forse motivato dal<br />
committente <strong>della</strong> tela, una sott<strong>il</strong>e allusione al matrimonio. Il volto di Rebecca rimanda<br />
a uno dei dipinti più affascinanti del Curradi, i Progenitori con Adamo ed Eva in<br />
compagnia dei loro figli, datab<strong>il</strong>e agli anni venti del <strong>Seicento</strong> (FIG. 64).<br />
Importante è anche questa Risurrezione di Cristo dalla complessa architettura<br />
compositiva (FIG. 65). Alla ieratica immagine di Cristo redentore, in piena luce, fanno<br />
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iscontro nel fondo i soldati addormentati e le pie donne recatesi al sepolcro; per <strong>il</strong><br />
soldato in primo piano, Curradi ut<strong>il</strong>izza fedelmente <strong>il</strong> cartone che ha usato alcuni anni<br />
prima per la medesima figura dipinta nella Decapitazione di san Paolo, conservata nella<br />
cappella di San Paolo o degli Inghirami nella cattedrale di Volterra.<br />
Nel 1633, dopo aver lavorato a Roma, <strong>il</strong> pittore ottiene <strong>il</strong> cavalierato dell’Ordine di<br />
Cristo, e la sua notorietà si estende oltre i confini <strong>della</strong> Toscana; esegue opere per<br />
Assisi, Napoli e Bergamo dove, nella chiesa di San Pancrazio, dipinge una Immacolata<br />
Concezione e santi, e i due laterali raffiguranti l’Annunciazione.<br />
Alla maturità del pittore appartiene quest’inedita tela con Mosè salvato dalle acque,<br />
caratterizzata dalle inconfondib<strong>il</strong>i delicate e dolci immagini dei suoi volti femmin<strong>il</strong>i<br />
(FIG. 66). Il loro chiaroscuro morbido e sfumato delinea visi sereni e devoti che<br />
ricorrono fac<strong>il</strong>mente nelle sue opere, come vediamo nel caso del Bagno di Susanna già<br />
alla Royal Academy di Woolwich o <strong>della</strong> Santa Caterina d’Alessandria a mezzo busto<br />
del Museo civico di Montepulciano (FIG. 67).<br />
Si ricordano inoltre alcune pale d’altare sparse nel contado che presentano affinità<br />
con le tele presentate: a Pontremoli, in Lunigiana, a Pietrasanta, a Livorno, a Greve in<br />
Chianti. A Firenze nella chiesa di San Frediano in Cestello, nel transetto, vi è la sua<br />
Madonna in gloria e santi (FIG. 68).<br />
Nella fase avanzata <strong>della</strong> sua attività non si verificano r<strong>il</strong>evanti mutamenti di st<strong>il</strong>e, se<br />
si esclude una semplificazione delle composizioni e un generale intorbidamento dei<br />
toni. La maggiore scioltezza pittorica non fa perdere al Curradi la capacità di dipingere<br />
immagini monumentali e di forte caratterizzazione espressiva come vediamo in alcuni<br />
apostoli dell’Ultima cena nel duomo di San Martino a Pietrasanta (FIG. 69). Tra le<br />
opere più tarde ricordiamo una Incoronazione <strong>della</strong> Vergine del 1646 per <strong>il</strong> romitorio<br />
delle Celle del Paradiso di Vallombrosa e altri dipinti raffiguranti santi appartenenti<br />
all’ordine realizzati per lo stesso ambiente nel 1648. All’anno seguente risale la Predica<br />
del Battista per la cappella Rondoni in Santa Trinita a Firenze.<br />
L’altro protagonista del nuovo secolo, anch’egli particolarmente dedito alla<br />
produzione religiosa e la cui bottega diviene presto un notevole punto di riferimento e di<br />
prestigio proprio per la capacità narrativa del suo maestro è Matteo Rosselli. Lasciato<br />
erede universale alla morte di Gregorio Pagani, <strong>il</strong> Rosselli torna a Firenze dopo<br />
l’importante soggiorno romano del 1605, vedendosi lanciato in significative<br />
commissioni medicee. In occasione delle nozze di Cosimo II con Maria Maddalena<br />
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d’Austria nel 1608 i Medici gli chiedono alcune pitture di archi trionfali e, due anni<br />
dopo, i chiaroscuri commemorativi per la morte di Enrico IV e alcuni cartoni per arazzi.<br />
Il suo st<strong>il</strong>e delicato e raccolto, composto e posato, piace molto alla committenza<br />
ecclesiastica e la sua vasta produzione si estende sull’intero territorio toscano, come nel<br />
caso del ciclo pittorico per la tribuna del duomo di Pisa, eseguito prima del 1623, o<br />
<strong>della</strong> particolarmente significativa presenza nel duomo di Pietrasanta. La due pale<br />
d’altare, la Risurrezione di Cristo del 1647, sul primo altare a destra, e la Madonna del<br />
Rosario, sull’altare del transetto sinistro, sono infatti sinonimo <strong>della</strong> divulgazione di<br />
immagini narranti, chiare e di semplice lettura, che la sua bottega produce per più di due<br />
decenni (FIG. 70 e 71). In particolare quest’ultima si distingue per la vena briosa e<br />
vivace con cui Rosselli dimostra la propria spigliata bravura nel brano che incorona<br />
simbolicamente la scena di rose canine intrecciate ai quindici medaglioni a monocromo<br />
con gli episodi <strong>della</strong> Via Crucis. Sembra invece differenziarsi dal suo repertorio la<br />
figura <strong>della</strong> giovane devota in abito turchese a braccia incrociate, che incarna una<br />
maggiore sensib<strong>il</strong>ità espressiva e una più moderna scioltezza naturalistica di stampo<br />
cortonesco. Dobbiamo mettere in relazione quest’ultima figura con l’enfatica gestualità<br />
rosselliana presente in diverse opere fiorentine: nella tela di San Domenico che risana <strong>il</strong><br />
nipote del cardinale di Fossanova caduto da cavallo in Santa Maria degli Angiolini –<br />
del 1627 – (FIG. 72), nella mano dell’angelo nella Santa Cristina assistita in carcere<br />
nella cappella <strong>della</strong> Natività in San Michele e Gaetano, nella figura che indica in primo<br />
piano nell’affresco di Innocenzo IV che assegna suo nipote a protettore dell’ordine, nel<br />
chiostro <strong>della</strong> Santissima Annunziata.<br />
In contrapposizione alle vaste commissioni pubbliche che lo vedono imporsi da<br />
protagonista per almeno <strong>il</strong> primo quarto di secolo, vogliamo segnalare questa intima<br />
Adorazione del Bambino con l’annuncio ai pastori nello sfondo (FIG. 73). Vi si<br />
raffigura la sacra famiglia ove <strong>il</strong> Bambino, appena nato, ancora nella mangiatoia, rivesta<br />
già <strong>il</strong> suo ruolo di Messia, si fa uomo e annuncia, con <strong>il</strong> sostegno <strong>della</strong> luce divina, la<br />
parola del Signore ai genitori. Il pittore sembra creare un parallelo fra i due annunci,<br />
entrambi <strong>il</strong>luminati dai bagliori in un’ambientazione notturna particolarmente<br />
suggestiva.<br />
Un altro interessante esempio riconducib<strong>il</strong>e all’artista è rappresentato dalla vasta tela<br />
con la Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso, da porsi in relazione con un disegno a<br />
carboncino e sanguigna (FIG. 74). Per <strong>il</strong> raffinato livello grafico esso sembra costituire<br />
un ricordo dei protagonisti del dipinto e per la morbidezza dei paesaggi di piano e la<br />
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finitezza pare quasi un’anticipazione dei modi di un altro artista <strong>della</strong> prima metà del<br />
<strong>Seicento</strong>, Ottavio Vannini – che vedremo tra poco –.<br />
LA NUOVA GENERAZIONE A CONFRONTO TRA CLASSICISMO E STRAVAGANZA.<br />
Tra i più importanti collaboratori ed allievi degli artisti del primo <strong>Seicento</strong> – non<br />
esclusa la bottega stessa del Rosselli – emergono due nomi: Giovanni B<strong>il</strong>ivert e<br />
Ottavio Vannini, nati entrambi nel 1585, le due facce <strong>della</strong> medesima cultura<br />
figurativa, i due opposti che convivranno, tentando talvolta di incontrarsi, fino a morire<br />
nello stesso anno, <strong>il</strong> 1644, tracciando da un lato l’impronta stravagante e originale,<br />
dall’altro la tradizione ancorata al disegno, alla purezza e ad un certo rigore formale.<br />
Con B<strong>il</strong>ivert iniziano ad essere espressi i primi sintomi di apertura ai valori di libertà<br />
e di autonomia artistica, trovando nuove formule espressive, permettendo un lento<br />
cambiamento nella cultura di allora. Forse la pressione che derivava dalle regole<br />
iconografiche imposte si stava verosim<strong>il</strong>mente allentando e si aprivano comunque<br />
ulteriori orizzonti tematici in una committenza che non era più strettamente religiosa.<br />
Come fosse frizzante lo spirito del B<strong>il</strong>ivert è sotto i nostri occhi come lo era a quelli del<br />
suo maestro Cigoli, a cui dovette piacere da subito visto che lo portò con sé a Roma.<br />
Questo è tanto più vero se sfogliamo i suoi studi preparatori, dove la lezione cigolesca è<br />
resa più snervata e sciolta e dove <strong>il</strong> tratto diviene ancor più frenetico. Un esempio <strong>della</strong><br />
sensib<strong>il</strong>ità creativa è questo foglio con Angelica e Ruggiero, prima idea per <strong>il</strong> soggetto<br />
conosciuto nella tela in deposito a Palazzo Pitti, eseguita per <strong>il</strong> cardinale Carlo de’<br />
Medici per la V<strong>il</strong>la <strong>della</strong> Petraia verso <strong>il</strong> 1624, e nell’altra versione <strong>della</strong> Cassa di<br />
Risparmio di Prato (FIG. 75 e 76).<br />
Sul versante opposto, l’altra personalità, certamente sottovalutata nel panorama<br />
artistico toscano, è Ottavio Vannini. La rigorosa monumentalità, che è stata definita di<br />
classicismo neocinquecentesco, risale all’alunnato presso <strong>il</strong> Passignano e allo studio<br />
delle opere romane di Michelangelo e di Raffaello. La sua dimestichezza con gli artisti<br />
del Rinascimento e le sue qualità erano già ben note ai contemporanei, tanto che i<br />
Medici si rivolsero a lui quando, negli anni venti, gli commissionarono le copie delle<br />
opere di Perugino e di Andrea del Sarto da loro acquistate. Proprio queste caratteristiche<br />
di vigorosa ed insieme elegante e solenne sostenutezza formale ci possono aiutare a<br />
riconoscere la sua mano in questo Sacrificio di Isacco (FIG. 77). La tela è la nuova<br />
versione del fortunato tema vanniniano, tra le migliori rispetto agli esemplari già noti di<br />
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Bari, dell’antiquario Giovanni Pratesi di Firenze e del Musée Henry di Cherbourg, per i<br />
quali è stato individuato un disegno preparatorio a matita rossa al Gabinetto dei Disegni<br />
e delle Stampe degli Uffizi (FIG. 78). Soggetto amato dal pittore, esprime la<br />
discendenza dal Fontebuoni e dal Passignano, suoi maestri, e si intuiscono i rapporti di<br />
st<strong>il</strong>e intessuti con Cesare Dandini, in particolare negli splendidi e squ<strong>il</strong>lanti cromatismi<br />
delle vesti. Tra i confronti più incalzanti, all’interno del raro percorso dell’artista<br />
fiorentino, ricordiamo quello con la Rebecca al pozzo del Kunsthistorisches Museum di<br />
Vienna (FIG. 79), che appare assai significativo per i molti rimandi st<strong>il</strong>istici e formali<br />
con <strong>il</strong> San Luca in ottagono al Museo dell’Ospedale degli Innocenti di Firenze e con la<br />
tela di Anania che restituisce la vista a san Paolo, che presenta una precoce suggestione<br />
derivata da Lorenzo Lippi. La monumentale visione del soggetto testimonia da un lato<br />
l’avvenuta maturazione e dall’altro la conquistata ab<strong>il</strong>ità del pittore alla visione “in<br />
grande”, ormai abituato ad intervenire nelle importanti imprese decorative fiorentine,<br />
come documentano gli affreschi nelle lunette <strong>della</strong> v<strong>il</strong>la di Poggio Imperiale e del<br />
Casino Mediceo.<br />
Del pittore è interessante anche una piccola Sacra famiglia d’intonazione<br />
devozionale, dai caratteristici colori vanniniani, che si inserisce nel contesto del suo<br />
percorso in una datazione entro <strong>il</strong> terzo decennio (FIG. 80). L’intima modulazione di<br />
prezioso stampo rinascimentale non esclude al pittore di esprimersi con quella tipica<br />
vigoria passignanesca che si legge nella figura di san Giuseppe, nel suo ampio gesto e<br />
nel volto espressivo che assomiglia a quello dell’Abramo appena visto, come<br />
l’amorevole viso <strong>della</strong> Vergine ricalca <strong>il</strong> prof<strong>il</strong>o dell’angelo o dello stesso Isacco, in un<br />
repertorio di immagini che sapeva assecondare le esigenze psicologiche e umane. Trova<br />
confronti anche con alcuni dettagli nelle opere più mature, dipinte per la cappella Del<br />
Rosso nella chiesa dei Santi Michele e Gaetano a Firenze: <strong>il</strong> volto barbuto di Giuseppe è<br />
sim<strong>il</strong>e a quelli nelle tele con la Vocazione di Pietro e Andrea e a quella del Battista che<br />
indica Gesù a sant’Andrea (FIG. 81 e 82).<br />
Va restituita inoltre alla maturità del Vannini questa interessante tela che raffigura<br />
una donna assorta nei suoi pensieri e con le vesti lacerate che sostiene <strong>il</strong> volto con <strong>il</strong><br />
braccio appoggiato su un libro, probab<strong>il</strong>e Allegoria <strong>della</strong> Penitenza (FIG. 83). La donna<br />
deve essere confrontata in special modo con Giaele uccide Sisara del Seminario<br />
Maggiore di Firenze (FIG. 84) e con le figure femmin<strong>il</strong>i dell’Allegoria <strong>della</strong> Prudenza,<br />
nella sala degli Argenti di Palazzo Pitti, nel viso dallo sguardo intenso e severo, nei<br />
contrasti tonali e nelle identiche pieghe dei panneggi.<br />
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Tra gli allievi del Rosselli, Jacopo Vignali entra assai giovane in bottega, come era<br />
spesso prassi a quel tempo, distinguendosi dal maestro per una pennellata più fremente<br />
e vivace; più nervoso e squ<strong>il</strong>lante è <strong>il</strong> colore, più naturalistiche le espressioni dei volti.<br />
A lui deve essere ricondotto questo piccolo modello per una pala che raffigura la<br />
Madonna col Bambino entro un coro di angeli che appare ai santi Giovanni<br />
evangelista, Domenico, suor Domenica dal Paradiso, Francesco e Giuseppe (FIG. 85).<br />
Il giovane Jacopo era in relazione con <strong>il</strong> convento <strong>della</strong> Crocetta, ubicato a Firenze tra le<br />
attuali via Capponi e via Laura, e fondato da suor Domenica. Quest’ultima è raffigurata<br />
al centro <strong>della</strong> tela senza nimbo in quanto non canonizzata, riconoscib<strong>il</strong>e per la piccola<br />
croce rossa posta sul manto nero che distingueva la sua veste da quella delle<br />
domenicane. Il bozzetto preparatorio risale probab<strong>il</strong>mente a questo momento iniziale del<br />
pittore, durante gli anni <strong>della</strong> peste agli inizi del terzo decennio, quando la religiosa era<br />
vista come taumaturga. L’esecuzione si lega alle relazioni da lui intessute con <strong>il</strong><br />
convento delle monache; presenta tutte le caratteristiche di spigliata freschezza e di<br />
fragrante spontaneità tipiche <strong>della</strong> sua attività giovan<strong>il</strong>e, come si può vedere dal<br />
confronto con la pala firmata e datata con la Vergine e santi che esegue nel 1616 per <strong>il</strong><br />
Santuario <strong>della</strong> Madonna del Sasso presso Santa Brigida a Firenze.<br />
Una figura di San Lorenzo, nonostante la pesante vernice ingiallita che ne offusca la<br />
lettura, si dimostra una interessante aggiunta al percorso del sensib<strong>il</strong>e pittore fiorentino<br />
(FIG. 86). Il santo non manca infatti di essere osservato in un atteggiamento di<br />
melanconica riflessione, di delicato e sereno ripiegamento e la testa risalta dall’ampio e<br />
decorato volume <strong>della</strong> dalmatica, in un vibrante balenare <strong>della</strong> luce che lo rende vicino<br />
al sentire narrato nelle mistiche visioni di Zurbaran. Uno studio del volto sim<strong>il</strong>e a quelli<br />
esaminati a proposito del Cigoli, nel quale si esprime lo spirito del Vignali, in quella<br />
testa di capelli arruffati e nell’attento interpretare le modulazioni dell’epidermide che è<br />
la caratteristica <strong>della</strong> sua distinzione dal maestro Rosselli e che lo avvicina al San<br />
S<strong>il</strong>vestro papa che battezza l’imperatore Costantino <strong>della</strong> Galleria Palatina di Firenze e<br />
ad alcune figure presenti nella Circoncisione del duomo di Pontremoli (FIG. 87 ). Un<br />
analogo interesse alla monumentale costruzione dell’immagine, abbastanza insolita nel<br />
suo percorso, dimostra questo assorto San Girolamo in preghiera, la cui profondità<br />
espressiva ispira particolare occasione di meditazione (FIG. 88). La tela presenta <strong>il</strong><br />
santo intensamente impegnato nella lettura, attorniato dai tipici simboli <strong>della</strong> sua<br />
iconografia, realizzato con una stesura vibrante, in cui è possib<strong>il</strong>e intravvedere molti<br />
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pentimenti. Particolarmente vivace è la lacca dell’ampio manto rosso e intensa è la<br />
caratterizzazione del viso, sapientemente mo<strong>della</strong>to, incorniciato dalla folta, morbida e<br />
vaporosa barba bianca. Accennati con semplicità, emergono dal fondale scuro altri<br />
volumi e <strong>il</strong> cappello cardinalizio, mentre <strong>il</strong> realistico brano di natura morta a destra<br />
mostra una indubbia qualità in questo genere, contraddistinta dalla resa pittorica <strong>della</strong><br />
cesta di paglia intrecciata, con <strong>il</strong> teschio inclinato, <strong>il</strong> calamaio, con <strong>il</strong> sott<strong>il</strong>e colpo di<br />
luce <strong>della</strong> piuma, e <strong>il</strong> dettaglio naturalistico delle rape bianche, unico alimento<br />
dell’eremita.<br />
Ricordando poi l’Ascensione di Cristo del duomo di Pietrasanta, datab<strong>il</strong>e alla<br />
maturità del suo percorso, al medesimo periodo risale questa interessante opera di<br />
misericordia raffigurante San Luigi di Francia che accoglie alla sua tavola tre poveri<br />
(FIG. 89 e 90). L’episodio è assai chiaramente narrato nelle tela dove <strong>il</strong> Vignali si<br />
mostra ancora capace di una verve pittorica che gli permette di inscenare con spirito e<br />
sagacia <strong>il</strong> pranzo tra <strong>il</strong> santo francese, visto di prof<strong>il</strong>o a capotavola, e i commensali dalle<br />
folte capigliature sciolte, tra portate fumanti, brocche e bac<strong>il</strong>i pieni di virgole e svolazzi.<br />
Luigi IX appare sulla sinistra raffigurato con la corona e <strong>il</strong> nimbo, riccamente abbigliato<br />
con <strong>il</strong> manto reale, mentre distribuisce <strong>il</strong> pranzo a tre poveri anziani seduti sugli<br />
sgabelli, che <strong>il</strong> pittore raffigura con sapiente carattere naturalistico. Sulla destra, nel<br />
retro <strong>della</strong> stanza, due altri giovani servitori preparano le bevande da portare in tavola e<br />
un grande bac<strong>il</strong>e in primo piano aspetta di essere ut<strong>il</strong>izzato per la lavanda dei piedi.<br />
Un discorso a parte merita quest’affascinante immagine di giovane donna, un<br />
Ritratto di fanciulla nota come la Bettona, esempio rappresentativo che <strong>il</strong>lustra<br />
l’importanza delle sensuali figure femmin<strong>il</strong>i nella pittura fiorentina del <strong>Seicento</strong> (FIG.<br />
91). A Cesare Dandini va restituita la tela per questa sua intensa sensib<strong>il</strong>ità emotiva,<br />
caratteristica del pittore. Il volto, particolarmente bello ed elegante, rimanda infatti<br />
all’istante al Ritratto <strong>della</strong> Bettona, famoso esemplare di immagine femmin<strong>il</strong>e<br />
appartenuto alla quadreria del principe Lorenzo de’ Medici, nel quale Cesare esprime<br />
tutta la sua raffinata qualità, già sperimentata da giovane nella realizzazione di quei<br />
piccolissimi ritratti femmin<strong>il</strong>i in rame che lo fecero conoscere in quel modo di operare<br />
(FIG. 92). Il volto <strong>della</strong> donna, nella sua raffinata bellezza, appare più intenso e<br />
naturale, con quella lunga chioma che le scende con disinvoltura sul seno, leggermente<br />
meno idealizzato rispetto al più noto esemplare fiorentino, più smaltato, quasi di<br />
porcellana. Il prof<strong>il</strong>o e le fattezze <strong>della</strong> spalla e del braccio, se confrontati a quelle del<br />
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nostro dipinto, sembrano più allungati soprattutto nella parte in penombra, quando<br />
invece la collana di perle, l’orecchino pendente e <strong>il</strong> nastro rosso tra i capelli<br />
costituiscono una variante di maggiore eleganza. Dunque una intensità assai più<br />
espressiva, più vera e sensib<strong>il</strong>e, che fa pensare di essere di fronte alla prima redazione<br />
eseguita direttamente sul modello: quasi un dipinto realizzato per sé, per la delicata e<br />
morbida attenzione del Dandini nella resa epidermica e psicologica <strong>della</strong> dama. La vena<br />
naturalistica del pittore si esprime anche nella sensualità <strong>della</strong> Giovane donna con la<br />
fattucchiera, dove la fanciulla si esibisce mostrandosi con una camicetta bianca<br />
plissettata, dal pizzo nero, con una libertà e una freschezza assai sim<strong>il</strong>e a quella <strong>della</strong><br />
nostra Bertona, caratteristiche che condivide con l’avvenente Armida nella tela Rinaldo<br />
ferma Armida nel momento del tentativo di suicidio (FIG. 93 e 94).<br />
Il tenore di queste opere di Cesare Dandini conferma i rapporti esistiti con Francesco<br />
Furini, artista al quale va assegnata questa giovane e deliziosa fanciulla, nelle vesti <strong>della</strong><br />
Maddalena (FIG. 95). Si tratta di un vero ritratto del tipo di donna pred<strong>il</strong>etto dal pittore<br />
che ci appare dalla penombra mentre esibisce, con un raffinato cenno, sorretto dalle<br />
sott<strong>il</strong>i e lunghe dita, <strong>il</strong> piccolo vaso degli oli profumati in piena luce. Questo viso dai<br />
toni liquidi e sfumati, che spunta dal fondo con le ciocche di capelli fluenti, intrecciati<br />
dal nastro rosso, e dai delicati colpi di perle, ricorda <strong>il</strong> Ritratto di fanciulla dei depositi<br />
delle Gallerie fiorentine, oltre alla Santa Lucia <strong>della</strong> Galleria Spada (FIG. 96). La<br />
visione ravvicinata del soggetto, con l’inquadratura in primo piano del volto, rimanda<br />
alla Santa Caterina d’Alessandria – in collezione privata –, che attira l’occhio<br />
dell’osservatore sullo sguardo e sulla forma tornita del viso, come se volesse colpire<br />
l’attenzione di chi osserva, con <strong>il</strong> gesto delicato <strong>della</strong> mano che accentua tutta la<br />
preziosità <strong>della</strong> sua forma dai riflessi rosati. È un esempio <strong>della</strong> prima maturità del<br />
Furini, quando <strong>il</strong> suo st<strong>il</strong>e ben disegnato e contenuto dai nitidi contorni incomincia a<br />
sfaldarsi, fondendosi nello sfumato e conquistandoci per la raffinatezza e l’eleganza<br />
delle sue fattezze emotive e sognanti.<br />
LA VIA LUCCHESE TRA BAGLIORI E NATURALISMO.<br />
Sembra importante, a questo punto, accennare almeno alla grande fortuna che <strong>il</strong><br />
linguaggio di Caravaggio e dei suoi seguaci ebbe non soltanto a Roma, ma anche in<br />
Toscana. In particolare gli artisti lucchesi si distinguono dai fiorentini per quella<br />
peculiare scelta che orienta i loro interessi verso gli studi degli effetti creati dal<br />
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chiaroscuro a lume di candela e per quello spirito caravaggesco che deriva dalla ricerca<br />
del naturalismo. Ben si adatta a descrivere meglio la situazione artistica regnante nella<br />
città e nel contado lucchese è questo quadro a forma ottagonale rappresentante Erodiade<br />
e Salomè osservano la testa del Battista portata dal carnefice (FIG. 97). Se azzardata o<br />
insolita sembra la scelta compositiva del suo artefice, altrettanto misteriosa ci appare<br />
anche la sua identificazione. L’elevata qualità ne fa uno dei capolavori degli anni trenta<br />
per l’intensità dell’ambientazione, <strong>il</strong> clima particolarmente crudo e insieme mistico nel<br />
quale è vissuta la morte del Battista. La luce che si irradia dalla sua testa mozzata sul<br />
piatto <strong>il</strong>lumina le due donne, madre e figlia, che ci appaiono nel buio, l’una allungando<br />
e tenendo <strong>il</strong> collo per prenderne le distanze con orrore, alzando <strong>il</strong> mento e guardando<br />
con le palpebre socchiuse, l’altra sporgendosi come incuriosita e soddisfatta del risultato<br />
ottenuto. Il dramma <strong>della</strong> morte compiuta e quel senso di spiritualità che la testa emana,<br />
simboleggiati dal cromatismo color pastello nelle tinte arcobaleno che diffonde, è reso<br />
ancora più misterioso e suggestivo dall’impaginazione in primo piano e dalla cupa<br />
atmosfera, che permette di scorgere a mala pena sulla destra le inferiate <strong>della</strong> cella dove<br />
<strong>il</strong> santo è rimasto rinchiuso. La vigorosità, la freschezza di una stesura pittorica rapida<br />
ed essenziale, anche a larghe e veloci pennellate, e l’originalità inventiva ci fanno<br />
pensare ad un’opera giovan<strong>il</strong>e di un artista di talento fra quelli nati già nel nuovo secolo,<br />
corrispondendo allo st<strong>il</strong>e di molti – Giovanni da San Giovanni, Cecco Bravo, <strong>il</strong><br />
Volterrano, Lorenzo Lippi –, senza però essere fiorentino. Anzi, proprio a causa di quel<br />
crudo naturalismo, steso con essenziale vigore e sommarietà, ci fa pensare che <strong>il</strong> pittore<br />
sia un lucchese: Pietro Picchi. Va tuttavia r<strong>il</strong>evato come la resa pittorica <strong>della</strong> testa del<br />
Battista, <strong>il</strong>luminata da colori cangianti e bagliori iridescenti, sembra discendere<br />
direttamente dal cromatismo di Matteo Rosselli.<br />
Ad un momento di qualche anno successivo, ancora però in sintonia con i modi<br />
dell’Erodiade e Salomè, è questa speciale Maddalena a lume di candela (FIG. 98). Se<br />
nella fisionomia è ancor più evidente l’ideale femmin<strong>il</strong>e di Pietro Ricchi, è nella stesura<br />
pittorica dei lunghi capelli che le scendono sulle spalle, <strong>della</strong> veste bianca e dei colpi di<br />
luce sul crocifisso, sul teschio e sul vaso degli oli che si rivela <strong>il</strong> legame che unisce le<br />
due tele, attraverso una pennellata larga e sapiente, espressiva e sintetica. Il corpo<br />
sensuale appare invece costruito su modelli più classici, in una interpretazione di certi<br />
esempi fiorentini, come quelli del Vannini maturo, del Dandini e del Furini.<br />
Il capitolo sull’altro grande pittore lucchese, Pietro Paolini, inizia con questo<br />
Ritratto di un gent<strong>il</strong>uomo con <strong>il</strong> cappello a lume di lucerna, forse un letterato (FIG. 99).<br />
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Il ritratto deve essere confrontata con <strong>il</strong> Giovane che dipinge al lume di una lucerna, per<br />
quella poetica sensib<strong>il</strong>ità materica, sott<strong>il</strong>e e delicata (FIG. 100). Presentato in un angolo<br />
del suo studio, davanti al tavolo sul quale espone, insieme alla lettera, gli strumenti<br />
necessari per la scrittura quali <strong>il</strong> calamaio e la penna, egli è colto nell’atto di accendere<br />
con la mano sinistra una lanterna e con la destra una candela dallo stoppino <strong>della</strong><br />
lucerna. Il gent<strong>il</strong>uomo ci osserva con sguardo fermo, deciso e bonario, con l’intento di<br />
esprimere <strong>il</strong> desiderio di farsi conoscere per le sue capacità innovative, di far luce nel<br />
campo dove detiene le conoscenze. La fioca luce si diffonde nella stanza, creando effetti<br />
straordinari sui corpi ove si posa, sul viso dell’uomo, con quel tocco di realtà sott<strong>il</strong>e<br />
dato dal bagliore che colpisce la pup<strong>il</strong>la, sugli sbuffi <strong>della</strong> manica bianca, sull’ampio<br />
mantello rosso che cade dalla spalla, sulla mo<strong>della</strong>ta Venere nello sfondo.<br />
Ripercorrendo brevemente le prime e più salienti vicende <strong>della</strong> sua vita, assai scarsa<br />
di notizie documentarie, abbiamo l’impressione di essere di fronte ad un inizio<br />
particolarmente promettente. Sappiamo infatti che nel 1603 Pietro veniva battezzato<br />
nella cattedrale di San Martino, da genitori membri del più antico lignaggio <strong>della</strong> città di<br />
Lucca. Secondo i suoi più accreditati biografi, nel 1619, terminati gli studi di<br />
grammatica, Pietro si trasferisce a Roma e viene posto sotto la tutela di Angelo<br />
Caroselli. Dunque a sedici anni <strong>il</strong> Paolini viene introdotto in una delle botteghe più<br />
promettenti e aggiornate del momento, in anni nei quali si viveva un senso di<br />
sbandamento per <strong>il</strong> vuoto lasciato dai grandi artisti che avevano svoltato <strong>il</strong> secolo ma, al<br />
contempo, pieno di aspettative per tutti i giovani emergenti che approdavano nell’Urbe<br />
colmi di speranza ed entusiasmo. Annibale Carracci era morto nel 1609, Caravaggio<br />
l’anno dopo, Borgianni nel 1616; Saraceni nel 1619 era partito per Venezia e<br />
Gent<strong>il</strong>eschi era in procinto di intraprendere i suoi viaggi, mentre siamo poco prima<br />
dell’avvento di Pietro da Cortona. Oltre alle opere lasciate da costoro, non<br />
dimentichiamo comunque i molti stranieri che <strong>il</strong> Paolini ebbe la possib<strong>il</strong>ità di<br />
frequentare, come Vouet, van Hontorst, Ter Brugghen o Ribera. Tornato a Lucca<br />
probab<strong>il</strong>mente verso <strong>il</strong> 1627 per la morte del padre, intraprende un altro viaggio di<br />
studio a Venezia, passando certo dalla Bologna di Reni e Cantarini, per tornare nella<br />
città natale nel 1631. Forse più di tutti, però, egli ebbe modo di assorbire l’arte aspra e<br />
tagliente di Paolo Guidotti, morto a Roma nel 1629: i suoi modi toccano lo st<strong>il</strong>e del<br />
Paolini soprattutto nella pala con <strong>il</strong> Martirio di sant’Andrea nella chiesa di San Michele<br />
in Foro a Lucca e nella Madonna col Bambino e santi a V<strong>il</strong>la Guinigi (FIG. 101 e 102).<br />
È inoltre altrettanto interessante parlare di questo suggestivo dipinto, una Adorazione<br />
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dei pastori, nella quale le suggestioni di st<strong>il</strong>e si intrecciano con i nomi degli artisti a lui<br />
contemporanei (FIG. 103). In una ambientazione a lume di candela, dove le tenebre<br />
sono rotte dal bagliore dorato che emana Gesù Bambino, da un alto, e dalla lanterna che<br />
la fanciulla ravviva con uno stoppino sulla destra, Paolini sv<strong>il</strong>uppa, come su un<br />
bassor<strong>il</strong>ievo antico, <strong>il</strong> proprio splendido repertorio d’immagini tra <strong>il</strong> naturale e <strong>il</strong> divino,<br />
in una intima e raccolta dimostrazione di gesti sentiti e partecipati. La scioltezza<br />
pittorica con cui Paolini narra lo sfondo è un ricordo desunto dal fare fuso e neoveneto<br />
di Pier Francesco Mola, a conferma di una approfondita cultura figurativa, aggiornata<br />
sulle più moderne soluzioni pittoriche.<br />
RELIGIOSITÀ ED ARTE DELL’ETÀ MODERNA IN VALDINIEVOLE E IN VALLERIANA.<br />
A seguito di questa ampia introduzione sul panorama artistico nella Toscana di età<br />
moderna, possiamo cercare di comprendere le opere di quest’epoca presenti nell’area<br />
pesciatina e nella Valleriana, avendo ben chiara la cornice generale che può averle<br />
prodotte. A questo punto, perciò, non dovrebbe stupirci se la quasi totalità dei manufatti<br />
artistici che presenteremo qui, sarà di carattere religioso, poiché abbiamo capito quali<br />
siano stati i presupposti da cui può essere stata partita la richiesta da parte di una<br />
committenza aggiornata ed esigente. Per quanto riguarda Pescia e la Svizzera pesciatina,<br />
in particolare, dovremo sforzarci di immedesimarci nel clima di allora; un clima, da una<br />
parte, denso di devozione, dall’altra teso a glorificare la magnificenza <strong>della</strong> Chiesa e di<br />
tutti i suoi apparati, comprese le forme di aggregazione laicale, le confraternite. Per<br />
farlo ci aiuteremo ancora una volta prendendo come punto di partenza una chiesa<br />
pesciatina, San Francesco, vero tesoro d’arte custodito fortunatamente fino ad oggi.<br />
Chi vi entrava, ai primi del Settecento, trovava molti arredi e immagini visib<strong>il</strong>i<br />
ancora tuttora; altri invece, forse in maggiore quantità rispetto ad oggi, si affollavano<br />
davanti agli occhi dei fedeli. Nella prima cappella a sinistra, dei Cardini – di cui<br />
abbiamo già parlato nella scorsa lezione – <strong>il</strong> devoto poteva inginocchiarsi davanti al<br />
grande Crocifisso che era apparso st<strong>il</strong>lare sangue <strong>il</strong> 13 ottobre 1599. Trovava poi, nel<br />
transetto sinistro, <strong>il</strong> Martirio di santa Dorotea di Jacopo Ligozzi (FIG. 104), con <strong>il</strong><br />
Cristo morto dipinto ad affresco sotto la mensa dell’altare. Certamente nel transetto<br />
destro poteva edificarsi alla vista del San Carlo Borromeo, ancor ivi collocato. Più<br />
indietro, sull’altare di San Francesco, spostata dal fondo <strong>della</strong> chiesa in quel punto dove<br />
prima era un organo cinquecentesco, si trovava la tavola con l’antica figura del santo<br />
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circondato con scene dei miracoli, allora non immediatamente visib<strong>il</strong>e ai fedeli, poiché<br />
coperta da stoffe preziose e ricami, come avveniva per la maggior parte delle immagini<br />
sacre per le quali si credeva che la santità crescesse quanto più venisse preclusa alla<br />
vista. Il tabernacolo dell’altare maggiore era a sua volta circondato da un’allegoria delle<br />
quattro Virtù con angeli. Il fedele, proseguendo la sua visita nella chiesa, non poteva<br />
non essere attratto sulla destra, dalla grande raffigurazione cinquecentesca dei Diecim<strong>il</strong>a<br />
martiri crocifissi (FIG. 105). Sicuramente lo sguardo poteva indugiare sulla varietà<br />
aneddotica <strong>della</strong> narrazione, dove nessun particolare forte o repulsivo lo induceva a<br />
ritrarsi. In effetti i volti e le membra dei santi martiri sono distese, così come quelle dei<br />
carnefici, non contratti dalla sofferenza o dall’impeto del dare <strong>il</strong> supplizio. L’atmosfera<br />
in qualche modo è radiosa quanto <strong>il</strong> paesaggio, l’azione e i singoli particolari.<br />
Quest’aurea di serenità non è affatto abituale nell’<strong>il</strong>lustrazione di questo soggetto che al<br />
contrario poteva prestarsi ad una rappresentazione molto cruda e dagli elementi<br />
raccapriccianti: i corpi non crocifissi, ma – come autorizzava la leggenda – impalati sui<br />
rami aguzzi degli alberi, le punte acuminate che grondano sangue, le positure contorte e<br />
contratte dei martiri. Tale crudezza era molto più evidente nei dipinti di area tedesca,<br />
terra d’elezione di questo culto, piuttosto che in Italia, dove alcune celebri raffigurazioni<br />
appaiono prescindere dagli aspetti più efferati, come nel caso di Carpaccio (FIG. 106).<br />
Nei dipinti italiani di tale soggetto, insomma, prevale una diffusa solarità nel paesaggio<br />
di fondo, nella vista del monte Ararat, nel cielo e nell’empireo che lo sovrasta, nella<br />
varietà dei verdi del prato e del bosco. Così avviene anche nel dipinto fiorentino del<br />
Pontormo, dove <strong>il</strong> martirio dei crocifissi non è al centro <strong>della</strong> scena occupata piuttosto<br />
da altri aspetti <strong>della</strong> leggenda, la conversione dei soldati e la miracolosa vittoria: scene<br />
dunque di battaglia e di corpi nudi, di interessi michelangioleschi e forse di riferimenti<br />
politici anti-imperiali e antimedicei (FIG. 107). Ben altrimenti crude – come abbiamo<br />
detto – e anche più diffuse le immagini in area tedesca, terra di espansione del culto<br />
(FIG. 108). Acacio, con i suoi compagni, era inserito fra i quattordici santi aus<strong>il</strong>iatori,<br />
poi rimossi dal Conc<strong>il</strong>io di Trento per contrastare gli eccessi di fideismo, poiché erano<br />
molto noti nella devozione di area tedesca, come è dimostrab<strong>il</strong>e pensando che <strong>il</strong> sovrano<br />
<strong>della</strong> Sassonia Federico <strong>il</strong> Savio, nel 1508, aveva commissionato a Dürer un dipinto di<br />
questo tema, per celebrare la sua raccolta di reliquie dei sunnominati santi (FIG. 109).<br />
La presenza di una pala analoga anche a Pescia, può essere dovuta non tanto al fatto che<br />
<strong>il</strong> suo committente – Antonio Buonvicini – fosse in contatto con <strong>il</strong> territorio tedesco né<br />
tantomeno un protestante, quanto perché vi erano stati esempi <strong>il</strong>lustri in Toscana e a<br />
28
Firenze di poco precedenti – come la tela di Alessandro Allori per Santo Spirito, del<br />
1574 (FIG. 110) –, non di rado dipinti in connessione con la ricorrenza <strong>della</strong> peste.<br />
Ed è proprio per invocazione contro questa malattia che quasi in tutta la Valdinievole<br />
si sv<strong>il</strong>uppa anche un altro culto: quello di san Rocco e san Sebastiano. Numerosi sono<br />
gli esempi in questo senso, primo fra tutti <strong>il</strong> grande affresco conservato sopra l’altare<br />
maggiore del santuario <strong>della</strong> Madonna <strong>della</strong> Fontenuova di Monsummano, luogo di<br />
grande devozione e pellegrinaggio per tutto <strong>il</strong> secolo XVII (FIG. 111). Ma a noi più ut<strong>il</strong>i<br />
per <strong>il</strong> discorso che abbiamo iniziato per l’area pesciatina e <strong>della</strong> Valleriana, saranno le<br />
due tele seicentesche poste ai lati <strong>della</strong> già ricordata Madonna col Bambino di Aramo<br />
(FIG. 112). Non erano infatti infrequenti queste immagini votive che andavano ad<br />
integrare in senso più moderno la devozione verso la Vergine, come se si volesse<br />
ottenere un rinnovato interesse religioso nei confronti di un’antica immagine, ormai non<br />
sentita dai fedeli così vicina. Certo riferimenti immediatamente vicini al caso di Aramo<br />
possono essere le grandi tele di inizio Cinquecento, in particolare quella del pittore<br />
senese Sodoma, o quella sicuramente di Caravaggio studiata dai pittori fiorentini<br />
recatisi a Roma già dal secondo decennio del XVII secolo (FIG. 113, 114 e 115). Pure i<br />
Santi Rocco e Sebastiano di Medicina, di poco anteriori, devono essere letti in questo<br />
senso, anche se siamo davanti ad una tela di peggior qualità pittorica, testimonio però di<br />
una attività ben presente in loco degli artisti-artigiani pesciatini o lucchesi (FIG. 116).<br />
Artisti che avevano <strong>il</strong> compito di soddisfare le continue richieste di opere da parte <strong>della</strong><br />
committenza autoctona, soprattutto delle compagnie religiose presenti in ciascun centro<br />
urbano, o delle rispettive chiese.<br />
Anche la fitta presenza del culto mariano, in sé meno indicativa o qualificante perché<br />
certamente più radicata, assume nella montagna pesciatina una declinazione<br />
maggiormente insistita sulla figura <strong>della</strong> Vergine nella sua funzione di protettrice. In<br />
particolare dovremmo parlare di due tipologie di dipinti raffiguranti la Vergine: quelle<br />
che discendono direttamente delle Sacre Conversazioni dei secoli precedenti e quelle<br />
più specifiche legate alla richiesta di aiuto e protezione davanti al male. In quest’ultimo<br />
caso andrà inserita la tela <strong>della</strong> Madonna in atto di scacciare <strong>il</strong> demonio, conservata<br />
nella chiesa dei Santi Andrea e Lucia di Pontito (FIG. 117). Si segnala questa perché<br />
ancora in buono stato di conservazione e perché parte di una serie di dipinti di analogo<br />
soggetto, presenti in tutta la diocesi di Lucca e quindi collegab<strong>il</strong>i alla presenza di questo<br />
culto nei territori direttamente dipendenti da essa, anche dopo l’istituzione <strong>della</strong><br />
prepositura nullius di Pescia. Sicuramente di mano lucchese, quest’opera si avvicina<br />
29
molto alla tavola conservata nel castello lucchese di Montecarlo (FIG. 118), e si pone<br />
come estrema propaggine di una venerazione mariana iniziata nel Trecento e che alla<br />
fine del XVI secolo aveva trovato massima espressione nella celebre Madonna del<br />
soccorso di Jacopo da Empoli (FIG. 119).<br />
La seconda tipologia di tele raffiguranti la Vergine è bene esemplificata dalla<br />
Madonna del Rosario e santi <strong>della</strong> chiesa parrocchiale del borgo di San Quirico (FIG.<br />
120). L’opera è stata attribuita ad Ippolito Brunetti, artista attivo in Valdinievole per<br />
almeno due decenni tra Cinquecento e <strong>Seicento</strong>. Originario di Firenze, e trasferitosi poi<br />
a Pisa, <strong>il</strong> Brunetti fu molto operoso per la nob<strong>il</strong>tà valdinievolina, soprattutto di Pescia e<br />
nei suoi centri limitrofi. Il suo st<strong>il</strong>e, piuttosto ben riconoscib<strong>il</strong>e, è duro; indugia nei<br />
prof<strong>il</strong>i marcati dei volti e nella rigidezza dei gesti e dei panneggi. Elementi di un<br />
linguaggio pittorico che ritroviamo anche in un’altra opera, sempre conservata nella<br />
stessa chiesa, ma di soggetto diverso. Si tratta del Noli me tangere, con i santi Michele,<br />
Lucia, Francesco d’Assisi e Caterina d’Alessandria (FIG. 121): un dipinto alquanto<br />
singolare poiché esso risulta essere suddiviso pittoricamente in due registri orizzontali,<br />
dove l’episodio evangelico è stato rappresentato nella parte superiore, mentre in basso<br />
sono stati disposti i quattro santi. Il soggetto narra del momento in cui Cristo risorto,<br />
avvolto in un lenzuolo bianco svolazzante, <strong>il</strong> vess<strong>il</strong>lo in mano, irradiante una<br />
straordinaria luce intorno a sé, appare alla Maddalena che, con i suoi capelli biondi e<br />
sparsi, contempla inginocchiata l’apparizione sullo sfondo di un paesaggio. Dunque<br />
Cristo è qui raffigurato “in figura di ortolano” – secondo quanto possiamo leggere<br />
nell’Ansaldi 5 –, cioè come giardiniere, seguendo un motivo iconografico ben conosciuto<br />
derivato da un brano evangelico di Giovanni 6 . Certamente è una composizione in cui<br />
sembrano venire incontro a un certo gusto dell’epoca l’ampio e cupo sfondo boscoso e<br />
la figura di Gesù, così tipica nella foggia, con <strong>il</strong> suo rustico cappello a larga tesa: <strong>il</strong> volto<br />
dai tratti caratterizzati, vigoroso nelle gambe con calzari artigianali e nel braccio che,<br />
con la manica rimboccata, si appoggia sulla zappa. Questo Cristo “giardiniere” che esce<br />
dall’ombra, senza recare i segni <strong>della</strong> passione, ha forse perso quei tratti di alta sacralità<br />
che aveva in più antiche raffigurazioni <strong>della</strong> stessa scena, dove si trovavano fac<strong>il</strong>mente<br />
<strong>il</strong> nimbo dorato, le piaghe rosse, oppure <strong>il</strong> vess<strong>il</strong>lo unitamente allo strumento agricolo.<br />
Qui, <strong>il</strong> Brunetti ha operato <strong>il</strong> grande salto verso la modernità: ha saputo br<strong>il</strong>lantemente<br />
sintetizzare la grande tradizione cinquecentesca fiorentina – un esempio su tutti, <strong>il</strong> Noli<br />
5 Ansaldi-Pellegrini, Descrizione delle sculture, pitture et architetture <strong>della</strong> città, e sobborghi di Pescia nella Toscana,<br />
Pisa 2001, p. 97.<br />
6 Gv 20, 15.<br />
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me tangere di Fra’ Bartolomeo (FIG. 122) – con l’attenzione verso i dettagli, desunta<br />
dalla grande fortuna che pittori come Jacopo Ligozzi e Giovan Battista Paggi avevano<br />
ottenuto non soltanto nei maggiori centri toscani, ma anche nella stessa Pescia.<br />
Accuratissima, infatti, è la resa <strong>della</strong> preziosità dei gioielli indossati dal san Michele e<br />
dalla santa Caterina del quadro di San Quirico, nonché la veridicità naturalistica <strong>della</strong><br />
veste serica <strong>della</strong> Maddalena; fattori che dimostrano un aggiornamento del Brunetti<br />
anche nei confronti <strong>della</strong> moda del tempo. In tal senso debbono essere intesi pure i<br />
piccoli oggetti di oreficeria qui rappresentati come attributi dei singoli santi, che ci<br />
danno un’ulteriore indicazione cronologica vicina agli anni successivi alla riforma<br />
cattolica, in particolare agli anni novanta del XVI e gli inizi del XVII secolo.<br />
Nel f<strong>il</strong>one di grande fortuna seicentesca vi è senza dubbio <strong>il</strong> tema che raffigura <strong>il</strong><br />
Gesù Bambino redentore, ora portatore di croce, ora addormentato sulla croce, ora con i<br />
simboli <strong>della</strong> Passione, come nel caso <strong>della</strong> tela conservata nella chiesa dei Santi Matteo<br />
e Colombano di Pietrabuona, attribuita a Jacopo Ligozzi (FIG. 123). Chiaramente<br />
ispirato alla tradizione iconografica del putto con <strong>il</strong> teschio inteso come memento mori,<br />
<strong>il</strong> fanciullo riassume su di sé l’allegoria <strong>della</strong> redenzione e <strong>della</strong> vittoria sul peccato e<br />
sulla morte attraverso la risurrezione. Disposto frontalmente, indossa una ricca veste<br />
rossa su cui scende uno scapolare recante i simboli <strong>della</strong> passione. Il capo leggermente<br />
inclinato poggia sul dorso <strong>della</strong> mano in attitudine meditativa, la lontana immagine <strong>della</strong><br />
melancolia, mentre <strong>il</strong> gomito poggia su un teschio; nella mano sinistra, però, stringe <strong>il</strong><br />
grande vess<strong>il</strong>lo crociato del Cristo risorto e sotto i piedi schiaccia <strong>il</strong> drago del demonio e<br />
<strong>della</strong> morte. Tale soggetto aveva ampia circolazione all’epoca: lo ritroviamo trattato<br />
anche in una rara acquaforte di Jacques Callot cui <strong>il</strong> nostro dipinto è molto prossimo in<br />
quasi tutti i particolari (FIG. 124). L’attribuzione al Ligozzi è comunemente accettata<br />
dalla critica non soltanto per la presenza dell’artista – come abbiamo già detto – a<br />
Pescia e a Lucca durante gli ultimi anni del Cinquecento e i primi del <strong>Seicento</strong>, ma<br />
soprattutto per la presenza di talune peculiarità tipiche del repertorio ligozziano, come <strong>il</strong><br />
vaso di fiori ed <strong>il</strong> teschio; elementi che segnano quella sua costante attenzione verso <strong>il</strong><br />
dato naturale.<br />
Attribuib<strong>il</strong>i invece al pennello di Alessandro Bardelli sono due tele, conservate<br />
entrambi nella chiesa dei Santi Sisto e Martino a Vellano, di soggetto sim<strong>il</strong>are: una<br />
Madonna col Bambino tra i santi Antonio abate, Rocco, Carlo Borromeo e Sebastiano,<br />
e una Madonna col Bambino e santi (FIG. 125 e 126). Che queste siano opere<br />
dell’artista, è fac<strong>il</strong>mente riscontrab<strong>il</strong>e da alcune tangenze st<strong>il</strong>istiche fra <strong>il</strong> nostro<br />
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sant’Antonio abate e quello raffigurato entro una pala per la chiesa dedicata appunto<br />
allo stesso santo a Pescia. La presenza di Alessandro Bardelli a Vellano è testimonianza,<br />
oltre che dell’incredib<strong>il</strong>e fortuna dei suoi dipinti in tutta la Valdinievole e nell’area<br />
pesciatina, anche <strong>della</strong> ricerca st<strong>il</strong>istica e compositiva aggiornata sulle novità dell’arte<br />
da parte <strong>della</strong> committenza, in questo caso fra le più ricche di tutta la montagna. Il<br />
secondo esemplare, inoltre, essendo di qualità più elevata, ci porta a fare considerazioni<br />
ulteriori; e cioè che a questa altezza cronologica i riferimenti artistici per <strong>il</strong> pittore<br />
dovevano essere senza dubbio Francesco Curradi o Passignano, r<strong>il</strong>etti ovviamente alla<br />
luce <strong>della</strong> sua personalissima sensib<strong>il</strong>ità, come lascia intravedere la figura del san<br />
Girolamo posto in primo piano verso cui si rivolgono la Vergine e <strong>il</strong> Bambino (FIG.<br />
127).<br />
Che la chiesa vellanese fosse un importante centro, se non una sorta di piccolo<br />
capoluogo per la Valleriana, è dimostrato dalla bellezza e dalla preziosità delle altre tele<br />
presenti in tale edificio. Vicina al contesto pesciatino e al Bardelli è sicuramente un<br />
Sant’Antonio da Padova, opera che spiega molto bene la personalità del suo autore,<br />
Benedetto Orsi, nato a Pescia nel 1632 e qui morto nel 1684. Egli fu sicuramente<br />
protagonista – ormai dimenticato – di quel f<strong>il</strong>one <strong>della</strong> pittura barocca toscana che<br />
venne iniziato da Pietro da Cortona e dai suoi allievi attivi nella zona compresa tra<br />
Lucca e Pistoia. Il suo ruolo, forse connesso, come per molti altri pittori del suo tempo,<br />
alla fortuna del Volterrano presso la corte medicea, risulta essere legato profondamente<br />
alla chiesa di Santa Maria del Castellare di Pescia. Le radici cortonesche in Valdinievole<br />
erano state certo rinsaldate dall’arrivo <strong>della</strong> pala del Volterrano, eseguita per la chiesa<br />
<strong>della</strong> Santissima Annunziata nell’ottavo decennio del <strong>Seicento</strong>, alla cui cultura si allinea<br />
la tela citata dell’Orsi. Di tale pala, assai grande e piuttosto articolata nella<br />
composizione, resta una piccola variante, oggi nel conservatorio di San Michele a<br />
Pescia (FIG. 128), cui si può aggiungere – data la sua importanza – anche una sua<br />
Sant’Agata (FIG. 129).<br />
Sempre a Vellano è conservata la Madonna del Rosario tra i santi Andrea, Giovanni<br />
Battista, Domenico e Caterina da Siena, di Pompeo Caccini, pittore fino a qualche<br />
anno fa poco conosciuto, anche se di personalità ben definita (FIG. 130). Nato a<br />
Firenze, prima di trasferirsi a Roma per completare la propria formazione artistica,<br />
aveva lavorato molto in Valdinievole e nelle cittadine limitrofe di Fucecchio e di<br />
Pistoia, ottenendo commissioni che molto probab<strong>il</strong>mente hanno contribuito ad<br />
accrescere la sua fama in loco, fino ad essere introdotto con tutti gli onori nella chiesa<br />
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vellanese. Egli deve essere annoverato fra gli artisti toscani di provenienza fiorentina,<br />
attivi nei primi decenni del <strong>Seicento</strong>, che proseguirono nella loro arte i fondamenti<br />
primi <strong>della</strong> pittura granducale: la precisione nel disegno dei contorni, unita alla<br />
strutturata pacatezza nell’impostazione compositiva. Nell’opera presa da noi in esame,<br />
la forte somiglianza del sant’Andrea con la figura di san Pietro <strong>della</strong> Chiamata di san<br />
Pietro <strong>della</strong> sacrestia <strong>della</strong> cattedrale di Pescia, opera da lui eseguita nel 1611, è molto<br />
forte.<br />
Significative tangenze con le novità apportate dagli artisti granducali possono essere<br />
riscontrate anche in un’altra opera di grande interesse: <strong>il</strong> Sant’Antonio da Padova<br />
conservato nella chiesa dei Santi Quirico e Giulitta di San Quirico (FIG. 131). Firmata e<br />
datata 1666 da Annibale Niccolai, l’opera sembra riprodurre alcuni tratti mossi <strong>della</strong><br />
pittura matura di Francesco Furini, – di cui egli era allievo – soprattutto nel<br />
sensib<strong>il</strong>issimo candore delle carni, donando loro però una pennellata più precisa e meno<br />
vibrante. Traspare in pieno tuttavia la lezione del maestro, che affiancava all’uso del<br />
naturale, <strong>il</strong> vasto bagaglio di studi dell’archeologia classica e la conoscenza <strong>della</strong><br />
scultura coeva di Gian Lorenzo Bernini. Derivano infatti dalla conoscenza dell’arte<br />
romana barocca – ovviamente rivisitata secondo gli occhi del pittore – la scelta di<br />
dipingere una luce inquieta, volta ad indagare, a intrattenere una bellezza sensuale e<br />
delicata. E questo è visib<strong>il</strong>e non tanto nella figura del santo, ma in quel bellissimo<br />
angioletto nudo sulla sinistra, che ricorda da vicino l’amore per la morbidezza degli<br />
incarnati, un approfondito studio disegnativo, una posa e una espressione molto pensata,<br />
quasi teatrale. L’opera del Niccolai presenta inoltre tratti connotanti una propria<br />
originalità e inventiva nella costruzione spaziale, piuttosto articolare e insolita,<br />
soprattutto nel particolare <strong>della</strong> balaustra che sbuca dalla sinistra e divide la scena<br />
attorno alla quale si dispongono gli angeli giocano con i fiori.<br />
Chiudiamo questa lunga panoramica d’arte seicentesca con la meravigliosa<br />
Assunzione <strong>della</strong> Vergine, eseguita da un eccellente pittore lucchese – di cui purtroppo<br />
ignoriamo <strong>il</strong> nome – che ha r<strong>il</strong>etto con grande capacità alcuni moduli <strong>della</strong> pittura<br />
bolognese, in particolare quella di Annibale Carracci e di Guido Reni (FIG. 132). Gli<br />
esemplari di mano lucchese non sono infatti completamente estranei alla cultura locale<br />
in questo periodo, anzi si vanno a codificare soprattutto nei borghi afferenti alla<br />
giurisdizione ecclesiastica <strong>della</strong> diocesi di Lucca, forse anche per motivi di rivalsa sulla<br />
predominante Firenze. Questa tela risulta riproporre, nella posizione delle gambe,<br />
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l’Assunta carraccesca – oggi a Roma, nella chiesa di Santa Maria del Popolo (FIG. 133)<br />
–, dove permane l’identica mo<strong>della</strong>zione dei panneggi intorno al ventre e al ginocchio<br />
destro; mo<strong>della</strong>zione tutta tesa ad esaltare <strong>il</strong> piede, messo ben in evidenza e in luce.<br />
Derivano dagli esempi reniani, invece, la tipologia del volto <strong>della</strong> Madonna, con <strong>il</strong> suo<br />
ovale perfetto, nonché la gestualità dell’angelo in basso a destra.<br />
Reca tracce di ispirazione prese dalle opere di Annibale Carracci anche questa Sacra<br />
famiglia, conservata nella chiesa dei Santi Matteo e Colombano di Pietrabuona, da<br />
mettere in confronto con questo olio su rame oggi alla National Gallery di Londra (FIG.<br />
134 e 135). Il dipinto costituisce una delle più belle e letterali rielaborazioni offerte<br />
dagli artisti seicenteschi di un tema prettamente raffaellesco, quello <strong>della</strong> Madonna<br />
<strong>della</strong> cesta, la cui copia più celebre è di mano del Correggio (FIG. 136). Tuttavia si<br />
devono notare la pienezza di sensi con cui quel modello viene restituito, calandolo entro<br />
una dimensione di affetti domestici e quotidiani. Interessanti sono anche gli scorci<br />
paesaggistici rivelati nello sfondo: paesaggi caldi, sfumati di vapori estivi, che<br />
testimoniano la alta qualità dell’invenzione paesistica di ogni singolo artista.<br />
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