formato .pdf - Rete Laica Bologna
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proposito di buona e cattiva morte, mostrano come alcune continuità nella morte<br />
ospedaliera rispetto al recente passato 46 si affianchino a cambiamenti importanti: un<br />
maggior livello di specializzazione medica ed infermieristica; un più alto numero di<br />
azioni compiute in ospedale, un rilievo che sembrerebbe confermare il processo di<br />
medicalizzazione crescente della morte. Parallelamente, nei discorsi dei medici, si<br />
moltiplicano i riferimenti alla desiderabilità di tali interventi, al concetto di “futilità<br />
medica” e di “tortura medica”: davanti al moltiplicarsi delle scelte, buona e cattiva<br />
morte sono pensate e prodotte come il risultato di un’ampia gamma di sfumature<br />
largamente influenzate dalla necessità di negoziazione, fra tutti i coinvolti, del “giusto<br />
tempo di morire”. Così, “’good death’, if they exist, take place in the context of<br />
relationships in wich the patient’s personhood is known and valued”: la relazionalità<br />
diventa fondamentale nella definizione dell’ ideale culturale di buona e cattiva morte<br />
anche in terapie intensive (Del Vecchio Good, et alii, 2004:945).<br />
La stessa relazionalità, al centro della filosofia delle cure palliative e degli hospices,<br />
sembra ridimensionata nello studio di Beverly McNamara sui loro sviluppi in<br />
Australia. Pensate allo scopo di reintrodurre una ritualità all’interno della gestione<br />
medica del processo del morire, le cure palliative avrebbero conosciuto, per<br />
McNamara, una involuzione. L’approccio originale del movimento hospice, infatti,<br />
mirava alla produzione di una “buona morte” come morte marcata dalla<br />
consapevolezza e dall’accettazione del morire proprio o dei propri cari. Nel tempo, un<br />
tale approccio si era dovuto confrontare con sempre più difficoltà con l’idea di<br />
autonomia, dal prestigio crescente: dal momento che ogni paziente ha una peculiare<br />
soggettività e che una qualunque visione della morte “imposta” può risultare<br />
normativizzante, ciò che rimaneva al movimento hospice era di “ripiegare” sulle cure<br />
palliative, ossia sul controllo del solo dolore fisico. Dall’originale anelito alla<br />
produzione di una buona morte, così, gli hospice studiati da McNamara paiono<br />
ridimensionati verso l’ottenimento di una “morte abbastanza buona.” (McNamara,<br />
2004).<br />
Tutti questi contributi, insieme, sembrerebbero suggerire l’importanza del lavoro<br />
etnografico di contestualizzazione delle idee di buona e cattiva morte, dal momento in<br />
cui differenze significative possono riscontrarsi anche all’interno di una stessa società.<br />
Differenti strati sociali, così come differenti affinità politiche, ideologiche o religiose<br />
46 DelVecchio- Good e collaboratori si riferiscono soprattutto all’importante analisi di Glaser & Strass, A<br />
time for Dying.<br />
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