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formato .pdf - Rete Laica Bologna

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personale, accanto ma al di sopra di una definizione, per così dire, “corporea” di morte,<br />

maggiormente intuitiva e clinica; la gestione delle azioni che accompagnano il processo<br />

del morire in un modo che non le faccia apparire direttamente coinvolte nell’evento<br />

mortale; il bilanciamento dell’azione medica alla non-azione, in modo da generare un<br />

effetto di diffusione della responsabilità rispetto alla morte; e da ultimo, l’integrazione<br />

dei familiari e del corpo infermieristico nel processo di decision-making rispetto alle<br />

cure e alla loro sospensione (Seymour, 2000). La naturalità dell’evento della morte è<br />

costruito in molti modi diversi, e al tempo stesso, natura e artificio sono utilizzati in<br />

molti modi per qualificare la morte, fino a definirne la stessa realtà. La risposta alla<br />

domanda se siamo in presenza di una vita o di una morte, o meglio, di un vivente o di<br />

un morente, si affianca a quella sulla qualità del suo vivere e del suo morire nel definire<br />

la possibilità del controllo sulla vita stessa.<br />

Definire la vita<br />

Così come per Aristotele non esiste il “nero”, ma solo le cose nere, non esiste neppure la vita,<br />

bensì un dettagliato sapere riguardante il vivente (…) Se c’è una parola ormai tanto carica di<br />

connotazioni da non definire più nulla di preciso, questa è proprio “vita”.<br />

Barbara Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico<br />

Durante l’ultima decade, numerosi antropologi si sono interrogati sulla dimensione<br />

culturale dei concetti di vita e di morte e dei loro rispettivi confini (Kaufman, Morgan,<br />

2005). In un certo senso, il nascere e il morire erano sempre stati al centro delle<br />

riflessioni degli antropologi, laddove si descrivevano i modi in cui questi momenti<br />

critici dell’esistenza individuale e sociale - liminali secondo la nota accezione proposta<br />

da Victor Turner - erano trattati culturalmente, secondo pratiche normative in uso in<br />

gruppi umani di dimensioni ridotte. Recentemente, però, in corrispondenza del “ritorno<br />

a casa” della disciplina negli anni ’70 (Barnard, 2002; Pizza, 2005; Quaranta, 2006), la<br />

riflessione antropologica si è potuta interrogare sulle modalità attraverso le quali vita e<br />

morte sono declinate nella e dalla biomedicina. Così, se da un lato l’antropologia ha<br />

potuto adottare ed arricchire la riflessione sul come nasciamo e muoriamo intesi come<br />

prodotti culturali 48 , dall’altro si è potuto sviluppare un fertile interesse per le modalità<br />

attraverso le quali nuove definizioni di vita e di morte vengono ad essere plasmate<br />

48 Una riflessione fino ad allora condotta per lo più da sociologi, secondo la nota suddivisione di ruoli che<br />

vedeva l’antropologia occuparsi delle società “altre” (Barnard, 2002)<br />

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