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formato .pdf - Rete Laica Bologna

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terminalità di un anziano che non avesse nessuna malattia terminale ma molte<br />

fortemente invalidanti, ad esempio, appare ambigua. Ancora più significativo è il caso<br />

degli stati vegetativi permanenti. L’origine storica (recente) dello stato vegetativo<br />

permanente, frutto di tentativi rianimatori avanzati coadiuvati da ritrovati di tecnologia<br />

bio-medica quale il respiratore artificiale, è stata evidenziata da numerosi bioeticisti,<br />

medici e ricercatori (Defanti, 2007; Lock, 2002; Kaufman, 2000) ed è ormai anche nel<br />

senso comune. Defanti, ad esempio, in un articolo apparso sulla rivista “Bioetica” ne<br />

parla in questi termini:<br />

Credo che la risposta non possa prescindere da una considerazione ‘storica’, cioè<br />

dall’analisi delle circostanze che portano allo SVP. Quest’ultimo infatti non è una<br />

condizione patologica come le altre (…) Nella maggioranza dei casi – e in tutti i casi che<br />

costituiscono problema – (…) è l’esito (…) di un processo morboso o di un tramuatismo<br />

grave dell’encefalo nei quali l’intervento del rianimatore riesce a sventare l’esito fatale<br />

ma non questa particolare evoluzione. (Defanti, 2004; corsivo suo)<br />

La responsabilità storica della medicina nell’esistenza dello stato vegetativo rende la<br />

sua definizione controversa: senza quell’intervento rianimatorio, la persona<br />

traumatizzata sarebbe stata “terminale”, e sarebbe poi rapidamente morta. Così, quella<br />

stessa persona si trova ora in una condizione di stabilità fisiologica, ma mantenuta<br />

attraverso una serie articolata di cure che, dal canto loro, contribuiscono a determinare<br />

la responsabilità medica del mantenimento di quello stato. Così, se “tecnicamente” lo<br />

stato vegetativo non è una condizione terminale, la storicità di quel “tecnicamente” e<br />

delle tecniche che lo informano, rendono la definizione di questa patologia<br />

estremamente contesa.<br />

In argomenti di questo tipo risuona, ovviamente, l’eco della naturalità e<br />

dell’artificialità dei nuovi scenari (bio-medici). Nel dibattito sulle scelte di fine vita<br />

(dal testamento biologico, all’eutanasia, alle cure palliative..) l’uso di questa dicotomia<br />

è piuttosto frequente, come abbiamo già avuto modo di vedere. Secondo Walter, l’idea<br />

di morte naturale sarebbe una rivisitazione del mito del buon selvaggio: essa non<br />

avrebbe altro fondamento se non una visione idealizzata del passato, nel quale, si crede,<br />

si moriva meglio, più serenamente e coscientemente (Walter, 1995). Ma il concetto di<br />

“morte naturale” è esso stesso utilizzato in modo ambiguo. Nel dibattito sul testamento<br />

biologico in Italia, ad esempio, esso è stato utilizzato di frequente tanto dai sostenitori<br />

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