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Scarica il pdf - Il profumo della libertà

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<strong>Il</strong> <strong>profumo</strong> <strong>della</strong> <strong>libertà</strong><br />

necessaria professionalità e poco consapevole del proprio ruolo, pur di ottenere la collaborazione<br />

dell’imputato, con <strong>il</strong> quale interloquiva senza <strong>il</strong> f<strong>il</strong>tro del pubblico ministero,<br />

fosse portato a soprassedere su alcune “formalità” processuali, forse ritenute inut<strong>il</strong>i formalismi,<br />

a discapito dell’imparzialità degli accertamenti.<br />

Tutto ciò per dire che <strong>il</strong> fenomeno del pentitismo generò anche una trasformazione<br />

del sistema processuale del tempo, nel senso che accentuò l’assommarsi delle funzioni<br />

inquirenti, istruttorie e decisorie in capo al giudice istruttore; <strong>il</strong> quale non poteva più definirsi<br />

“terzo” specie nell’istruzione dei grandi processi contro la criminalità organizzata,<br />

laddove l’istruzione sommaria consentiva al pubblico ministero di effettuare, nei quaranta<br />

giorni previsti, soltanto gli interrogatori e avviare le prime indagini, <strong>il</strong> cui approfondimento<br />

doveva poi essere completato durante l’istruzione formale.<br />

Insomma, <strong>il</strong> giudice istruttore divenne <strong>il</strong> vero accusatore mentre si affievolirono la<br />

sua funzione di garanzia e <strong>il</strong> suo ruolo di giudice “terzo”.<br />

Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri giudici istruttori del maxiprocesso avevano<br />

trasformato <strong>il</strong> processo penale innovandolo di fatto nei ruoli del giudice e del pubblico<br />

ministero, sostanzialmente invertendoli. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano<br />

consapevoli <strong>della</strong> trasformazione del processo che stavano vivendo. In sostanza, come<br />

ho già prima detto, Falcone e Borsellino avevano sfruttato appieno, interpretandoli e ut<strong>il</strong>izzandoli<br />

diversamente da come si era fatto fino ad allora, i poteri del giudice istruttore,<br />

<strong>il</strong> quale, a norma dell’art. 299 c. p. p./1930, aveva l’obbligo di compiere prontamente<br />

tutti e soltanto quegli atti che in base agli elementi raccolti e allo svolgimento dell’istruzione,<br />

apparivano necessari per l’ accertamento <strong>della</strong> verità.<br />

Gli effetti di tale mutazione furono resi evidenti dalla “lievitazione” che i processi per<br />

reati associativi subivano nella fase istruttoria, nel corso <strong>della</strong> quale spesso aumentava <strong>il</strong><br />

numero degli imputati.<br />

Nel maxiprocesso dagli originari centosessantuno denunciati, poi ridotti a ottantasette<br />

nella richiesta di formalizzazione avanzata dal P.M., si arrivò a contarne più di ottocento<br />

all’atto <strong>della</strong> requisitoria finale.<br />

Si era insomma invertita la tendenza secondo la quale <strong>il</strong> giudice istruttore funzionava<br />

da f<strong>il</strong>tro scremando <strong>il</strong> numero degli imputati rispetto a quello dei denunciati dalla polizia<br />

giudiziaria e degli incriminati dal pubblico ministero.<br />

La lievitazione del numero degli imputati, nell’ordine di centinaia, rendeva inevitab<strong>il</strong>mente<br />

difficoltosa la gestione del dibattimento, come <strong>il</strong> maxiprocesso dimostrò, costringendo<br />

<strong>il</strong> Legislatore ad intervenire in corso d’opera per consentire la conclusione del<br />

dibattimento ed evitare la scarcerazione degli imputati detenuti.<br />

Ad onor del vero, nel maxiprocesso di Palermo furono immaginate con largo anticipo<br />

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