maria de filippi - metromorfosi infocritica a roma e dintorni
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LA STASI DUE ECCEZIONI<br />
Nanni Moretti ha messo un bel punto. Fermo e preciso (e necessario). Distributore (con la sua<br />
Sacher) di Cesare <strong>de</strong>ve morire, ultimo lavoro cinematografico <strong>de</strong>gli ultraottantenni fratelli<br />
Paolo e Vittorio Taviani che, piacevolmente e sorpren<strong>de</strong>ntemente, hanno portato a casa l'Orso<br />
d'Oro <strong>de</strong>lla Berlinale 2012, presenti in concorso. "L'Orso d'oro a Cesare <strong>de</strong>ve morire è una vittoria<br />
<strong>de</strong>i fratelli Taviani, non <strong>de</strong>l cinema italiano". Un sassolino nella scarpa, quello di Moretti, tolto<br />
al momento giusto e al posto giusto (presentazione alla stampa <strong>de</strong>l film): soltanto con l'Orso d'Oro<br />
in tasca, infatti, i consolidati fratelli-cineasti toscani hanno visto tradotti in complimenti le diffi<strong>de</strong>nze<br />
che, i<strong>de</strong>a-progetto sulla carta, li hanno circondati, ren<strong>de</strong>ndo impervio l'avvio <strong>de</strong>i finanziamenti<br />
e <strong>de</strong>lle riprese. Che sia stato un Festival 'mediocre' (nella vetrina <strong>de</strong>l concorso ufficiale)<br />
come Berlino (gli Orsi d'Oro-d'Argento che ho avuto modo di visionare finora si accomunano per<br />
una in medias res filmica tale da ren<strong>de</strong>rlo estremamente acerbo per qualità) a permettere di alza-<br />
re qualche flebile vis polemica in casa nostra, mi produce un sorriso <strong>de</strong>licato. E sorrido ancor di<br />
più quando mi immergo nella visione di Cesare <strong>de</strong>ve morire: i Taviani, rispettivamente <strong>de</strong>l 1931<br />
e <strong>de</strong>l 1929, si rivelano molto più originali e innovativi di un sostanzioso pacco di nuova generazione<br />
cinematografica italiana (prodotta e distribuita). L'aver rielaborato filmicamente l'esperienza<br />
<strong>de</strong>gli spettacoli teatrali <strong>de</strong>i <strong>de</strong>tenuti di Rebibbia intuendo una messa in scena <strong>de</strong>ntro la fisicità<br />
materica e mentale <strong>de</strong>l carcere, tra ferro, grate e cemento, nell'asetticismo di spazi vuoticostretti-compressi,<br />
nella realtà <strong>de</strong>i dialetti e <strong>de</strong>lla storia di ciascun <strong>de</strong>tenuto, nel progressivo<br />
immergersi in consapevolezza <strong>de</strong>gli attori-carcerati all'interno <strong>de</strong>l ruolo ricoperto e, contemporaneamente,<br />
nella rispettiva condizione di monchi di libertà e di vita di cui solo ora, paradossalmente,<br />
se ne sente il peso e se ne scopre il valore, è metafora calzante <strong>de</strong>lla vita (carceraria e<br />
non), nella quale tutti, in misura più o meno greve, concediamo-barattiamo-sacrifichiamo un<br />
<strong>metromorfosi</strong><br />
CINEMA