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LA CITTADINANZA COME FORMA DI TOLLERANZA - Exclusion.net

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4. Utopie per la tolleranza<br />

Negli ultimi dieci anni in Francia si è diffusa un’espressione nuova che già è<br />

parte integrante della lingua di Voltaire: «sans papiers».<br />

Si usa per definire coloro che non hanno documenti, che emigrano dai paesi<br />

africani o dai Balcani o dall’Europa dell’Est e arrivano clandestinamente e lavorano<br />

in nero, sino a quando si scopre che sono «sans papiers». Il fenomeno è simile in<br />

Italia e più generalmente nei Paesi dell’Unione Europea.<br />

La storia conosce molto bene i «sans papiers»: semplicemente cambia il<br />

gruppo umano che viene considerato «indocumentato» ossia, incapace di dimostrare<br />

la sua appartenenza agli umani con diritti.<br />

Sono «indocumentati» gli emigranti clandestini così come i pazienti<br />

psichiatrici.<br />

Vi sono modi diversi di essere «sans papiers».<br />

Ci sono persone che i documenti, il ruolo, sì, li hanno, però non stanno qui<br />

perché stanno là. Laggiù sono umani: poveri, senza lavoro, però là hanno un ruolo e<br />

un documento, che dice che appartengono all’umanità. Qui no, non hanno ruolo né<br />

documento: sono alieni, stranieri, diversi e quindi senza ruolo e «sans papiers».<br />

La discriminazione passa per frontiere geografiche, economiche ed etniche.<br />

Però esistono anche persone che hanno sempre vissuto qui e tuttavia sono<br />

«indocumentati», non hanno documenti (ruolo) e non vi è nessun là dove li hanno.<br />

La discriminazione passa per altre frontiere: ragione versus sragione,<br />

comportamenti socialmente accettati versus comportamenti strani.<br />

Anche questi sono degli esclusi anche se i confini che li separano dagli altri si<br />

riferiscono alla loro esclusione dalla storia egemonica e non dalla geografia<br />

egemonica.<br />

Quelli di noi che hanno lavorato negli ospedali psichiatrici per chiuderli, sanno<br />

molto bene che il processo chiave è quello della ricostruzione «storica» degli<br />

internati, la riappropriazione del loro passato e presente, la riappropriazione del<br />

«senso» che ciascuno di loro ha prodotto nella propria vita, nonostante il notevole<br />

sforzo che l’istituzione fa nell’uccidere ogni «senso» individuale, annichilendo ogni<br />

differenza, costruendo una falsa identità collettiva: quella dei malati mentali cronici.<br />

Ancora una volta un’identità al servizio della negazione del soggetto.<br />

Una prima tappa dell’utopia deve essere il riconoscimento, senza indecisioni né<br />

eccezioni, del fatto che ogni uomo e donna è «produttore di senso».<br />

Tappa più ambiziosa sarà quella che comporta il riconoscere, e agire di<br />

conseguenza, che i milioni di uomini e donne la cui produzione di senso è limitata,<br />

bloccata, annichilita, negata, non si trovano in questa situazione perché malati<br />

mentali o perché in terribile situazione di sofferenza psicosociale, bensì<br />

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